di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |

Ha vinto la Meloni, ho scorso il suo programma elettorale, ambiguo. Non ha vinto il PD, lo conosco dalla nascita e proprio per questo non ho mai aderito ad esso. Si salvano i 5S che, nonostante le immense idiozie trasformate in leggi, hanno trovato uno sbocco nel populismo più esaltante.

In conclusione sono veramente avvilito della situazione del mio paese e non posso che pensare al fallimento della mia generazione. Sono nato nel ’40, e nel nord mi sono subito, alla nascita, quattro anni di fascismo, ma ho anche goduto della ricchezza delle prospettive che la Resistenza ci aveva offerto. Dall’educazione piccolo-borghese ho maturato una coscienza socialista, approfondita nei miei studi universitari alla Bocconi e sfociati nel primo centro-sinistra degli anni sessanta. Il sessantotto è l’anno del mio matrimonio e del mio vagare tra i movimenti di sinistra da Lombardi a Valpreda per approdare poi al PCI.

Non ho mai accettato il comunismo sovietico e sono stato inconsapevolmente seguace dell’insegnamento gramsciano che successivamente ho studiato e approfondito. Tutta la razionalità politica, elaborata nel corso di anni, di cui il comunismo italiano era intriso mi ha portato ad una costruzione interna fondata sulla ragione e un pizzico di passione. La politica, come atto della ragione, non poteva che portare ad un paese in cui il socialismo trionfava come sbocco naturale della coscienza razionale del popolo.

Non ho mai creduto alla santificazione della classe operaia, che a mio parere aveva il grande vantaggio di avere interessi opposti al capitale, vantaggio che tuttavia, se non elaborato dalla razionalità, non aveva grandi sbocchi al di fuori dell’immediata rivendicazione corporativa.

Ho sempre ritenuto il fatto produttivo come il motore fondamentale della vita del paese, e con questa convinzione, ho sempre apprezzato la figura dell’imprenditore come il più importante lavoratore, il più importante soggetto della vita economica del paese. Il suo limite consiste in due condizioni esistenziali: a) nel nostro paese l’imprenditore spesso coincide con il capitalista (familismo), b) l’imprenditore è troppo subordinato al capitalista, nella scelte cruciali non è lo schumpeterismo imprenditoriale a prevalere ma la potenza del capitale. E la potenza del capitale, a partire dallo sganciamento nixoniano del dollaro, ha abbandonato la produzione (area di egemonia dell’imprenditore) per approdare alla finanza (area di egemonia della speculazione).

La risposta a questa trasformazione è, e continua ad essere, la programmazione, ovvero la elaborazione scientifica della coniugazione tra fini e mezzi; una soluzione razionale di un sistema di mille equazioni governabili con le conquiste della scienza e non abbandonate alla anarchia tribale della legge del profitto. Il superamento del principio di Adam Smith per cui il valore delle cose nasce solo dal lavoro, superamento attuato dal capitalismo nella sua trasformazione da capitalismo produttivo in capitalismo finanziario, ha trascinato i nostri paesi a dover subire un succedersi ripetuto di crisi (già tre nei primi venti anni del terzo millennio) che cominciano a mettere in dubbio la capacità di sopravvivenza di molti paesi, e comunque a prospettare tempi futuri sempre più disperanti.

I partiti politici, completamente succubi dell’elemento M (ovvero mercato, come scrive il compagno Benzoni) sono incapaci di una risposta alla domanda di base, fondamentale  che il mondo odierno ci pone.

“ Cosa produrre, come produrre.”

La non risposta a questo punto mette tutti i partiti sullo stesso livello, sulla stessa aridità di pensiero, sulla stessa nullità di assolvere i loro compiti. Le mille questioni sovrastrutturali denunciano differenze tra i partiti, ma la questione strutturale, quella decisiva ai fini ultimi, è da tutti i partiti ignorata.

Solo la programmazione economica (quella di cui abbiamo avuto un assaggio negli anni sessanta) è la risposta concreta alla domanda che abbiamo posto. Solo la razionalità scientifica può avvicinarci alla capacità di dare una risposta a quella domanda. Con la consapevolezza che la programmazione richiede il superamento del dominio della classe dominante, dell’illusione dell’egemonia del mercato in una rivoluzione culturale per un nuovo modo di convivenza.