di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |

Come sta andando la nostra economia?

La presidente Meloni, in una recente intervista, si dichiara ottimista sul futuro del nostro paese che, secondo lei, ce la può fare, ed aggiunge che il paese “è in una situazione più solida di quanto alcuni vogliono far credere”. E a quelli che ha spesso chiamato “gufi”, rinfaccia lo spread, “sceso in cento giorni da 236 a 175 punti base, con la Borsa che ha registrato un aumento del 20% e Banca d’Italia che stima per il secondo semestre 2023 l’economia italiana in netta ripresa”.

Al di là della domanda se si tratti di ripresa o rimbalzo, al di là degli indici scelti per disegnare una situazione ben più complessa, l’intervento della presidente sollecita una riflessione seria e critica sulla situazione della nostra economia e sul modello di sviluppo (posto che ce ne sia uno) che stiamo percorrendo.

Sviluppo e declino del sistema economico italiano

Facendo un po’ di storia dell’economia del nostro paese, leggiamo, per esempio, in un articolo di Renata Targetti Lenti apparso su “Il politico”, cheLe tendenze di lungo periodo suggeriscono che l’attuale crisi economica italiana non è il risultato di un ciclo economico sfavorevole o della crisi economica e finanziaria mondiale. Invece, la crisi dell’Italia accompagnata da un persistente rallentamento della crescita economica è soprattutto il risultato di carenze e impedimenti strutturali decennali. Molti fattori spiegano perché e come l’Italia abbia sperimentato per decenni una crescita economica lenta e una produttività sempre più non competitiva. (…) Dopo una rapida crescita economica guidata dalle esportazioni negli anni ’50 e ’60, l’attenzione alla crescita economica guidata dalle esportazioni è diventata un problema e un ostacolo nei decenni successivi. La crescita trainata dalle esportazioni ha favorito il consolidamento di un sistema produttivo incentrato su piccole e medie imprese manifatturiere, molte delle quali concentrate nel Nord Italia. Tali imprese avevano bisogno di bassi costi di manodopera, risorse naturali ed energia a buon mercato per sopravvivere in un contesto internazionale sempre più competitivo. (…).  Dopo la crisi petrolifera degli anni ’70 fino all’inizio degli anni ’90, l’Italia è riuscita a rimanere competitiva a livello internazionale grazie alla regolare svalutazione della lira italiana. Oggi, a causa dell’adesione dell’Italia all’Euro, questo tipo di adeguamento non è più possibile. Alla fine degli anni ’80 si interrompe il percorso di convergenza verso altri paesi europei. Il peso di un debito pubblico in aumento, la composizione distorta della spesa pubblica, il declino del settore manifatturiero del Paese e gli investimenti insufficienti in ricerca e sviluppo hanno avuto un impatto negativo e duraturo sulla competitività del Paese. (…). Una classe dirigente orientata soprattutto ai profitti a breve termine invece che a impegni e guadagni a lungo termine, non ha saputo e non ha voluto adottare le necessarie riforme strutturali. Per rilanciare la crescita dell’economia italiana occorrono non solo nuove ed efficaci politiche monetarie e fiscali, ma anche e soprattutto modifiche alle politiche amministrative e industriali del Paese per ridurre i vari tipi di dualismo: dualismo tra nord e sud del Paese, tra industrie che utilizzano e non utilizzano tecnologia avanzata, tra lavoratori regolari e precari, tra grandi e medio-piccole imprese, tra lavoratori anziani relativamente protetti e giovani non protetti. “

Esaminiamo alcune cifre che ci danno un’idea del declino del nostro sistema economico. La crescita media annua dell’Italia tra 1995 e 2007 è analoga a quella della Germania (1,5% contro 1,6%), mentre è inferiore, ma non di molto, rispetto a quella della Ue tra 1995 e 2001 (1,7% contro 2,4%). La divergenza tra l’Italia, da una parte, e la Ue e soprattutto la Germania, dall’altra, inizia dopo l’introduzione dell’euro, accelera con lo scoppio della crisi nel 2007-2008, ma si approfondisce solamente a partire dal 2011. Ad ogni modo, tra 2007 e 2017, l’Italia decresce mediamente per anno dello 0,6%, mentre la Ue cresce dello 0,8% e la Germania dell’1,2%.

“Nel corso dei passati dieci anni il prodotto interno lordo è aumentato in Italia meno del 3 per cento; del 12 in Francia…”; così la Relazione 2011 della Banca d‟Italia, a commento della scarsa crescita che ci distingue da lungo tempo. Il Governatore poteva ricordare anche il +9% della Germania e ci ha risparmiato i ben più consistenti sviluppi del trio di Paesi che ebbe a indicare come benchmark nella sua prima relazione, quella del 2006: Svezia +22%, Finlandia +20%, Regno Unito +15%.

Il crollo causato dalla crisi del 2007 si riflette nelle cifre sopra riportate; negli anni successivi al 2011 (data della relazione della Banca d’Italia sopra ricordata), le cose non sono migliorate, anzi con l’avvento della pandemia si è registrato un ulteriore crollo che si sta recuperando con il rimbalzo di questi ultimi recenti anni. Fatto sta che il PIL attuale è ancora inferiore a quello del 2007.

Pare che i fattori da tenere in considerazione, per analizzare le ragioni della crisi che stiamo attraversando, siano i seguenti: mercantilismo o sviluppo interno; dimensione delle imprese; produttività e questione salariale, politica industriale. Vediamo di approfondire allora questi fattori:

Mercantilismo o sviluppo interno

Negli anni del miracolo economico si è sviluppato un modello che, sintetizzando, privilegia la propensione all’export piuttosto che puntare allo sviluppo della domanda interna. La differenza consiste nel fatto che l’export viene conquistato con una competitività fondata sul basso costo della mano d’opera o quando questa lievita, con la svalutazione della lira. Lo sviluppo della domanda interna si scontra con un insolubile conflitto, ovvero la singola impresa tende a comprimere i salari dei propri dipendenti sperando o contando sul fatto che le altre imprese aumentino i loro salari creando quindi quella domanda interna che si auspica. Il mantenimento di bassi salari è lo strumento da adottare per consentire alle imprese di conservare la competitività sui mercati interni ed esterni.

La scelta di puntare su un export basato sul basso costo della mano d’opera comporta la conseguenza di scegliere un’area di prodotti a bassa tecnologia che evitino investimenti in ricerca ed innovazione e comporta anche il fatto che i concorrenti siano paesi emergenti dove però il costo della mano d’opera è ancora più basso. Una scelta del genere, se non puntata a prodotti ad alto contenuto artigianale e professionale, rischia di marginalizzare il campo di esistenza del complesso industriale.

Dimensione delle imprese

Le imprese che operano nel sistema produttivo che si è affermato sono imprese piccole o medio-piccole; la loro presenza è significativamente più alta che non negli altri paesi europei. Piccole imprese con una conduzione in genere di tipo familiare, con una filosofia imprenditoriale restia a investimenti, orientata a far profitti a breve termine e con scarsa propensione al rischio. In un mondo in cui si va sempre più affermando uno sviluppo di tipo schumpeteriano, basato cioè sulla innovazione e sulla ricerca a monte, le piccole imprese italiane non hanno né la cultura né i mezzi né la dimensione critica per poter competere, lentamente saranno marginalizzate in un mercato decadente.

Da notare inoltre che lo sviluppo del terziario, salito a costituire il 70% del PIL, ha rafforzato la tendenza alla proliferazione di piccole imprese, troppo spesso operanti con rapporti di lavoro precari o estranei alla contrattazione collettiva di lavoro, emarginando così il ruolo del sindacato-

Accanto a questo tema occorre ricordare che accanto alla grande presenza di imprese piccolo-medie, il nostro paese aveva un complesso di grandi imprese sia private che a partecipazione statale costituendo un modello di economia mista che per molti anni è stata un punto di forza del nostro assetto industriale. Una scelta, improvvida, di privatizzazione delle imprese a partecipazione statale ha privato il nostro paese di uno strumento di attuazione delle scelte di carattere strategico che portato all’insignificanza di ogni proposito di politica industriale.

Produttività e questione salariale

Da circa trent’anni la produttività del nostro assetto economico aumenta a ritmi decisamente inferiori di quelli dei nostri concorrenti, in particolare Germania e Francia.  Ciò significa che nella competizione sui mercati il nostro paese continua a perdere competitività rispetto ai suoi concorrenti. Le ragioni di questa situazione stanno in quanto abbiamo visto nel paragrafo precedente, quello che non si capisce è quale sia la politica industriale che si propone per superare questa situazione; ma ciò è quanto cercheremo di individuare più avanti.

Non c’è da sorprendersi se, a fronte di una crescita zero della produttività, corrisponda una crescita zero dei salari; ciò è perfettamente coerente con la cosiddetta golden rule che vuole che i salari aumentino di pari passo con l’aumento della produttività. Aumentare i salari in assenza di un aumento di produttività potrebbe comportare uno dei seguenti effetti:

● L’aumento del costo del lavoro riduce il profitto del capitale che cercherà di scaricare, almeno in parte, il maggior onere sul prezzo di vendita al consumatore innestando un processo inflattivo;

● L’aumento del costo del lavoro spingerà il capitale a sostituire il lavoro dei dipendenti con lavoro fatto dalle macchine (effetto Ricardo) che spesso prelude ad un aumento di produttività;

● L’aumento del costo del lavoro costituirà quell’effetto di “frusta salariale” che costringe il capitale a ricercare un aumento di produttività (Sylos Labini) per compensare l’aumento del costo del lavoro;

● L’aumento del costo del lavoro comporta un effetto positivo sulla domanda aggregata, si tratta dell’effetto keynesiano di effetto sulla domanda generato dalle retribuzioni che rappresentano il 40% del PIL, il 50% dei consumi nazionali ed il 60% dei consumi delle famiglie.

Si nota la stretta connessione che lega gli elementi che stiamo esaminando; la capacità di gestire e governare detti elementi può essere lasciato al mercato ed alla libera attività della mano invisibile, ma, dopo decenni di stasi che sta paralizzando il nostro modello di sviluppo, dovremmo prendere atto che questa strada di politica industriale è inefficace ed inefficiente. Serve una politica industriale che coniughi razionalmente gli elementi che abbiamo esaminati e che si proponga di individuare una strategia a medio-lungo termine.

Politica industriale

Nei primi anni del nuovo millennio uscì un piccolo ma assai denso libro di uno dei più importanti sociologi italiani, Luciano Gallino, scomparso nel 2015. Già il titolo diceva tutto: La scomparsa dell’Italia industriale (Einaudi editore, 2003). Dopo una rapida ma puntuale analisi dei principali settori industriali, quali l’informatica, l’elettronica, l’aeronautica civile, la chimica, l’alta tecnologia, Gallino giungeva a una lapidaria conclusione: “La settima economia del mondo – cioè quella italiana – pare essere diventata un nano industriale”. Non solo ma l’Italia rischiava così di diventare una semplice colonia industriale di altri paesi. Sono passati più di 25 anni, un quarto di secolo, da quando Gallino scriveva quelle parole e la situazione attuale non fa che confermarle. 

Mi sembra ovvio che saper combinare le relazioni sinergiche tra produttività, aumento dei salari, domanda aggregata sia il fondamento della politica economica di un paese; ma deve essere chiaro che dietro alla produttività c’è la fase del lavoro dell’innovazione, della tecnologia e dietro questi elementi ci sono gli investimenti in ricerca, la formazione del mondo del lavoro, il ruolo della scuola e dell’università, degli enti di ricerca.

E’ una bellissima sfida culturale che vede peraltro essere alla base del confronto tra USA e Cina per il primato nella ricerca scientifica per l’egemonia sui mercati.

Certo che il nostro paese, in cui i governi da decenni hanno abbandonato ogni politica industriale; in cui le imprese al 95% hanno meno di 10 dipendenti e sono quindi impossibilitate ad impostare qualsiasi progetto di ricerca; in cui i capitalisti imprenditori o si rifugiano nella finanza e che comunque non hanno una sufficiente propensione al rischio, pensano a breve termine e non possono sopportare investimenti con un alto pay back period; non conosce un soggetto razionale in grado di combinare tutte quelle relazioni sinergiche che ho sopra elencato.

Ecco allora, a mio parere, l’orizzonte cui far riferimento: una concertazione stato-sindacati-produttori che coordini l’ordinato meccanismo autoproducentesi ricerca-innovazione-produttività-salari-domanda; a fianco si dovrebbe sviluppare un progetto per la dimensione delle imprese superando l’ormai obsoleta forma della piccola impresa per raggiungere dimensioni critiche funzionali al nuovo modello; in questo contesto si potrebbe considerare una partecipazione paritaria dei lavoratori nella gestione delle imprese portando in ogni unità la logica “ricerca-innovazione-produttività-salari-domanda”.

Non dimentichiamo che l’innovazione e la produttività tendono a ridurre il tempo necessario per la produzione dello stesso prodotto con riflessi conseguenti sull’occupazione; sia nella sua qualità (formazione e specializzazione) che nella sua quantità (minor occupazione). Le strade per affrontare questa tematica passa dalla riduzione dell’orario di lavoro alla socializzazione delle imprese. Quale che sia la strada da percorrere serve una presenza responsabile e da protagonisti del mondo del lavoro per controllare i fenomeni anziché subirli, per far proposte di classe invece di subire l’egemonia del capitale. Serve quindi un soggetto politico autonomo e socialista che si ponga all’avanguardia della realizzazione di un nuovo modello di sviluppo.