L’INEFFABILE CALENDA

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |

Intervistato in una di ieri mattine da La7, il senatore Calenda ha esposto con la consueta chiarezza i punti del suo partito sia sul salario minimo che sulla posizione sul ministro del turismo, sulla necessità di azzerare le liste d’attesa sanitarie e sui suoi rapporti con la presidente Meloni e con la segretaria Schlein, augurandosi, nel finale, di avere un confronto a tre (Meloni, Schlein e lui) per discutere finalmente, ragionando sulle cose, senza inutili scontri ideologici o sbandieramento di propagande.

Si è definito social-liberale riformista e ha raggiunto l’apice dell’intervista con la sua proposta sul PNRR: se ci sono difficoltà (ha parlato di 155.000 bandi) e piuttosto di buttare fondi in progetti che non siano produttivi, Calenda propone che tutti i fondi del PNRR siano dati alle imprese produttive come crediti fiscali, in modo da dare una grande spinta la nostro sistema produttivo, renderlo competitivo facendo aumentare investimenti, produzione e produttività (scordandosi i salari, ma certamente è stato un lapsus).

La proposta ha certamente un suo senso ed una sua logica, pecca tuttavia, come ho già avuto modo di rilevare, di una severa logica programmatoria lasciando alle imprese le scelte sul come investire i sussidi erogati. L’auspicio che aumenti, a seguito degli investimenti, sia la produzione che la produttività rimane un auspicio, se nessuno controlla il tipo di investimenti e soprattutto se tali investimenti si traducono in effetti in aumento di produttività ed auspicabilmente, secondo la golden rule, gli aumenti di produttività si traducano in aumento dei salari. Come ho già osservato il riformismo di Calenda è di stampo liberale, nel senso che ignora qualsiasi ruolo allo stato come elemento fondamentale di una politica programmatoria, anche se a mettere i fondi è lo stato stesso e ciò senza nessuna contropartita decisoria (cosa che sarebbe ovvio e inevitabile se il finanziatore fosse un privato). L’approccio liberale di Calenda tende ad assumere un aspetto assistenziale a favore delle imprese (rectius del capitale).

I fondi del PNRR pervengono allo stato nella forma di prestiti e di erogazioni a fondo perduto. Mentre è logico che i prestiti, gravati da interessi, vadano rimborsati, si tende a credere che quelli a fondo perduto non vadano restituiti. E’ vero che i sussidi a fondo perduto non sono prestiti e quindi non vanno ad aumentare il debito dello stato percipiente, ma è altrettanto vero che tali sussidi, che l’Europa si è procurata emettendo eurobonds, vanno a costituire, nell’anno in cui l’Europa li dovrà estinguere, un debito per i paesi membri computato sulla base della partecipazione capitaria calcolata per ciascun paese. L’Italia dovrà restituire quei sussidi a fondo perduto anche se con una quota capitaria tale da poter risparmiare qualche miliardo di euro.

Quei fondi del PNRR, prestiti e/o sussidi che siano, saranno ripagati dai contribuenti che guarda caso sono nella maggioranza lavoratori dipendenti e pensionati, che godono del privilegio di una imposizione progressiva e che non possono (neppure se volessero) evadere un euro né in dichiarazione dei redditi né al momento del pagamento. Il ministro Salvini propone una pace fiscale per quei contribuenti che non possono pagare le imposte dichiarate e  che son soggiogati dall’agenzia delle entrate. Quello che non capisco è il perché un contribuente che ha dichiarato (tutto?) il reddito guadagnato possa avere delle difficoltà a pagare le imposte dichiarate. L’unica difficoltà che mi sembra poter individuare è che invece di mettere da parte i soldi per pagare le imposte, quel contribuente si sia speso tutti i fondi e al momento della scadenza fiscale si trovi con le tasche vuote.

Ma a parte le salvinate, tornando a Calenda, non è chi non veda che la stragrande quota degli investimenti fatti usando i fondi del PNRR, regalati quindi alle imprese, sono stati pagati dai lavoratori dipendenti e dai pensionati. Sarò monotono, ma insisto nel dire che quei sussidi che giustamente vanno a rafforzare il nostro sistema produttivo, siano erogati non come crediti di imposta ma come capitale sociale azionario delle imprese beneficiate.

A ben vedere quello che propongo è una riedizione del piano Meidner, iniziato nel secolo scorso e poi entrato in crisi insieme alla Svezia tutta. Il piano prevedeva la partecipazione di fondi dei lavoratori, la partecipazione degli alle decisioni aziendali, alla scelta degli investimenti, del “cosa e come produrre” di berlingueriana memoria scelta effettuata privilegiando il valore d’uso al valore di scambio. Ma mi accorgo di fare un discorso troppo socialista (chissà se ne avranno parlato agli stati generali?).