di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |

Che significa una politica fondata sui bonus quale quella cui stiamo assistendo da qualche anno in qua. A mio parere significa due cose:

a) attuare una politica redistributiva,

b) attuare una filosofia corporativa.

Attuare una politica redistributiva.

Il principale esponente della socialdemocrazia svedese, Olof Palme, portava l’esempio di lasciare che la pecora (il capitalismo produttivo) prosperasse per poterla meglio tosare a favore dei meno fortunati. Su questa filosofia è fondata la politica del welfare state, ed i risultati ottenuti nei decenni passati sono indubbiamente significativi. Tuttavia, i fallimenti del mercato, quello del 1929 per passare poi al 2007 ai giorni nostri, e le politiche conseguenti hanno smantellato tutta questa costruzione socialdemocratica. Inoltre, la redistribuzione non è sempre a favore dei meno fortunati, anzi. Vediamo ad esempio due casi che smentiscono questa presunzione.

 La crisi del 2007, ad esempio, scaturita dalla perversa logica speculativa di una finanza senza raziocinio (vendere case a chi non ha i soldi per pagarla e poi rivendere nel mercato i crediti inesigibili camuffandoli da strumenti finanziari senza rischi) è stata scaricata dal capitalismo finanziario sugli stati che son dovuti (o hanno voluto) intervenire per mettere una toppa al disastro creato. Subito dopo essere stati salvati dallo stato (ecco una redistribuzione a favore non dei meno fortunati, ma a favore dei criminali della speculazione) gli speculatori hanno scommesso contro gli stati scaricando sull’economia reale i fallimenti dell’economia finanziaria, alla fine in queto processo redistributivo, il prezzo della follia finanziaria l’hanno pagata milioni di lavoratori che hanno perso il loro legittimo reddito, che hanno perso il posto di lavoro. Quindi il fallimento della finanza è stato pagato con la disoccupazione di milioni di lavoratori, lampante caso di redistribuzione.

La produttività del nostro paese aumenta in modo molto ridotto, tendente a zero, e ciò da trent’anni ai giorni nostri. Abbiamo rinunciato ad un protagonismo del pubblico per affidare il futuro economico del nostro paese ai miracoli del liberismo, degli animal spirits, dell’intraprendenza del privato che grazie all’iniziativa ed alla concorrenza è depositaria della professionalità imprenditoriale che garantisce la competitività delle aziende. Perché allora la produttività è ferma a zero da così tanto tempo? Perché chi è depositario dell’imprenditorialità e quindi naturale realizzatore di produttività non riesce a realizzare il suo scopo che è il compito che la comunità ha delegato loro? Produttività significa innovazione, tecnologia, robotizzazione, significa cioè investire, metterci soldi, rischiare, intraprendere, insomma fare gli imprenditori. Ma gli imprenditori, anche perché i capitalisti preferiscono investire nella finanza anziché nella produzione, a corto di capitali puntano la loro competitività sul basso costo della mano d’opera favoriti dal diffondersi di rapporti di lavoro precario. Allora il ministro Calenda inventa i bonus 4.0, ovvero un regalo al capitale affinché questo sia indotto, grazie al bonus che gli viene offerto, ad innovare, a ricorrere alle nuove tecnologie, insomma a fare il suo dovere. Sono tanti miliardi regalati al capitale, il PNRR ne prevede altri ancora da regalare. Ma questi bonus sono pagati dalla fiscalità generale che in gran parte è a carico del lavoro dipendente e dei pensionati: in sintesi lavoratori dipendenti e pensionati regalano soldi al capitale perché questo adempia al compito che gli è stato affidato. Ecco allora un caso di redistribuzione all’incontrario. Avrei capito che quei sussidi invece di essere regalati, si trasformassero in partecipazione azionaria della comunità, come è logico quando un investitore versa capitali in una impresa, ma nessuno dei partiti o degli economisti oggi in campo oserebbe una simile bestemmia.

Attuare una filosofia corporativa

Lo strumento dei bonus è la classica collocazione dello stato come vassallo degli interessi corporativi delle forze politiche, delle lobby economiche, dei potentati. Chi ne ha il potere chiede bonus per le partite iva (il bonus è rappresentato dalla flat tax), per il lancio delle auto elettriche, per la ristrutturazione degli immobili (clamoroso il superbonus del 110%), per infiniti altri motivi, non tutti infami, ma tutti erogati dallo stato che è chiamato ad intervenire dai piantatori di bandierine. La politica dei bonus è la negazione della programmazione economica, della razionalità produttiva, della scientificità nella gestione della cosa pubblica.

Nella sua critica al programma di Gotha, Marx respinse la posizione di chi sosteneva che l’eliminazione dello sfruttamento doveva tradursi nella totale erogazione del surplus al fondo salari; l’eliminazione dello sfruttamento, secondo Marx, consisteva non tanto nell’aumento dei salari ai lavoratori, quanto alla possibilità che il surplus prodotto fosse reinvestito secondo la logica del mondo del lavoro e non secondo la logica del profitto. Il superamento del momento economico-corporativo, pur presente nel mondo operaio, si traduce nella presa di coscienza della responsabilità della gestione economica. Solo la programmazione, che oggi può avvalersi del contributo dei computer quantistici, è la vera rivendicazione che il mondo del lavoro deve portare avanti, anche e soprattutto per affrontare quella trasformazione globale del modo di produrre che è rappresentato dalla robotizzazione.

Nello squallido panorama politico di questi giorni ci fosse un partito che propone nel suo programma il passaggio dalla politica dei bonus alla programmazione. Sarebbe la vittoria dell’intelligenza di classe e darebbe alla contesa politica una dimensione ed una dignità ormai scomparsa nella politica odierna.