INFO DATI IN ATTESA DELLA CONFERENZA PROGRAMMATICA DI RIMINI

Fonte: sbilanciamoci.org

I nostri numeri sull’Italia

Questa sezione si propone di fornire strumenti di semplice lettura e comprensione per restituire in modo quanto più possibile immediato una vasta mole di informazioni rilevanti su ciò che succede e su come si vive oggi in Italia.

Qui sotto verranno visualizzati alcuni grafici, accompagnati da brevi testi di commento, che sono stati selezionati con il duplice obiettivo di gettare una luce sulle tendenze in atto in Italia e di fotografare i problemi e le sfide più urgenti da affrontare nell’immediato futuro.

I grafici indagano la condizione del nostro paese rispetto agli anni passati o al confronto con gli altri Stati europei: organizzati rispettando la partizione dei diversi capitoli della Controfinanziaria di Sbilanciamoci!, presentano e riassumono molti dati economici, sociali e ambientali, dal sistema fiscale all’occupazione, dal mercato del lavoro al reddito e al welfare.

In altri termini, i grafici che seguono sono idealmente pensati come tappe di un percorso che inquadra e attraversa le diverse priorità che dovrebbero stare al centro dell’agenda politica di un paese attento alla giustizia economica e sociale, all’equità fiscale, alla sostenibilità ambientale. Cominciando proprio da quello che Sbilanciamoci! da sempre propone: il buon utilizzo della spesa pubblica.

FISCO E FINANZA
Sempre più indebitati…

Le ricette di austerità adottate in Europa per rimettere in ordine innanzitutto i conti pubblici dei paesi della cosiddetta “periferia” (Grecia, Spagna, Italia, Portogallo) non danno i frutti sperati. L’andamento del rapporto debito/Pil, uno degli indicatori guida su cui si fondano queste misure, anziché ridursi e rientrare nei limiti imposti dal Trattato di Maastricht (60%), fa registrare un aumento proprio quando e dove avrebbe dovuto ridursi. Ed è così che in Italia, dal 2007 al 2017, il rapporto debito/Pil passa dal 99,8 al 131,2%. Senz’altro una buona ricetta… per un fallimento annunciato.

…senza essere spendaccioni

L’Italia ha la cattiva fama di essere un paese “spendaccione” e dalle finanze pubbliche disastrate. Ma basta dare uno sguardo al dato sul rapporto deficit/Pil per capire come nel 2017 l’Italia abbia fatto registrare un livello di deficit (l’indebitamento netto che comprende anche la spesa per interessi) pari a -2,4%: un livello inferiore rispetto a quello di molti altri paesi europei e della stessa media europea.


Maledetti interessi

Se si guarda al dato del saldo primario – cioè la differenza tra entrate e uscite di un paese, esclusa la spesa per interessi – l’Italia risulta addirittura uno dei paesi più virtuosi del continente, con un avanzo primario pari all’1,5%, molto superiore alla media europea (1%). Altri grandi paesi dell’Unione (Francia e Spagna in primo luogo) fanno registrare invece avanzi primari peggiori. Questo significa che sul deficit italiano grava in larga misura la cospicua spesa per interessi che il nostro paese si trova a dover sostenere ogni anno.

Il made in Italy è fuori moda

Molte delle politiche economiche e monetarie perseguite in Europa hanno lo scopo di rendere le economie europee più “competitive”, in base al principio secondo cui dalla crisi si esce incrementando le esportazioni, cioè diventando tutti un po’ più tedeschi. Nonostante questi “buoni” propositi, la quota di mercato delle esportazioni italiane nel mondo si riduce nettamente rispetto ai livelli pre-crisi: assistiamo infatti alla riduzione delle esportazioni sia dei beni (dal 3,6 nel 2007 al 2,9% nel 2017) sia dei servizi (dal 3,4 nel 2007 al 2,1% nel 2017).

Sempre in attesa di crescere

L’andamento del Pil del nostro paese, con lo stop alla timida ripresa registrato dall’Istat nell’ultimo trimestre, rivela l’incapacità di uscire dalla crisi del 2007-2008 e di attestarsi su un vero sentiero di crescita. Al di là dell’instabilità che caratterizza questo andamento, sono due i dati che risaltano agli occhi: da un lato, la perdita di valore del Pil italiano rispetto al 2007, dall’altro il ruolo giocato in questo risultato negativo dalla componente della domanda interna. Insomma, l’assenza di reali politiche di sostegno e stimolo alla domanda aggregata pesa come un macigno sulla crisi del paese e sulle sue prospettive di ripresa.

La gara al ribasso delle tasse alle imprese

Grazie al mercato comune e alla concorrenza fiscale gli imprenditori europei riescono a spuntare trattamenti fiscali sempre più favorevoli. La forte diminuzione della tassazione media dei redditi d’impresa fra il 2002 e il 2017 – ad esempio, in Italia dal 40,3 si passa al 27,8%, in Germania dal 38,3 al 30,2% – mostra come in tutta Europa si sia avviata una gara al ribasso sulla tassazione delle imprese. Non solo dunque maggiore flessibilità sul mercato del lavoro (leggasi meno diritti per i lavoratori), ma anche meno tasse per le imprese con l’illusione di scongiurare il rischio delle delocalizzazioni e attrarre occupazione.

La grande fetta invisibile dell’economia italiana

209,8 miliardi di euro, il 13,8% del Pil: a tanto ammonta nel 2016 (ultimo dato disponibile) la stima dell’economia non osservata in Italia, derivante dalla somma tra il volume dell’economia sommersa (a sua volta costituita in grandissima parte da sotto-dichiarazione e lavoro irregolare) e il volume delle attività illegali. Il peggioramento del dato rispetto ai livelli del 2013 dimostra l’inadeguatezza delle politiche messe in atto finora per contrastare evasione fiscale, lavoro nero e criminalità organizzata. E per recuperare, al contempo, ingentissime e preziose risorse per le casse statali.

La favola della spesa pubblica elevata

In ampi strati dell’opinione pubblica e del ceto politico regna la convinzione che la spesa pubblica italiana sia tra le più elevate in Europa: una spesa improduttiva e fonte di sprechi, da tagliare a colpi di spending review e privatizzazioni. Tuttavia, numeri alla mano, questa convinzione si rivela ampiamente infondata. La spesa pubblica complessiva italiana è pari infatti nel 2015 a 828 miliardi di euro, a fronte dei 1.243 della Francia, dei 1.334 della Germania, dei 1.104 del Regno Unito: in termini di spesa reale pro-capite, il nostro paese, con 13.630 euro nel 2015, è pienamente in linea con la media dell’Unione Europea a 28 paesi (13.645), facendo peraltro registrare valori nettamente inferiori rispetto al 2007 (14.524 euro).

POLITICHE INDUSTRIALI, LAVORO E REDDITO, PENSIONI

Non è un paese per lavoratori

I numeri sulla disoccupazione in Italia mostrano un paese ancora incapace di creare lavoro, soprattutto se stabile e di qualità, con ferite ancora più profonde che attraversano le divisioni per aree geografiche e per genere. Sebbene in progressiva riduzione nell’ultimo anno, il tasso di disoccupazione a metà del 2018 (10,7%) è ancora molto lontano dal 6,1% del 2007. Praticamente raddoppiato il tasso di disoccupazione degli uomini (passato dal 4,9% del 2007 al 9,8% di metà 2018) mentre quello femminile è aumentato da 7,8 a 11,8%.

L’infruttuosa ricerca di lavoro

In Italia quasi 6 disoccupati su 10 (58,8%) sono alla ricerca di un’occupazione da più di un anno: un dato che mette in mostra lo scarsissimo dinamismo del mercato del lavoro del nostro paese (oltre che il fallimento delle recenti politiche sull’occupazione). Superato il picco del 61,5% del 2014, la discesa si è subito arrestata nel 2017 e comunque rimane lontano il valore del 2007, quando la percentuale di disoccupati di lunga durata a livello nazionale era pari al 47,6.

Giovani a spasso

Nel nostro paese si fa – ed è stato fatto – troppo poco per recuperare la condizione di quei giovani che pur cercando lavoro non riescono a trovarlo. Anche se il dato è in miglioramento negli ultimi anni, il divario rispetto a dieci anni fa è larghissimo e oggi più di un terzo dei giovani tra i 15 e i 24 che cerca lavoro non lo trova. Il valore del dato italiano è peraltro doppio rispetto alla media europea: un’Unione Europea segnata da una profonda spaccatura, con un tasso di disoccupazione giovanile in Grecia nel 2016 del 46,6% e in Germania del 6,8%.

Lavorare meno, lavorare tutti…

Le ore medie lavorate in un anno continuano ad attestarsi su livelli più elevati nei paesi europei che hanno maggiormente risentito degli effetti negativi della crisi. Questi paesi “periferici” continuano infatti a far registrare numeri decisamente più alti rispetto a quelli di altri Stati del “centro”. In Italia, ad esempio, si sono lavorate in media nel 2017 (ultimo dato disponibile) 1.723 ore, contro le 1.514 della Francia e le 1.356 della Germania. Alla luce di questo dato – soprattutto se lo si accompagna con quello sulla disoccupazione – l’opzione del “lavorare meno, lavorare tutti” sembra quanto mai auspicabile e attuale…

…e guadagnare di più

La crisi economica che segna il paese da dieci anni ha un impatto negativo sul mercato del lavoro non solo in termini di aumento della disoccupazione, ma anche di diminuzione dei salari. Ed è così che in Italia avviene il contrario rispetto a quanto accade in altri paesi europei, in cui si assiste a una crescita – molto consistente in Germania e Francia – dei salari medi annui. Tutto ciò chiama in causa la scelleratezza delle politiche comunitarie e nazionali sull’occupazione: misure tutte centrate sulla moderazione salariale, inseguendo l’abbaglio di promuovere in questo modo la competitività e compensare il gap di produttività.

L’inarrestabile ascesa del precariato

Nel nostro Paese è in costante crescita il numero di lavoratori interessati da rapporti di lavoro a tempo determinato con contratti atipici (contratti in somministrazione, intermittente, stagionale e di apprendistato). Come illustrano i dati sui nuovi contratti stipulati nei primi nove mesi di ogni anno dal 2014, il 2017 ha visto un netto aumento dei contratti atipici (+33,3%) e a tempo determinato (+25,8%) rispetto allo stesso arco di tempo del 2016, con una crescita che anche nel 2018 non si arresta. Nel complesso, il numero dei rapporti di lavoro precari stipulati da gennaio a settembre 2018 supera i 4,7 milioni (sono stati 5,9 milioni in tutto il 2017). Le assunzioni a tempo indeterminato, che avevano visto un picco nel 2015 a seguito degli ingenti incentivi economici del Decreto Poletti, tornano al di sotto del livello del 2014. Questi numeri portano con grande chiarezza alla luce i limiti e l’incapacità delle scelte politiche della scorsa legislatura – prime tra tutte il sopra citato Decreto Poletti e il Jobs Act del governo Renzi – di affrontare il fenomeno del lavoro precario e di incentivare una domanda di lavoro di lavoro stabile da parte delle imprese.

Il grande inganno del Jobs Act

Al di là della retorica con cui fu presentato dal governo Renzi, il Jobs Act non sembra aver migliorato le condizioni del mercato del lavoro italiano. Il grafico mette in luce l’importanza delle trasformazioni contrattuali: il forte aumento dei contratti a tempo indeterminato a dicembre 2015 e la repentina caduta da gennaio 2016 in poi testimoniano il ruolo chiave degli incentivi nello stimolare questa dinamica. Un’altra conferma del ruolo prevalente della decontribuzione nello spiegare la dinamica dei contratti a tempo indeterminato nel 2015 – ruolo valutato rispetto all’effetto atteso dalle modifiche alla disciplina dei licenziamenti prevista dal Jobs Act – emerge dall’analisi della dinamica dei contratti a tempo indeterminato tra 2014 e 2017: una volta operata infatti la riduzione del 50% dell’importo degli sgravi ottenibili dalle imprese a fronte di assunzioni e trasformazioni con il nuovo contratto a tutele crescenti (gennaio 2016), i contratti permanenti risultano inferiori rispetto sia al 2015 che al 2014. Tale trend si conferma sino ad agosto 2017 (ultimo dato disponibile).

Italiani, popolo di santi, ristoratori e commercianti

Nel corso degli ultimi tre anni, e per ciascuno di questi anni, la quota di assunzioni a tempo indeterminato più alta si registra di gran lunga nel settore del commercio e della ristorazione, tipicamente un comparto a basso contenuto tecnologico e con modesti investimenti in ricerca e sviluppo. Le assunzioni nelle attività professionali, scientifiche e tecniche, nelle amministrazioni e nei servizi di supporto rimangono invece pressoché stabili, mentre nel settore pubblico il dato diminuisce dal 15,8% del 2016 al 14,6% del 2017. Non sono buone notizie: per rilanciare l’economia italiana occorre innanzitutto investire e favorire l’occupazione proprio nei comparti produttivi più innovativi e a più alto contenuto tecnologico e valore aggiunto.

Investimenti al palo

L’Italia ha subìto negli ultimi dieci anni una perdita di competitività e capacità produttiva causata in larga parte da un forte calo degli investimenti: questa contrazione, a sua volta, ha frenato e frena in modo decisivo le possibilità di ripresa. In questo quadro, gli investimenti in capitale fisso sono pesantemente diminuiti. La dinamica degli investimenti mostra una grave contrazione nel periodo 2008-2013. Negli anni 2014-2017, fase in cui (in termini tecnici) si è registrata l’uscita dell’Italia dalla recessione, gli investimenti non hanno tuttavia affatto recuperato i livelli pre-crisi, al punto che in termini percentuali ci troviamo oggi 20 punti al di sotto del valore del 2008.

Chi troppo, chi niente

I dati sulla distribuzione del reddito (da lavoro e da capitale) e della ricchezza (immobiliare e finanziaria) rilevati nel 2016 mostrano un paese attraversato da profonde disuguaglianze. Guardando i redditi, il quinto più povero delle famiglie italiane detiene una quota di reddito che supera appena il 6%, mentre al quinto più ricco va più del 40% dell’intera torta (42,1%). La disuguaglianza è ancora più marcata se si osservano i dati sui patrimoni immobiliari e finanziari: il 44% della ricchezza complessiva è qui nelle mani del 10% delle famiglie più ricche. Un riscontro confermato anche dall’indice di Gini – che va da 0 (completa eguaglianza) a 100 (massima diseguaglianza) – calcolato sui redditi (33,5), che è quasi la metà di quello calcolato sulla ricchezza (61,6).

WELFARE E DIRITTI

Sempre più vecchi…

Nel periodo 2002-2017 gli indicatori demografici registrano un peggioramento costante, mostrando come la crescita della popolazione non abbia fermato l’invecchiamento della stessa e non sia riuscita ad accrescere la quota della popolazione in età attiva. Il risultato è una maggiore dipendenza della popolazione più anziana e più giovane dalle performance di quella in età attiva. Infatti, negli anni 2002, 2008 e 2017, la popolazione registra un triplice peggioramento dell’indice di vecchiaia (il rapporto tra la popolazione di 65 anni e più e la popolazione di età 0-14 anni, moltiplicato per 100); dell’indice di dipendenza dagli anziani (il rapporto tra la popolazione di 65 anni e più e la popolazione in età attiva (15-64 anni), moltiplicato per 100); dell’indice di dipendenza strutturale (il rapporto tra popolazione in età non attiva (0-14 anni e 65 anni e più) e popolazione in età attiva (15-64 anni), moltiplicato per 100).

…e sempre di meno

Le prospettive demografiche dell’Italia indicano una marcata diminuzione della popolazione al 2064: 46 milioni di residenti, ovvero circa 14 milioni di individui in meno, di cui più di un terzo con più di 65 anni e appena il 10% con meno di 15 anni. Nel corso degli anni, il rapido declino demografico del paese non potrà più essere contrastato dall’afflusso di cittadini immigrati e si ripercuoterà sul modello di sviluppo, dato l’elevato numero di anziani e il basso numero di giovani. Se queste previsioni fossero confermate, la composizione della spesa pubblica tenderebbe inevitabilmente a orientarsi in direzione di quote sempre maggiori di spesa per welfare, pensioni e sanità, a favore degli anziani, e di un drastico ridimensionamento della spesa per l’istruzione. Alla luce di tutto ciò, le politiche di “tolleranza zero” nei confronti dell’immigrazione – perseguite con sempre maggiore determinazione negli ultimi anni da tutti i Governi, e in particolare dall’attuale – appaiono assolutamente miopi e controproducenti (oltre che lesive dei diritti umani).

Il mantra dell’insostenibilità della spesa sanitaria…

Il mantra secondo cui in Italia la spesa sanitaria pubblica è eccessiva deve essere smentito con decisione: dati Ocse alla mano, infatti, tale spesa nel nostro paese (pari a poco più di 2.500 dollari per abitante nel 2016) non appare così alta se confrontata con quella di altri Stati europei come Francia (3.626 dollari), Germania (4.694), Irlanda (3.878), Regno Unito (3.320). Anni e anni di insistenza da parte di politici, opinionisti ed “esperti” sull’eccesso di spesa in sanità hanno spianato la strada ai continui tagli nel finanziamento dei servizi pubblici sanitari e alla loro privatizzazione.

…e quello dell’insostenibilità della spesa sociale

Anche l’altro mantra per cui in Italia la spesa sociale sarebbe eccessiva – e di conseguenza non possiamo più permetterci di sostenere il costo del nostro sistema pubblico di welfare – va smentito con decisione, denunciandolo per ciò che è davvero: un potente e comodo alibi costruito e veicolato ad arte dai detrattori delle conquiste dello stato sociale. Basta guardare a composizione e ammontare della spesa pubblica pro-capite nel 2016 per verificare che spendiamo meno in protezione sociale di paesi come Francia e Germania (per non parlare della Svezia). Lo stesso vale per la (presunta) insostenibilità della spesa pensionistica: il dato sull’Italia (4.485 euro pro-capite) è sì superiore a quello tedesco (4.232), ma è inferiore a quello francese (5.030). E non si deve dimenticare che la spesa per malattia e disabilità in Italia (512 euro) è più bassa di quella di Francia, Spagna, Germania e Regno Unito.

Il welfare non è un costo!

Gli stanziamenti destinati ai principali Fondi sociali nazionali italiani negli ultimi dieci anni registrano nel complesso una forte contrazione. L’esempio più eclatante è rappresentato dal Fondo Nazionale per le Politiche Sociali, con cui lo Stato contribuisce a finanziare la rete ordinaria dei servizi e interventi sociali. Il confronto decennale mostra una contrazione analoga per il Fondo Nazionale Infanzia e Adolescenza e praticamente l’azzeramento del Fondo per le Politiche della Famiglia. Unica eccezione, il Fondo per la Non Autosufficienza. Ed è così che, in un contesto economico e sociale che richiederebbe investimenti strutturali sul nostro sistema di welfare pubblico capaci di far fronte all’aumento della domanda di servizi da parte dei cittadini, i livelli di finanziamento di tali servizi e interventi vengono subordinati alle compatibilità di bilancio, nell’erronea convinzione che il welfare sia solo un costo da abbattere per le casse pubbliche.

Meno servizi sociali, più disuguaglianze territoriali

Le politiche di austerità hanno avuto un impatto significativo sul sistema dei servizi socio-assistenziali gestiti dagli enti locali. I dati Istat per gli anni 2008-2015 (“Interventi e servizi sociali dei Comuni singoli e associati”) evidenziano una contrazione della spesa destinata a questo comparto, specialmente nel 2011-2013. Sono gli anni in cui le politiche di risanamento dei conti pubblici hanno colpito in modo particolarmente pesante i Comuni, stretti dalle regole del Patto di stabilità e dalla riduzione dei trasferimenti statali. La flessione si arresta solo a partire dal 2013, ma nel 2015, ultimo anno per il quale i dati sono disponibili, il volume complessivo della spesa sociale dei Comuni non ha ancora recuperato il livello del 2010: nel 2015 l’impegno finanziario dei Comuni, al netto del contributo degli utenti, è stato pari infatti a poco più di 6,9 miliardi rispetto ai 7,1 del 2010. La spesa per l’erogazione dei servizi sociali è fortemente sperequata nelle diverse aree del paese sia nell’ammontare complessivo della spesa, sia con riferimento alla spesa media pro-capite. Nel 2015, il 28,8% viene speso nel Nord-Ovest, il 27,9% nel Nord-Est, il 22,2% al Centro. Mentre al Sud e alle Isole è riconducibile rispettivamente solo il 10,2% e il 10,9% della spesa sociale comunale.

Asili nido: risparmiano i Comuni, ci rimettono le famiglie

Il sistema dei servizi sociali territoriali è stato molto indebolito dalle politiche di austerità seguite negli ultimi anni. Un esempio tra tutti è offerto dai servizi socio-educativi per la prima infanzia, che rappresentano un sostegno fondamentale alla genitorialità oltre che alla crescita e all’inclusione sociale dei bambini. Inoltre, il livello di copertura, di efficienza e dei costi di questi servizi condiziona fortemente l’inserimento e la permanenza delle donne nel mercato del lavoro. Gli ultimi dati Istat (“Asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia”) certificano una contrazione della spesa comunale per gli asili nido e una parallela crescita della quota di compartecipazione delle famiglie ai costi dei servizi, pari al 17,9% nell’anno scolastico 2008/2009 e al 20,4% nell’anno scolastico 2014/2015. La spesa media nazionale per utente è pari a 7.692 euro, di cui 6.337 a carico dei Comuni e 1.625 euro a carico delle famiglie; rispetto all’anno scolastico 2008/2009 aumenta di soli 30 euro, ma le famiglie contribuiscono ai costi in media a livello nazionale con 62 euro in più.

L’aumento costante della povertà

L’Istat considera in condizioni di povertà assoluta le persone con una spesa mensile pari o inferiore a quella minima necessaria per acquisire un paniere di beni e servizi essenziali a uno standard di vita minimamente accettabile. Sono invece in condizioni di povertà relativa le persone con una spesa per consumi pari o inferiore alla linea di povertà, che per una famiglia di due componenti è pari alla spesa media pro-capite (spesa che si ottiene dividendo la spesa totale per consumi delle famiglie per il numero totale dei componenti): nel 2016 questa spesa è risultata di valore pari a 1.085 euro mensili per una famiglia di due componenti. La povertà assoluta individuale, al 3,1% nel 2007, è più che raddoppiata nel 2017 raggiungendo l’8,4% (un fenomeno che tocca quindi circa 5 milioni di individui). La povertà relativa aumenta invece nello stesso arco di tempo dal 10,5 al 15,6% (con oltre 9 milioni di individui coinvolti). La crisi, insomma, ha prodotto effetti devastanti in termini di aumento della povertà in Italia.

Pagano le donne…

Sul mercato del lavoro sono le donne a subire più pesantemente gli effetti della crisi. È quanto emerge dal dato sull’aumento della differenza retributiva tra uomini e donne (nei settori industria, costruzioni e servizi), che passa dal 17,1 al 17,9% tra il 2008 e 2016. L’Italia si colloca in posizione intermedia tra i paesi europei, ma la tendenza è in peggioramento, a fronte di un miglioramento nella gran parte degli stati membri dell’Unione europea. Occorre ad ogni modo rimarcare con forza che qualsiasi disparità di trattamento salariale tra uomini e donne è, ovunque, ingiustificata e ingiustificabile.

Gente senza casa, case senza gente

Se prima della crisi gli sfratti emessi in Italia erano circa 45mila ogni anno, nel 2014 sono stati più di 77mila, nel 2015 più di 64mila, nel 2016 oltre 61mila. Inoltre, sono circa 600mila le famiglie che, pur certificate dai comuni come utilmente collocate nelle graduatorie per ottenere una casa popolare, rimangono senza risposta. E sono 1 milione e 700mila quelle in condizione di disagio abitativo, che pagano cioè un affitto superiore al 30% del loro reddito complessivo. Un ultimo dato: la stima di alloggi vuoti e inutilizzati nel nostro paese è di circa 4 milioni. A fronte di numeri come questi, non c’è alcun intervento strategico per affrontare il nodo di fondo della sofferenza abitativa: il Fondo sociale affitti per le famiglie in difficoltà è azzerato da tre anni e non è rifinanziato, mentre il Fondo sociale per la morosità incolpevole è assolutamente insufficiente.

AMBIENTE E SVILUPPO SOSTENIBILE

Tutti in macchina

In Italia ci sono oggi circa 636 autovetture ogni mille abitanti (nel 2004 erano 587), a fronte di 1,6 autobus circolanti. Dovrebbe bastare soltanto questo dato a esprimere la necessità e l’urgenza di un radicale cambiamento di prospettiva – accompagnato da adeguati investimenti nelle politiche – in direzione della promozione della mobilità sostenibile e del trasporto pubblico: abbattere il congestionamento e l’inquinamento scoraggiando l’utilizzo del mezzo privato (soprattutto nelle aree urbane) deve essere un obiettivo ineludibile per tutelare la nostra salute e promuovere la qualità della vita nei nostri territori.

Cresce la differenziata (ma non basta)

Dal 2004 al 2016 si assiste in Italia alla diminuzione dei conferimenti in discarica dei rifiuti e al corrispondente aumento della raccolta differenziata. Un risultato di certo positivo, che però non basta. Secondo il Testo unico ambientale, infatti, nel nostro paese la raccolta differenziata dei rifiuti avrebbe dovuto raggiungere almeno il 65% entro il 31 dicembre 2012. Quell’obiettivo è ancora lontano: dei 30,1 milioni di tonnellate di rifiuti urbani prodotti in Italia nel 2016, solo il 52,5% è intercettato dalla raccolta differenziata.

Più risorse per i trasporti pubblici!

Tra gli Obiettivi di sviluppo sostenibile che 193 paesi, nel settembre 2015, si sono impegnati a raggiungere entro il 2030 vi è quello di garantire l’accesso a un sistema di trasporti sicuro, accessibile e sostenibile, in particolar modo potenziando i trasporti pubblici. In Italia, sul totale delle persone che nel 2017 si sono spostate per motivi di lavoro e di studio con mezzi di trasporto sia privati sia pubblici, soltanto il 20,4% ha usato quelli pubblici. Incentivare questo utilizzo è assolutamente necessario, anche alla luce dell’incremento quasi nullo che si osserva guardando l’indicatore di utilizzo del trasporto pubblico nell’ultimo decennio. Sbilanciamoci! propone, come primo passo concreto in questa direzione, di dirottare parte delle risorse a sostegno dell’autotrasporto nel 2019 su: (a) interventi di ammodernamento e potenziamento delle infrastrutture esistenti (in particolare del Mezzogiorno) da concentrare sulle ferrovie al servizio dei pendolari, sulla rete stradale Anas, sulle tramvie e metropolitane nelle aree urbane (dove si concentra la stragrande maggioranza della popolazione e si registrano i più gravi fenomeni di congestione e inquinamento); (b) sulla costruzione di infrastrutture per la mobilità dolce; (c) la realizzazione della logistica per favorire l’interscambio modale.

Rinnovabili in aumento

Una buona notizia viene dal fronte delle rinnovabili: l’Italia fa registrare infatti nel periodo 2007-2016 una crescita sostenuta dei consumi di energia elettrica coperti da fonti rinnovabili. In questo arco di tempo il valore nazionale della copertura è infatti più che raddoppiato (dal 13,3 al 33,1%). In particolare, merita di essere sottolineato il risultato che viene dal Mezzogiorno, dove si assiste a un exploit con una repentina ascesa dall’8,3 al 41,5%.

Un consumo davvero dissennato

I dati dell’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, parlano chiaro: il consumo di suolo nel 2017 non si ferma. Dagli anni ’50 a oggi il consumo di suolo in Italia è più che raddoppiato, passando dal 2,7 al 7,7%. Ogni secondo che passa sono irrimediabilmente persi 2 mq di suolo. Solo nel periodo 2007-2015 1.700 chilometri quadrati di suolo sono stati “bruciati” in nuovi impianti, infrastrutture e costruzioni. È un dato su cui riflettere. Lo riconosce lo stesso Ispra (cfr. la presentazione del Rapporto “Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici. Edizione 2018”): “Il consumo di suolo con le sue conseguenze, in attesa di interventi normativi efficaci, non si ferma. Il rallentamento progressivo dovuto alla crisi economica è sicuramente non sufficiente e, almeno in alcune zone del Paese, sembra essersi fermato o aver invertito la tendenza, confermando la mancanza del disaccoppiamento tra la crescita economica e la trasformazione del suolo naturale in assenza di interventi strutturali e di un quadro di indirizzo omogeneo a livello nazionale (…). Un consistente contenimento del consumo di suolo è la premessa per garantire una ripresa sostenibile dei nostri territori attraverso la promozione del capitale naturale e del paesaggio, l’edilizia di qualità, la riqualificazione e rigenerazione urbana, oltre al riuso delle aree contaminate o dismesse.” Più chiaro (e condivisibile) di così…