ERNESTO ROSSI: IL DIRITTO A UNA VITA CIVILE PER IL SOLO FATTO DI ESSERE UOMINI

Ernesto Rossi (Caserta, 1897 – Roma, 1967), economista, fu tra i fondatori di Giustizia e Libertà, e pagò l’opposizione al fascismo con nove anni di carcere e quattro anni di confino. Tra gli autori del Manifesto di Ventotene, tra i fondatori del Partito d’Azione, sottosegretario alla Ricostruzione nel governo Parri, da allievo prediletto di Salvemini combatté nel dopoguerra le degenerazioni della giovane repubblica con la milizia politica e una intensa attività  di giornalista e saggista. Tra le sue opere più note, ricordiamo Abolire la miseria (1946, ristampata di recente da Laterza), I padroni del vapore (Laterza, 1955, ristampato da Kaos, 2001). Ripubblichiamo qui brani di un suo saggio su “Sicurezza sociale”, dal Dizionario di economia politica a cura di Claudio Napoleoni (Edizioni di Comunità, Milano 1956, pp. 1433-1437)

* * *

I. La miseria, malattia sociale

La introduzione nel linguaggio corrente del termine «sicurezza sociale» ha corrisposto ad una profonda trasformazione, avvenuta durante gli ultimi decenni, nel concetto di pubblica assistenza. Non si vuole più un sistema di sussidi e di aiuti ad una ristretta minoranza della popolazione qualificata col marchio ignominioso della povertà; non ci si contenta più, neppure, di un sistema di prestazioni in favore dei salariati, quando non possano più guadagnare per loro conto da vivere per cause indipendenti dalla loro volontà; si vuole arrivare a garantire il diritto ad un minimo di vita civile «dalla culla alla tomba» a tutti i cittadini, per il solo fatto di essere uomini, partecipi della medesima organizzazione statale. Questa modificazione è il frutto di una più approfondita conoscenza delle cause della miseria e delle sue deleterie conseguenze su tutta la vita sociale.

Le inchieste, eseguite specialmente in Inghilterra, nei quartieri più poveri delle grandi città, hanno dimostrato che la miseria è una vera malattia infettiva, in quanto la causa maggiore della miseria è la miseria stessa: chi ne è colpito contagia i figli, non potendo mantenerli alle scuole e nell’apprendistato per prepararli alle professioni più remunerative, e allevandoli in un ambiente malsano tanto per la loro vita fisica che per la loro vita spirituale. Uomini che vivono promiscuamente in una sola stanza – maschi, donne, vecchi, bambini, sani, malati – in alloggi senza luce, senza acqua potabile, senza latrina, nei «bassi», nelle baracche, nelle grotte, nei grandi alveari delle case popolari, non possono conservare alcun senso di dignità  umana e, col loro esempio, fanno perdere tale sentimento anche a coloro con i quali entrano in più immediato contatto; non hanno più la forza per resistere alle innumerevoli tentazioni delle moderne metropoli: sono fatalmente condotti alla mendicità, all’alcoolismo, alla prostituzione, al delitto.

Ormai si è da tutti riconosciuto che, per combattere efficacemente questa malattia sociale, occorrono misure profilattiche, dirette a rimuovere le cause della miseria in generale, e misure terapeutiche in soccorso delle particolari persone colpite dalla malattia. Poiché ogni malato può diventare un centro di infezione pericoloso per i sani, le misure terapeutiche sono anche misure preventive, e quando si deve giudicare la convenienza o meno di un qualsiasi soccorso ai poveri, occorre esaminare quali ne sono i prevedibili effetti anche dal punto di vista profilattico. Nel campo della pubblica assistenza le conseguenze dirette e lontane dei singoli atti sono molto spesso opposte e più rilevanti di quelle che tutti vedono immediatamente: ad esempio, le provvidenze in favore dei poveri, a lungo andare, accrescono il numero dei poveri se incoraggiano l’ozio, e le provvidenze in favore dei disoccupati aumentano il numero dei disoccupati, se riducono lo stimolo a cercare lavoro, a cambiare residenza e mestiere. E’ evidente che, a parità  delle altre condizioni, qualsiasi indirizzo di politica economica che aumenti la ricchezza generale, riduce il numero dei poveri, in quanto la maggiore ricchezza rende possibile investimenti maggiori di capitali, che accrescono la produttività  del lavoro e quindi elevano anche i salari dei lavoratori delle ultime categorie.

In questo senso lato possono essere considerate misure profilattiche contro la miseria anche la stabilità  monetaria, la buona distribuzione del credito, la riduzione degli sperperi della pubblica amministrazione, la lotta contro l’analfabetismo, la diffusione della istruzione classica e professionale, il perfezionamento dei servizi dei trasporti, delle comunicazioni e della energia, il controllo delle industrie monopolistiche, le riforme agrarie, la eliminazione degli ostacoli al libero movimento degli uomini, delle merci e dei capitali, gli interventi dello Stato per diminuire la intensità  delle fluttuazioni cicliche e ripartire sulla intera collettività  il costo della dinamica economica.

Ma, fino a quando la ripartizione dei fattori produttivi fra i possibili impieghi, e la distribuzione dei beni di consumo nella soddisfazione dei diversi bisogni, continuerà  ad avvenire attraverso il meccanismo del mercato – che determina automaticamente i prezzi quali posizioni di equilibrio dell’offerta e della domanda, e remunera soltanto chi partecipa al processo produttivo, in relazione alla produttività  del suo apporto – ci sarà  sempre un certo numero di persone che (per età, per condizioni di salute, per mancanza di impiego, per infingardaggine, per eccessivi carichi familiari, per incapacità  di prestare i servizi effettivamente richiesti) non saranno in grado di guadagnarsi un reddito sufficiente per tenere la testa al disopra del livello della miseria.

Una politica governativa produttivistica può ridurre al minimo questo numero: non può eliminarlo completamente. A tali persone è necessario provvedere con interventi dello Stato. I governi che non vi provvedono sono costretti a spendere in gendarmi, giudici, carceri, ospedali, molti più quattrini di quelli che risparmiano nella pubblica assistenza; sprecano gran parte dei fondi che destinano alla salute pubblica e alla pubblica istruzione; rendono difficile ogni normale svolgimento delle istituzioni democratiche, e inconsapevolmente preparano gli strumenti di cui gli avventurieri si servono, durante i periodi di crisi politiche, per abolire tutte le libertà  e instaurare la dittatura.

II. La pubblica assistenza soltanto a chi merita di essere aiutato

L’esperienza ha dimostrato che non è possibile curare la miseria assistendo soltanto coloro che provano di averne effettivo bisogno, e che meritano di essere assistiti. La rilevazione del reddito è una operazione difficilissima e molto costosa. Soltanto in rari casi si arriva ad accertare direttamente tutte le entrate che i postulanti riescono ad ottenere dalla carità  privata, da parenti non obbligati legalmente, da prestazioni saltuarie e da traffici più o meno illeciti. Nella maggior parte dei casi, chi distribuisce aiuti ai poveri deve accontentarsi di accertamenti indiziari, basati sulle manifestazioni più appariscenti della spesa: alloggio, mobilio, vitto, vestiario. Così si crea, in coloro che chiedono l’assistenza, un interesse a vivere il più possibile bestialmente, per apparire anche più poveri di quanto effettivamente sono.

Impossibile è poi giudicare della colpa o meno per lo stato di indigenza in cui il postulante si trova. Raramente un povero rifiuta una occupazione: in generale nessuno gliela offre, perché non ispira fiducia. Ed anche quando la rifiuta, non si può dire che dimostri con ciò la sua scarsa volontà  di lavorare, se non si accerta quali sono le sue attitudini, la sua forza fisica e le pretese del datore di lavoro. Né si riesce a stabilire se una persona che dice di andare alla ricerca di un’occupazione, la cerca veramente, o passa le giornate bighellonando per le osterie. Ed anche nei casi in cui si prova che un povero non merita di essere soccorso, si può lasciarlo marcire nella miseria, insieme alla moglie e ai figli non colpevoli, una volta che si sia riconosciuto che, in tale condizione, egli diventa un centro di infezione pericoloso per la collettività ? D’altra parte, tutti gli esperti in questa materia da molto tempo hanno messo in luce che i sussidi dati incondizionatamente agli adulti validi, per il fatto che sono poveri, o risultano completamente inadeguati a garantire un tenore di vita decente, o discriminano in favore dell’ozio e dell’imprevidenza.

Quando il povero sa che, mettendosi a lavorare e a risparmiare, perde il diritto alla pubblica assistenza, preferisce starsene senza far niente e mangiare giorno per giorno quel poco che riesce a racimolare, se il sussidio gli basta per vivere, e vivendo col suo guadagno potrebbe migliorare solo di poco le proprie condizioni. Così anche molte persone che accettano la carità  legale come espediente provvisorio, per superare una congiuntura disgraziata, perdono, dopo poco tempo, ogni decoro ed ogni spirito di iniziativa, si abituano alla vita parassitaria e trasmettono la loro abitudine ai figlioli. Per combattere questi gravi inconvenienti, la pubblica assistenza è stata spesso condizionata all’accettazione di lavori particolarmente penosi o alla permanenza in case di lavoro, in cui i ricoverati sono stati sottoposti a una severa disciplina. Ma anche queste esperienze hanno dato pessimi risultati.

Poiché i lavoratori assistiti, comunque si comportino, non possono essere licenziati, né possono essere sufficientemente differenziati con un trattamento più o meno favorevole, in rapporto al loro rendimento, il resultato che si riesce ad ottenere dal lavoro forzato di tutti gli assistiti si adegua naturalmente al rendimento del lavoratore più incapace, più neghittoso e più indisciplinato. Inoltre la permanenza nelle case di lavoro rende quasi impossibile all’assistito di trovare una occupazione indipendente, ed allenta i vincoli familiari, sui quali deve poggiare le fondamenta ogni società  bene costituita. Quando questi correttivi sono rigidamente applicati non portano ad una riduzione della miseria; fanno solo diminuire le domande di assistenza rivolte alle pubbliche autorità. Così non si pulisce la stanza: si getta solo la spazzatura sotto il divano.

III. I princìpi moderni della «sicurezza sociale»

Le prime forme di previdenza sociale furono escogitate, dai governi conservatori, non tanto come mezzi curativi della miseria, quanto come vaccini contro il socialismo: per attutire l’asprezza della lotta di classe nelle industrie e mantenere così più facilmente l’ordine pubblico nelle località  dove si accentravano le turbolenti masse operaie.  Fu la Germania di Bismark, infatti, la nazione che per prima dette l’esempio delle assicurazioni obbligatorie estese a tutti i salariati dell’industria (malattie, 1883; infortuni sul lavoro, 1884; invalidità -vecchiaia, 1891). Ma negli ultimi decenni il metodo delle assicurazioni obbligatorie è divenuto sempre più chiaramente una espressione di solidarietà  sociale, in quanto è stato esteso ai lavoratori agricoli, agli impiegati, e, infine, ai lavoratori indipendenti, proporzionando i sussidi e le pensioni al numero delle persone a carico del beneficiario: soggetti delle assicurazioni sono ormai le famiglie, invece che gli individui.

Il principio della sicurezza sociale, come «liberazione dal bisogno», fu solennemente affermato durante l’ultima guerra nella Carta Atlantica, in cui Roosevelt e Churchill, il 14 agosto 1941, dichiararono gli obiettivi di pace delle due potenze anglosassoni. La Conferenza internazionale del lavoro, tenuta poi a Filadelfia (dal 20 aprile al 12 maggio del 1944) approvò una dichiarazione in cui si trovano esposti in trenta punti i princìpi generali che ancor oggi informano la legislazione della maggior parte dei paesi aderenti all’Ufficio Internazionale del Lavoro. I punti principali sono:

  • 1. Ogni ordinamento diretto a garantire i mezzi di sussistenza dovrebbe alleviare il bisogno e prevenire l’indigenza, ristabilendo sino ad un livello ragionevole i mezzi di sussistenza perduti in conseguenza dell’incapacità  a lavorare (compresa la vecchiaia), o della incapacità  di ottenere un impiego remunerativo o a causa della morte del sostegno della famiglia.
  • 2. La garanzia dei mezzi di sussistenza dovrebbe essere il più possibile stabilita sulla base della assicurazione sociale obbligatoria. Gli assicurati che posseggono le condizioni richieste, dovrebbero aver diritto, in relazione alle quote versate ad un istituto di assicurazione, a delle prestazioni pagabili secondo i tassi, e nelle eventualità  stabilite dalla legge.
  • 3. Per mezzo dell’assistenza sociale si dovrebbe provvedere ai bisogni non coperti dalla assicurazione obbligatoria. Alcune categorie di persone – specialmente  i bambini, gli invalidi, i vecchi e le vedove indigenti – dovrebbero avere diritto ad assegni di ammontare ragionevole, secondo un conteggio stabilito.
  • 4. Una assistenza sociale appropriata alle necessità  di ogni caso particolare dovrebbe essere fornita a tutte le altre persone che sono in condizioni di bisogno.
  • 5. Il campo coperto dalla assicurazione sociale obbligatoria dovrebbe comprendere tutte le eventualità  nelle quali l’assicurato non può guadagnare il suo sostentamento a causa della sua incapacità  di lavorare o non può ottenere un impiego remunerativo, o muore, lasciando una famiglia a carico, e comprendere alcune eventualità  connesse che si verificano solitamente, e costituiscono un carico eccessivo per i redditi più bassi, se non vengono coperte in altra maniera.
  • 6. Andrebbe dato un indennizzo in caso di incapacità  al lavoro e in caso di morte causata dal lavoro.
  • 7. Affinché le prestazioni fornite dall’assicurazione sociale risultino strettamente corrispondenti alla diversità  dei bisogni, le eventualità  previste dovrebbero essere classificate come segue: a) la malattia; b) la maternità; c) la invalidità; d) la vecchiaia; e) la morte del sostegno della famiglia; f) la disoccupazione; g) le spese eccezionali; h) le lesioni (ferite o malattie) provocate dal lavoro. Non dovrebbe però esservi mai cumulo fra le prestazioni di invalidità, di vecchiaia e di disoccupazione.
  • 8. Prestazioni supplementari per ognuno dei due primi figli dovrebbero essere aggiunte alle prestazioni pagabili in luogo delle remunerazioni perdute, potendo essere prese misure anche in favore degli altri bambini per mezzo di assegni familiari imputabili ai fondi pubblici, o provenienti da sistemi contributivi.

Fonte: syloslabini.info