di Marco Sassi |

Era il 2 maggio 1918 quando Amilcare Cipriani, dopo una lunga, rocambolesca, sofferente e onestissima esistenza, lasciò questo mondo. Da qualche tempo si era dissipata quella forza fisica che lo aveva accompagnato durante tutta l’incredibile vita – incredibile per davvero perché, in alcuni casi, andò oltre ogni limite del possibile –, e la spola tra la piccola abitazione parigina, una piccola tana piena di libri e giornali alle pendici di Montmartre, e l’ospedale si era fatta sempre più frequente. L’ultimo ricovero alla casa di salute Dubois, in un popolare quartiere della capitale francese, fu dovuto ad un attacco che dapprima parve essere leggero ma che invece non gli diede scampo. Aveva guardato fin troppe volte la morte in faccia, ora era arrivato il momento giusto per cedere alle sue insistenze. E stanotte si è spento; lieve come un soffio, la morte è passata sulla esigua fiamma che attestava ancora, in un gigantesco corpo in sfacelo, la più generosa delle anime – si leggerà il giorno successivo al decesso sulle colonne di uno dei maggiori quotidiani italiani.

Morì quasi solo, pochi gli amici rimasti al suo fianco; i più se n’erano andati già da tempo, gli altri gli voltarono le spalle dopo la sua scelta interventista mai compresa e che, con troppa leggerezza, avevano accostato a quella mussoliniana. Niente di più sbagliato. Cipriani con Mussolini aveva ormai solo una cosa in comune, il nome. Il padre del futuro dittatore, per omaggiare uno dei suoi grandi miti contemporanei, al momento della nascita diede infatti al figlio, come secondo nome, quello di Cipriani: Amilcare.

Ma chi fu realmente Cipriani? A questa domanda è forse impossibile rispondere. Non lo era troppo chiaro neppure ai suoi contemporanei. Le risposte sono troppe e in contraddizione, ebbe a dire Luigi Cesana all’epoca direttore de «Il Messaggero».

Nato ad Anzio nel 1843 ma trasferitosi a Rimini a pochi mesi, era stato fin da ragazzino – e sempre lo rimase – un convinto garibaldino. Con l’Eroe condivise diversi campi di battaglia, dalla Sicilia al Tirolo, e con ogni probabilità i Vosgi. Dopo i fatti d’Aspromonte fu costretto a fuggire dall’Italia perché agli occhi della monarchia sabauda era solo un disertore da catturare, e dunque s’imbarcò per la Grecia dove partecipò ad una rivoluzione contro la casa reale. Da qui fuggì nuovamente approdando ad Alessandria d’Egitto, dando vita a diverse Società di mutuo soccorso di stampo mazziniano. Mazzini lo conobbe qualche anno più tardi, a Londra, dove si era rifugiato quando fu costretto a lasciare l’Egitto per un triplice omicidio commesso per legittima difesa e ne fu amico e seguace, per poi allontanarsi. Cipriani era più uomo d’azione che di trame e filosofie, e prediligeva il campo di battaglia all’organizzazione politica.

A Londra incontrò sia Marx che Bakunin, fece molte letture, si avvicinò all’internazionalismo oscillando tra il pensiero anarchico e quello socialista ateo e rivoluzionario e poi, di punto in bianco, fece armi e bagagli per dirigersi a Parigi ed unirsi alla Comune. Fu tra i protagonisti di quella meravigliosa esperienza come colonnello di Place Vendôme e, al suo termine, venne arrestato rimanendo però miracolosamente in vita al bagno di sangue che seguì. Aveva già la bara pronta, ma la pena di morte venne commutata in lavori forzati in Nuova Caledonia, dove rimase otto anni. Dall’esperienza comunarda e dalla successiva pena in Oceania, il suo nome esplose nel mondo libertario e in esso, in seguito, si riconobbero in tanti, anarchici, socialisti, comunisti, parlamentaristi e antiparlamentaristi. Perché, come si diceva, lui fu un po’ tutto questo, difficilmente collocabile con precisione in una corrente politica univoca. Ma non fece in tempo a godersi la libertà, perché subito dopo la liberazione ecco che nuovamente venne arrestato, questa volta in Italia e per cospirazione contro lo Stato, ma non si trovarono prove schiaccianti per tenerlo alle catene e così, vigliaccamente,venne rispolverato quel triplice omicidio di tanti prima.

Condannato ad una pena di venticinque anni, venne destinato al temuto carcere di Portolongone, dove l’intenzione era quella di fare impazzire il prigioniero applicando, senza alcuna umanità, un regolamento rigidissimo e insopportabile. Lui, però, riuscì ancora a farcela. Uscì da quel bagno penale dopo otto anni, anni in cui all’esterno in tanti si batterono per lui, intellettuali e persone del popolo, lo candidarono anche diverse volte come deputato alla Camera nelle file socialiste. E fu anche eletto, certamente, ma le porte del carcere rimasero chiuse fino a che, l’odiatissimo Umberto I – e ricordiamoci che Cipriani anni dopo scrisse un pamphlet in difesa di Gaetano Bresci – firmò la grazia. Una grazia che il prigioniero si era sempre rifiutato di chiedere.

Di questa carcerazione, che fece il giro d’Europa e se ne parlò su quasi tutti i giornali dell’epoca, ci ha lasciato un diario preciso, una testimonianza preziosa per comprendere le condizioni di un detenuto politico di quel tempo. Un diario pubblicato a puntate nel 1888 su circa sessanta numeri de «Il Messaggero» e che ora ho riunito nella seconda parte del mio recentissimo libro Amilcare Cipriani il rivoluzionario, edito da Bookstones Edizioni. La prima è dedicata invece alla sua biografia, ricca, movimentata, a volte tragica e dove, più che il Cipriani politico si vuole indagare il Cipriani uomo, perché in lui i due aspetti sono una cosa sola.

È questa un’occasione per ricordare uno degli eroi d’Italia oggi dimenticati, quell’eroe che, come ha scritto Vittorio Emiliani nella Prefazione a questo libro era alto, bello, elegante nel portamento, coraggioso e forte in modo leggendario. Un combattente senza paura, pronto a sacrificarsi per la libertà dei popoli oppressi, rischiando sovente la vita.

MARCO SASSI, Amilcare Cipriani il rivoluzionario, Bookstones Edizioni 2019, pp. 324.