UN NUOVO MODELLO DI SVILUPPO PER COMBATTERE UN DECLINO ECONOMICO E LE CONSEGUENZE SOCIALI PESANTISSIME


di Silvano Veronese – Ufficio di Presidenza Socialismo XXI |

Condivido ed apprezzo l’articolo di Renato Costanzo Gatti sulla necessità non piu’ rinviabile di avviare un nuovo processo di sviluppo, un obiettivo primario per il “sistema Paese” sul quale la disattenzione del ceto politico è sovrana e sul quale il nostro movimento, per ora solo socio-politico-culturale, dovrebbe spendersi.

Rinunciare a questo obiettivo significa abbandonarsi ad un pericoloso declino del nostro sistema economico con conseguenze disastrose sul piano sociale perché nel frattempo la situazione a livello mondiale procede sulla strada del  cambiamento, nel quale o si è protagonisti e si tenta di governarlo in direzione dei nostri interessi (in questo quadro piu’ che come “sistema Italia” ma come parte del “sistema Europa” ) o si subiranno le conseguenze che altri “macrosistemi” imporranno al resto del mondo a vantaggio  dei loro interessi.

Il compagno Gatti ha prefigurato i lineamenti di un nuovo possibile modello di sviluppo e non voglio ripeterli  se non per  riproporre all’attenzione qualche ragionamento che ritengo utile ai fini di sviluppare una discussione dentro e fuori del nostro ambito associativo. 

Alla Presidente del Consiglio,  che si è abbandonata – come ricordava Gatti – ad un ottimismo di maniera tratto da una valutazione superficiale delle recenti statistiche che vedono una tendenza alla ripresa della crescita superiore a Germania e Francia, paesi leader della UE, ricorderei che l’aumento nazionale  degli indici di produzione e dell’export non ha ancora raggiunto i livelli pre-crisi del 2008/2011 e che il freno  (ma non il calo) di un  debito pubblico “fuori controllo”  è avvenuto a spese della sanità, della assistenza sociale  e del sostegno al reddito dei ceti più bisognosi e piu’ colpiti dalla crisi dei rapporti internazionali.

Giova sottolineare – parlando di un nuovo modello di sviluppo – che la buona performance del “sistema Italia sui due fattori economici prima ricordati si deve al contributo (direi straordinario) delle medie imprese mentre – salvo  alcune eccellenze – le difficoltà e i risultati poco edificanti sono causati dalle grandi e piccole imprese (che per il 90% non hanno piu’ di 10 dipendenti).

E’ sufficiente ricordare che,  rispetto al 1998, le medie imprese hanno aumentato l’occupazione del 40% e negli ultimi dieci anni la produzione di questo settore è cresciuta del 10% mentre l’intero “sistema Italia” solamente dell’1,4 %, proprio a causa del regresso produttivo delle grandi aziende che hanno registrato anche  un calo dell’occupazione del 13%  imitate dalle piccole che, in buona parte,  laddove è debole la presenza sindacale, ricorrono spesso a rapporti di lavoro non continuativi , alla compressione del personale diretto per procedere all’esternizzazione  produttiva e dei servizi verso  false “partite iva” secondo il vecchio modello “Benetton” del decentramento produttivo per risparmiare sui costi di lavoro alfine di far  quadrare i conti aziendali ma allargando il precariato.

Il fenomeno di una grande diffusione delle piccole aziende e dell’artigianato produttivo è un fenomeno tipicamente italiano, ma nella globalizzazione non si compete con imprese di piccole dimensioni, se non in produzioni di “nicchia” purchè  trainate da una presenza non esigua di grandi imprese in funzione di “driver” dell’intero  sistema produttivo.

Il “sistema Italia” puo’ contare su quattro grandi gruppi “driver” (ENI, ENEL, FINMECCANICA e FCA ora integrata con la PEUGEOT francese) mentre la Francia puo’ contare su una trentina di aziende “driver” e la Germania sul doppio della Francia!

Il compagno Gatti ha spiegato e motivato le ragioni  del superamento della “piccola dimensione” (se non per determinate attività)  e qui entra in gioco il ruolo di regia della funzione pubblica per  un nuovo modello produttivo che richiede grandi investimenti (oltre il sostegno del PNRR), grandi scelte strategiche in particolare per quanto riguarda la promozione e la  diffusione di processi innovativi e tecnologici, della presenza in mercati qualificanti mondiali  e la scelta delle tipologie  produttive del futuro (penso alla transizione energetica e alla “green economy”, alle reti telematiche, etc).

Nel secondo dopoguerra, il “miracolo economico” italiano dovuto al prepotente sviluppo delle esportazioni vide una opportuna co-presenza di aziende a PP.SS. e di  aziende private, quest’ultime allocate prevalentemente al Nord ed operanti nei settori dei beni di  consumo di massa, spesso a bassa tecnologia come frigo e apparecchi domestici oppure il tessile-abbigliamento  che avrebbero poi trovato la concorrenza di Paesi emergenti di prima industrializzazione.

Le aziende pubbliche hanno dato invece  un notevole contributo con l’industria di base a partire dalla siderurgia e dell’energia, in settori strategici come la telefonia sia per le reti che per la strumentazione, la cantieristica, il materferro, l’avio, l’elettromeccanica pesante e l’elettronica, settori nei quali il capitale privato era debolmente presente o – per scelta – o perché non disposto ad impegnarsi in quanto  cio’ richiedeva molti e duraturi investimenti per competere ad un livello significativo.

Senza la presenza delle PP.SS. l’Italia sarebbe rimasta una economia di serie C, a livello dei Paesi emergenti con i quali avrebbe  dovuto competere con la svalutazione continua della moneta e con un regime di bassi salari e di insufficienti tutele sociali per tenere basso il costo del lavoro, oggi condizioni giustamente non più riproponibili.

Oggi la riproposizione di uno sforzo notevole di progetti, di idee innovative e di capitali per dimensionare e qualificare la nostra presenza industriale nelle tipologie produttive e dei servizi del futuro richiede  nuovamente un impegno attivo della “sfera pubblica” nel ruolo che le fu assegnato dalle necessità del  dopoguerra non in termini  esclusivi  ma di stimolo e di indirizzo verso quella parte dell’imprenditoria privata che, pur minoritaria, è composta da significative eccellenze come ho all’inizio ricordato,  che va valorizzata e sostenuta con scelte ( anche di natura fiscale) adeguate a fronte però  di un loro preciso  impegno a sostenere obiettivi concreti di sviluppo, di innovazione, di ricadute  positive sul terreno dell’occupazione, di una “buona occupazione”.

Dati alla mano i salari medi italiani sono piu’ bassi rispetto ai salari medi europei (sia della UE a 27 che dei paesi della “zona euro”) e di Francia e Germania. Sono poco diversificati tra qualifiche professionali, tra generazioni di lavoratori e tra comparti produttivi e dei servizi. Un sistema contrattuale che copre quasi per intero il mondo del lavoro ma in maniera centralizzata perché la contrattazione integrativa aziendale non è diffusa, proprio per la grande presenza delle piccole aziende nelle quali la presenza sindacale è debole o inesistente e quindi in dette aziende  il CCNL resta l’unico strumento di tutela salariale a discapito della valorizzazione economica della professionalità e della produttività, che solo in un ambito specifico (cioè quello aziendale) possono essere misurate e ripagate.

I salari medi italiani si collocano verso il decimo/undicesimo posto nella classifica delle analoghe situazioni presenti nei Paesi europei a parità del potere d’acquisto e nell’ambito OCSE tra il 1990 e il 2021 sono persino calati del 2,9 %.

Le statistiche realizzano i confronti su salari “virtuali” cioè MEDI tra le retribuzioni delle varie qualifiche e dei vai settori produttivi. Se analizziamo perciò più approfonditamente le realtà salariali nella loro specificità comprendiamo le cause di questo dato medio negativo che non è generalizzato nella totalità dei percettori italiani  delle retribuzioni.

Nel 2021/inizio del 2022 troviamo la seguente situazione della retribuzione media  piu’ bassa e quella media  piu’ alta in queste realtà nazionali :  Italia 27.806/44.104; Germania 27.005/68.144; Francia 28.115/47.696; Paesi UE zona euro 25.518/51.200.

Ciò significa che a livello piu’ basso della scala professionale le differenze tra Italia ed il resto dei Paesi presi in esame non è rilevante, anzi la situazione italiana è migliore di quella tedesca e dei Paesi zona euro, la differenza invece diventa negativa in maniera rilevante nelle retribuzioni delle mansioni piu’ elevate, con questo avvertimento :   quest’ultime rappresentano il 19% dell’insieme delle retribuzioni mentre le piu’ basse rappresentano solamente il 3,7 % del totale delle retribuzioni.

Anche la differenza retributiva tra “generazioni” vede l’Italia con rapporti piu’ bassi rispetto agli altri Paesi, come pure le differenze tra grandi aggregati settoriali sono piu’ contenute tra settori a basso contenuto professionale e quelle ad alto contenuto di competenze, istruzione e qualificazione, oltre a registrare una minore presenza rispetto ai Paesi presi in esame di qualifiche a piu’ alto contenuto professionale e quindi retributivo.

Un sistema retributivo non diversificato e non premiale della professionalità e della produttività non solo del lavoro ma anche di tutti i fattori aziendali che la determinano. Il rapporto tra salario e produttività è spesso visto come un “fastidio” nell’ambito di una certa sinistra massimalista e di un certo modo di “fare sindacato” ignorando che il concorso del mondo del lavoro alla crescita della produttività, oltre a realizzare una condizione di maggiore competitività delle nostre produzioni, realizza un indubbio incremento della massa salariale nazionale e dei valori medi delle retribuzioni.

Da tenere inoltre presente che l’insieme delle contribuzioni sociali finanziano previdenza e altre prestazioni a carattere assicurativo come Cassa Integrazione, Indennità di disoccupazione, di Malattia ed infortunio, di Maternità ed assegni familiari che possiamo considerare come una parte “differita”  della retribuzione che non ricorrono in detta misura in molti Paesi presi in esame oppure sono in buona parte a carico della fiscalità generale permettendo così  ai datori di lavoro di retribuire salari e stipendi  piu’ consistenti.

Ad esempio, in Germania, i contributi pensionistici pagati dal lavoratore e dal datore di lavoro tedeschi sono molto piu’ bassi di quelli italiani ma altrettanto molto piu’ basse sono conseguentemente le pensioni tedesche rispetto a quelle italiane, per cui i lavoratori tedeschi devono pagarsi di “tasca propria” una pensione integrativa con costi non irrilevanti.

Davanti a noi abbiamo perciò  una situazione molto complessa,  bisognosa di profonde riforme e di politiche industriali e sociali significative per le quali è auspicabile un ritorno ad un protagonismo delle forze sociali di impresa e del lavoro come attori non solo nella tutela degli interessi corporativi ma nella definizione ed attuazione concertata con le Istituzioni di progetti strategici per lo sviluppo, ma – soprattutto –  spetta proprio  alle Istituzioni pubbliche, Governo e Parlamento in particolare ma anche alle Regioni, il dovere di iniziativa e di  riscoprire il loro ruolo primario di registi e di attori di un governo concertato di un rinnovato sistema di sviluppo con una visione strategica alta e di lungo periodo sempre che la politica non voglia abdicare al suo ruolo lasciando spazio a poteri finanziari e ad un ruolo incontrollato del mercato.