INTERVISTA A RINO FORMICA SU MOONDO

Riceviamo da “Domani Socialista” e gentilmente pubblichiamo | Rino Formica è uno straordinario protagonista della storia recente ed attuale del nostro paese, un dirigente politico di lungo corso, che si racconta in una lunga intervista che Moondo pubblicherà in 3 puntate. Insieme al Direttore Giampaolo Sodano ed al Prof. Mario Pacelli, Formica ripercorre alcuni momenti importanti della storia recente del nostro paese e fa un’analisi dei problemi attuali della politica italiana. La politica estera SODANO: Hai avuto sempre una particolare attenzione alle dinamiche delle relazioni internazionali. Quale è stata la tua analisi e quale la politica estera del partita socialista? FORMICA: Fu la politica delle alleanze perché stavamo all’interno del sistema atlantico, e quindi di contrapposizione dei due blocchi. L’obiettivo era penetrare nelle aree dell’est, nel blocco ideologico comunista, per tutelare la chiesa del silenzio e dall’altra parte espandersi nel terzo mondo che si trovava in una condizione assolutamente minoritaria e trascurabile: si trattava di tutto il mondo asiatico, del mondo africano. La politica dell’Italia era una politica complessa che non si poteva fare senza il consenso dell’intero arco costituzionale: perciò bisognava garantire il partito comunista, che doveva garantire la democrazia cristiana e viceversa, mentre il partito socialista doveva cucire insieme le garanzie tra democrazia cristiana e partito comunista. Questo legame di politiche così radicalmente diverse sul piano dei legami internazionali dei grandi partiti era dato dal fatto che tutte e tre le forze fondamentali del sistema politico italiano – la democrazia cristiana, il partito comunista, il partito socialista – erano legate nella Costituzione da un vincolo patriottico: il vero compromesso fu non tanto un compromesso di natura sociale ed economica che è nella carta costituzionale, quando un compromesso politico, patriottico tra le grandi forze nel senso che nessuna di esse avrebbe tradito la difesa del proprio paese in caso di attacco esterno. Il blocco atlantico non avrebbe dovuto attaccare l’est, l’est non avrebbe dovuto attaccare l’ovest. Qualora questo fosse accaduto c’era l’impegno a svolgere un’attività di tutela patriottica da parte di tutte le forze politiche: mai mettere gli italiani contro gli altri italiani. Nella metà degli anni 80 comincia a percepirsi che l’ordine mondiale, l’equilibrio dei due blocchi ideologici, la tutela del terzo blocco di intervento congiunto tra il blocco ideologico dell’est e il blocco ideologico dell’ovest per stabilizzare le situazioni, cominciava a scricchiolare. Sia nel blocco dell’est che nel blocco dell’ovest, cioè sia in Russia che in America, si pensava che la situazione sarebbe cambiata: i russi pensavano che le contraddizioni capitalistiche del mondo occidentale avrebbero fatto cadere il pilastro dell’America; l’America riteneva che a cadere sarebbe stato il pilastro dell’Unione Sovietica, previsione che si è poi realizzata. L’implosione interna avvenne  perché il regime sovietico non era in condizioni di portare contemporaneamente avanti lo sviluppo militare e quello sociale. A questo poi si sono aggiunti altri elementi: non irrilevante è la comparsa di internet, con la caduta  dei muri della comunicazione. SODANO: Internet è di grande importanza rispetto ai tanti cambiamenti politici, però arriva molto dopo. L’analisi che tu hai fatto risponde ad una domanda: l’equilibrio internazionale scricchiola e di questo scricchiolio se ne avverte l’eco in quel paese di frontiera che è l’Italia. Tuttavia secondo te questo da solo spiega la morte di fatto della prima repubblica, che vuol dire la crisi della democrazia liberale dei primi 50 anni? FORMICA: Sì, perché la democrazia parlamentare che è il nostro principio costituzionale fondamentale, era stata autolimitata: la norma era una democrazia parlamentare autolimitata. La fine della condizione di paese di frontiera e di quel contesto internazionale che imponeva reciproci limiti alle forze politiche italiane avrebbe fatto cadere questa condizione di democrazia parlamentare autolimitata, quella che nel dibattito politico di allora era la democrazia  incompiuta. La democrazia parlamentare incompiuta era stata accettata dai partiti, con la convention ad excludendum: una forza rilevante del Parlamento che negli anni ‘70 aveva raggiunto più di un terzo del corpo elettorale accettò di non essere forza di governo. L’accettazione da parte del partito comunista non fu limitata solo alla partecipazione diretta al governo e non fu vincolante per la gestione del potere locale e per l’esercizio del potere legislativo in Parlamento. C’è un’illuminante intervista di Ingrao del ‘76 su uno dei primi numeri di “Repubblica”, dove Ingrao, divenuto Presidente della Camera dei Deputati, fa un’apologia, non solo del Parlamento, ma del Parlamento come Governo, una visione nella quale il governo era una istituzione, formalmente corretta, ma assolutamente insufficiente dal punto di vista della elaborazione legislativa e di garanzia dell’alleanza atlantica quanto alla permanenza del paese nell’alleanza stessa. PACELLI: Se si volesse sintetizzare il tuo discorso si potrebbe dire che gli equilibri internazionali e la necessità di garantire tutti fu la ragione fondante dei Governi che si successero nel tempo fino alla Presidenza Ingrao: la convention ad excludendum servì  per rassicurare gli alleati ma in realtà non c’era  mai stata. FORMICA: Non è che non ci sia mai stata: non è mai avvenuta nella sua forma più pienamente realizzabile. Nella carta costituzionale ci sono due principi fondamentali: è sancita la natura antifascista della Repubblica, che impedisce che il fascismo, le organizzazioni fasciste, il partito fascista,  possano tornare, ma al tempo stesso si stabilisce che le idee fasciste debbano  essere rispettate, tanto è vero che in una norma transitoria della carta costituzionale fu stabilito che la limitazione del diritto di elettorato attivo e passivo di coloro che avevano avuto parte nel fascismo valeva solo per cinque anni. In tal modo non è stato impedito di avere idee di carattere fascista o sovversive, anarchiche, rivoluzionarie. La libertà nella Costituzione è totale: è l’organizzazione di chi ha queste idee che è messa in discussione. La Costituzione stabilisce che il nostro valore fondativo è la Repubblica. E’ una forma di Stato che non è modificabile, però le idee monarchiche hanno diritto di cittadinanza. Non puoi però pretendere che si torni alla monarchia. Nella Costituzione  ci sono due principi: la base valoriale antifascista e la irrevocabilità del dogma Repubblica: la forma di stato non è revocabile. Proponiamo la …

LETTERA APERTA DI CESARE BATTISTI A BENITO MUSSOLINI

Pubblicata su Avanti! del 14 settembre 1914 La lettera di Cesare Battisti a pagina 2 | Caro Mussolini, vedo in una corrispondenza romana del tuo giornale messa in burletta una eventuale guerra italo-austriaca, per liberare … coloro che non hanno assolutamente alcun desiderio di staccarsi dall’Austria. Io non ho, né mi arrogo, caro Mussolini, il diritto di parlare in nome di tutti gli irredenti, per quanto mi giungano da Trieste e dall’Istria voci di consentimento; ma sento di potere, di dovere anzi dire una franca parola in nome del Trentino. Il Trentino ci tiene a staccarsi dall’Austria. Se tu fossi stato lassù nei giorni angosciosi della mobilitazione te ne saresti convinto. Avresti assistito alla partenza coatta di oltre trentamila uomini, montanari, contadini, gente abituata da preti e da poliziotti alla rassegnazione. Eppur tutti fremevano d’odio, tutti partivano lanciando all’Austria la maledizione. L’idea nazionale – non nel senso nazionalista, ma nel senso sano ed equilibrato di difesa di un proprio patrimonio di coltura – e per reazione al Governo austriaco fattosi sempre più feroce e per l’attrazione ed il fascino esercitato dall’incontestato progresso economico d’Italia – ha pervaso tutto e tutti. Certo nel Trentino non v’è un irredentismo che negli ultimi anni abbia pensato a congiure, forme ormai superate. Non c’era, né potea esserci finché si vedeva l’Italia legata alla Triplice, un irredentismo d’azione. Ma oggi  dai campi insanguinati della Galizia e della Bosnia come dalle città e dalle valli e da ogni luogo ove siano trentini si guarda fremendo all’Italia. Un cuore italiano che vive nella fortezza di Franzensfeste, coperto della divisa austriaca, mi scrive oggi eludendo la rigida sorveglianza: ‘Il mezzogiorno non si muove? Venite!’ Ora è il momento in cui l’irredentismo prende forma concreta ed ha ragione di essere. Ora c’è e mette in fuga tutte le paure, le prudenze, gli interessi dei tempi andati. E c’è non in questo o in quel partito. C’è nel cuore di tutto il popolo. Se così non fosse le stesse carceri austriache non ospiterebbero oggi, per la stessa colpa di amor patrio, e il redattore del giornale socialista Martino Zeni e il prete Mario Covi e l’organizzatore dei contadini Vero Sartorelli e non pochi liberali e nazionalisti. Se così non fosse, le città d’Italia, Milano prima fra tutte non ospiterebbero tanti profughi trentini, qui venuti sfidando infiniti pericoli. Vivono essi in trepida attesa ed in fervida fraternità; e son uomini delle più disparate classi sociali, avvocati, professori, contadini, operai, vecchi e giovani, ricchi e poveri, qui venuti nella speranza di tornare presto lassù con le armi in pugno. Per un tacito patto essi sono fino ad oggi vissuti oscuri, modesti, senza far parlare di sè. Io rompo oggi la consegna per gridar con loro la mia protesta, per dire ai fratelli d’Italia: ‘Se l’Italia non può ricordarsi di noi, irredenti, sia. Se l’operare per la nostra redenzione dovesse recarle rovina, noi subiremo ancora il servaggio. Sia tutto questo! Dimenticateci, se volete, ma non dite che noi non vogliamo staccarci dall’Austria. È un’offesa. È una bestemmia. Galleria Fotografica tratta dalla Mostra Cesare Battisti presso il Castello del Buonconsiglio di Trento. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

DE MARTINO: IL PROFESSORE CHE HA ONORATO LA POLITICA

di Luigi Vertemati | Chi ha avuto la fortuna di frequentare Francesco De Martino oltre l’ufficialità ha potuto capire il suo modo di essere contemporaneamente professore, uomo pubblico e leader; in lui si fondevano l’amore per l’insegnamento della storia del diritto romano, l’amore per l’Italia, il desiderio di concorrere a cambiare in meglio il paese con forti e solide istituzioni democratiche. E’ partendo da questo “Professore” che possiamo leggere meglio l’impegno politico di militante, dirigente e leader del Partito Socialista Italiano. Il suo impegno è sempre stato totale anche quando dava l’impressione di essere distaccato, di pensare ad altro; la conferma viene da un curriculum di tutto rispetto che lo ha visto protagonista per decenni della storia d’Italia alla testa dei socialisti italiani. Durante la resistenza si schiera con il Partito D’Azione al quale si era avvicinato per combattere il fascismo, preparandosi a dare un contributo all’Italia del dopoguerra. Le vicende, divisioni del Partito d’Azione comprese, lo portano, insieme a Lombardi e Foa, a scegliere il PSI come “casa” per la nuova democrazia. Sono anni difficili. La scissione di Palazzo Barberini indebolisce in modo decisivo la forza dei socialisti, ma sono anche anni di buone notizie: la vittoria repubblicana nel referendum tra monarchia e repubblica e l’approvazione della Carta Costituzionale. Le basi per una stagione nuova sono state gettate ma l’Italia non sfugge alle regole della “Guerra Fredda”. Lo slancio unitario dell’antifascismo e della resistenza si affievolisce e le divisioni si aggravano. E’ la stagione dello scontro frontale del 1948, la sinistra esce sconfitta anche per l’errore dei socialisti di accettare il Fronte Popolare; responsabile non solo della sconfitta, ma del “sorpasso ” del PCI sul PSI che ha pesato per l’intero mezzo secolo che ci separa da quei giorni. Dopo queste sconfitte Francesco De Martino, con Lombardi, Mancini e tanti altri rafforzano il gruppo dirigente del PSI guidato da Nenni per incominciare il cammino dell’autonomia socialista. Lo dicono le pagine dei dibattiti congressuali socialisti degli anni cinquanta a Milano, Torino e Venezia; esse rappresentano lo sforzo e la fatica dei socialisti tutti, nel quale il gruppo dirigente si impegnano a fondo, per far uscire il paese dal clima di guerra fredda, liberandosi contemporaneamente dagli interessati richiami “unitarie” del PCI di Togliatti. Sono gli anni della rivoluzione democratica ungherese che il PSI sostiene, del “Rapporto Segreto” di Krusciov sul fallimento del comunismo che Nenni e De Martino valorizzano per rafforzare le spinte autonomiste socialista, l’incontro di Pralognan tra Nenni e Saragat, i capi socialisti che nel 1947 non furono capaci di stare insieme. I primi effetti del boom economico richiedono capacità di governo nuove, in grado di garantire i lavoratori e i governi centristi si dimostrano inadeguati ad affrontare le nuove sfide dell’Italia dell’industrializzazione. In quegli anni De Martino diventa braccio destro di Nenni, insieme, preparano il terreno per il centro sinistra che, dopo le elezioni amministrative dell’autunno del 1960, non casualmente, trova la sua prima realizzazione con la giunta di centro sinistra al comune di Milano. La nascita del centro sinistra è operazione difficile. La borghesia industriale rimasta prevalentemente codina è contro, una buona parte della chiesa pone ostacoli, il quadro internazionale non è favorevole; ma le esigenze dell’Italia lo richiedono e, nonostante tante iniziative pericolosamente messe in campo contro, penso al governo Tambroni, nel 1963 nasce il primo governo di centro sinistra. L’operazione politica socialista iniziatasi nella seconda metà degli anni cinquanta ha successo, è il risultato frutto del lavoro della maggioranza del PSI guidata da Nenni, con De Martino vice segretario. Dopo il messaggio di Nenni vice presidente del Consiglio: “Da oggi siamo più liberi”, l’impegno politico dei socialisti si estende. Bisogna reggere l’opposizione interna di coloro che, di li ad un anno, organizzeranno la scissione del PSIUP, poi confluito nel PCI a conferma di accordi preventivi. Le responsabilità di governo impegnano il partito in un confronto sempre più serrato con le varie realtà civili, economiche e sociali che vedono nel centro sinistra l’opportunità per l’Italia di entrare nel novero delle democrazie solide, con un’economia forte e uno stato sociale di garanzia per i lavoratori. E’ una delle stagioni più importanti e produttive per la qualità del confronto politico e civile che investe tutto il paese e il PSI ne è il motore. La guida del partito in quei primi anni di governo caricano sul segretario De Martino responsabilità grandi e il “Professore” regge bene; guida il partito in mezzo a tante opportunità ma anche a moltissime difficoltà. Siamo alle riforme del centro sinistra in tutti i settori dalla sanità allo statuto dei lavoratori, dalla riforma della scuola all’istituzione delle regioni, dalla corte costituzionale alla legge sul referendum; tutte conquiste, insieme ad altre, che hanno cambiato l’Italia, la vita di milioni di uomini e donne “dalla culla alla tomba”. I nemici non sono mancati dentro e fuori il parlamento. Penso alle stragi, alla brigate rosse, ai conservatori annidati nei più diversi settori della vita pubblica e nel “privato arretrato”, ma il PSI ha sempre retto lo scontro assumendosi in tutti i casi le proprie responsabilità. Una pagina amara, non solo per De Martino, è quella dell’unificazione socialista e della scissione: 1966/1969. In poco più di due anni la speranza di unità viene sconfitta e i socialisti italiani, ancora una volta, dimostrano poca capacità a stare insieme rinunciando a percorrere il cammino di quell’unità socialista che Turati considerava strada obbligata anche per gli scissionisti del 1921. De Martino lascia la segreteria del partito quando è chiamato alla vice presidenza del consiglio; sono anni molto difficili per lo scatenarsi del terrorismo stragista. Al governo De Martino non si trovò sempre a suo agio, non era “gestore del potere”; ciononostante seppe svolgerlo con autorevolezza. Il ritorno di De Martino alla guida del partito avviene nel congresso di Genova del 1972 per l’ottantesimo della fondazione del partito. Il risultato congressuale consegna la maggioranza all’alleanza tra i demartiniani e gli autonomista guidata da Craxi. Alla segreteria è rieletto De Martino con vice segretari due milanesi: Giovanni Mosca e Bettino Craxi. Inizia …

FASCI E PARTITO SOCIALISTA DUE NASCITE PARALLELE

di Ignazio Coppola | Il 21 e 22 maggio del 1893 esattamente 126 anni fa nascevano a Palermo in via Alloro al numero 97, dove oggi sorge, Palazzo Cefalà, il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani e il Movimento dei Fasci Siciliani. I due congressi fondativi erano strettamente collegati anche perché i promotori delle due assemblee costitutive erano gli stessi autorevoli capi: Rosario Garibaldi Bosco, Nicola Barbato, Bernardino Verro, Giuseppe De Felice Giuffrida, Nicola Petrina e tanti altri che si erano posti alla testa delle lotte contadine a difesa delle classi più deboli della Sicilia. La costituzione del Partito socialista prima e del Movimento dei fasci siciliani poi, che costituiva la risultante dei 300 fasci disseminati in tutto il territorio regionale con 400mila associati, fu la presa d’atto della costituzione di un primo movimento di massa organizzato nell’Italia post-unitaria, nato a causa della crisi agraria e delle intollerabili condizioni sociali cui era costretta la popolazione siciliana. Migliaia di contadini, di artigiani, di zolfatari, di braccianti, di minatori e di operai si organizzarono appunto in Fasci dei lavoratori che, mettendo insieme le loro rivendicazioni cercavano di far valere nei confronti dei padroni i propri elementari diritti. I lavoratori siciliani scoprendo i vantaggi dell’unità iniziavano ad acquisire così una coscienza di classe. «Se prendete un bastone da solo si spezza facilmente, ma se provate a spezzare un “fascio” di bastoni, vi riuscirà impossibile». Le cronache di quei due giorni narrano anche della grande mobilitazione delle forze dell’ordine preoccupate dalla presenza di migliaia di lavoratori e di contadini accorsi in via Alloro. La città fu quasi messa in stato d’assedio, l’artiglieria fu scaglionata dinanzi agli edifici pubblici, la cavalleria ebbe l’ordine di ferrare i cavalli e due navi da guerra si ancorarono al porto. Preoccupazioni inutili perché i due congressi si svolsero pacificamente e giunsero dopo serrati dibattiti a conclusioni unitarie. Le divergenze erano sorte in particolare tra chi come Garibaldi Bosco sosteneva l’opportunità di associare i Fasci siciliani al Partito dei lavoratori di Milano e chi come Giuseppe De Felice Giuffrida era fermo sostenitore di una linea autonomista con un proprio programma e con una propria organizzazione. Alla fine si raggiunse un compromesso. Fu accettata la linea politica del congresso fondativo celebrato a Genova nel 1892 del Partito socialista propugnata da Bosco e parimenti passarono le proposte di De Felice di dotarsi di una autonomia organizzativa regionale con la costituzione in Sicilia di un Comitato centrale che risultò così composto: Giacomo Montalto (Trapani), Nicola Petrina (Messina), Giuseppe De Felice Giuffrida (Catania), Luigi Leone (Siracusa), Rosario Garibaldi Bosco, Nicola Barbato, e Bernardino Verro (Palermo), Antonio Licata (Agrigento) e Agostino Lo Bianco Pomar (Caltanissetta). Il 22 maggio sulle risultanze delle decisioni e dei dibattiti del giorno precedente il congresso costitutivo del Movimento dei fasci approverà un proprio statuto che si proporrà l’organizzazione sindacale del prorompente movimento contadino ed il suo conseguente ancoraggio ad una strategica piattaforma politica di chiara impronta socialista. Il movimento dei Fasci dei lavoratori si doterà anche di un organo di informazione “La Giustizia Sociale” che uscirà a Palermo e sarà diretto da Francesco Maniscalco. I due congressi espressero alla fine unitariamente una classe dirigente fortemente motivata ed ideologizzata che faceva riferimento al Partito socialista e che si poneva quegli obbiettivi e quelle rivendicazioni che erano poi alla base stessa della costituzioni dei Fasci siciliani nella richiesta di migliori condizioni di vita per i lavoratori e per i contadini come tra l’altro l’applicazione dei “Patti di Corleone” che rappresentarono il primo contratto sindacale dell’Italia capitalistica. E poi, ancora, gli obiettivi della lotta all’analfabetismo, la costituzione delle società di mutuo soccorso, la nascita delle cooperative di consumo e di produzione e lavoro, la rivendicazione del suffragio universale e la riforma della fiscalità municipale con l’abolizione del dazio sui consumi che finiva come sempre per penalizzare le classi più povere e disagiate. Temi ed impegni di lotta che furono al centro del dibattito dei due congressi. In Sicilia la fondazione del Partito socialista e la costituzione del Movimento dei Fasci getterà il panico nella classe agraria padronale. Sarà la immediata sanguinosa repressione dei Fasci dei Lavoratori da parte del siciliano Francesco Crispi, autentico paladino della borghesia reazionaria, a determinare con gli eccidi e i massacri di centinaia di suoi conterranei, la fine dei Fasci siciliani e a decretarne lo scioglimento. Il Partito socialista continuerà, dal canto suo, per lungo tempo la sua inesauribile opera di rivendicazioni e di lotte per la conquista e la salvaguardia dei diritti dei più deboli e degli indifesi. Di certo ai congressi del 21 e 22 maggio del 1893 in via Alloro fu gettato un seme fecondo. Un seme che germoglierà molti anni più avanti tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, con le lotte contadine, la ripartizione dei feudi e dei latifondi e la conquista delle terre da parte dei figli e dei nipoti di quei contadini che assieme ai loro capi popolo, furono i meravigliosi protagonisti della stagione dei Fasci siciliani. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

TUMORI E SVILUPPO INDUSTRIALE: E’ ORA DI DIRCI LA VERITA’ (E DI FARE QUALCOSA)

di Aldo Ferrara – Socialismo XXI In alcune aree del paese, l’incidenza dei tumori sta raggiungendo picchi inauditi, specie per il cancro polmonare. Da 7 casi ogni 100 mila abitanti del 1951 siamo passati a ben 105/100 mila. Livelli da DEFCON 4. Un tempo era il trio. Erano sotto accusa le emissioni industriali, riscaldamenti domestici e traffico, con un 33% di responsabilità per voce. Oggi è sotto accusa il traffico all’80%. E’ spaventoso l’aumento dei metalli pesanti liberati nell’aria dalle vetture dotate di nuovissimi catalizzatori (platino, rubidio, molibdeno, tungsteno, cadmio) con un aumento di casi di linfomi e leucemie stimato tra il 15 ed il 20% in poco più di vent’anni. Ma esistono picchi impressionanti in alcune città per via delle emissioni di Industria Pesante, spesso bellica o chimica, ove si osserva l’aumento dei mesoteliomi (+37% nelle donne e +10% negli uomini), tumori alla mammella (+27%),del SNC (80%), del fegato (40%). La crescita di coscienza e le investigazioni scientifiche ci stanno imponendo questioni prioritarie come la salvaguardia e valorizzazione dell’ambiente. Ma il nostro modello sociale deve contemperare tutela dell’occupazione e sviluppo dei mercati ed il lavoratore, utente-consumatore, deve essere considerato parte attiva di questo processo. Sta di fatto che non siamo ancora riusciti a conciliare ambiente e sviluppo economico, specie quello industriale. La contraddizione tra questi due aspetti ha portato a una sorta di radicalizzazione, senza possibilità di compromesso. L’esempio più eclatante è (ex) ILVA di Taranto, una delle ultime industrie pesanti rimaste, in cui lo scontro ha raggiunto il livello di guardia. Già nel Volume Ambiente Atmosferico & Salute Respiratoria (Ferrara A. et al., 2001, vedi biblio) avevamo evidenziato, nel comprensorio di Brindisi, un drammatico incremento di malattie pleuro-polmonari fino al +25% a carico della pleura e delle malattie del sangue (+30% per le forme non Hodgkin). Per quanto attiene Taranto, nel 2016 uno studio epidemiologico della Regione Puglia ha evidenziato un aumento della mortalità, rispettivamente, del +4% e del +9%, per esposizioni a polveri sottili (PM10) e anidride solforosa (SO2), e un aumento di ricoveri per patologie respiratorie infantili residenti nei quartieri Tamburi (+24%) e Paolo VI (+26). Mentre tutti, all’alba del 2017, discettano sul caso ILVA di Taranto, nel 2001 molti di questi dati erano già noti. Perché non sono stati presi in considerazione? Riporto stralci di un articolo del giornalista Giovanni Vaccaro che, nel 2013 dalle pagine del Secolo XIX, scriveva, a proposito di La Spezia. L’interesse su questo articolo nasce dal fatto che mentre la pubblica opinione è spesso indirizzata verso siti industriali tipo Marghera o Taranto, pochissimi, se non nessuno, punta l’indice verso gli insediamenti dell’industria bellica. “Sul banco degli imputati gli insediamenti industriali e le zone densamente urbanizzate. Eurochip2 (European cancer health indicator project, del 2009, ha evidenziato anche che, tra i vari paesi europei, è cresciuta la disuguaglianza in campo oncologico. I paesi più ricchi, con Pil più elevato e un tasso di industrializzazione maggiore, hanno un’ incidenza di tumori più alta rispetto ai paesi più poveri. In Italia i “picchi” nell’incidenza dei tumori (e nella mortalità) si registrano in zone in cui operano (o operavano) acciaierie, come a Genova, Piombino e Taranto, impianti petrolchimici, come a Gela, Priolo, Augusta, Sarroch, Porto Torres e Portoscuso, aree a forte industrializzazione come Marghera.” (Vaccaro G., 2013). Dati in perfetta coincidenza con quelli di A.Ferrara (2001). In totale sono 54 le aree critiche destinate alla bonifica, un censimento che riguarda ben 311 comuni. Prosegue Vaccaro: ” In Liguria, a puntare il dito contro le ciminiere sono da anni gli abitanti della Spezia e Vado Ligure. E’ sotto accusa soprattutto l’attività della centrale termoelettrica di Tirreno Power (ex Enel) di Vado Quiliano. La Provincia di Savona, con circa il 17% degli abitanti, produce dal 40 al 50% dei più pericolosi inquinanti di tutta la Liguria: ossidi di azoto, anidride solforosa, polveri sottili, ultrasottili (PM 10, PM 0.5). E le centrali a carbone rilasciano in atmosfera radon e polveri arricchite in radionuclidi. A Vado Ligure il tumore maligno al polmone colpisce il 30,1% in più degli uomini rispetto al resto della Provincia e il 26,6% rispetto alla Regione. Ma un dato allarmante riguarda anche Savona, con il 23,6% ed il 20,7% in più. Oltre ai tumori dati preoccupanti riguardano anche le malattie ischemiche del cuore: a Vado le donne fanno registrare il 44% di casi in più rispetto alla media provinciale e il 71,9% in più rispetto a quella regionale; gli uomini rispettivamente il 27% ed il 45,8% in più; a Savona il 30% in più sulla media provinciale e il 54,9% in più su quella regionale per le donne, il 19,5% in più ed il 37% in più per gli uomini. Infine le malattie respiratorie croniche ostruttive:per la popolazione maschile, Vado fa registrare il 137% sulla Provincia ed il 150,3% sulla Regione. Occorre dunque mappare il territorio, non solo per misurare genericamente il grado di inquinamento, ma verificare soprattutto gli effetti veri e propri sulla salute umana. La correlazione tra i danni rilevati sui licheni, ormai riconosciuti come bioaccumulatori e l’incidenza dei tumori al polmone sono allarmanti. Il monitoraggio degli effetti dell’inquinamento sui licheni epifiti ha evidenziato nel 2000 stati di alterazione grave nell’area metropolitana di Genova, Savona e La Spezia. Il collegamento tra inquinamento e alterazioni nei licheni è ancora più indicativo a La Spezia. Tra il 1992 e il 2000 è stata registrata una ripresa della biodiversità lichenica dopo gli interventi di riconversione della centrale a carbone ed il riassetto di camini alti 240 metri. A La Spezia vi sono due record, anzi tre. Il primo è nella zona intorno al Porto Militare dove vi è la più alta percentuale di SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica). Il secondo è zona intorno alla Discarica di Pitelli dove vi è la più alta percentuale di tumori infantili. Il terzo è generale, per tutta la provincia, e vede il record mondiale per malati per amianto di mesotelioma in rapporto alla popolazione”.   Come dire dalla Epidemiologia alla Politica, il viaggio non è così lungo e la destinazione è …

DAL SISTEMA DELL’AUTO ALL’INDUSTRIA DELLA MOBILITA’

di Beppe Berta – UNIBOCCONI | Nessuno potrebbe impiegare oggi la celebre definizione che Peter F. Drucker coniò alla metà del secolo scorso per il settore dell’auto: “industry of industries” (industria delle industrie). Se non altro perché quello di Drucker era il mondo fondato sul primato della civiltà industriale, mentre il nostro si basa sul predominio dell’economia dei servizi, con la moltiplicazione di una gamma sempre crescente e potenzialmente infinita di attività di servizio tagliate a misura del consumatore finale. Anche il sistema dell’auto vive oggi secondo questa logica, come dimostra la ricerca incessante di vetture elettriche in grado di esonerare chi è a bordo, in tutto o in parte, dell’onere della guida. Non di meno, l’industria della mobilità (la frontiera verso cui sta rapidamente evolvendo l’universo dell’automobile) rappresenta oggi l’area di business verso cui convergono tecnologie, specializzazioni e competenze per produrre un’inedita combinazione, tale da fare dell’auto una sorta di crocevia tra forme economiche in precedenza eterogenee. L’industria della mobilità sembra correre verso il futuro incurante dei costi immensi e dei rischi altrettanto poderosi che ciò comporta.  Lo si può osservare analizzando, più che le incerte prospettive di Tesla e delle sue oscillazioni di Borsa, il peso che nella schiera dei produttori tradizionali vanno assumendo i nuovi modelli più orientati alle nuove tendenze. Colpisce così la pubblicità che Volkswagen va facendo alle sue vetture elettriche. Ma ancor di più colpisce, entrando nella torre più alta del Renaissance Center di Detroit, dov’è la sede di General Motors, vedere in posizione dominante tra i veicoli esposti la nuova Cruise, l’elettrica a guida autonoma che verrà posta in vendita entro l’anno. Nella grande showroom del RenCen alla neonata Cruise è stata data la maggiore visibilità affinché i visitatori comprendano bene il valore della svolta impressa da Gm alla sua produzione. È un segnale della direzione intrapresa, che ha comportato passaggi dolorosi per la maggiore casa dell’auto Usa, la quale non ha esitato ad allestire un cospicuo piano di chiusura di stabilimenti e di riduzione dei posti di lavoro in Nord America. Essa ora sta persino valutando l’opportunità di cedere il proprio quartier generale, il grattacielo più alto del Michigan, se questo può generare risparmi importanti, da mettere a servizio negli investimenti che il cambiamento tecnologico sollecita. Intanto, poco più in là Ford sta ristrutturando quella che un tempo fu una delle più imponenti stazioni ferroviarie d’America, la Michigan Central Station, nel quartiere di Corktown, per ricavarne gli spazi in cui saranno ospitate le attività di ricerca sull’Intelligenza Artificiale applicata ai problemi della mobilità. È il terreno su cui dovrebbe svilupparsi la cooperazione già avviata col gruppo Volkswagen. L’America dell’auto crede alla promessa della rivoluzione tecnologica che sta investendo il nostro modo di spostarci, soprattutto nelle città. Ne è nata una riconcorsa tra la California e il Midwest: anche la Gm Cruise ha un’origine californiana, come Tesla. Ma nel suo caso è stato ripudiato il principio dell’autosufficienza cui si è sempre attenuto Elon Musk. Al contrario, si vuole dimostrare che è dal connubio tra le piattaforme tecnologiche elaborate in California e il sistema consolidato delle competenze produttive in possesso di Detroit che può derivare la spinta al cambiamento. Le auto staranno pure diventando dei computer su quattro ruote, ma esse hanno ancora bisogno dei metodi e dei procedimenti ereditati dalla storia della mass production per operare al meglio. Più in generale si sta sviluppando una geografia dell’industria della mobilità che congiunge i produttori convinti che il cambio d’epoca sia in atto e ormai inevitabile. È una geografia che si snoda dall’America all’Europa (dove ha il proprio fulcro in Germania) e in Asia, dove la tensione verso il mutamento si declina in forme differenti in Giappone, in Corea del Sud e, naturalmente, la Cina. In particolare, il primato della Cina, principale mercato dell’auto al mondo, è destinato a riflettersi in una serie di nuovi standard che contribuiranno potentemente a fissare i canoni della mobilità di domani. Si tratta altresì di una geografia che rende visibili nuovi cleavages, nuove linee di demarcazione fra i produttori che stanno sposando in pieno il paradigma del mutamento e quelli che devono attestarsi su una linea flessibile di adattamento, non disponendo delle risorse che deve mobilitare chi si pone sulla frontiera tecnologica. Una transizione così vasta e delicata approderà sicuramente a una riconfigurazione dell’industria della mobilità che finirà per mettere in discussione e rimodellare assetti e perimetri aziendali. Gli esiti finali saranno probabilmente considerevoli, mentre già oggi si intuisce la complessità delle operazioni che dovranno essere poste in atto. Se ne è avuto un assaggio nelle settimane scorse col tentativo di fusione tra Fiat Chrysler e Renault, un tentativo che ha rivelato le difficoltà insite nel processo di riorganizzazione del sistema mondiale dell’auto. Per converso, esso ha fatto comprendere perché altri gruppi intendano procedere con estrema prudenza sulla strada delle aggregazioni, preferendo lo sviluppo di rapporti di collaborazione che, col tempo, potranno eventualmente diventare delle alleanze più strutturate. Entrambi i percorsi hanno gradi di complessità che non possono essere trascurati. Certo però che l’uscita allo scoperto di Fca e Renault ha posto a nudo i rischi e le problematicità che affronta chi si accinge alla riconfigurazione dei soggetti storici della produzione automobilistica.    Perché si è verificata la battuta d’arresto nella fusione di Fca e Renault, dopo che da molte parti se ne erano indicate le opportunità, rivendicate ancora adesso? Una ricostruzione affidabile delle ragioni che hanno determinato uno stop subitaneo ancora non c’è. Probabilmente, nell’approccio iniziale erano stati sottostimati alcuni sostanziali elementi di criticità. Il più importante consiste nel fatto che non si può progettare un matrimonio, indicandone minuziosamente le condizioni, mentre si sottace la condizione affinché esso funzioni sta nell’instaurare un menage à trois. Due gruppi caratterizzati da un deficit di strategia non possono pretendere di risolvere i loro guai facendo affidamento su un terzo (Nissan), più forte di loro e dotato di presidi di mercato e di dotazioni strategiche che i candidati al matrimonio non hanno. Questo il vizio di partenza che ha pregiudicato la …

PIU’ DI 100 ANNI DEL SOCIALISTA GIACOMO MANCINI

Nella Foto da sinistra Giacomo Mancini con Vincenzo Balzamo Fu socialista. Ma sarebbe più giusto essere precisi e dire che, almeno fino a quando si occupò in prima persona di politica e del partito, fu socialista autonomista, nenniano, come si diceva un tempo e come si poteva essere nenniani nel Mezzogiorno e in Calabria. Alla Camera entrò nel ’48, 26 mila voti di preferenza tra la sua gente, eletto nelle liste del Fronte Popolare: ci resterà per nove legislature. Giorgio Napolitano, che come Paolo Bufalini, Gerardo Chiaromonte, Emanuele Macaluso, Rosario Villari lo conobbe negli anni delle lotte meridionaliste, ricorda Mancini come un autonomista sempre fiero delle proprie ragioni, e ostinato nel difenderle, che non fu mai, però, anticomunista. Si tratta, crediamo, di un giudizio onesto, per quel tempo e anche per le stagioni successive al 1956, quando, all’indomani della feroce repressione sovietica della rivoluzione ungherese le strade dei socialisti e dei comunisti si separarono, e Mancini fu chiamato da Nenni a occuparsi di un’organizzazione, quella del Psi, che non voleva essere più vassalla della ben più potente organizzazione di Botteghe Oscure. Fu socialista. Autonomista, nenniano, uomo di governo nel centro-sinistra, ministro nei governi Moro e nei governi Rumor. Da ministro della Sanità impose l’introduzione del vaccino antipolio Sabin, alla faccia delle resistenze burocratiche e degli interessi economici consolidati. Da ministro dei Lavori pubblici fu severo verso gli speculatori, come all’epoca proprio non usava, dopo la frana di Agrigento. Sbagliò anche, tantissimo, come testimonia il disastro del quinto centro siderurgico nella sua Calabria. Fu socialista. E quindi, ovviamente, antifascista: nel ’44, a Roma, era nell’organizzazione militare clandestina della Resistenza. Della destra missina fu uno dei bersagli prediletti. Quando il Candido di Giorgio Pisanò funse da capofila nella campagna sullo scandalo Anas. Ma anche, e molto più, una decina di anni dopo, quando Reggio Calabria quasi insorse con i «boia chi molla» di Ciccio Franco, contro Catanzaro diventata capoluogo regionale, contro Roma, contro Mancini e quello che già allora si chiamava il «mancinismo», un’idea e una pratica spregiudicate, cioè, della politica, nel tentativo di far fronte alla Dc sul suo stesso terreno. E anche in materie a dir poco delicate, come l’industria di Stato, e i servizi. Fu socialista. Autonomista, nenniano, riformista. Si battè per l’unificazione tra Psi e Psdi, ma quando questa rapidamente fallì non arrestò la sua corsa e, nel 1970, divenne segretario del partito. Durò solo un paio di anni, ma furono anni importanti. Qualcuno, più tardi, vi scorse anche una premessa, un’anticipazione della stagione di Craxi, una sorta di variante meridionale di quella politica di collaborazione sì, ma anche di competizione a muso duro con la Dc che Bettino avrebbe condotto in stile milanese. Di certo Mancini non apprezzò affatto la linea del suo successore, Francesco De Martino, di cui pure era personalmente amico: né la teoria degli «equilibri più avanzati» né, tanto meno, l’idea che il compito dei socialisti fosse essenzialmente quello di favorire l’imminente compimento dell’evoluzione del Pci. Altrettanto certamente fu lui, nel luglio del ’76, a pilotare il Comitato centrale del Midas, che dopo la sconfitta elettorale aveva defenestrato De Martino, verso l’elezione di Craxi: un po’ perché quel suo vicesegretario che conosceva così poco non gli dispiaceva, molto perché pensava che, debole come all’epoca Craxi era, sarebbe stato facile guidarlo da padre nobile. Un altro errore, in tutta evidenza. Scontato con una rapida emarginazione nel partito. Fu socialista. Autonomista, nenniano. E garantista, come a un socialista si conviene. Si battè sempre in primissima linea per i diritti civili: a cominciare dalla battaglia per il divorzio. Negli anni di piombo non si associò al fronte della fermezza contro il terrorismo, e gli furono rimproverate, in specie dai comunisti, debolezze e simpatie personali verso esponenti di primo piano dell’Autonomia. La sinistra extraparlamentare gli era lontana mille miglia: ma per libertarismo e anche per calcolo politico non le sbatté mai la porta in faccia. Fu socialista. E calabrese. E cosentino. Può darsi, come pensano in molti, che questo sia stato il suo limite più forte. Ma lui lo ha vissuto come un suo tratto distintivo, e un suo merito. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LA PROFONDA QUESTIONE SOCIALISTA

LA LETTERA INDIRIZZATA AD ANTONIO POLITO E LA SUA RISPOSTA L’editoriale di Polito pubblicato sul Corriere della Sera: Così il Partito Democratico è rimasto solo Egregio Dottor Polito, ho letto con attenzione il suo editoriale sul ” Corriere della Sera” di qualche giorno fa.  Nel suo pezzo lei citava giustamente tra le anomalie del centro-sinistra in Italia l’assenza di culture fondamentali rappresentate in modo quanto meno rilevante per la loro tradizione citando la cultura Verde, in crescita in tutta Europa, quella Cattolica, e quella Liberale. Con stupore leggo però che non ha citato una questione che invece a me pare profonda ed irrisolta ovvero la Questione Socialista.  Almeno dalla caduta del muro di Berlino, l’Italia vive l’anomalia della mancanza di un partito che sappia unificare sotto un’unica bandiera tutti coloro che fanno del lavoro la loro ragione di vita e che abbia quale riferimento la costruzione del partito transnazionale del Socialismo Europeo.  La mancata svolta in senso Socialista del Pci prima, l’inseguire di modelli americani scopiazzati anche in malo modo poi, la diaspora Socialista causata da fenomeni interni ed esterni al Psi, hanno causato questa situazione. La mancanza di tale partito del Socialismo, io credo, comporta una grave inadeguatezza delle forze attualmente presenti nello scenario del centro-Sinistra in Italia.  Per questo, l’Associazione di cui coordino la segreteria, lavora per la costruzione di un UNICO partito del Socialismo del XXI secolo, tramite una Epinay che dal basso azzeri gli attuali gruppi dirigenti e dove, partendo tutti dallo stesso punto, partiti, associazioni, singoli compagni e compagne, di orientamento Socialista possano ridare all’Italia il partito del Socialismo che il Paese meriterebbe. Antonino Martino, Coordinatore segreteria nazionale Socialismo XXI LA RISPOSTA Non dubito che lei abbia ragione. Ma la ragione per cui non ho citato l’assenza di un partito socialista in Italia è che il Pd aderisce al Partito del Socialismo europeo. Dunque almeno uno c’è. Quanto valido lascio a lei giudicarlo. Grazie per l’attenzione.  Cordiali saluti Antonio Polito  SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

CARTE INEDITE DAGLI ARCHIVI DI BUFALINI: COSÌ ALL’XI CONGRESSO DEL PCI, NEL 1966, NACQUE E MORÌ L’IDEA DI UNA FORMAZIONE UNICA CON I SOCIALISTI

di Pierluigi Battista Il partito mai nato Altri tempi, certo. Altro linguaggio, altro stile, altra severità. Tempi di ferro, anche. Tempi in cui il dissenso era scoraggiato e imbrigliato, la linea doveva essere e apparire monolitica, e la disciplina di partito faceva premio sulla libera e «sregolata» articolazione delle idee. Il materiale era custodito da Paolo Bufalini, e la rivista Le ragioni del socialismo diretta da Emanuele Macaluso presentò in un convegno dedicato alla figura del grande dirigente comunista poi scomparso. Documenta un frammento molto importante nella storia della sinistra italiana ed è testimonianza di un nodo tuttora irrisolto della sua identità. Documenta un punto cruciale di svolta, situato nel biennio `65-´66, nella vicenda del Pci e testimonia ancora una volta la centralità della «questione socialista» nella fisionomia politica e culturale della sinistra. Il materiale contenuto nell´archivio Bufalini si riferisce al dibattito serrato apertosi nel Pci nella prospettiva dell´XI congresso del partito. Il primo congresso del dopo-Togliatti. Con il centrosinistra già avviato, che aveva sancito la rottura tra socialisti e comunisti. E con la prospettiva della riunificazione (destinata, peraltro, a vita effimera) tra i socialisti di Pietro Nenni e i socialdemocratici di Giuseppe Saragat. Il Pci, come ebbe modo di spiegare minuziosamente lo stesso Bufalini in un lungo articolo pubblicato dal Ponte nel 1992, veniva messo di fronte a un bivio. Nel novembre del `64 Giorgio Amendola, rispondendo a una lettera aperta di Norberto Bobbio in cui veniva severamente criticato il metodo con cui era stato destituito Krusciov, lanciò l´idea del «grande partito nuovo della classe operaia»: una formula che stava inequivocabilmente a significare la possibilità di riunire le forze separate dalla scissione di Livorno. Naturalmente la proposta amendoliana non nascondeva affatto un «cedimento» politico e culturale dei comunisti nei confronti delle ragioni dei socialisti. Anzi, essa veniva motivata dalla convinzione, che oggi appare inevitabilmente datata, secondo cui «nessuna delle due soluzioni prospettate alla classe operaia dei paesi capitalistici dell´Europa occidentale negli ultimi 50 anni, la soluzione social-democratica e la soluzione comunista, si è rivelata fino a ora valida al fine di realizzare una trasformazione socialista della società». Ma la semplice prospettiva di «partito unico» della sinistra italiana ebbe l´effetto di un terremoto nel partito orfano di Palmiro Togliatti. Bufalini racconta l´opposizione di Mario Alicata e soprattutto della «sinistra» interna guidata da Pietro Ingrao. Ma il segretario Luigi Longo incaricò proprio Bufalini di redigere un documento per motivare, racconta il protagonista, «una nostra proposta per l´unità socialista». Altri tempi. Altre liturgie. Altri liguaggi. Bufalini scrisse un corposo documento, quello oggi riproposto da Le ragioni del socialismo, di ben 57 pagine. Ma «il mio vecchio amico Ingrao con affettuosa cortesia manifestò insoddisfazione e dubbi profondi» su quel testo. A Ingrao venne perciò chiesto di rivederlo e di modificarlo. Ma il leader della sinistra interna non si accontentò di varianti minime e la sua revisione si concretizzò nella riscrittura delle prime 35 cartelle del documento in cui l’ipotesi amendoliana del «partito unico» della sinistra veniva radicalmente ridimensionata e rimessa in discussione. In un partito abituato a soppesare ogni parola, a limare con prudenza curiale ogni formula, quella drastica riscrittura non poteva che essere emblema di un dissenso radicale, destinato a manifestarsi nel corso dell´XI congresso del Pci nel `66 dominato dalla contrapposizione tra Amendola e Ingrao. Il seguito della storia fu tormentato e pieno di ostacoli. Una commissione composta da Longo, Amendola, Enrico Berlinguer, Ingrao, Bufalini, Rossanda, Secchia, Li Causi e Gerratana venne incaricata di redigere un nuovo documento sull´«unificazione socialista». Ma «emersero divergenze sostanziali», con «l´opposizione di sinistra» (Ingrao, Rossanda, Secchia, Gerratana) convinta che «l´unità dovesse perseguirsi tra forze rigorosamente e coerentemente classiste e marxiste». «Nelle votazioni Longo, Berlinguer e Bufalini venivano spesso messi in minoranza» racconta Bufalini, e ne risultò un documento «per tanti aspetti giusto e pregevole, ma per altri compromissorio e incerto e nel quale l´incisività di Longo non c´era più». Altri tempi, perché Bufalini non avrebbe voluto presentare un testo troppo diverso dalla «svolta» che avrebbe dovuto annunciare: «ma allora nel Pci non si usava comportarsi così. Perciò seguii la risoluzione della maggioranza e presentai io il nuovo documento, che d´altra parte riproduceva posizioni unitarie. Vi furono un certo numero di voti contrari “da sinistra”. “Da destra” (si fa per dire) per le mie stesse riserve sopra accennate, votò contro Gerardo Chiaromonte». L´ipotesi amendoliana di un «partito unico della sinistra» che comprendesse comunisti e socialisti venne di fatto svuotata e nell´XI congresso del 1966 lo scontro verrà sterilizzato e ricomposto con un esito immancabilmente (per i tempi) «unitario». Resta la testimonianza di una contrapposizione molto dura e di cui le due versioni del documento scritto da Bufalini e «corretto» da Ingrao (le cui rispettive parti dedicate al «partito unico» della sinistra vengono qui parzialmente riprodotte a mo´ di confronto) sono il segno più significativo. Resta la percezione di un´occasione perduta e del rifiuto di una svolta che avrebbe costretto i due partiti maggiori della sinistra italiana ad accelerare un chiarimento culturale e politico che si riproporrà drammaticamente solo molti anni più tardi, con le macerie del muro di Berlino e soltanto quando il terremoto giudiziario destinato a travolgere la politica italiana altererà per sempre il confronto tra i socialisti e gli ex comunisti e dopo anni di «duello a sinistra» senza esclusione di colpi in cui l´idea dell´«unità socialista» non riuscirà a decollare. Per colpa di inerzie e radicalismi ideologici che Paolo Bufalini aveva sempre contrastato. Pubblichiamo il passaggio sul problema dell’unità con i socialisti del documento del 1965 di Paolo Bufalini. E, dopo, le correzioni proposte da Pietro Ingrao. IL DOCUMENTO PER L´UNIFICAZIONE Ogni forza porta in questo grande orientamento contenuti particolari in relazione alle diverse posizioni e tradizioni di classe, politiche e ideali. E in tale differenza non vi è solo una difficoltà nuova e profonda per realizzare l´unità, ma vi è anche una nuova ricchezza di contributi positivi. Questa differenziazione è, comunque, la conseguenza e l´espressione di una avanzata, di una estensione del socialismo e come tale deve essere da noi, prima di …

PER UNA EPINAY DEL SOCIALISMO ITALIANO. LA LETTERA DI VALDO SPINI

da Valdo Spini – riceviamo e pubblichiamo l’intervento svolto all’attivo del centro Italia. …”La proposta di Socialismo XXI di una nuova Epinay”… “deve proporre di riunire formazioni politiche, gruppi ed associazioni mettendo fine a” divisioni “che indeboliscono tutti, attraverso un appello veramente unitario e aperto” …”l’obiettivo è realistico” e la “situazione politica può costringerci anche a studiare iniziative immediate”. Le elezioni europee hanno dimostrato che, pur in difficoltà, il Partito del Socialismo Europeo è tutta l’altro che morto. In particolare, Pedro Sanchez col suo Psoe è destinato ad avere un ruolo anche nella definizione degli organigrammi istituzionali. Questo è molto importante anche per un’identità socialista italiana. Una delle scelte possibili e di fatto da vari compagni praticate alle ultime elezioni europee è stata di votare per lo spietzenkandidaten socialista, Frans Timmermanns attraverso il voto al Pd, ma finalizzato chiaramente a questo obiettivo. Quanto alle liste per le europee messe in campo dal Pd, nel loro complesso erano chiaramente articolate in una parte di simpatie” macroniste”, in una parte che non aveva indirizzi precisi, e in una parte più sensibile all’appartenenza al socialismo europeo. Tutto questo può fare spazio ad una presenza incisiva della tradizione socialista italiana nel dibattito politico programmatico che inevitabilmente si aprirà.La proposta di “Socialismo XXI” di una assemblea costituente (una “nuova Epinay”) da realizzare nel 2020 è una proposta che ha dimostrato nella recente conferenza di Rimini di avere coagulato un’importante assemblea di compagni. Essa si deve proporre l’intento di riunire formazioni, politiche, gruppi, associazioni, mettendo fine ad una diaspora che indebolisce tutti, attraverso un appello veramente unitario e aperto, che sappia parlare a tutte le militanti ed i militanti pur nelle varie esperienze di questi anni ed in particolare alle giovani e ai giovani che vogliono avvicinarsi a noi.Infine, l’obiettivo 2020 è realistico, ma dobbiamo guardare attentamente alla situazione politica che può costringerci anche a studiare iniziative immediate. Firenze, 1° giugno 2019 SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it