ALCUNE NOTE SULL’INFLAZIONE


di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |

Il fenomeno inflattivo, che per anni non conoscevamo, si è riaffacciato con violenza nel nostro paese, in Europa, negli USA. Abbiamo imparato che mentre l’inflazione negli USA è un effetto da domanda, da surriscaldamento monetario e consumistico, l’inflazione in Europa e Italia nasce decisamente da un aumento del costo dell’energia, nasce cioè da una componente esogena difficilmente addebitabile a cause interne.

Ne consegue che le azioni di governo tese a frenare il fenomeno, essendo le cause scatenanti diverse, dovrebbero essere diverse, mentre, al contrario, si riducono sostanzialmente ad un aumento del tasso primario deciso dalla banca centrale, atto a raffreddare l’economia, gli investimenti, la domanda.

Ma la preoccupazione più rilevante, quella che immediatamente viene espressa in maniera forte e netta è quella che il governatore della Banca d’Italia ha autorevolmente espresso:

L’aumento dei prezzi energetici è una tassa sulla nostra economia che non è possibile rinviare al mittente e che non può essere eliminata attraverso vane rincorse tra prezzi e salari“, e in questo “resta cruciale la responsabilità delle parti sociali“. 

In effetti è vero che se all’aumento del costo della vita corrispondesse un corrispondente aumento dei salari, come una volta succedeva con la “contingenza” si potrebbe scatenare una spirale non virtuosa nella rincorsa tra prezzi e salari. Ma pur fatta questa considerazione non deve conseguirne che non si debba far nulla, lasciando che il costo dell’inflazione ricada in toto solo sui salari.

La nuova politica nata dopo l’eliminazione della contingenza si è concretizzata nei due protocolli derivanti dal Trattato di Maastricht (7 febbraio 1992), entrambi finalizzati a contenere la crisi economico-occupazionale attraverso la fissazione di parametri che i singoli paesi avrebbero dovuto poi rispettare. Il primo protocollo, siglato il 31 luglio 1992, abrogò la scala mobile; il secondo, firmato il 23 luglio 1993, fissò gli obiettivi di politica dei redditi. Questi obiettivi legavano la crescita dei salari all’aumento della produzione e degli utili delle imprese, portavano a programmare un tasso d’inflazione per contenere la spesa pubblica e, per questa via, puntavano a una maggiore competitività, una miglior crescita economica, un rafforzamento della base occupazionale.

Questi protocolli legavano i minimi contrattuali agli effetti dell’inflazione prevista con il DPEF (escludendo tuttavia successivamente l’inflazione da costi energetici) e per le contrattazioni di secondo livello legavano l’aumento dei salari all’aumento della produttività.

Ora legare all’inflazione i soli minimi contrattuali, in presenza poi di accordi contrattuali pirata largamente diffusi, tende, in sostanza, a scaricare sui salari, sul lavoro dipendente l’effetto inflattivo, esaltando così lo scontro sociale tra chi può scaricare sui prezzi delle proprie prestazioni il costo dell’inflazione e chi invece non ha questa possibilità.

Questa incapacità di distribuire il costo dell’inflazione in modo da non gravare solo sul lavoro dipendente, si è vista nel tentativo di tassare i superprofitti; tentativo fatto dal governo Draghi miseramente fallito e quindi fatto dal governo Meloni e ridotto ad un nulla di fatto.

Ricordo che invece le pensioni sono legate all’inflazione infatti la rivalutazione, pari al 100% dell’aumento dell’indice dei prezzi al consumo, è stata applicata dall’INPS a partire dal 1° gennaio 2023, determinando un incremento delle pensioni pari al 7,3%. Ciò, tuttavia, vale solo per i trattamenti pari o inferiori a quattro volte il minimo (2.101,52 € al mese ai valori lordi del dicembre 2022).

La vera lotta con l’inflazione andava fatta, come successe dopo la crisi energetica degli anni 70, programmando una indipendenza energetica che non ci esponesse senza difese ai capricci del mercato energetico internazionale. In quegli anni, dico gli anni 70, si programmarono ben 60 centrali nucleari che ci rendessero più autonomi in fatto di energia; 5 centrali furono realizzate e poi il referendum dopo Chernobyl fece cadere il programma, smantellammo tutto ma, pur considerando legittima, anche se imprudente, la volontà popolare referendaria, nulla fu fatto per riprogrammare in modo strategico il nostro fabbisogno energetico.

A conclusione di queste riflessioni mi rimane la profonda sensazione che la strada delle riforme che non intacchino la struttura del modello economico siano ormai uno strumento incapace di opporsi alla prepotenza del cosiddetto libero mercato che, mano invisibile per il benessere della società, ci ha portato, in pochi anni, dai 3 milioni di poveri assoluti a 5,6 milioni attuali.

Ricordo ancora le parole di Marx nella Critica al programma di Gotha:

Il socialismo volgare ha preso dagli economisti borghesi (e a sua volta da lui una parte della democrazia), l’abitudine di considerare e trattare la distribuzione come indipendente dal modo di produzione, e perciò di rappresentare il socialismo come qualcosa che si aggiri principalmente attorno alla distribuzione.