di Claudio Marabini
Mi piace riportare qui questo Bozzetto Romagnolo, pubblicato sul foglio di politica e cultura “L’Ape” di Forlì del Settembre 1879 (quando il giovane Ezio Marabini* aveva appena 17 anni).
Potevano essere le nove di una caldissima sera d’estate, quando io mi recava in una stanzuccia abitata dal mio compagno di scuola Corrado, al quinto piano di una casa di operai. Erano vicini gli esami e perciò alla sera ripetevamo insieme per due o tre ore di seguito le materie studiate durante l’anno. Giovani e poveri entrambi, portavamo baldanzosi la nostra miseria, la nostra gioventù, la nostra lealtà, interamente fidenti l’uno dell’altro; dispregiatori del denaro e dell’affascinante splendore dell’oro, vivevamo tranquilli e felici nel vincolo dolce e soave dell’amicizia.
Giunto presso la porta della cameretta, mi fermai stanco e spossato, asciugandomi il sudore di cui tutto grondavo; il caldo era lassù eccessivo.
Picchiai all’uscio del mio amico; si aperse quello del vicino, ed un uomo, con un piccolo lume in mano, comparve sul pianerottolo. “Voi cercavate il signor Corrado? Egli fu obbligato ad uscire; vennero a cercarlo. Mi ha detto però che tarderà poco a tornare; intanto, se volete aspettarlo in casa mia…” Accettai.
Le muraglie erano perfettamente nude, tre sedie di paglia molto basse, una lettiera di legno malamente dipinta in rosso, con su un pagliericcio nascosto da una scura coperta, una tavola malferma sopra i suoi quattro piedi e ingombra di qualche antico libraccio, un po’ di carta e un piattello di colla di fiuor di farina e una rozza morsa da una pate: ecco tutti gli arredi.
L’uomo mi aveva mostrato una sedia, ma io non sedetti; era così soffocante l’aria di quella cameruccia, che mio primo moto istantaneo fu di correre alla finestra; pareva mi mancasse il respiro; egli si era rimesso silenziosamente al suo lavoro. Al debole chiarore di un lumicino annerito, esaminai il pio ospite.
Poteva avere cinquant’anni. Teneva tirata sulla nuca una logora calotta che dal suo mezzo lasciava cadere un cordoncino cui doveva un tempo essere appeso un fiocchetto; occhiali su naso da mulatto, faccia grinzosa, una pipa corta e nera fra le labbra e le dita bianche soltanto nei polpastrelli, schiacciate, tenevano allora stretti i fogli di un libro che insieme cuciva: senza dubbio quell’uomo era un rilegatore.
Mentre l’occhio mio andava posandosi su le poche e misere cose che gli stavano innanzi, fu ferito dalla vista di un grazioso oggetto che si trovava sulla tavola: era bun elegantissimo ventaglio bianco e azzurro.
Io, provai una sensazione che non saprei descrivere, la mia mente prese il galoppo: non avrei mai creduto di avere una così forte immaginativa. Lo vedevo già, sostenuto da una piccola e candida manina, scuotersi leggermente per ristorare del suo fresco venticello il grazioso volto di una fanciulla, bella quale mente di poeta o di romanziere poté immaginare mai. Poi lo vedevo celare gran parte di quel volto di paradiso per lasciare scoperti due occhietti affascinanti, voluttuosi, sopra i quali si delineavano due sottilissime e nerissime sopracciglia.
Intanto il rilegatore mi rivolse non so qiali parole, ma io, tutto assorto nella mia cara illusione, risposi un sì secco, secco, senza sapere se ci tornase o no, e mi avvicinai quasi macchinalmente alla tavola; quegli continuava: “Cattivo anno questo per la povera gente; tant’arsura finirà col bruciare tutto”.
“Infatti, se non piove, la cosa si vuolo fare seria” dissi io. “E’ la fortuna di certi strozzini che si faranno pagare un occhio un po’ di grano: razza infame che io non so come Dio si sia degnato di mettere al mondo. Chi ci soffre siamo sempre noi: non avreno tanto da vivere. E dire che nessuno lavora quanto noi, nessuno ha più diritto di noi di saziare la fame. Dalle cinque della mattina io sono qui in piedi, e poc’anzi quando sono andato a portare a casa di un nsignore il lavoro terminato e gli ho chiesto due lire, e gli avevo già chiesto poco, egli con l’aria di farmi un gran reghalo me ne ha offerta una! Ma – e qui batté fortemente il pugno sulla tavola – birbante che tu sei, che io ho perduto tutta una giornata poer te,… e che in una giornata non si mangia? Non sai che anch’io ci ho un affitto da pagare?
Non sai che anch’io devo vestirmi e calzarmi se non voglio vederti fare le smorfie quando vengo in casa tua? E la moglie, o la moglie non la conti, che da due mesi è inferma all’ospedate?”
“Ce l’avete, la moglie?”
“Si ce l’ho, sicuro che ce l’ho, poveretta, e chi sa quanto soffre… inf…” La parola gli si troncò nella gola; il, pugno che aveva levato in alto minaccioso ricadde privo di forza, ed io vidi spuntare sul ciglio di quel bon operaio una grossa lacrima.
Il mio giovane cuore straziato d’innanzi a quella scena fu per la prima volta compresso da un forte sentimento di odio e di disprezzo. Il mio sguardo ricadde sul ventaglio, ma ora l’impressione che ne provai fu molto diversa. Io mi figurai colei che doveva portarlo, in una ricca sala, attorniata da un’oziosa ciurma di adulatori in guanti gialli, sorridere con compiacenza a uno, guardare civettescamente un altro, e dissi a me stesso: “Se tutte le nostre superbe signorine, ad ogni oggetto che le rende belle ed altere, chiedessero la storia del suo nascere, diverrebbero migliori!”
Forli’, settembre 1879 – Ezio Marabini.
*Ezio Marabini-Regnoli è stato uno dei fondatori del Partito dei Lavoratori Italiani (fondatore e “leader” della prima Sezione romana del Partito, fino alla sua forzata chiusura nel 1894).
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