BISOGNERA’ RIFONDARLO QUESTO SOCIALISMO ITALIANO

di Giorgio Ruffolo |

“L’anno scorso la gioventù russa, per ricordare Liebknecht a Mosca, davanti al Cremlino, bruciò il fantoccio di Scheidemann; quest’anno la gioventù socialista italiana chiede ai rappresentanti comunisti di bruciare qui il fantoccio dell’unità”. Qui vuol dire Livorno, gennaio del 1921, Congresso del Partito socialista e della scissione comunista. Chi parla è Secondino Tranquilli, direttore del giornale dei giovani socialisti “Avanguardia”. Più tardi si chiamerà Ignazio Silone.
Liebknecht, Scheidemann, Silone. Chi se ne ricorda? Che senso ha ricordare Livorno e la fondazione del partito comunista? Non c’è più. E’ sprofondata l’Unione Sovietica. Viviamo l’era di un capitalismo mondiale trionfante con il quale la sinistra del nuovo secolo deve rifare i conti. Certo, non avrebbe alcun senso farli con le cifre del 1921.

Pure, una grande forza politica non vive solo di attualità. Deve avere il senso storico della sua direzione. Se smarrisce la memoria, perde anche la percezione della realtà presente e diventa incapace di progettare il futuro. Da dove veniamo? Dove andiamo?
Alfredo Reichlin ha scritto un saggio imperniato sul nesso tra la sinistra italiana e l’identità storica di questo paese. Se non si coglie quel nesso la sinistra pensa nel vuoto e scrive sull’acqua. Da questo punto di vista, Livorno Ventuno non è solo il dagherrotipo sbiadito di una folla di gentiluomini in bombetta e di operai baffuti in tuta che si spostano cantando l’Internazionale, tra due ali di guardie regie, dal teatro Goldoni al Teatro San Marco, dove gli tocca stare in piedi in una platea senza sedie, e ci piove pure dentro. E’ un momento cruciale della grande storia della sinistra italiana e del suo rapporto con la società e con la nazione italiana.
Momento drammatico. In Russia, sono al potere da poco i bolscevichi, e combattono per la sopravvivenza. In Italia, le bande fasciste dilagano nelle piazze. Drammatica anche la scena del Congresso (chi ne farà un grande film?)

C’è il dramma di Giacinto Menotti Serrati. Non molti ricordano che la scissione avvenne tra la forte minoranza dei “comunisti” e la maggioranza dei socialisti di sinistra (si chiamavano non a caso massimalisti), di cui Serrati era il capo; e che aderiva pienamente alla rivoluzione dei Soviet e alla Terza Internazionale: ma si rifiutava ostinatamente di espellere dal partito la sparuta minoranza riformista di Turati, come Mosca esigeva. Non rompere l’unità della sinistra di fronte all’offensiva della destra. Non vale la pena di ricordare quell’atto di responsabile abnegazione?
C’è Turati e il suo poderoso discorso, dapprima interrotto da grida di Viva la Russia, poi man mano sempre più applaudito e finito con la maggioranza del Congresso in piedi. Turati che rivolgendosi ai comunisti, dice: “…se uscirete salvi dalla reazione che avrete provocata e se vorrete fare qualcosa che sia veramente rivoluzionario, qualcosa che rimanga come elemento di società nuova, voi sarete forzati, a vostro dispetto – ma lo farete con convinzione, perché siete onesti – a ripercorrere completamente la nostra via, la via dei social-traditori ….”.

C’è il silenzio di Antonio Gramsci. Gramsci detestava l’ideologismo schematico e l’avventurismo di Bordiga, il più autorevole fondatore del partito comunista. Più tardi affermerà che la scissione di Livorno era stata “il più grande regalo fatto alla reazione”.
Da quel Congresso di Livorno, ne è passata di acqua sotto i ponti: talvolta, anche sopra, nel paesaggio della sinistra italiana, da cui – rispetto alla antica problematica – emergono due fatti incontestabili. Il primo è l’esplicita o tacita vittoria del riformismo: e neppure di quello turatiano, concepito come una lunga marcia verso una società socialista, senza capitalismo e senza classi; ma come un durevole indeterminabile compromesso storico con il capitalismo, nel segno e nel senso della giustizia sociale.
Il secondo fatto è l’anomalia italiana: e cioè il fatto che, a differenza di quel che accade negli altri paesi europei dove il programma riformista è stato affidato a un grande partito socialista e democratico, in Italia la sinistra si è frammentata – altro che Livorno! – in pezzi grandi e piccoli. Ci sono quelli che si richiamano romanticamente a un comunismo inedito e metapolitico. Ci sono quelli che cercano di presidiare tenacemente i resti del partito socialista. E ci sono persino quelli che odi e rancori personali profondi hanno proiettato ben fuori della sinistra, e spinto fino alla impudenza di celebrare una rinascita “socialista”, con fiori bandiere e lacrime, nel campo della destra, abbracciati affettuosamente al suo capo.

C’è infine il partito democratico della sinistra, il pezzo più forte, ma lontano dalla dimensione dei partiti socialisti europei; pienamente socialista in Europa, ma non in Italia, dove resta refrattario ad una identificazione piena ed esplicita con una tradizione storicamente conflittuale.
Ecco l’anomalia della sinistra italiana: che è oggi denunciata come una sua grave debolezza anche da alcuni di quelli che a suo tempo, sconsideratamente, la celebravano come una ricchezza. Se oggi l’Italia manca di un grande partito socialista “normale” – insomma, come quelli che pare funzionino in quell’Europa che assumiamo come modello per tutto il resto, dall’euro alla mucca pazza – è anche responsabilità degli inventori di “repubbliche inesistenti” (come diceva Machiavelli e ripeteva Berlinguer). E che continuano imperterriti a indicare, come méta della sinistra italiana, il suo scioglimento in un minestrone vegetal-democratico di cui nessuno , ma proprio nessuno , ha la ricetta.

Il gusto della circumnavigazione che ha fatto la gloria degli esploratori italiani del Medioevo è la dannazione di certi politici italiani dell’Evo Moderno. Così si smarrisce la via maestra, per imboccare uno di quelli che Turati chiamava gli “scorcioni“, quelli che non portano da nessuna parte. E così si indebolisce proprio quella coalizione sulla quale si vorrebbe fondare un nuovo partito: perché le coalizioni si fanno attorno a una forza e non mettendo insieme debolezze diseguali.

Di costruire un vero grande partito del socialismo italiano. Di un socialismo che non è solo un movimento politico, ma un ideale morale, come il cristianesimo: una forza trascinante della storia dell’Italia e dell’Europa, un fattore costituente della loro identità.
E’ un sogno testardo?
L’ostinazione dei sogni fa parte integrante dell’impegno politico serio. Arthur Koestler, nel libro scritto insieme con altri insigni ex comunisti, “Il Dio che è fallito”, racconta la storia di Giacobbe. Come si sa, Giacobbe era innamorato della bella Rachele, e per averla in sposa si era impegnato a lavorare per sette anni nell’azienda di suo zio Labano, un tipo non proprio raccomandabile. Dopo sette anni, svegliandosi al mattino, scoprì che non aveva dormito con la bella Rachele, ma con la brutta Lia. Non si perse d’animo per questo. Ricontrattò il patto, accettando di lavorare per altri sette anni. Ed ebbe finalmente Rachele (che naturalmente, in tutto quel tempo, non era cambiata). “Per l’amore che le portava”.