IL DECLINO DELLA CLASSE MEDIA

 

di Renato Costanzo Gatti Socialismo XXI Lazio |

 

Nel Manifesto di Marx si legge che:  “Quelli che furono finora i piccoli ceti intermedi, i piccoli industriali, i negozianti e la gente che vive di piccola rendita, gli artigiani e gli agricoltori, tutte queste classi sprofondano nel proletariato, in parte perché il loro esiguo capitale non basta all’esercizio della grande industria e soccombe quindi nella concorrenza coi capitalisti più grandi, in parte perché le loro attitudini perdono il loro valore in confronto coi nuovi modi di produzione. Così il proletariato si recluta in tutte le classi della popolazione.”

Ma la previsione di Marx non si è avverata, anzi il ceto medio storicamente ha funzionato come maggioranza silenziosa a sostegno del sistema dominante e come cuscinetto ammortizzatore delle spinte sociali provenienti dal basso (operai, sottoproletari). Questa collocazione del ceto medio è stata costruita grazie a preveggenti azioni politiche messe in atto dal potere politico, addirittura a partire da Bismark, finalizzate a favorire l’accesso ad un maggior livello del tenore di vita di larghe fasce di proletariato, costruendo poi, nel secondo dopoguerra, il welfare state, lo stato del benessere quale modello di pacificazione equilibrata.

Marx stesso giunse a dubitare della validità sui tempi brevi delle sue previsioni. Infatti in analisi successive, egli considerò la possibilità di una redistribuzione del reddito che potesse indurre un imborghesimento della classe operaia; ma è soprattutto nei Grundrisse che Marx analizzò le conseguenze derivanti dall’aumento della produttività dovuto allo sviluppo di macchine sempre più efficienti. L’aumento della produttività realizzata grazie allo sviluppo e all’innovazione tecnologica sposta lo sfruttamento dalle braccia dei lavoratori  ai loro cervelli facendo apparire “miserabile” il vecchio sfruttamento. Ne consegue l’espulsione dei lavoratori non digitalizzati innescando nuovi processi di proletarizzazione.

Negli ultimi decenni, nel modello economico dominante si odono scricchiolii sempre più preoccupanti: dalla crisi petrolifera degli anni 70, al decollo industriale dei paesi sottosviluppati, fino alla grande crisi del 2007. Ma il fenomeno più preoccupante per la stabilità del modello economico dominante lo si riscontra nei fenomeni di polarizzazione nella distribuzione dei redditi. Tale fenomeno si riscontra da consolidati studi statistici che fanno riscontrare il contemporaneo incremento dei decili agli estremi della distribuzione a scapito dei decili intermedi. Grazie al reddito di cittadinanza e ad altri provvedimenti i decili più bassi aumentano il reddito, ma masse sempre più importanti di lavoro precarizzato cadono dai decili intermedi a quelli più bassi mentre il processo capitalistico fa incrementare il reddito dei decili più alti. Si tratta del declino del ceto medio che sta perdendo le sue sicurezze e sta lentamente slittando verso la fascia della povertà relativa. Numerosissime famiglie a reddito fisso, che negli anni precedenti, vivevano decorosamente, hanno ormai difficoltà ad arrivare alla fine del mese, e cominciano a indebitarsi. La società occidentale non si sta, forse, proletarizzando, ma di sicuro si sta scindendo in due categorie: quella dei ricchi, il cui patrimonio aumenta anche nei periodi di crisi, e quella di una vasta fascia della popolazione, maggioritaria, che vive, se non nella miseria, nell’insicurezza, nella precarietà e nella paura del futuro, costretta comunque a ridurre il tenore di vita.

Statisticamente il fenomeno viene studiato utilizzando gli indici Gini (del reddito e della ricchezza), ma con più attenzione alla versione assoluta che non alla sua versione relativa; ma soprattutto elaborando, non un indice sintetico (come sono gli indici Gini) ma diagrammi di distribuzione nel tempo della distribuzione tra i vari decili. Ne deriva una distribuzione che sempre più delinea una forma “a corna”, ovvero con l’incremento dei decili estremi e una decrescita dei decili intermedi.

Ora gli indici Gini relativi a livello mondiale mostrano una diminuzione delle disuguaglianze e ciò, soprattutto, grazie ai sostanziosi risultati di economie di paesi come la Cina e l’India che hanno ridotto in modo significativo le povertà precedenti nei due paesi. A livello europeo, invece, l’indice Gini relativo dei redditi, sta lentamente ma costantemente aumentando nel tempo, sia nei paesi scandinavi che mostrano le minori disuguaglianze (indice inferiore allo 0,29), sia nei paesi più disuguali, come l’Italia, con indice superiore allo 0,33. L’indice Gini relativo delle ricchezze fa registrare livelli ben diversi, che si aggirano per i paesi scandinavi intorno allo 0.58, e in Italia attorno allo 0.69. Ma gli andamenti degli indici assoluti presentano una situazione mondiale e locale ben peggiore in controtendenza rispetto agli indici relativi. Per dare un’idea della differenza tra indice relativo e indice assoluto si consideri il classico esempio utilizzato a tale scopo: si diano due situazioni la prima in cui il soggetto A ha un reddito di 1 e il soggetto B un reddito di 10, mentre nella seconda situazione il soggetto A ha un reddito di 8 e il soggetto B ha un reddito di 80. Ora l’indice relativo non differisce nelle due situazioni, infatti 1/10 è uguale a 8/80, mentre in termini assoluti la differenza è tra (10-1)= 9 verso (80-8)=72.

Ora è chiaro che la polarizzazione della popolazione non è disgiunta nè dalla situazione della ricchezza nè dal modello produttivo, non è infatti accettabile la distinzione supportata da Lionel Robins tra un campo produttivo regno dell’economia disgiunto dal campo distributivo regno della politica. La modifica della struttura della distribuzione dei redditi non può non mettere in discussione non solo la distribuzione delle ricchezze ma coinvolgere anche il modo di produzione, specie in un periodo in cui l’avanzante robotizzazione rivoluziona gli assetti sociali. Quali conseguenze comporta in prospettiva questo fenomeno della polarizzazione?

Da un lato pare evidente l’insorgere di nuovi movimenti populisti che offrono una soluzione semplicistica ma attrattiva ai problemi della disuguaglianza e dell’insicurezza; predicano cioè un rinnovato nazionalismo economico e politico, un nazionalismo sovranista che parla ai perdenti nella realtà o nella percezione della globalizzazione. Nel passato quei perdenti si erano rivolti ai partiti di sinistra richiedendo loro un impegno redistributivo, ora si rivolgono ai partiti nazionalisti richiedendo loro di difendere la loro identità minacciata insieme alle loro condizioni sociali.

Dall’altro lato, da sinistra, occorre, a mio modo di vedere, evitare l’errore economicista per cui il solo impoverimento del ceto medio, il radicalizzarsi della polarizzazione, sia motivo di rendere attuale la prospettiva marxiana di una proletarizzazione globale prolusione ad una situazione rivoluzionaria. Riterrei tale impostazione troppo meccanicista e giacobina; credo invece che il concetto di “blocco storico” di matrice gramsciana sia la chiave interpretativa da prendere in considerazione per la costruzione di una “egemonia” capace di disegnare un nuovo modo produttivo e quindi distributivo. Insomma un rinnovato rapporto tra intellettuali (che sanno, poco conoscono e nulla sentono) e nuovi subalterni (che sentono, poco conoscono ma nulla sanno) potrà contribuire a costruire l’unione alternativa alla filosofia dominante. Collegare quindi le prospettive di ceti medi detronizzati e proletari espulsi dal processo produttivo, in costruttiva dialettica con intellettuali critici, farà loro prendere conoscenza del funzionamento del modello economico dominante e delle ragioni delle sue contraddizioni, unitamente alle potenzialità di una diversa proposta e azione positiva. Questa è la strada per impostare un nuovo modello di sviluppo e di distribuzione fondato sulla socializzazione dei mezzi di produzione.