LEGISLAZIONE DEL LAVORO

 

Occorre evitare una eccessiva insistenza al ricorso legislativo, tipica di molti giuslavoristi, per normare materie invece piu’ proprie del rapporto di lavoro e perciò delle relazioni contrattuali tra le parti.

Questa pratica, inaugurata dai governi Berlusconi, proseguita con Monti fino a Renzi ed oggi anche con l’attuale Esecutivo giallo-verde, manifesta un atteggiamento tendente ad ignorare il ruolo delle parti sociali (che spesso su queste materie non sono state nemmeno consultate) e dell’autonomia contrattuale che tutti i Ministri socialisti hanno sempre rispettato e valorizzato.

Semmai il PSI è sempre stato favorevole ad una legislazione di sostegno delle principali norme sancite dai CCNL e/o degli accordi interconfederali ma non sostitutiva degli stessi.

Inoltre occorre particolare attenzione ad evitare di confondere le politiche attive del lavoro (quelle che creano nuova occupazione o reimpiego) con le misure legislative che riguardano più la tutela del lavoratore.

Infatti, esiste una ricorrente erronea idea – ad es. – che vede nel restringimento del campo delle “flessibilità” lo strumento che possa meglio difendere i livelli di occupazione, obiettivo che – invece – si realizza con politiche economiche ed industriali espansive e non restrittive, con forti investimenti pubblici e privati, stimolati quest’ultimi da agevolazioni fiscali o misure premiali piuttosto. Si raggiunge, invece, il risultato opposto (vedi le reazioni delle associazioni imprenditoriali al recente decreto voluto dai “grillini”).

Si ricorda, a conferma, un dato recentissimo riguardante l’andamento del MdL nel Veneto, regione con il più alto tasso di aumento di produzione ed esportazioni nel 2018 : 37.000 contratti a tempo indeterminato in più rispetto all’anno precedente, 5.400 in meno contratti a termine, con un calo significativo di proroghe e rinnovi di contratti a termine anche grazie agli effetti delle restrizioni decise dal recente decreto “Dignità” varato dal governo gialloverde, ma merito anche degli incentivi varati dal governo Gentiloni per le assunzioni a tempo indeterminato di giovani sotto i 36 anni.

Se il mercato “tira” molti contratti a tempo determinato sono tradotti come definitivi, indipendentemente dai vincoli, tant’è che il 4^ trimestre del 2018 che vede affacciarsi non solo una stagnazione ma – forse – anche una nuova recessione, si registra una caduta dei livelli occupazionali e delle assunzioni sia a tempo indeterminato che a tempo determinato !!

Certamente l’eccesso di flessibilità e meglio ancora l’uso, spesso distorto ed incontrollato di molte norme, ha prodotto una situazione di precarizzazione che va ridimensionata e diversamente regolata, anche se – in parte – è già avvenuto con il già citato decreto “Dignità” sul lavoro varato dall’attuale Governo.

Riguardo al lavoro interinale, è necessario un intervento finalizzato a rivedere le regole ma dovrebbe essere esclusa la semplice soppressione.

Stesso discorso vale per quanto riguarda la normativa riguardante l’art 18, rispetto al quale andrebbe ipotizzata anche l’eventualità di rendere praticabile lo strumento della conciliazione ed arbitrato che renderebbe più spedito l’iter per giungere alla conclusione di una vertenza di ricorso contro un licenziamento considerato illegittimo e valorizzerebbe il ruolo delle parti sociali titolari della contrattazione.

 

E’ indispensabile rivedere l’articolato di cui all’art. 32 della legge 183/10 confuso e complicato, tale da rendere difficile l’esercizio di gestione delle tutele per i lavoratori.

E’ necessario ripristinare la gratuità di tutte le controversie di lavoro e previdenziali, come è avvenuto in Italia dal 1973 fino al 2011.

Occorre abrogare il rito Fornero per i licenziamenti, in quanto fonte di inutile duplicazione del giudizio di primo grado.

Occorre introdurre norme che rendano effettivo, almeno per i licenziamenti, il rispetto dei termini veloci per lo svolgimento del giudizio previsti dalla legge n. 533/1973.

Vanno rivisti i meccanismi dei c.d. ammortizzatori sociali per evitare che divengano strumenti di assistenzialismo improduttivo: tutte le indennità, in particolare sia quelle di Cassa integrazione che di disoccupazione (attuale NASPI), vanno, oltre che ridotte per durata, condizionate alla frequenza obbligatoria di corsi di qualificazione o di attività di interesse sociale e/o pubblico, che vanno obbligatoriamente attivate da enti pubblici.

Per reimpiego, cioè l’obiettivo della ricollocazione al lavoro di coloro che sono stati sospesi per un lungo periodo o licenziati per crisi aziendali rimane da precisare in quale contesto legislativo piu’ complessivo esso puo’ essere affrontato perché questo è un tipico argomento (non limitandosi solo all’erogazione di un sostegno al reddito) di politiche attive del lavoro e non solo assistenziali.

Vanno ampliate norme a favore di lavoratori genitori e in particolare delle lavoratrici madri. Tale questione è affrontata dai principali CCNL che ha esteso agevolazioni -oltre ai tradizionali benefici che riguardano le lavoratrici madri- per ambedue i genitori per l’assistenza ai figli disabili e non solo a quelli in tenera età.

Si propone l’adozione di uno STATUTO DEI LAVORI. Lo Statuto voluto dal compianto Giacomo Brodolini con l’aiuto del compagno Gino Giugni fu tarato allora su una concezione statica del lavoro dipendente tradizionale che negli anni successivi che negli anni successivi ha subito parziali trasformazioni. Vi sono attività c.d. autonome (”partite iva”) piu’ subordinate di quelle tradizionali ma prive di tutela anche sul piano salariale oltre che normativo e dei diritti. Vi sono poi attività (e figure professionali) che, pur dipendenti da una azienda, operano fuori dall’azienda e con propri mezzi in un regime di apparente “autogestione” (lavoro a domicilio, telelavoro, etc.) che avrebbero bisogno di essere tutelate al pari del lavoro subordinato tradizionale. La legge 300/70 non ne parla.

Non è vero che vi siano lavoratori che non hanno copertura contrattuale. In comparti deboli sindacalmente il CCNL puo’ non essere applicato ma – in questo caso – siamo in presenza di violazioni non di assenza di norme. Non esiste un solo settore, una sola categoria che non sia coperta da contrattazione nazionale. In comparti a basso potere sindacale puo’ esserci una normativa “non aggiornata” rispetto al sorgere negli ultimi tempi di nuove figure professionali e quindi di nuove problematiche. Si tratta in questo caso di rendere il CCNL di categoria o di settore piu’ rispondente all’evoluzione dei lavori intervenuta in quel contesto. Ad esempio si è sentito dire in TV o leggere nella stampa che i c.d. “pony espress” o coloro che portano dai ristoranti vivande a domicilio dei clienti – spesso le pizze – che costoro sarebbero privi di tutela contrattuale ed assicurativo- previdenziale. Costoro possono essere benissimo inquadrati o nel CCNL del terziario o in quello degli ausiliari del traffico: basta individuare contrattualmente (semprechè siano assenti ) normative specifiche per dette mansioni (e detti nuovi lavori) ed inquadrarle nei rispettivi mansionari e/o “inquadramenti professionali”.

L’affermazione che alcuni nuovi lavori, alcune nuove qualifiche sarebbero prive di tutela contrattuale è un argomento utilizzato dai teorici del “salario minimo garantito” fissato per legge, soluzione discutibile perché il salario minimo garantito già esiste in Italia ed è rappresentato dalla retribuzione minima prevista dai singoli CCNL per l’ultima qualifica.

Oltre a rappresentare un negativo condizionamento all’autonomia contrattuale (obiettivo mai abbandonato dai governi non progressisti), il salario minimo per legge non potrebbe che essere di un valore inferiore a quello minimo previsto dalla maggioranza dei contratti nazionali. Per quale motivo i datori di lavoro dovrebbero poi negoziarlo nelle rispettive categorie se esiste per legge??

Semmai, nel nostro Paese, Vi è una eccessiva proliferazione di CCNL come dimostrato dall’anagrafe insediata presso il CNEL che registra circa 450 CCNL, con un aumento di duecento contratti rispetto a dieci anni fa.

Molti sono “contratti di comodo” negoziati e firmati da organizzazioni sia datoriali che sindacali di “comodo” per stabilire normative e condizioni salariali “in pejus” rispetto a quelle previste dai contratti negoziati dalle organizzazioni storiche e/o maggiormente rappresentative.

Questo, allora, è un aspetto sul quale deve intervenire la legge per stabilire il riconoscimento di soggetto negoziale sulla base di indici di rappresentatività misurata ed accertata, cosi’ come avviene da vari anni nel pubblico impiego.

Una volta “disboscata” la giungla di false organizzazioni e quindi non riconosciuti patti di lavoro “di comodo”, la legge dovrebbe altresì introdurre norme e misure che possano favorire e sostenere forme di “cogestione” e/o “codecisione” ai fini della partecipazione dei lavoratori agli obiettivi di sviluppo aziendale nonché relazioni collaborative tra le parti proprie di Enti o comitati bilaterali per la promozione e gestione comune tra imprese e lavoratori di forme di welfare aziendale o settoriale e della formazione professionale.

Rudolf Meidner, studioso e ricercatore socialista svedese della confederazione sindacale L.O. lo definì o il “socialismo dell’autogestione”!!