COMUNICAZIONE E LINGUAGGIO ALL’ORDINE DEL GIORNO

di Stefano Betti

Mentre stiamo mettendo a punto la Piattaforma programmatica per la Conferenza di Rimini prevista in autunno, dove spiegheremo che società socialista abbiamo in mente di costruire in questo XXI secolo digitalizzato e robotizzato, ma pieno d’ingiustizie e di profonde ineguaglianze, s’impone all’ordine del giorno un punto nevralgico. Quale linguaggio. Quale comunicazione usare.

Già, perché la semina che abbiamo intenzione di effettuare, nella sconfinata prateria del paese, martoriata da anni di neo liberismo e, ora, di populismo di pancia al governo, deve necessariamente tenere conto di come comunicare. Soprattutto con i giovani, che sono la linfa vitale del futuro movimento socialista e ai quali dobbiamo rivolgerci in via prioritaria.

Il Socialismo italiano in media ogni quarant’anni si pone questo problema. Il primo a prenderne atto fu Filippo Turati, al termine del XIX secolo. Non potevamo continuare a coesistere con il linguaggio meramente distruttivo degli anarchici, né dei repubblicani, il cui rifiuto della lotta di classe imponeva allora a entrambi una necessaria distinzione politica. Da lì, il linguaggio delle Case del Popolo, delle associazioni di mutuo soccorso. Il Socialismo va costruito fin da subito attraverso l’azione e l’esempio, in un paese ancora prevalentemente agricolo e a maggioranza analfabeta. Occorreva insegnare alle masse per farle uscire dalla morsa clericale e dall’ignoranza. I simboli e i messaggi sono di immediata identificazione e la saggistica è lontana anni luce dalla gente comune.

Il dirompente Massimalismo, la guerra e le sue terribili conseguenze fino all’esilio a causa dell’avvento del Fascismo costrinse i Socialisti, Pietro Nenni in testa, a un cambio di linguaggio. Non si trattava più di costruire, ma di lottare, sovente come in Spagna con le armi in pugno. In competizione, ma alleati i Comunisti, nati dall’alveo socialista, ma sulla spinta dirigista della Rivoluzione d’ottobre e con la pretesa di essere i migliori. La Resistenza e l’avvento della Repubblica cristallizza il linguaggio. Come logica prosecuzione del precedente, in una società ormai avviata alla piena rivoluzione industriale. Le campagne si svuotano. Le fabbriche si riempiono. L’alfabetizzazione è patrimonio della maggioranza degli italiani. Si continua a lottare, ma con mezzi pacifici. I simboli si addolciscono e i contributi politici per tutti sono più corposi. La saggistica si avvicina alla gente comune.

Alla fine degli anni ’70 i Socialisti, con Bettino Craxi, affrontano la questione della modernizzazione del paese e della necessità di comunicare in modo nuovo. La società è profondamene mutata e la classe media ne è il perno centrale. I computer sono agli albori. Ma già si avvertono le immense potenzialità che offrono nel campo del lavoro, con le conseguenti mutazioni sociologiche e occupazionali. Muta così il linguaggio, più essenziale, lasciando agli analisti e ai quadri politici la libertà di approfondire gli argomenti. Era venuto il momento di governare. La saggistica è quasi per tutti.

Oggi, nel mondo della comunicazione nel palmo di una mano, della illusoria onnipotenza di avere tutto subito attraverso la Rete nascosta nel proprio cellulare, occorre confrontarsi con la realtà dei Social, dove dai dieci ai settant’anni, tutti impazzano coi loro avatar. Nell’illusione di esser chi non si è. Di fronte una società completamente terziarizzata, nei modelli di vita, nelle aspirazioni.

La comunicazione o presunta tale si abbrevia drasticamente. La tentazione di leggere qualcos’altro in un nano secondo è troppo forte. C’è un deficit generale di concentrazione. E la pancia, in questi casi, prevale. Wikipedia è ormai la Pietra teologalis della modernità. La saggistica è lontana anni luce dalla gente comune.

Ora, è sul metodo che dobbiamo usare per comunicare che deve andare la nostra attenzione. I migliori principi, supportati da logica, razionalità e buon senso, a nulla varranno se saranno spazzati via dalle orde del fango scatenate dai Social. La Giovane Fiumana, a cui appartiene il nostro futuro, è in primo luogo chiamata a approfondire questo tema, essenziale per il proseguo della nostra lotta e al quale dovremo dare tutti un contributo. E questa con i giovani, piuttosto che rincorrere i compagni soffocati dai 25 anni ondivaghi della diaspora, pieni di dubbi, ricordi e delusioni, sarà la vera partita decisiva.