Dal fordismo alla rivoluzione 4.0

 

di Renato Costanzo Gatti Socialismo XXI Lazio |

 

Quando si affronta il tema di un nuovo modo di produzione, nello specifico la rivoluzione 4.0, non si può non riandare al testo gramsciano di “Americanismo e fordismo”, alle sue tematiche e soprattutto alla logica dialettica che pervade tutto quel testo che analizza appunto il mutamento di un modo di produzione.

“Americanismo e fordismo” esamina i rapporti strutturali di un nuovo modo di produzione (il fordismo) e le conseguenti ripercussioni sovrastrutturali a livello di formazione e plastica riplasmazione dell’uomo (il taylorismo). “Si può dire genericamente che l’americanismo e il fordismo risultano dalla necessità immanente di giungere all’organizzazione di un’economia programmatica e che i vari problemi esaminati dovrebbero essere gli anelli della catena che segnano il passaggio – appunto – dal vecchio individualismo economico all’economia programmatica: questi problemi nascono dalle varie forme di resistenza che il processo di sviluppo trova al suo svolgimento, resistenze che vengono dalle difficoltà insite nella societas rerum  e nella societas hominum ”.

E ancora l’americanismo è quell’epoca della storia del capitalismo segnatadal passaggio dal vecchio individualismo economico all’economia programmatica, dal capitalismo di libera concorrenza al capitalismo monopolistico. Un’epoca di rivoluzione passiva, contrassegnata dalla necessità di rinnovare (l’organizzazione del lavoro e della produzione, e conseguentemente la politica e la cultura) per conservare (l’assetto classista della società). Cuore dell’americanismo è il fordismo, cioè un modo di produzione che diventa egemonico, informando di sé la società e la sua ideologia.”

L’«economia programmatica» diventa sinonimo di «razionalizzazione» della produzione, razionalizzazione che richiede, tra l’altro:

1) una nuova organizzazione del lavoro, il taylorismo;

2) un nuovo tipo di uomo;

3) una nuova funzione dello Stato nel sistema capitalistico. 

Gramsci riconosce esplicitamente la razionalità intima del fordismo destinato a soppiantare il vecchio modo di produzione, anche se per la sua generalizzazione “sia necessario un processo lungo in cui avvenga un mutamento delle condizioni sociali e un mutamento dei costumi e delle abitudini individuali (…)”

Ed il maggior mutamento che il fordismo richiede, “il maggior sforzo collettivo verificatosi finora per creare con rapidità inaudita e con una coscienza del fine mai vista nella storia, un nuovo tipo di lavoratore e di uomo.” E la definizione di questo nuovo tipo di lavoratore e di uomo che il fordismo persegue, si trova con cinismo brutale nelle parole di Taylor: “gorilla ammaestrato”. ”Sviluppare nel lavoratore al massimo grado gli atteggiamenti macchinali e automatici, spezzare il vecchio nesso psico-fisico del lavoro professionale qualificato che domandava una certa partecipazione attiva dell’intelligenza, della fantasia, dell’iniziativa del lavoratore e ridurre le operazioni produttive al solo aspetto fisico macchinale”. “Avverrà ineluttabilmente una selezione forzata, una parte della vecchia classe lavoratrice verrà spietatamente eliminata dal mondo del lavoro e forse dal mondo tout court.”

Così come il fordismo elimina spietatamente quella parte della vecchia classe lavoratrice che immetteva nel suo lavoro una partecipazione attiva, la sua intelligenza, la sua fantasia, la sua iniziativa, per privileguare una nuova forza lavorativa di cui si utilizzano gli atteggiamenti macchinali ed automatici (e il pensiero va al Charly Chaplin di Tempi moderni), la rivoluzione 4.0 robotizzando tutte quelle mansioni macchinali ed automatiche elimina spietatamente dal mondo del lavoro tutte quei “gorilla ammaestrati” che aveva allevato nella fase fordista.

In una prima fase quindi, il robotismo elimina tutta la mano d’opera macchinale  e ritrova, come ai tempi precedenti il fordismo, la mano d’opera che produce intelligenza, fantasia, iniziativa, tutto quel bagaglio cioè che serve per progettare, dotare di software, gestire i robots, anzi, andando ancora più in là il compito di questi lavoratori del cervello, sono chiamati a produrre robots che generino nuove generazioni di robots sempre più avanzati ed autoapprendenti, fino a rendere superflui quegli stessi lavoratori del cervello che hanno prodotto i primi robots.

Il rapporto uomo macchina ha quindi il seguente cammino: dall’attrezzo che aiuta l’artigiano nella sua creazione manuale intellettuale, alla macchina che usa il lavoratore sottomettendolo ai suoi tempi e metodi; dall’uomo che inventa e progetta macchine ai robots che inventano e progettano nuove generazioni di robots eliminando l’uomo dalla produzione.

Se quindi l’attenzione è dedicata alla struttura di un nuovo modo di produzione, la dialettica dovrebbe focalizzarsi sulle conseguenze sovrastrutturali che investono i conseguenti coerenti rapporti fra le forze sociali, la regolamentazione di questi nuovi rapporti in particolare per quel che riguarda gli aspetti redistributivi, la collocazione nella società dei nuovi cittadini senza lavoro, la proprietà dei nuovi mezzi di produzione e, di conseguenza, le decisioni sul cosa e quanto produrre, la funzione dello stato in questa bufera che investe la società nel ridisegnare i fondamenti della comunità.

Scrive Gramsci che:  ”In realtà le maestranze italiane, né come individui singoli, né come sindacati, né attivamente né passivamente, non si sono mai opposte alle innovazioni tendenti a una diminuzione dei costi, alla razionalizzazione del lavoro, all’introduzione tecniche del complesso aziendale. (…) proprio gli operai sono stati i portatori delle nuove e più moderne esigenze industriali e a modo loro le affermarono strenuamente si può dire anche che qualche industriale capì questo movimento e cercò di accaparrarselo”.

Il punto centrale per il mondo del lavoro quindi, non è di opporsi alle innovazioni tecnico-produttive, quasi un luddismo di ritorno, ma di diventare i portabandiera di queste innovazioni che, è bene ricordarlo, sono un prodotto sociale cui il capitale è estraneo. Tutto il bagaglio di innovazioni deriva dalla società organizzata come scuola, università, centri di ricerca, enti culturali, ricercatori di base e applicati; basta chiedersi dove è nato internet, il GPS, l’IOT, i big data, l’I.A., la fisica quantistica etc. e la risposta vede lo Stato innovatore come protagonista di queste scoperte; lo stato italiano investe poco in questo campo (anche se i ricercatori italiani hanno riconoscimenti internazionali quale il Breakthrough 2019 per la fisica fondamentale assegnato al fisico del Cern Sergio Ferrara) e poco investe l’imprenditoria privata. Di conseguenza la produttività ristagna, il PIL non cresce, non crescono i salari e ristagnano i consumi.

Lasciare la gestione della rivoluzione 4.0 nelle mani dei possessori dei robots, che si appropriano del bene comune rappresentato dalla tecnologia e dalla produttività, sarebbe un errore strategico che disegnerebbe tutte le sistemiche sovrastrutturali in senso neo-schiavistico. La vera lotta di classe si sta svolgendo ora, in questo momento storico con due soggetti schierati su due fronti opposti: da una parte il capitale che nella ricerca del profitto vede nell’investimento nella produzione solo una delle opportunità di scelta tra l’altro superata, in questo momento storico, dall’investimento finanziario, dall’altra parte il mondo del lavoro, in cui io includo l’imprenditore schumpeteriano così come il ricercatore scientifico, che incarna un modello di accumulazione concentrato sul mondo della produzione e sulla sua razionalizzazione.

Proprio come Gramsci dobbiamo interrogarci sulla possibilità di una risposta diversa, rispetto all’americanismo, ai problemi dei nostri tempi; una risposta che dovrebbe essere trovata nel mondo del lavoro, cioè in coloro che “stanno creando, per imposizione o con la loro sofferenza, le basi materiali di questo nuovo ordine: essi devono trovare il sistema di vita originale e non di marca americana, per far diventare libertà ciò che oggi è necessità”.

E’ solo nel mondo del lavoro che si può elaborare, con la partecipazione di tutti i soggetti che in esso si riconoscono, una dialettica che ricerchi una coerenza storicamente determinata tra la struttura del nuovo modo di produzione sempre più sociale e le meccaniche sovrastrutturali e filosofiche che si elaborino sul fatto che il lavoro non è più una necessità per la quale bisogna produrre merci per sopravvivere, ma diviene una espressione della libertà di impegnarsi, occuparsi, lavorare per finalità più consone all’umanesimo.