CRITICHE ALLA TEORIA DEL ‘CAPITALISMO DI STATO’

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTÀ DI FILOSOFIA

“Il  dibattito sulla natura sociale dell’Unione Sovietica  all’interno della Sinistra Italiana (1943 – 1948)”

RELATORE: ch.mo Prof. GIORGIO GALLI

Tesi di laurea di: Massimo Ferrè Matr. n. 129343

ANNO ACCADEMICO 1978-1979

 

PARTE SECONDA

IL CAPITALISMO DI STATO

CRITICHE ALLA TEORIA DEL ‘CAPITALISMO DI STATO’

Osservazioni

Comincio subito col dire che non concordo con la teoria sviluppata dei bordighisti, tendente a definire il sistema sociale dell’URSS ‘capitalismo di Stato’, poiché credo si debba più propriamente ritenere l’Unione Sovietica uno stato basato sul nuovo tipo di sfruttamento diverso da quelli passati e la cui natura è definita dalla teoria del ‘collettivismo burocratico’. Cercherò quindi in questo capitolo riservato alle critiche di mostrare i motivi che, a mio parere, rendono impreciso il giudizio bordighiano sulla natura sociale dell’URSS.

Come abbiamo già fatto rilevare nell’esposizione al pensiero della Sinistra comunista (è questa la denominazione assunta dalla corrente politica bordighiana), elemento fondamentale, nel senso letterale che ‘fonda’, l’economia capitalista è l’esistenza del mercato. E’ infatti attraverso il mercato che il capitalismo ha imposto la propria egemonia all’intera società e non si può distruggere il capitalismo senza distruggere l’elemento mercantile che determina, come abbiamo visto, tutte le caratteristiche negative dei sistemi capitalistici: l’estorsione del plusvalore, l’accumulo dei profitti, la riduzione della forza lavoro a merce, pagata quindi con un salario che rappresenta il valore-lavoro necessario mantenerla attiva e a rigenerarla e la distruzione di ingenti forze produttive, sia umanane che naturali. Vediamo quindi con ordine tutte queste problematiche avanzate dal pensiero bordighista, cominciando dal fatto mercato.

IL MERCATO

Cominciamo col chiederci: esiste veramente un mercato nel sistema economico sovietico? Marx diceva che si ha ‘merce’ e scambio mercantile solamente nel caso in cui più organismi produttivi, più aziende o imprese, intervengono indipendentemente gli uni dagli altri a fornire il prodotto: “i prodotti del lavoro non diverrebbero merci se non fossero prodotti di lavori privati indipendenti, esercitati cioè indipendentemente gli uni dagli altri”.

Che la concorrenza mercantile sia uno dei punti cardine fondamentali del capitalismo è un pensiero costante di Marx che in un’altra occasione esclude che il capitale possa esistere se non nella forma di innumerevoli capitali:

“Per definizione la concorrenza è la natura interna del capitale. La sua caratteristica essenziale è di apparire come l’azione reciproca di tutti i capitali. Il capitale non esiste e non può esistere che in quanto diviso in innumerevoli capitali: per questo esso è condizionato dall’azione e dalla reazione degli uni sugli altri.” (24)

Se la merce si caratterizza, per Mark, come il prodotto di più lavori privati, esercitati indipendentemente gli uni dagli altri e se il capitale poi esiste solo in quanto diviso in innumerevoli capitali, in Russia, dove lo stato è padrone di tutti i mezzi di produzione, non possono esistere prodotti di lavori privati esercitati indipendentemente o innumerevoli capitali. Secondo il marxismo quindi non si dovrebbero riscontrare nell’economia sovietica i concetti di merce e di capitale.

È questo infatti ciò che noi crediamo: il mercato, il carattere mercantile del prodotto e il capitale non esistono più nell’Unione Sovietica. Vediamo nei suoi aspetti particolari, cioè analizzando i vari tipi di scambio esistenti in Urss e studiando la loro natura, cosa significhi e come si strutturi questa morte del mercato e del capitale.

1 – Scambi tra industria e industria. L’affermazione che gli scambi tra le varie industrie (ricordiamo che sono proprietà statali), poiché avvengono tramite l’intermediario monetario assumano la caratteristica di scambio di merci, anziché di valori d’uso , è imprecisa. Lo scambio monetario infatti implica il concetto di compravendita e, laddove esiste un unico proprietario, lo stato, è arduo ritrovare il funzionamento del meccanismo di compravendita. Quel tipo di scambio assomiglia piuttosto ad uno spostamento di un oggetto da un luogo ad un altro in una casa : non si è verificato alcun processo di vendita o di acquisto, ma si è solo realizzato uno spostamento funzionale agli interessi del proprietario della casa stessa. La moneta si ridurrebbe quindi alla funzione di strumento di conto che serva in qualche modo a regolare la produzione, ad equilibrare i vari settori della produzione stessa. È cioè uno strumento che permette di controllare il funzionamento delle varie aziende, di controllare il loro attivo o passivo e che permette di prendere decisioni, di orientare la produzione in un senso o in un altro a seconda della convenienza economica. Si può dire quindi: strumento di conto e di controllo, ma non più, come nel capitalismo, una categoria mercantile di scambio implicante necessariamente il concetto di compravendita. Il prodotto perde il suo carattere mercantile, ossia il valore di scambio, e mantiene unicamente il valore d’uso, a-mercantile.

2 – Scambio tra kolkhoz e stato. Bordiga afferma l’esistenza di questo mercato colcosiano nel brano del libro da noi citato in precedenza. Ma l’affermazione: “se lo stato li vuole (i prodotti del kolchoz) li deve comprare” mi sembra estremamente tirata per i capelli: se il Kolkoz non vuole infatti li deve vendere lo stesso allo stato e ai prezzi fissati: in questo modo scompare l’economia mercantile. Se non vi è libera concorrenza che tipo di economia mercantile ne può derivare? Il dire che anche nelle economie capitalistiche lo stato interviene nel fissare i prezzi – massimi e minimi – e ad orientare gli scambi, magari pianificando leggermente, non dà ragione del parallelo istituito tra le due realtà. Il grado di soffocamento del mercato nelle due forme economiche è ben diverso. Diversità di grado che non può non incidere e non determinare una struttura diversa per le due economie. Un’economia pianificata (meglio, centralizzata e controllata dallo stato) con un sistema di mercato è ben diversa da un’economia di mercato con un simulacro di piano e di controllo statale.

3 – Scambio consumatori – stato. Da questo punto di vista sembrerebbe che la possibilità dell’esistenza di uno scambio mercantile basato, ripeto, sulla compravendita sia reale: esiste infatti un venditore, lo stato, e un acquirente, il consumatore. Anche qui, però, si tratta solo di un’analogia di superficie in quanto neppure il prodotto di consumo acquista il carattere di merce. Come abbiamo già visto nella parte precedente l’esempio delle scarpe invendute è estremamente significativo: nonostante quel tipo di scarpe, rifiutate dei consumatori, rimanessero invendute ad ammuffire nei magazzini, i pianificatori sovietici non si preoccuparono minimamente di modificare il modello o la fattura per accontentare il mercato e questo perché lo stato, non avendo, come al contrario i capitalisti privati, l’obiettivo e il bisogno di realizzare un profitto sul mercato, attribuisce a questo scambio con i consumatori un’importanza del tutto secondaria.

Non esistendo più il capitalismo non è attraverso il mercato che la classe sfruttatrice russa realizza i suoi profitti: essendo essa proprietaria dello Stato, unico padrone, dei mezzi di produzione, ciò che le interessa è un aumento complessivo del volume della produzione del quale essa è interamente proprietaria, disponendone, con la pianificazione della distribuzione oltre che della produzione, nel modo più confacente ai suoi interessi di classe. Il mercato quindi tra lo stato e il consumatore non è un vero e proprio mercato, ma uno strumento attraverso il quale viene distribuito il necessario indispensabile per permettere la sopravvivenza del lavoratore e per rifornirlo di mezzi sufficienti alla riproduzione della forza lavoro.

Non è quindi in Russia, come dicono i bordighisti, lo strumento attraverso il quale viene estorto plusvalore (differenza tra prezzo di vendita o valore-lavoro e prezzo di costo o valore-lavoro decurtato della quantità di valore-plusvalore estorto al lavoratore). In quel caso infatti in quanto strumento per la realizzazione del plusvalore avrebbe avuto un’ importanza primaria, niente affatto secondaria come al contrario in Russia e il significativo esempio delle scarpe invendute lo dimostra molto chiaramente. Possiamo quindi affermare che lo scambio stato-consumatore avviene su base mercantile, ma solo in apparenza, in quanto possiede le caratteristiche di un rapporto di distribuzione di determinati beni economici che lo stato ha deciso di riservare al consumo in base a una precisa disposizione precontenuta nel piano quinquennale, preparato dallo stesso stato.

4 – Piccolo mercato kolkoziano. Esiste, è vero, un piccolo mercato kolkoziano, legato alla produzione dei piccoli appezzamenti di terreno che lo stato, dal 1935, ha lasciato in libera proprietà ai singoli contadini del kolchoz. Anche se questi terreni nel corso del tempo hanno subito periodiche riduzioni ed ampliamenti a seconda delle fasi politiche-economiche, portano tutto sommato sul mercato una certa quantità di prodotti agricoli. Questo mercato, però, oltre al fatto di essere molto ristretto, non possiede certamente le caratteristiche capitalistiche, legate cioè alla grande produzione di massa, essendo il portato dell’attività dei nuclei familiari. Non è certo sufficiente affermare che alcune famiglie fanno uso di un ristretto mercato al fine di vendere i prodotti del loro lavoro per concludere circa l’esistenza di un mercato capitalistico. Dopo avere analizzato quindi tutti i vari tipi di scambi esistenti sul territorio dell’Unione sovietica, possiamo tranquillamente concludere affermando che il mercato è scomparso, così come è scomparsa la merce, il valore di scambio del prodotto e il capitale.

Ma, come ci faceva notare l’articolista di Prometeo, il mercato è una specie di concentrato dell’economia capitalista, cui sono legati in vario modo tutti gli aspetti di quel tipico modo di produzione di quella società. Ne consegue che, negata l’esistenza di questo, si debba negare pure l’esistenza di tutti quegli altri aspetti del capitalismo che i bordighisti hanno illustrato nei loro articoli dedicati all’argomento: salario, plusvalore, profitto, distruzione delle forze produttive operato dal funzionamento dei meccanismi del mercato, eccetera. Vediamo con ordine.

Mercato del lavoro e salario.

Affermare che esiste in Unione Sovietica un salario, significa affermare che la forza lavoro è una merce, il che implica l’esistenza di un mercato sul quale interagiscono molteplici domande e offerte di lavoro che concorrono a determinare il prezzo di tale merce, prezzo che prende il nome di salario. Ma esiste poi realmente tale mercato?

È quanto mai problematico affermare come funzionante un meccanismo mercantile nel campo della richiesta dell’offerta della manodopera nell’Unione sovietica. E questo per due motivi:
uno teorico e l’altro pratico. Teoricamente è difficile intravedere l’esistenza di un mercato in un sistema politico economico in cui lo stato sia l’unico padrone e nel quale il lavoratore è impedito di abbandonare il proprio posto di lavoro per cercarsene un altro che lo soddisfi maggiormente. Il fatto che lo stato sia l’unico padrone toglie infatti al meccanismo mercantile l’elemento rappresentato dalla richiesta, che deve essere necessariamente costituita da molteplici richiedenti.

Lo stato può infatti obbligare al lavoro strati interi di cittadini, in parte attraverso il sistema del lavoro forzato, in parte obbligando i contadini a prestare un numero fisso di giornate lavorative sui terreni comuni del kolchoz e in parte legando stabilmente l’operaio alla singola azienda. Ma se manca l’elemento della richiesta del lavoro, sostituito dalla coercizione, assente è pure l’altro elemento necessario, costituito dalla libera offerta di lavoro: l’operaio, non potendo scegliere liberamente il posto di lavoro che più gli aggrada, è forzato a togliere dal cosiddetto mercato della forza lavoro la propria offerta, ossia la propria disponibilità . Mancando quindi gli elementi costitutivi di un mercato, le molteplici offerte e domande, si può affermare che non esiste in Russia un vero e proprio mercato del lavoro, per cui il lavoro non possiede le caratteristiche della merce come nel sistema capitalistico.

Praticamente questa affermazione è provata dai fatti e dalle cifre. Nel periodo dell’industrializzazione si realizzò la piena occupazione senza che, contemporaneamente, i salari si elevassero di conseguenza, al contrario questi subirono una decurtazione in rapporto al livello raggiunto in precedenza. In un sistema capitalista mercantile, in conseguenza dell’aumento spasmodico della domanda (che arriva perfino ad esaurire le scorte della merce richiesta – il lavoro) il prezzo della merce, in questo caso il salario dell’operaio, sarebbe salito di molto. Queste sono le leggi del mercato. Niente di tutto questo in Urss dove il mercato, e anche quello del lavoro, non ha un’esistenza reale. Ma se non esiste il mercato del lavoro e quest’ultimo non ha la natura della merce, ne segue inevitabilmente che il salario con cui viene retribuito l’operaio sovietico sarà un salario sui generis. Nell’economia capitalista mercantile occidentale il salario è il prezzo della forza lavoro determinato dall’ interazione di molteplici domande e offerte sul mercato.

Ragion per cui nell’Urss la retribuzione del lavoro non ha più le caratteristiche del salario, ma acquista la natura di buono di consumo, stabilito dai burocrati attraverso il piano. E se questa retribuzione del lavoro mantiene ancora una forma monetaria, questo è dovuto probabilmente al fatto che , ci suggerisce intelligentemente Antonio Carlo (25), la moneta serve meglio di altri sistemi (la determinazione del valore di un bene economico secondo il computo del tempo di lavoro contenuto, ad esempio) a mascherare il fatto dello sfruttamento del lavoro, dell’appropriazione di parte della fatica altrui da parte della classe burocratica. Sintetizzando: niente mercato del lavoro, niente merce-lavoro, niente salario, ma coercizione al lavoro e ‘buono di consumo’.

Estorsione di plusvalore – profitto

È semplice a questo punto rispondere anche su questo problema che, se l’estorsione si verifica senz’altro in Russia, questa non è estorsione di plusvalore ma di pluslavoro. Alla fine del ciclo economico di produzione e di distribuzione non si realizzerà un aumento del capitale ma un aumento del prodotto complessivo. Se a buon diritto i bordighisti avevano dedotto dal funzionamento delle leggi del mercato l’esistenza del meccanismo di estorsione di plusvalore e la realizzazione di profitti, secondo quei meccanismi già da noi indicati nell’esposizione del pensiero bordighiano, dalla constatazione dell’assenza del mercato e delle sue leggi si deve concludere circa l’assenza conseguente del plusvalore e del profitto.

Essendo infatti il plusvalore la differenza tra il prezzo di vendita e il prezzo di costo, non ha più senso affermarlo in una situazione nella quale le vendite hanno un’ importanza secondaria o sono ridotte a puro simulacro (nel caso dello scambio tra industria e industria), rappresentando più un sistema di distribuzione, di consumo che non un mercato e nella quale il prezzo di costo, il cui elemento più importante è costituito dal salario operaio, può essere variato a piacimento dei burocrati pianificatori che hanno ridotto in questo modo, tra l’altro, il salario a buono di consumo.

La differenza tra il prezzo di vendita e quello di costo, l’elemento su cui si basa la realizzazione del profitto nel sistema capitalistico mercantile, che determina anche l’entità dell’estorsione del plusvalore, non può più funzionare nell’economia sovietica dove l’economia monetaria mercantile ha visto celebrare il suo funerale. Se nei sistemi capitalistici il capitale, dopo avere impiegato nel ciclo produttivo della merce lavoro pagata con una data somma di denaro, grazie al funzionamento dei meccanismi di mercato, si trova aumentato, in Russia l’accentramento dei mezzi produzione nelle mani dello Stato e la riduzione della moneta a strumento di conto (essendo, ripeto, tutti i prezzi fissati dallo stato) fa sì che alla fine del ciclo produttivo e distributivo ciò che risulta aumentato non sia il capitale, privato del suo valore, ma il prodotto complessivo.

Non più profitto capitalistico quindi ed estorsione di plusvalore, ma aumento della massa complessiva dei prodotti ed estorsione di pluslavoro. Sono scomparse le categorie mercantili capitalistiche del profitto e del plusvalore legate al funzionamento del meccanismo denaro-merce-denaro. Nell’economia sovietica il meccanismo è quello merce-denaro-merce, dove, a differenza dell’economia mercantile semplice, il denaro è presente nel processo solo a titolo di strumento di conto, privato di una sua funzione autonoma.

Distruzione delle forze produttive

L’ultimo problema legato al funzionamento dei meccanismi di mercato è quello della distruzione delle forze produttive, sia umane che materiali.

Bordiga aveva infatti affermato che il fatto per cui si critica l’economia capitalistica non sia tanto il fatto bruto del consumo del profitto aziendale da parte della minoranza padronale, ma lo sperpero di ingenti forze produttive che si opera attraverso la ricerca del profitto aziendale anziché del prodotto sociale.

L’obbligo per i capitalisti di realizzare un profitto sul mercato provoca quelle ben note crisi di sovrapproduzione con le conseguenti crisi economiche, disoccupati eccetera. Se In Russia non esiste mercato, capitale e profitto capitalistico, non avrà neppure di conseguenza luogo il fatto della distruzione delle forze produttive? La risposta è duplice. Da un lato questo non avviene secondo le classiche leggi del capitalismo. La crisi nel sistema capitalistico avviene perché, a seguito di una produzione eccessiva, il mercato non è in grado di assorbire la produzione eccedente, i singoli capitalisti colpiti, non realizzando il profitto previsto, riducono i loro programmi di investimento, provocando in questo modo una serie di reazioni a catena che fanno drasticamente scendere la domanda di mezzi di produzione prodotti. Questa diminuzione, con andamento a progressione geometrica della domanda complessiva, genera quelle che si definiscono le crisi capitalistiche a causa delle quali ingenti forze produttive, umani e materiali, vengono distrutte. Responsabile di ciò è il mercato sul quale intervengono i singoli capitalisti indipendenti con le loro offerte e le loro domande.

Una crisi di sovrapproduzione in un settore con la conseguente riduzione dei programmi di investimento può espandersi velocemente gli altri settori della produzione industriale e ripercuotersi sull’intero mondo economico e finanziario. La crisi è determinata quindi dall’imponderabile comportamento dei singoli capitalisti sul mercato. Laddove non esistono né singoli capitalisti né di conseguenza mercato, le crisi e la distruzione delle forze produttive non hanno forse luogo?

Non avvengono seguendo i meccanismi del mercato e del capitale, ma vengono comunque. Elenchiamo alcuni tipi di sperpero e di crisi provocata dal funzionamento del modello economico sovietico.

1 – Disoccupazione larvata.

La disoccupazione, che è una delle forme forse più brutali della distruzione delle forze produttive, esiste anche nell’URSS, seppur in forma larvata, ma non per questo trascurabile. Portiamo l’esempio delle campagne russe. Come si sa, dopo la collettivizzazione forzata del 1929, i kolkhoz furono divisi in terreni comuni e in piccoli appezzamenti individuali. Buona parte della produzione collettiva, quella dei terreni comuni, andava forzatamente venduta allo stato.

Il termine vendita assumeva però un senso grottesco in quanto questo avveniva coattamente ai prezzi fissati dallo stesso stato. Molti contadini, stante questa situazione, si sottraevano al lavoro collettivo per dedicarsi alla cura del loro piccolo appezzamento individuale. Questa situazione esplose nel 1935, quando si delineò una grave crisi nell’approvvigionamento statale dei prodotti agricoli accanto ad una considerevole produzione dei terreni familiari, privati. Questo costrinse lo stato a fissare un quantum di giornate lavorative, da 60 80, che il contadino doveva prestare forzatamente sui terreni comuni del kolchoz. Si può quindi a ragione parlare di un’utilizzazione ridotta della forza lavoro del contadino russo, cosa che equivale a una disoccupazione parziale o, se si preferisce, a una utilizzazione parziale, che poi è poi la stessa cosa.

Questo, mio parere, è una forma di disoccupazione larvata generata dal funzionamento dei meccanismi economici e politici dello Stato russo, del sistema sovietico.

2 – Sperpero dei mezzi di produzione.

Questo tipo di sperpero è stato indicato da David Dallin a proposito dell’industrializzazione delle campagne sovietiche. Lo sviluppo politico dell’economia, sostiene l’esule menscevico russo, ha portato alla scelta della meccanizzazione dell’agricoltura sovietica con l’unico scopo di ridurre la massa dei contadini poco fidata, aumentare i ranghi della classe operaia più fedele al regime e sottomettere il contadino al potere sovietico, grazie al possesso statale del trattore (le stazioni di macchine trattori – MTS – sono di proprietà dello Stato come il sovkhoz). Ma questo scopo, questo fine politico, non è stato coronato, sosteneva con cifre alla mano Dallin, da un successo economico. Il risultato quindi di tutta questa manovra politica economica che non ha prodotto un aumento della produttività agricola, è stato un immenso spreco di forze produttive e di beni economici, sia umani che materiali.

3 – Spreco di vite umane.

Un ultimo dei tanti sprechi che potrebbero essere indicati, e certamente il più grave, è quello delle vite umane nei campi di lavoro forzato, paragonabile, forse con molto difetto, sostengono molti scrittori, alle conseguenze delle crisi di disoccupazione dell’Occidente capitalistico nel suo primo stadio di sviluppo.

Concludiamo: lo sperpero, la distruzione delle forze produttive si opera comunque, anche se le vie e i meccanismi seguiti sono totalmente diversi da quelli capitalistici.

 DOV’E’ LA BORGHESIA?

Un ultimo problema di cui ci occuperemo in queste pagine destinate alla critica della teoria del capitalismo di Stato è quello dell’esistenza e dell’individuazione problematica della classe sfruttatrice interna borgese. Come ben sottolinea Trotzky infatti “il concetto leniniano di capitalismo di Stato presuppone l’esistenza di una borghesia in nome della quale lo stato organizza la produzione“. (26)

Questo è un problema fondamentale che va risolto, se si vuole affermare completamente la teoria della natura capitalistica, se pur statale, dell’Unione sovietica.

Qual è la classe capitalistica, chi sono i suoi componenti, attraverso quali vie essi accumulano capitale e a che titolo?

Bordiga, come abbiamo riportato nelle pagine precedenti dedicate all’esposizione dal pensiero della sua corrente, parla di una ‘oligarchia dominante’ e di un ‘capitalismo monetario privato’ che, se pure ‘impedito’, cova sotto le ceneri. L’insufficienza però di questi fugaci accenni alla classe capitalistica interna è palese e presente pure allo stesso Bordiga che, in una sua lettera a Onorato Damen (27) del 1951, confesserà la difficoltà teorica incontrata nel definire il sistema della Russia sovietica e, riferendosi al problema dell’individuazione della classe capitalistica, affermerà:

“Ammesso che non abbiamo dati sulla definizione anagrafica della classe dominante russa, non facciamo un passo avanti con la famosa ‘burocrazia’. Io ho già fatto molto assumendo esistere uno strato di intraprenditori senza proprietà titolare dei mezzi di produzione e forti beneficiari di profitto. Ma la burocrazia può anche essere, come nei nostri paesi, uno strumento di costoro e dei loro grossi affari come uno strumento di affari oltre frontiera.” (28)

In quel “io ho già fatto molto” è concentrata l’ambiguità e la difficoltà della formula ‘capitalismo di Stato’: se c’è il capitalismo ci deve essere anche la classe capitalistica e se non la si trova, la si suppone ugualmente come necessaria, perciò, esistente (un po’ come la prova gnoseologica dell’esistenza di dio).

Che la difficoltà e l’ambiguità siano reali e presenti nello stesso pensiero dei bordighisti si può rilevare da quanto segue. Un anonimo articolista su “Battaglia comunista”, il giornale della frazione della Sinistra comunista, afferma infatti:

“L’esperienza russa prova che vi può essere appropriazione senza che contemporaneamente si manifesti un’appropriazione di origine individuale secondo i criteri della proprietà privata. La differenza sta nel fatto che all’individualità singola si è sostituito lo stato padrone.” (29)

Direbbe Bordiga a tale proposito: “lo stato padrone, vecchia formula anarcoide.” (30)

Può lo stato, marxisticamente forma particolare, strumento il dominio di una classe, diventare esso stesso dominatore e non per commissione? In Bordiga questa difficoltà è presente come abbiamo visto in modo cosciente, negli altri autori l’ambiguità è più marcata e meno cosciente.

I problemi sollevati dall’ esistenza necessaria di una classe capitalistica in un regime capitalistico restano, nella teoria bordighista degli anni oggetto del nostro studio, irrisolti e testimoniano la problematicità e la fallacia della teoria del ‘capitalismo di Stato’.

Note:††

24 – Carlo Marx “Grundrisse” ed. La Nuova Italia, Firenze 1970, p. 17 vol. II.

25 – Antonio Carlo La natura sociale …. art. cit.

26 – Trotzki “La rivoluzione tradita” op.cit. p. 208.

27 – Amadeo Bordiga “Scritti scelti” op. cit.

28 – Ibidem p. 23.

29 – In solidarietà col proletariato russo in “Battaglia comunista”, 18 febbraio 1946.

30 – Bordiga “Scritti scelti” op. cit. p. 232.