IL PADRE DEL SOCIALISMO ITALIANO

di Carlo Tognoli | Filippo Turati non amava la definizione “riformisti”, ma la riconosceva perché permetteva di contraddistinguere la sua corrente. Egli fondò nel 1892, a Genova (dove i congressisti si riunirono per usufruire degli sconti ferroviari concessi per le Celebrazioni Colombiane – 400° anniversario della scoperta dell’America) il Partito dei Lavoratori, divenuto poi Partito Socialista Italiano, insieme ad Andrea Costa e ad Anna Kuliscioff. Turati fu un grande ‘leader’ (diremmo oggi) del socialismo italiano ed europeo. Si identificò con il PSI quanto meno dalla fondazione (1892) sino al 1912 quando venne messo in minoranza. Tuttavia sino al 1926 fu la personalità eminente del socialismo e, dopo la sua fuga in Francia, fu tra i capi più ascoltati ed apprezzati dell’antifascismo. Aveva ereditato da Arcangelo Ghisleri la rivista culturale di orientamento positivista ‘Cuore e Critica’, che, con Anna Kuliscioff (la sua compagna della vita e della politica) egli denominò, nel 1891, ‘Critica Sociale’. La nuova pubblicazione, che aveva una cadenza quindicinale, fu la più importante del socialismo italiano. Ad essa collaborarono, tra gli altri, Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Olindo Malagodi. Turati morì il 29 marzo 1932, settant’anni fa, a Parigi, in casa della famiglia di Bruno Buozzi, in Boulevard Raspail, dove era ospitato. Venne considerato un perdente, perché non riuscì ad impedire l’avvento di Mussolini e del regime fascista, di cui aveva lucidamente e profeticamente intuito le intenzioni totalitarie, al contrario di Gramsci e Togliatti (e della stessa Kuliscioff) che prevedevano una breve durata della ‘parentesi’ Mussolini.(1) Fu a lungo dimenticato Turati fu poco ricordato dopo la seconda guerra mondiale (eccezion fatta per Saragat, per il PSDI e per il gruppo della ‘Critica Sociale’ – la rivista creata con la Kuliscioff nel 1891 – i cui redattori, Ugo Guido Mondolfo e Giuseppe Faravelli, insieme ad altri, tra cui Antonio Greppi, erano stati suoi giovani discepoli). Il ‘riformismo’ infatti era bandito nei due maggiori partiti del movimento operaio, il PCI e il PSI, uniti tra loro dal patto di unità d’azione, sottoscritto prima della guerra e rimasto in essere sino al 1957. Se l’oblio non coincise con la ‘damnatio memoriae‘, poco ci mancò. Per la verità nell’ottobre 1948 la traslazione delle ceneri di Turati e di Treves, dal ‘Père Lachaise’ di Parigi al Cimitero Monumentale di Milano, avvenne in un mare di folla. Ma fu l’ultimo riconoscimento delle ‘masse’ ai grandi costruttori del socialismo italiano. Le feroci parole che Togliatti su ‘Lo Stato Operaio’ dell’aprile 1932 dedicò a Turati = ‘…una intiera vita politica spesa per servire i nemici di classe del proletariato – per servirli nel seno stesso del movimento operaio… la sua abilità di parlamentare incarognito… corrotto dal parlamentarismo… rifugiato all’estero (e Togliatti dov’era? n.d.r.) …rimasticava i luoghi comuni della mistica democratica… = lasciarono il segno nei decenni successivi nei confronti del riformismo. Il dirigente comunista Giorgio Amendola, figlio di Giovanni, protagonista con Turati della secessione ‘aventiniana’ (astensione dei deputati democratici antifascisti dai lavori della Camera dopo l’assassinio di Matteotti) parlando nel dicembre 1957 = (dopo la repressione sovietica della rivolta d’Ungheria il PSI aveva preso le distanze dall’URSS e dal PCI) = all’assemblea delle fabbriche di Milano, esprimeva la sua preoccupazione perché, “…abbiamo assistito, e non possiamo negarlo, al rapido crescere in alcuni settori del movimento operaio di una influenza riformista nei suoi vari aspetti, del riformismo socialdemocratico, del riformismo cattolico e anche del semplice qualunquismo…forme in cui si esprime la rinuncia rivoluzionaria…” (riformismo = qualunquismo – sic!). Craxi rilanciò il riformismo Fu Craxi, con la sua volontà revisionistica e con la sua politica, a restituire al riformismo socialista la sua dignità, a ricordare che senza i riformisti il PSI non sarebbe cresciuto, non sarebbero nati sindacati e cooperative, non sarebbero stati conquistati diritti fondamentali per il mondo del lavoro e per il movimento operaio. Craxi anche formalmente, al congresso del PSI di Palermo (1981) diede il nome di riformista alla propria corrente, ricollegandosi idealmente al riformismo turatiano. Naturalmente il riformismo liberalsocialista di Bettino Craxi aveva caratteristiche differenti rispetto a quello dei primi anni del novecento. Erano trascorsi 60 anni dal periodo più felice per il PSI di Turati. Erano cambiati i tempi e i problemi. Ma non cambiavano il metodo e la volontà di percorrere la strada delle innovazioni e del rinnovamento delle istituzioni e della società, a vantaggio di un mondo del lavoro diverso e molto più vasto e nell’interesse della maggioranza dei cittadini e della nazione italiana. Era la riaffermazione definitiva della democrazia e della libertà come scelte di fondo di una sinistra indipendente dall’URSS, legata agli interessi italiani ed europei, svincolata dal massimalismo e dall’estremismo, capace di governare il Paese e di difendere i lavoratori senza ‘spaventare’ i moderati. I comunisti più corretti diedero ragione a Turati In seguito a questo ‘rilancio’ del riformismo, proprio nel 1982, in occasione del 50° della morte di Turati in esilio, e in parallelo all’evidente crisi del sistema sovietico e del comunismo, ci fu finalmente un dibattito storico politico su scala nazionale che investì la sinistra ed ebbe eco sui grandi organi di stampa e in televisione. Autorevoli dirigenti e fondatori del Partito Comunista, come Umberto Terracini, riconobbero che Turati aveva avuto ragione. Nel suo profetico discorso al Congresso di Livorno del 1921 (quello della scissione che diede luogo al Partito Comunista d’Italia) aveva tra l’altro detto: “…Ond’è che quand’anche voi aveste organizzato i soviet in Italia, se uscirete salvi dalla reazione che avrete provocata e se vorrete fare qualcosa che sia veramente rivoluzionario, qualcosa che rimanga, come elemento di società nuova, voi sarete forzati a vostro dispetto – a ripercorrere completamente la nostra via (riformista) la via dei socialtraditori di una volta, perché essa è la via del socialismo, che è il solo immortale, il solo nucleo vitale che rimane dopo queste nostre diatribe…“. Non fu quindi solo un perdente, Filippo Turati. Certo dovette soccombere al fascismo, commise degli errori tattici, fu prigioniero della sua lealtà verso il PSI la cui maggioranza massimalista e velleitaria considerava tradimento la partecipazione dei socialisti a un governo democratico di …