CONTRIBUTO ALLA DISCUSSIONE SUL DOCUMENTO “SOCIALISMO E LAVORO”

 

di Silvano Veronese Vicepresidente di Socialismo XXI |

 

Concordo totalmente con l’indicazione contenuta nel documento “Socialismo e Lavoro” illustrato al Tavolo per l’Unità Socialista dal compagno  Franco Lotito, anche a nome dei compagni Anastasio e Barra, circa l’opportunità o la necessità che la questione della riduzione dell’orario normale di lavoro debba entrare nell’agenda politica e sociale dell’immediato futuro per dare risposta ai problemi dell’occupazione ma anche in ragione di ri-modulare,  migliorandolo,   il rapporto tempo di vita/tempo di lavoro.

Siccome l’argomento è stato contestato da un intervento di Silvano Bonali, in quanto – a suo dire – mancherebbero le condizioni economiche del sistema produttivo per sostenere tale ipotesi, la mia opinione è che tale rivendicazione puo’ essere l’occasione per ripensare all’organizzazione produttiva dei nostri apparati per recuperare produttività, efficienza e quindi nuovi margini di competitività.  Dirò poi il “come”, intanto sottolineo che gli autori della proposta non hanno, così mi sembra,  indicato in maniera schematica l’obiettivo rigido delle 35 ore.

Intanto uno sguardo ai dati, in parte non lusinghieri, del nostro sistema produttivo.

Come ha anche ricordato Silvano Bonali l’orario medio delle ore di lavoro annue prestate in Italia è largamente superiore a quello di Germania e Francia, nostri maggiori Paesi concorrenti in ambito U.E., come pure di quello dei Paesi nordici. Da questo punto di vista una riduzione dell’orario medio non sarebbe perciò sconvolgente.

Poi,  il costo del lavoro orario italiano non è il piu’ alto in Europa. Le retribuzioni medie lorde italiane, a parità di qualifica, si situano al 9° posto tra i Paesi dell’area Euro della U.E.

Il famigerato “cuneo fiscale” complessivo (oneri fiscali e contributi sociali pagati dall’impresa e a carico anche del lavoratore) è certamente alto ma non è il piu’ alto, viene dopo a quello di Belgio, Germania, Francia, Ungheria ed Austria e spazia con gradualità dal 55% del Belgio al nostro 47,6% della retribuzione lorda. Siccome questa – a parte l’Ungheria – negli altri Paesi è mediamente piu’ alta della retribuzione media italiana, il costo del lavoro totale è ancor  piu’ superiore in questi Paesi nostri concorrenti all’interno della U.E. di quello sostenuto dalle imprese italiane.

Stesso ragionamento vale anche per Paesi come Svezia, Danimarca e Finlandia con cunei fiscali minori del nostro ma con retribuzioni lorde medie assai piu’ alte delle nostre. 

Qual è il gap sofferto dal nostro sistema produttivo, onde per cui – a parte la crisi dei consumi interni – la nostra crescita è praticamente bloccata da 15 anni? E’ il tasso di produttività che non cresce e non certo per i fattori che abbiamo prima ricordato, semmai questi avrebbero dovuto garantire un po’ di competitività alle nostre produzioni.

Ciò è dovuto ad  inefficienze a livello di sistema che si ripercuotono anche sull’attività delle aziende produttrici di beni e di servizi, ma vi sono fattori del tutto  interni ai modelli produttivi. Ne elenco alcuni:

● L’eccesso nell’uso delle flessibilità, non della prestazione ma delle  tipologie dei  contratti di impiego, che si traduce spesso in precarietà e non stabilità del lavoro e che, perciò, non accrescono  certamente la professionalità e la qualità delle prestazioni temporanee ed occasionali;

● Poca e cattiva formazione professionale in particolare nell’uso delle nuove tecnologie;

● Insufficienti investimenti nella innovazione dei processi produttivi e nella introduzione di nuovi e piu’ sofisticati impianti e macchinari. Scarso l’uso della informatizzazione nelle attività aziendali.

Siccome io penso che la modifica, o meglio della riduzione dell’orario normale di lavoro a parità di retribuzione, non possa essere perseguito per legge, così come non credo percorribile la “crescita dell’occupazione per decreto”, essa deve essere affidata alla libera contrattazione sindacale  tra le parti, da prevedere nei CCNL delle  varie categorie ma affidata sul piano attuativo ad una contrattazione articolata per azienda e/o per settori o bacini industriali omogenei, laddove le imprese siano disponibili a rilevanti o significativi investimenti in nuovi impianti che migliorino l’efficienza e l’ambiente aziendale e per i quali – in una logica “di scambio” per ammortizzare il costo di impianti e macchinari – sindacati e lavoratori si rendono disponibili al massimo utilizzo degli impianti con l’introduzione di nuovi e piu’ turni di lavoro a fronte della  riduzione settimanale dell’orario.

In questo quadro, riduzione e diversa distribuzione dell’orario, piu’ turni per un maggiore utilizzo impianti e quindi piu’ efficienza, ma anche piu’ occupazione costituiscono un insieme di reciproche convenienze concordate tra impresa e lavoratori.

Come avvenne dopo “l’autunno caldo”, del quale abbiamo ricordato il 50simo di una stagione sociale e politica indimenticabile, l’attuazione del raggiungimento storico delle 40 ore settimanali avvenne con gradualità nei tempi e per settori e/o gruppi di fabbriche per dare tempo e modo alle imprese di adattare la propria specifica organizzazione produttiva ai nuovi orari stabiliti nel contratto nazionale.