24 APRILE-3 LUGLIO 1849: LA DIFESA DI ROMA

Una palla di cannone francese sparata dal Gianicolo verso il Quirinale durante la Repubblica Romana, e conficcata da allora in un gradino della galleria di palazzo Colonna a Roma

Fondazione Anna Kuliscioff

Estratto da E.T. Moneta Le Guerre, le Insurrezioni e la Pace nel Secolo decimo nono.

La difesa di Roma

PIO IX INVOCA LA GUERRA CONTRO ROMA

Vinto il Piemonte, trionfante la reazione quasi dovunque, non rimanevano più che Roma e Venezia, che tenevano ancora alto il vessillo della libertà e della indipendenza; e verso Roma e Venezia erano rivolti gli sguardi, le speranze, i voti di quanti in Italia nel grande naufragio non volevano ancora disperare delle sorti della comune patria. Essendo stato il Piemonte obbligato dai duri patti dell’armistizio, seguito alla catastrofe di Novara, di sciogliere i corpi militari formati da lombardi, ungheresi e polacchi, molti di questi, poiché Venezia era ad essi chiusa per terra e per mare, videro in Roma il campo dove potevano ancora prestare non inutili servizi alla causa d’Italia. Pio IX, rifugiato a Gaeta, più preoccupato degli interessi terreni che della sua missione spirituale, per ricuperare il perduto dominio temporale aveva invocato le armi delle potenze cattoliche. E Austria e Napoli e Spagna e il governo della Repubblica francese s’affrettarono a mandare i loro soldati contro i ribelli suoi sudditi. Il battaglione Manara, che aveva potuto lasciare il Piemonte e imbarcarsi a Porto Fino senza essere sciolto, arrivò davanti a Civitavecchia nel momento medesimo che vi sbarcava il corpo di spedizione francese, comandato dal gen. Oudinot, forte di 14.000 uomini.

IL CORPO FRANCESE DI SPEDIZIONE

Il municipio, sulla fede d’una dichiarazione firmata dall’aiutante di campo del generale in capo, che dichiarava “volere il governo della repubblica francese rispettare il voto delle popolazioni romane” e veniva come amico sul loro territorio, aveva mandato all’Oudinot un indirizzo, in cui diceva di confidare nella lealtà della Francia, nel suo spirito protettore di tutte le libertà, e ove questa fiducia fosse stata tradita si sarebbe appellato al giudizio dell’Europa. Seguìto lo sbarco, il triumvirato manda al gen. Oudinot una fiera protesta, “in nome di Dio e del popolo” contro l’inattesa invasione, e proclama “la sua ferma risoluzione di resistere e rende la Francia responsabile di tutte le conseguenze”. Il battaglione Manara, sebbene un commissario del governo romano l’avesse dichiarato al servizio della Repubblica, dovette chiedere il permesso di sbarcare al generale Oudinot. Questi, col pretesto che i bersaglieri lombardi non erano romani, pretendeva dovessero tornarsene d’onde erano venuti. Dopo molte difficoltà ottennero di poter sbarcare a Porto d’Anzio, col patto, accettato dal commissario romano non da Manara, di tenersi lontani da Roma e rimaner neutrali fino al 4 maggio. Quel giorno era il 24 aprile, e pel 4 maggio il gen. Oudinot calcolava di essere padrone di Roma. Appena sbarcati, i soldati francesi avevano, uniti al popolo, innalzato sulla principale piazza di Civitavecchia un albero della libertà, intrecciandovi le bandiere della repubblica francese e della repubblica romana.

Ma poco dopo occuparono militarmente il Castello e la Darsena, catturarono il battaglione romano Mellara, confiscarono 6.000 fucili, posero Civitavecchia in stato d’assedio, indi s’avviarono verso Roma. Vi arrivarono il mattino del 30 aprile, e fidente il gen. Oudinot, che al primo presentarsi di truppa francese, la reazione, vittoriosa in città, l’avrebbe accolto festosamente, diede ordine alle sue colonne d’impadronirsi a colpi di cannone e a bajonetta di tre porte della città, per trovarsi poi tutte riunite sulla piazza del Vaticano. Qui diamo la parola ad uno scrittore non sospetto, il milanese Emilio Dandolo, cattolico e non repubblicano, il quale nelle sue Annotazioni storiche, I Volontari e i Bersaglieri lombardi, così parla dei romani: Ai primi colpi di cannone il popolo si recò in folla ed armato verso Porta Cavalleggieri; le donne dalle finestre facevan coraggio agli accorrenti; i saluti, gli evviva, la risoluta allegria erano grandissimi.

I francesi s’erano avvicinati alle mura spensieratamente ed in piccolo numero. Assaliti impetuosamente dalla legione Garibaldi, sostenuta dai coraggiosi carabinieri, benché resistessero essi in principio col solito loro coraggio, furono costretti a volgere addietro in disordine, lasciando nelle mani dei romani 520 prigionieri, molti morti e qualche ferito. Impossibile descrivere l’entusiasmo di Roma a siffatte notizie. Tutti si preparavano lietamente ad un secondo assalto.

Qualche giorno dopo Oudinot chiese il cambio dei prigionieri. Il triumvirato vi si ricusò, non volendo ammettere la parità del cambio, perché i prigionieri francesi erano stati catturati in buona guerra , il battaglione Mellara invece a tradimento e senza battaglia. Ma cavallerescamente, rimandò i prigionieri, con questo decreto: Art.1 – I francesi fatti prigionieri nella giornata del 30 aprile sono liberi, e verranno inviati al campo francese. Art. 2 –Il popolo romano saluterà di plauso e dimostrazione fraterna, a mezzogiorno, i bravi soldati della repubblica sorella…

Così rispondeva Roma alla perfidia del governo della repubblica francese. Diciamo il governo e non la Francia, perché fu il governo, che, violando le intenzioni e i propositi chiaramente manifestati dall’Assemblea nazionale francese. Ordì, combinò e condusse a termine nel modo più sleale e più iniquo la spedizione Oudinot contro la repubblica romana. Siccome però questa spedizione, più ancora del mancato soccorso della Francia nel 1848, fu dal 1849 in poi l’argomento più formidabile, direbbesi il cavallo di battaglia, di cui i nemici della democrazia e della fratellanza dei popoli si servirono in ogni tempo, per tener vivo in Italia un grande odio contro la Francia, è dover nostro, come abbiam già fatto, a proposito del mancato soccorso della Francia alla Lombardia nel 1848, sfatare la iniqua leggenda, ricorrendo a fonti storiche genuine.

LA DEMOCRAZIA FRANCESE INGANNATA

Era presidente della repubblica Luigi Napoleone Bonaparte, il quale, sostenuto dal partito militarista e nazionalista, aveva bisogno di cogliere le occasioni che potevano condurre ad una buona guerra esteriore; e, già divisando il ristabilimento dell’impero, doveva mirare a distruggere una repubblica fuori di Francia, per abituare i francesi a farne senza nel loro proprio paese. Mettendo le armi di Francia a servizio del papato, si assicurava anche l’appoggio del partito clericale, così da non temer più, per la realizzazione del suo sogno imperiale, che l’opposizione dei puritani della repubblica. Non tutti i ministri erano entrati nella cospirazione bonapartista, ma essendo tutti, con Odilon Barrot presidente del Consiglio, nemici dei socialisti e della rivoluzione, pensavano che la forza del governo per tener in freno il partito rivoluzionario si sarebbe accresciuta con una spedizione che avrebbe dato alla Francia una diretta influenza nelle cose d’Italia e una maggiore autorità in Europa. Ma per mandare ad effetto questa loro politica, il presidente della repubblica e i ministri dovevano tener conto degli umori della maggioranza dell’assemblea, la quale, sebbene formata da tiepidi repubblicani e da conservatori più o meno liberali, era però rispettosa dei principi sanciti dalla Costituzione, di cui il V articolo diceva che mai le forze della Francia sarebbero state adoperate a comprimere la libertà d’altri popoli, bensì ad aiutarli quando il suo soccorso fosse richiesto. La domanda di un credito di 1,200,000 franchi per il mantenimento, sul piede di guerra per tre mesi, di un corpo di spedizione detto del Mediterraneo, fu dal governo presentata all’Assemblea nazionale francese il 16 aprile. Ecco alcune delle parole, riportate l’indomani dal Moniteur, con cui Odilon Barrot motivò la richiesta del governo:

L’Austria prosegue le conseguenze della sua vittoria; essa potrebbe prevalersi dei diritti di guerra riguardo a Stati più o meno impegnati nella lotta scoppiata fra essa e la Sardegna. La Francia non può rimanere indifferente. Il protettorato dei nostri connazionali, la cura di mantenere la nostra legittima influenza in Italia, il desiderio di contribuire a far ottenere alle popolazioni romane un buon governo, fondato su istituzioni liberali, tutto c’impone il dovere di usare dell’autorizzazione che ci avete accordato…. Qui si alludeva all’autorizzazione accordata alla vigilia dell’ultima guerra, finita a Novara, fra Austria e Piemonte, di occupare un punto del territorio italiano, nel caso che l’Austria vittoriosa si fosse spinta fino a Torino. Ciò che possiamo affermare fin d’ora è che dal fatto del nostro intervento usciranno efficaci garanzie per gli interessi del nostro paese e per la causa della libertà.

L’assemblea per l’esame della domanda del suddetto credito, nominò una Commissione con uomini di vari partiti, della quale fu relatore Giulio Favre. Questi, ch’era repubblicano e amico d’Italia, riferì che, chiamati davanti alla Commissione e interrogati il presidente del Consiglio e il ministro degli esteri, risultò dalle loro spiegazioni che il pensiero del governo non era quello di far concorrere la Francia al rovesciamento della repubblica che esiste presentemente a Roma. La vostra Commissione prese atto di queste dichiarazioni positive. Figlia d’una rivoluzione, la Repubblica francese non potrebbe, senza venir meno a sé stessa, cooperare all’asservimento d’una nazionalità indipendente. La vostra Commissione ha compreso che autorizzando il potere esecutivo a occupare un punto dell’Italia oggi minacciato, voi gli dareste per missione di porre un limite alle pretensioni dell’Austria.

Il presidente del Consiglio, interpellato, rispose: Nulla ritiro delle parole che ho pronunciato alla Commissione e che furono qui riprodotte. Dopo siffatte dichiarazioni il voto della Camera non era più dubbio. Vi fu soltanto un deputato, che ebbe allora il presentimento di ciò che doveva poi accadere, e fu Ledru-Rollin, il capo del partito radicale. Ecco le sue parole: Si interverrà per ristabilire il papa colla forza. Non è questo il sentimento dell’Assemblea; è la conclusione forzata dell’intervento che state per votare.

No, no (risposero in coro i ministri); Ledru-Rollin continuò: Io sfido chiunque votò la Costituzione di salire a questa tribuna e spiegare come, davanti all’art. V, che giammai le forze francesi saranno adoperate contro la libertà d’un popolo, si possa conciliare questo testo coll’intervento che si fa in questo momento contro la libertà del popolo romano.

Rispose il gen. Lamoricière, quello che nel 1860, divenuto generale dell’esercito papalino, battuto e messo in fuga a Castelfidardo, esperimentò a sua propria vergogna se gli italiani non sapevano battersi, come aveva detto dalla tribuna francese. Rispose a G. Favre ch’egli aveva votato l’art. V della Costituzione, ma non credeva di essersi messo in contraddizione votando, come membro della Commissione, il rapporto da essa presentato all’Assemblea, perché le forze francesi andranno in Italia per salvare la libertà.

Se avessimo creduto che la Francia dovesse andare in Italia per agire nel senso austriaco, giammai avremmo portato alla tribuna il rapporto che qui fu recato.

Il Presidente del Consiglio: E noi saremmo colpevoli, se lo facessimo.

Fu dopo queste chiare, precise e solenni dichiarazioni, che l’Assemblea francese votò il credito domandato dal governo per la spedizione detta del Mediterraneo. E’ facile immaginare la sorpresa e lo sdegno che dovettero provare i deputati francesi, che avevano dato quel voto in piena buona fede, quando ebbero notizia del carattere di vera ostilità contro la Repubblica romana preso dal corpo di spedizione, subito dopo sbarcato a Civitavecchia, e del combattimento del 30 aprile, in cui le truppe romane furono costrette a respingere la forza colla forza. Interprete di quei sentimenti fu lo stesso Giulio Favre, che nella seduta del 7 maggio chiamò, a dar conto dei fatti avvenuti, i ministri tutti in flagrante contraddizione colle loro solenni e precise dichiarazioni. Faccio qui (egli disse, rivolto all’Assemblea) un appello solenne alla vostra memoria. Fu detto che la spedizione francese non poteva avere per oggetto di proteggere una forma di governo, che sarebbe respinta dalla popolazione romana.

Una voce: E’ vero! G. Favre: Fu perfettamente convenuto, come principio, che una simile pretesa e la sua messa in esecuzione sarebbero un attentato contro l’umanità, non meno che contro la libertà. Tale fu in sostanza la parola d’onore che ci fu data; ed è in conseguenza di questa parola d’onore, che il rapporto del quale io fui relatore, approvato dalla Commissione, fu portato a questa tribuna.

Il presidente del Consiglio, Odilon Barrot, colla spudoratezza della quale altri uomini di Stato, anche in tempi recenti, di Francia e di altri paesi, diedero prove più volte, osò sostenere che le istruzioni date al comandante il corpo di spedizione non erano contrarie alle dichiarazioni fatte dal governo all’Assemblea. Questa, secondo le norme parlamentari, nominò, per l’esame della questione, una Commissione, della quale fu relatore un uomo onesto e liberale, il rappresentante Sènard. Fra i documenti presentati dai ministri alla Commissione, ve n’erano, mandati dal rappresentante francese a Gaeta, che dicevano la truppa francese non avrebbe trovato, andando a Roma, alcuna resistenza, che, “tout le monde y accueillerait les soldats français”. Il console francese a Civitavecchia aveva invece prevenuto il suo governo, che quasi tutta la popolazione romana non voleva più saperne del governo papalino, ed era assolutamente contraria a qualunque intervento straniero.

Il Sénard nel suo rapporto all’Assemblea disse: Le istruzioni date al comandante la spedizione ci parvero scostarsi dalle dichiarazioni fatte alla tribuna e dalle risoluzioni prese dall’Assemblea. Infatti la Repubblica romana, che non doveva essere né assalita, né difesa, è oggi direttamente assalita.

In conseguenza, in nome della Commissione, il relatore propose all’Assemblea, la seguente deliberazione: L’Assemblea nazionale invita il Governo a prendere senza indugio le misure necessarie, affinchè la spedizione d’Italia non sia più oltre sviata dallo scopo che le era assegnato.

Non ostante gli sforzi, vale a dire i sofismi e le bugie del ministro degli esteri, Drouyn del Lhuys, uno dei capi della congiura bonapartista, per difendere il governo dall’accusa contenuta nell’ordine del giorno proposto all’Assemblea, dopo una viva discussione, esso fu votato da 328 voti contro 241.

LA MISSIONE LESSEPS

Per mostrarsi ossequente a questo voto, il Governo francese fece partire l’indomani pel quartier generale e per Roma, come suo agente straordinario, un diplomatico di molto ingegno, Ferdinando Lesseps, divenuto poi celebre col taglio del’’istmo di Suez. Dandone notizia all’Assemblea, il presiedente del Consiglio disse che l’inviato doveva portare sul teatro stesso della spedizione l’espressione fedele, esatta del pensiero dell’Assemblea e di quello del Governo. Egli è partito coll’istruzione formale d’impiegare ogni sua influenza per far uscire dal nostro intervento garanzie seriee reali di libertà per gli Stati romani.

Lesseps, prima di partire, per non lasciare adito ed equivoci, che potevano nascere da alcune espressioni troppo vaghe delle istruzioni che aveva ricevuto, disse al ministro che se il Governo non intendeva seguire una politica franca e decisa, meglio sarebbe stato che la spedizione di Civitavecchia non si fosse fatta; che, impegnati come si era, ora trattavasi di riparare al male fatto coll’affare del 30 aprile. In conclusione Lesseps accettò come seria e positiva una missione, che il Governo non gli aveva affidato se non come un’ingannevole lustra, per aver tempo di guadagnare nuovi partigiani nell’Assemblea, e a preparare l’opinione pubblica al delitto, che stava per compiere. Lessps arrivò al quartier generale di Oudinot il 15 maggio, e tutta la seconda metà del mese fu da lui impegnata in trattative col triumvirato (Mazzini, Armellini e Saffi) e col generale in capo. Dopo molte difficoltà, sollevate quasi sempre dal generale in capo, il quale pur durante l’armistizio, stabilito di comune accordo per le trattative, aveva continuato i lavori d’approcciocontro Roma, finalmente il 30 maggio erasi riuscito a combinare, fra esso Lesseps e il triumvirato, un progetto di convenzione, che con lievi modificazioni fu dall’Assemblea del popolo romano approvato. Diceva: Art. I. – L’appoggio della Francia è assicurato alle popolazioni degli Stati romani; queste consideravano l’esercito francese come un esercito amico, che viene per concorrere alla difesa del loro territorio. Art. II. – D’accordo col Governo romano, l’esercito francese prenderà gli accampamenti esterni, tanto per la difesa del paese, che per la salubrità delle truppe. Art. III. – La Repubblica francese assicura da qualunque invasione straniera i territori da essa occupati. Art. IV. – S’intende che la presente convenzione dovrà essere sottomessa alla ratifica della Repubblica francese. Art. V. – In nessun caso gli effetti della presente convenzione non potranno cessare che quindici giorni dopo la comunicazione ufficiale della non ratificazione.

Ricevuta comunicazione di questa convenzione, il gen. Oudinot la dichiara nulla, come contraria allo spirito della spedizione. Il generale e Lesseps vengono ad aperta rottura. Lesseps scrive al Triumvirato che la convenzione dovrà essere mantenuta, e partirà immediatamente per Parigi per appoggiarla presso il suo governo. Il 1° giugno stava facendo i preparativi della partenza, quando gli fu comunicato un dispaccio del ministro degli esteri, che dichiarava finita la sua missione, e gli intimava di far ritorno immediatamente a Parigi. Il Governo francese, sicuro ormai di avere tratto in inganno l’opinione pubblica con false notizie sullo spirito delle popolazioni romane, non avendo più bisogno d’indugi, gettava la maschera.

AUSTRIACI E NAPOLETANI

Mentre i francesi, dopo la lezione loro toccata il 30 aprile sui poggi che si elevano sulla destra del Tevere, a due o tre chilometri da Roma, attendevano rinforzi e il parco d’assedio per poter intraprendere contro Roma un assedio regolare, la Repubblica romana doveva far fronte ad altri pericoli. Gli austriaci, dopo essersi impadroniti di Ferrara, arrivarono l’8 maggio con 6 o 7 mila uomini e 13 pezzi di artiglieria sotto le mura di Bologna. Li comandava il gen. Wimpffen.

Intimata da lui la resa alla città, il popolo, contro il parere del colonnello Marescotti, proclamò la resistenza ad ogni costo. Parecchi assalti dei nemici furono respinti, ma dopo due giorni di bombardamento il municipio fu costretto a capitolare. Un egual sorte subì Ancona, ma dopo un assedio regolare e una resistenza sostenuta con ammirevole intrepidezza durante 25 giorni dalla cittadinanza e dalla truppa, della quale fu degnissimo capo il comandante la piazza, Livio Zambeccari. Il re di Napoli, che s’era immaginato di poter entrare in Roma, senza grave rischio, alla coda dei francesi, pur esso alla testa d’un esercito di 20 mila uomini, s’era avvicinato a Roma. Garibaldi in una prima spedizione su Palestrina li respinse dopo poche fucilate, e l’indomani ripartì per Rona, pel timore che in quel frattempo i francesi avessero pensato ad assalirla. Ne approfittarono i napoletani per occupare più larga zona di terreno, e avvicinarsi vieppiù a Roma. Allora fu allestita una seconda spedizione, di 10 mila uomini, di cui prese il comando lo stesso generale in capo, Roselli.

Roma fu lasciata alla custodia del popolo, che fidente e lieto accorse alla difesa delle mura e delle artiglierie. Arrivate le truppe romane a Palestrina, la trovarono sgombra di nemici. Pernottarono a Valmontone, dove si seppe che i regi si erano concentrati a Velletri. Fu deciso di assalirli l’indomani con tutte le forze. All’alba Garibaldi, senza darne avviso al generale in capo, si diresse colla sua legione su Velletri. I regi, vedendone lo scarso numero, uscirono dalla città per assalirla. Respinti nel primo scontro, ripresero presto il terreno perduto, aiutati dalla loro cavalleria. La legione Garibaldi si gettò immantinente nelle vigne che fiancheggiano la strada, e con un fuoco ben nutrito obbligò i regi a ritirarsi a tutta corsa in città. Arrivato, quasi a passo di corsa, il resto dell’esercito romano, quando questo si accingeva a penetrare in città di viva forza, si vide l’esercito napoletano in piena ritirata. Il Triumvirato avrebbe voluto che la marcia di tutto l’esercito fosse continuata e fosse invaso il territorio napoletano. Poi, sulle osservazioni ragionevoli del gen. Roselli, affidò tale incarico al generale Garibaldi, che fu poco dopo richiamato, quando il Governo si accorse della necessità di tener riunite in Roma le poche forze della Repubblica. “ Ma da quel momento” (scrisse Pisacane nel suo libro sulla guerra d’Italia negli anni 1848 e 1849) “non fuvvi più nell’esercito la medesima coesione, che fino a quell’epoca era regnata”.

IL 3 GIUGNO

Degno esecutore di una iniqua trama contro un libero popolo, il generale Oudinot, invitato con lettera dal generale Roselli a non denunciare l’armistizio senza un preavviso di 15 giorni, rispose con un rifiuto, dichiarando che gli ordini del suo governo gli prescrivevano di “entrare in Roma il più presto possibile” e “soltanto per dar tempo ai suoi connazionali di lasciar Roma, se l’avessero voluto, differisco (diceva) l’assalto della piazza fino a lunedì mattina almeno”.

Alla lettura di questi strani documenti, restammo atterriti. I nostri divisamenti andavano di nuovo in fumo. Ancora un giorno e i francesi sarebbero tornati all’attacco. Noi ci preparammo in un triste silenzio a questa novella lotta, sperando sempre in Lesseps, nel Governo e nella nazione francese.

Così Emilio Dandolo nel suo libro. Il “triste silenzio”, con cui egli e i suoi compagni si apprestarono alla novella lotta, non impedì che essi nei sanguinosi combattimenti che avvennero ogni giorno fino alla caduta di Roma fossero fra quelle schiere di valorosi i più prodi. Dando al corpo di spedizione l’ordine di entrare in Roma al più presto possibile, il Governo violava perfidamente la risoluzione precisa e formale dell’Assemblea nazionale, che aveva consentito la spedizione a patto che fosse rispettata e difesa la libertà del popolo romano. Era però destino che in questa impresa della Francia, non ancora di nome, ma di spirito e di tendenze imperialista, tutto avesse l’impronta della slealtà e del gesuitismo.

Nella sua lettera al gen. Roselli, Oudinot aveva scritto che avrebbe differito l’assalto fino al lunedì mattina almeno. Lunedì, era il 3 giugno; l’assalto cominciò invece la notte di domenica, 2 giugno, Oudinot credette di poter scrivere nel suo rapporto, che aveva bensì promesso di non attaccare “la piazza di Roma”, ma non gli avamposti che la difendevano. – Tale la lealtà del militarismo francese. Dalle ville Panfili, Corsini (Quattro Venti) e Valentini (il Vascello), poste sopra un altipiano fuori di porta San Pancrazio, gli avamposti romani dominavano l’ala sinistra del campo francese. Non erano più di 400, e dormivano senza le buone cautele militari, fidenti nella parola del generale Oudinot, quando la notte del 2 giugno si videro ad un tratto accerchiati da più battaglioni francesi. I 200 uomini che occupavano un bosco a sinistra della villa Panfili, dovettero deporre le armi. Gli altri 200 uomini, facendo continuo fuoco, incalzati davvicino dalle baionette di tiratori francesi, si raccolsero intorno a villa Corsini. Assaliti anche lì da forze superiori, si ritirarono entro la villa Valentini. Di là tentarono di riprendere la prima posizione, ma furono respinti. Essi soli avevano sostenuto durante tre ore gli assalti dei battaglioni francesi. Così, ingannando la buona fede italiana, Oudinot si trovò padrone, quasi senza spargimento di sangue, d’una importantissima posizione, da cui poteva battere a suo agio le mura e la Porta S. Pancrazio. Ma allora, quando ci credeva di avere già in pugno la vittoria, cominciò uno di quei combattimenti, di cui per trovare esempi somiglianti, bisognerebbe risalire alle epoche leggendarie di Grecia e di Roma antiche. Dato collo sparo del cannone l’allarme, le truppe in un’ora furono pronte. La divisione Garibaldi, giunta alle 6 a Porta San Pancrazio, marciò subito, senza aspettare le altre truppe, all’assalto delle posizioni cadute in potere dei francesi. La più elevata era la villa Corsini, o Casino dei Quattro Venti, da cui i francesi fulminavano i romani con ben aggiustati colpi.

Garibaldi diè ordine al colonnello Masina, suo capo di stato maggiore, di riprendere quel posto importante. Ricevuto quell’ordine, senza attendere rinforzi, senza riunire i legionari, poco lontani, Masina si volge agli ufficiali di Stato maggiore gridando: andiamo noi, e tutti alla corsa si lanciano all’assalto, sfidando la grandine di palle che partono dal micidiale casino. Il troppo animoso Masina, già precedentemente ferito in una spalla, cade mortalmente colpito da una palla, che gli trapassa il petto. La sua caduta non arresta gli altri, che cacciano a tutta corsa i cavalli entro il casino, si spingono su per l’ampia scalea che mette al primo piano, sorprendono i tiratori nemici, e li volgono in fuga. Ma questa loro vittoria durò poco. Alle 9 del mattino, i francesi, avendo portato al combattimento le loro riserve, occuparono tutte le ville che circondano e dominano la Porta di San Pancrazio. La Legione italiana, dopo sforzi incredibili ma alquanto disordinati, dopo aver lasciato sul campo quasi tutti i suoi ufficiali, i quali, ancor pieni dei ricordi di Montevideo, avevano combattuto più da soldati che da ufficiali, aveva dovuto mettersi in salvo entro il Vascello, davanti alle folte schiere dei francesi, che avanzavano da tutte le parti. Arrivarono allora i 600 bersaglieri lombardi, “gente addestrata alle manovre della catena e alle mosse di linea”. Emilio Dandolo e Pisacane e altri autorevoli scrittori militari fanno torto a Garibaldi di avere ordinato gli assalti con forze ogni volta impari allo scopo , anche quando poteva disporne di maggiori.

Ogni compagnia – scrisse Emilio Dandolo nel già citato libro – fece nobilmente il suo dovere; ma tutte, perché adoperate isolatamente e successivamente, dovettero perdere quello che avevano guadagnato.

Quattordici ore era durato il combattimento, o piuttosto la serie dei combattimenti. Dieci volte la Legione italiana e i bersaglieri Manara avevano caricato i francesi alla baionetta mettendoli in fuga.

Garibaldi nel bollettino di quella storica giornata scrisse: La notte venne, lasciando nostro il campo di battaglia, il nemico ammirato del nostro valore, ed i nostri desiderosi di riprendere, come fecero nel mattino seguente, la battaglia così valorosamente combattuta il giorno prima. Gli ufficiali tutti, specialmente dello Stato maggiore del generale, della Legione italiana e dei bersaglieri Manara, mostrarono immenso coraggio, e furono degni di ben meritati elogi.

Non è possibile in questo sommario far parola di tutti gli atti di straordinario valore compiuti in quella giornata da ufficiali e da militi; ma di alcuni non possiamo tacere. Le tre compagnie dei bersaglieri Manara, le sole del battaglione che avevano preso parte al combattimento, ebbero 96 uomini feriti o morti, fra i quali 3 ufficiali.

I nostri soldati (citiamo anche qui Emilio Dandolo, perché scrittore rigorosamente veritiero, alieno da ogni esagerazione) mantenuti per 10 ore sotto il fuoco nemico, vedendosi ad ogni momento cadere numerosissimi i compagni e gli ufficiali, continuarono a combattere sempre col più freddo coraggio. Si spinsero più di dieci volte ad attaccare il nemico, potentissimo per la posizione e pel numero; feriti leggermente, correvano all’ambulanza a bendarsi, poi tornavano. Moltissimi in tal modo ebbero due o più ferite. Il sergente Monfrini, giovinetto di 18 anni, aveva da un colpo di baionetta, rotta la mano. Pochi minuti dopo ricompariva nelle file- – Che vieni a far qui, gli domandò Manara. Non servi a nulla, ferito come sei; vattene. – Colonnello, rispose il giovane, mi lasci qui: alla peggio servirò a far numero. In un attacco ei faceva numero difatti fra i più avanzati, e colpito una seconda volta nella testa cadde e spirò. Il tenente Bronzetti, saputo che una sua ordinanza, a cui portava singolare affezione, era caduto morto a Villa Corsini, prese con sé quattro uomini risoluti, si spinse di notte fin negli avamposti nemici, ne levò il cadavere, cui diè pietosa sepoltura.

Il tenente Mangiagalli, scagliatosi con pochi soldati nella villa Valentini, e rinforzato poi dal bravo capitano Ferrari, ebbe a sostenere la più tremenda resistenza, e a combattere per le camere e sulle scale, ove i fucili non servivano a nulla. Ebbe rotta, nel calare un fendente, la sciabola, e dovette difendersi colla mezza rimastagli, finché, uccisi molti nemici e fatti numerosi prigionieri, restò la villa ai nostri. Il soldato Dalla Longa, milanese, vistosi cadere allato il caporale Fiorani ferito a morte, mentre dall’irrompente numero dei nemici venivano i nostri rincacciati, non volendo lasciare il moribondo amico senza soccorso, se lo prende in spalla, e mentre lentamente ritraevasi a salvamento, colpito al petto cadde morto vicino al compagno.

Le perdite di quella giornata furono, non per il numero, ma per il valore e le qualità dei caduti, le più dolorose di tutto l’assedio. I colonnelli Masina, Daverio e Pollini, i capitani Morosini ed Enrico Dandolo, il fiore della gentilezza, dell’ingegno e della coltura erano fra i morti; ferito e condannato a morte non lontano Goffredo Mameli, che giovanissimo aveva dato all’Italia inni nobilissimi vibranti di amor patrio, e che vivendo avrebbe potuto produrre opere immortali. Oh! la guerra è bella, poetica, stupenda, veduta da lontano, attraverso le enfatiche e soventi bugiarde frasi dei bollettini, o letta nei libri di scrittori venali o di guerrieri che, chiuso l’animo a sensi veramente umani, esaltano l’intrepidezza dei propri commilitoni, e qualche volta di sé stessi. E’ certamente ammirando lo spettacolo d’uomini i quali, nel fior dell’età, disprezzando le ricchezze e gli agi della vita, rendendosi superiori alla natura umana, non curano il numero dei nemici e vanno impavidi contro la morte, uno contro dieci, per la patria, o per una qualsiasi grande idea libratesi al di sopra degli interessi individuali. Si comprende che vi siano giovani i quali, al racconto di eroici episodi delle guerra che non videro, vorrebbero che l’era delle battaglie fosse riaperta, perché sentono che saprebbero rinnovare i prodigi di valore degli eroi dell’indipendenza e della libertà. Ma sono desideri che quelli che le guerre videro pur una sol volta, lasciano a coloro in cui gli istinti di ferocia non sono ancora spenti.

Leggansi questi altri brani delle “Annotazioni storiche” di Emilio Dandolo: La miseranda processione dei feriti e dei morti che venivano portati su barelle di tela, cominciava a farsi fitta e dolorosa, perché erano allora i nostri che ne facevano le spese. Ad ogni ferito che vedeva portarsi da lungi, io tremavo che fosse un viso troppo caro per me. Passò prima, ferito nel petto, il mio capitano Rozat…Poi veniva portato Lodovico Mancini, giovane sottotenente della compagnia di mio fratello, che aveva una coscia ed un braccio trapassati. Fra le contorsioni che gli strappava il dolore, non seppe che dirmi: tuo fratello e si arrestò come impaurito. Domandai finalmente ad un bersagliere, che conobbi della 2^: Che n’è del capitano? “E’ caduto adesso mortalmente ferito”, mi rispose. Io non potrei dire quello che provai a quelle parole. Era la prima volta che l’idea d’una morte così tremenda mi si affacciava netta e sicura alla mente atterrita….e in quel momento, anche per la vista di tanto sangue e di tante vite perdute mi si mostrava per la prima volta a sangue freddo in tutta la sua orribile realtà, l’idea di sopravvivere a chi mi rendeva cara e lieta la vita, mi fece rabbrividire. Io pensavo: forse mio fratello spira a dieci passi da me; ed io non posso baciarlo prima che muoia! Sarebbe stato male allontanarmi dai miei soldati, già commossi a tanti lagrimevoli quadri. Percorrevo in su e in giù la fronte della compagnia, mordendo disperatamente la canna di una pistola per impedire alle lagrime che mi bollivano dentro di sgorgar troppo forti ad accrescere lo sgomento dei miei.

Finalmente Manara da un casino allora preso ai francesi, mi fe’ cenno di salire. Tutti gli altri si allontanarono, perché non si sentivan la forza di assistere alla lagrimevole scena. “Non correre a cercar tuo fratello, mi disse quel povero mio amico, stringendomi la mano, non sei più in tempo: ti farò io da fratello”. Io caddi boccone per terra, indebolito dalla ferita mal concita, dalle angosce e dal dolore della notizia….

L’ASSEDIO E LA CADUTA DI ROMA

Accortisi i generali francesi, dalla resistenza del 3 giugno, che Roma non si poteva prendere né di sorpresa, né con facile assalto, bensì dopo un regolare assedio, pensarono di completare e perfezionare le loro trincee, nella quale opera il genio francese dimostrò un’ammirevole valentia. Dal canto suo Garibaldi non volle più esporre in troppo arrischiati combattimenti le vite preziose dei componenti le sue migliori truppe. Combattimenti ne avvenivano tuttavia quasi ogni giorno, ma non più colla veemenza di quelli del 3 giugno. Il giorno 12 Garibaldi mandò due compagnie del reggimento Unione ad assalire i lavori di approccio dei francesi; quei valorosi si avanzarono sino ai piedi della trincea senza trar colpo, ma accolti a bruciapelo da un vivissimo fuoco, dovettero ritirarsi. Quasi compiuti i lavori d’assedio, Oudinot intimò la resa della città, ripetendo ancora una volta, in un proclama ai romani, l’impudente menzogna che i francesi venivano a proteggere l’ordine e la libertà. Il generale Roselli, l’assemblea e il popolo risposero con un rifiuto. Nella sua risposta il Triumvirato diceva: Abbiamo promesso di difendere, eseguendo gli ordini dell’Assemblea, il vessillo della repubblica, l’onor del paese e la sanità della capitale del mondo cristiano. Noi manterremo la nostra parola.

La mattina del 13 l’assediante smascherò le sue batterie. Da quel giorno la lotta fu continua fra le artiglierie delle due parti. Gli sforzi dei francesi erano specialmente diretti contro i bastioni 6 e 7, fra Monte Mario e Monte Milvio. La notte del 21 quei bastioni caddero in potere dei francesi. Collocatevi le loro potenti batterie, tenute al coperto da buone trincee sollecitamente costrutte, i francesi poterono di là fulminare per più giorni i vicini bastioni 8 e 9 e l’interno della città. Il 29 il fuoco dell’assediato era quasi spento. Nella notte dal 29 al 30 l’assediante, aperta una breccia, s’impadronì del bastione N. 8, e i soldati che lo difendevano, assaliti sui fianchi e di fronte, furono quasi tutti uccisi a colpi di baionetta.

Roma, assalita da tutte le parti, è prossima a soccombere. I francesi sono padroni delle posizioni che dominano la città. Trastevere può da un’ora all’altra essere invasa. Le legioni romane, la legione italiana, le colonne Medici, Manara, Arcioni, vedovate di quasi tutti gli ufficiali, morti o feriti, dopo tanti giorni di lotta, sono impossibilitate a continuarla. L’assemblea per avvisare all’urgenza del pericolo, chiamò, per consiglio, il gen. Garibaldi. Egli aveva veduto spirare in quel momento il prode Manara. Egli propose di uscire in massa, militi e popolo, dalla città e di continuare la lotta , di cresta in cresta, sulle vette dell’Appennino. L’Assemblea, ammirandola, non credette praticabile la disperata proposta, e adottò quasi unanime il seguente decreto: “L’Assemblea Costituente romana cessa una difesa divenuta impossibile, e sta al suo posto”. Il Municipio, volendo mostrarsi degno dell’Assemblea, dei triumviri e del nome romano, non accettate le condizioni di capitolazione poste dal generale Oudinot, dichiara “di ricevere passivamente i francesi in città, protestando di cedere unicamente alla forza, e inculcando al popolo di sopportare dignitosamente tanta sventura”. I soldati francesi entrarono in Roma il 3 luglio, accolti in alcuni quartieri da un cupo silenzio, in altri da parole di profondo risentimento agli invasori e al papa, e di devozione all’Assemblea, ai triumviri, al Municipio, alla Repubblica. In quel medesimo giorno il presidente dell’Assemblea, proclamava dal Campidoglio la Costituzione della Repubblica romana, che è una delle più liberali fra quante fino a quel giorno erano state date a libero popolo.

LA DIFESA DI ROMA IMPROVVIDA?

Tale la giudica Pisacane; dal punto di vista militare, perché Roma è città di estesissima cinta, e quasi aperta sulla sponda sinistra del Tevere; dal punto di vista politico, perché “determinava la perdita irreparabile della Repubblica, riducendo la sua esistenza a questione di tempo”. Altri, non meno caldi patrioti di Pisacane, biasimarono il prolungamento della lotta, dopo che, sicuri i francesi dietro le loro trincee, e muniti com’erano di un parco d’assedio formidabile, ogni speranza di vittoria dalla parte dei romani non poteva ragionevolmente serbarsi. Dal punto di vista militare e umanitario questi censori hanno indubitabilmente ragione, ma diverse e molto importanti considerazioni giustificano quella lotta prolungata fino agli estremi. Pisacane non tenne conto che obbiettivo del governo e dei reazionari di Francia e del corpo di spedizione era Roma, e il pretesto era che il governo della repubblica non fosse voluto dai romani, ma imposto da una fazione composta specialmente di forestieri. Era dunque di somma importanza che i romani, popolo ed esercito, dimostrassero con un’ostinata difesa, che proprio essi di governo papale non volevano più saperne, e che la repubblica era il governo di loro elezione. Noi siamo disgraziatamente ancora in una epoca in cui i popoli sono considerati secondo le forze di cui dispongono, o il coraggio che dimostrano per la difesa o la rivendicazione dei loro diritti. Se un popolo è tiranneggiato da un Governo domestico, o soggetto a dominazione straniera, si giudica generalmente che tale stato se lo sia meritato. Così il popolo libero e che sta bene non si sente in obbligo di dar mano a chi è caduto perché risorga. L’Italia dopo più secoli di servaggio, a cui pareva rassegnata, era stata giudicata una nazione di imbelli.

L’Europa s’era tuttavia ricreduta sul conto del nostro paese, dopo averlo veduto con tanta unanimità e costanza di propositi strappare a una a una ai suoi principi, che pur resistevano, le più importanti riforme; e quando la Lombardia e il Veneto insorsero quasi senz’armi contro un numeroso e agguerrito esercito, cacciandolo dalle città e costringendolo a rintanarsi nelle fortezze. Ma l’esito infelice delle due campagne dell’esercito regolare, al Mincio e a Novara, vinto dopo una sola giornata contraria, aveva fatto rinascere in Europa l’antico pregiudizio. Era dunque una necessità e fu un bene dimostrare al mondo che il coraggio per la riconquista dei propri diritti e la difesa della propria dignità, gli italiani lo avevano al pari di qualunque popolo civile. E fu ventura che proprio il paese dalla cui tribuna era stata proferita la sprezzante sentenza: les italiens ne se battent pas, facesse esperienza, disgraziatamente a spese dei suoi soldati, del fatto contrario. I buoni effetti della difesa di Roma non tardarono a mostrarsi. Grazie ad essa la causa d’Italia e di Roma prese posto da quell’istante fra le questioni più importanti del mondo civile. In Francia l’effetto prodotto dalla resistenza incontrata dalle truppe di Oudinot nel loro tentativo di penetrare in Roma colla forza, fu immenso.

Ledru-Rollin, l’uomo più autorevole del partito repubblicano, quello ch’era stato un anno prima la testa più forte del Governo provvisorio, presentò all’Assemblea nazionale una mozione per la messa in stato d’accusa dei ministri e del presidente della repubblica, come violatori dell’art. V della Costituzione. Portava le firme di tutti i vecchi repubblicani. Vedendola respinta, Ledru-Rollin fece appello al popolo. Molta folla corse allora le vie di Parigi, gridando: Viva la Repubblica romana! Alla testa dei più ardenti Ledru-Rollin tentò un’insurrezione, ma, dopo le giornate di giugno, il partito rivoluzionario aveva perduto le sue maggiori forze, e al Governo, che aveva preveduto questo movimento, fu facile comprimerlo. Landu-Rollin e i deputati più compromessi si sottrassero a inevitabili condanne come rei di ribellione, riparando a Londra. Ma da quel momento il partito democratico francese non cessò un istante dal considerare come uno dei principali doveri della Francia la riparazione dell’offesa fatta all’Italia ed al diritto delle genti, col portar le sue armi a servizio del potere temporale del Pontefice; dal canto suo Luigi Napoleone, se potè avere fin d’allora e per alcuni anni dopo il colpo di Stato, l’appoggio del clero, grazie alla sua politica ligia al papato, finì per comprendere che era questa una delle cause della sua debolezza, e quando volle dare un po’ di popolarità alla causa imperiale, non trovò altro miglior modo che di far suo uno dei pensieri più cari alla democrazia francese: l’indipendenza italiana. Tutto questo non sarebbe avvenuto, o si sarebbe ottenuto più difficilmente e forse in tempo più lontano, senza gli eroici combattimenti del 3 giugno sul Gianicolo, e la ostinata difesa che ne seguì per ventinove giorni. Ma la guerra, anche quando è fatta per legittima difesa – dalla parte dei francesi fu un’iniqua aggressione – è sempre l’esaltazione della forza, cui fa seguito sovente lo scoppio di brutali istinti. Nella difesa della città di Roma, sotto l’occhio della popolazione, e dove combattevano schiere che avevano nelle loro fila i più distinti giovani d’Italia, non fuvvi atto che non fosse di buona guerra. Ma non fu così dappertutto fuori di Roma. Lo scrittore di questo sommario conobbe, non sono molti anni, un tale, che forse vive tuttora, che aveva partecipato, come milite in una colonna di volontari, alla campagna romana del 1849, il quale ai suoi più intimi aveva confessato di avere mangiato, insieme a commilitoni suoi, dopo la presa di un convento, carne abbrustolita di frati; chi li avesse uccisi ognuno può immaginarselo.

Fatti non così orribili, ma pur sempre odiosi e ripugnanti, avvengono in tutte le guerre, ma gli storici che amano mantenere in credito il culto della guerra, non mancano mai di coprirli di un velo pietoso. Il patriottismo ch’era stato per gran tempo in Italia dote degli uomini migliori, immedesimato nel più puro umanesimo, prese da allora in molti il carattere di boria nazionale, prima affatto sconosciuto nel nostro paese. Perché una gioventù colta, cavalleresca, educata da uomini che potevano chiamarsi i santi del patriottismo, rinnovò sulle rive del Tevere e a Venezia, le gesta degli antichi eroi di Grecia e di Roma, i tribuni e i retori del patriottismo, dimenticando che quella gioventù era la parte eletta d’Italia, immaginarono che ogni soldato italiano, armato di fucile, potesse da un giorno all’altro tramutarsi in eroe. E questa non fu l’ultima causa della sciagurata seconda Custoza, di Lissa, di Dogali e di Adua.

Un patriottismo siffatto, che non nasce da virtù d’animo, né da mente elevata, che non sente bisogno di controllare le chiacchiere degli eroi da caffè collo studio della storia vera, dà buon giuoco ai seminari di discordia fra i popoli. E’ questo patriottismo che fece crescere in Italia la mala pianta della gallofobia, così dannosa alla causa della libertà e dell’unione europea. La gallofobia, come più indietro s’è accennato, non cessò mai dal fare un carico ai repubblicani di Francia della spedizione di Roma del 1849; laddove tutti i fatti, accertati da documenti irrefragabili, dimostrano che la democrazia francese fu sempre della causa italiana calda fautrice. Non si oppose alla spedizione di Roma, finché sperò e credette che fosse fatta nell’interesse e per la difesa della libertà della popolazione romana, ma non appena si accorse essere la spedizione rivolta ad uno scopo opposto, essa la combatté con un’energia e con un coraggio, di cui i gallofobi d’Italia non hanno mai dato prova per opporsi ad attentati commessi dai propri governanti contro le interne libertà.

Concludiamo: la difesa di Roma fu legittima e tutt’insieme benefica, ed è giusto che abbia un bel posto nella storia del risorgimento italiano; ma poiché ogni guerra ravviva quasi sempre nell’uomo i vecchi istinti dell’orgoglio e della violenza, è da considerarsi, per gli interessi morali più elevati della patria, che la necessità di una nuova guerra più non si presenti, ma se mai sciaguratamente di nuovo si presentasse, non saranno mai troppe le precauzioni e gli sforzi degli uomini di maggior intelletto, che avranno qualche influenza sul popolo, affinché al coraggio e allo spirito di sacrifico che dovranno dar la vittoria, non si aggiungano le male passioni, che hanno accompagnato o seguito le guerre passate.