«PERTINI, L’UOMO NUOVO DI OTTANT’ANNI CHE CURO’ L’ITALIA»

di Maurizio Breda

«Quando lo elessero ero a Montecitorio e a un certo punto mi trovai accanto al vecchio ex presidente Saragat, nei corridoi del Transatlantico. I cronisti gli chiesero: “Ma chi è, davvero, questo Pertini?”. “La risposta è semplice”, disse lui. “Un eroe”. Ritratto perfetto, perché richiamava il coraggio dell’antifascista che aveva pagato con esilio e carcere la propria coerenza, ma anche il rigore morale di uno che non si era mai compromesso con la politica di piccolo cabotaggio. Il giorno successivo, dopo aver ascoltato il suo discorso d’insediamento, Almirante, leader di quei missini che non l’avevano votato, confessò: “Ha costretto pure noi ad applaudirlo”. E gli italiani, benché avesse ormai ottant’anni, lo percepirono subito come un uomo nuovo e cominciarono a dimostrargli un affetto mai riservato a nessun altro». Antonio Maccanico ricorda Pertini, di cui fu consigliere e segretario generale al Quirinale.

Il suo racconto comincia dall’8 luglio del 1978, quando «un Laerte con il cuore di ragazzo», «un solitario cavaliere dell’Ideale» – definizioni di allora – diventa il settimo capo dello Stato con un enorme consenso parlamentare, 832 voti su 995. E’ un risultato che spiazza certe manovre dei partiti e che l’opinione pubblica vive come se fosse stato «richiamato dalla riserva» uno dei pochi nomi spendibili.
Ma soprattutto, quella scelta inaugura un’esperienza che impone al vertice del Paese uno stile diverso, rimasto pietra di paragone.
Esternazioni, interventismo, supplenze, rapporto diretto con la gente (che lo vede come un «difensore civico» più che il solito «grande papavero») fanno parlare di «Repubblica pertiniana». Un modello profeticamente meticcio, che la politica patisce, che per i critici non è né del tutto parlamentare né presidenziale, e dietro il quale si riparano i suoi successori per qualche loro contestato «scatto in avanti» nell’interpretare il ruolo.

Una formula che Maccanico ora spiega come «non premeditata» e comunque «necessitata», «a mezza strada tra le funzioni di garanzia e gli impulsi equilibratori che la Costituzione prevede per i momenti di debolezza della politica». Come succede «in quei mesi difficilissimi», riflette il grand commis di Stato, già ministro e oggi parlamentare della Margherita. «Bisogna riandare indietro, per capire. Il prestigio della presidenza della Repubblica era lesionato dalla vicenda Leone. Il terrorismo imperversava e Moro era appena stato ucciso.

C’era l’incubo di una grave crisi economica e la prospettiva politica della solidarietà nazionale era saltata, mentre la questione morale si profilava come un’emergenza». Insomma: un contesto disastroso, nel quale non poteva bastare la presenza decorativa di un taglianastri al Quirinale. «Fu così che Pertini utilizzò gli strumenti istituzionali di cui disponeva, finché l’Italia uscì dal tunnel. Se li permise, consapevole di una forza in più di cui disponeva: la popolarità».

Già, il carisma del «partigiano Sandro», un ateo amico del Papa, fu la sua fortuna con gli italiani e la sua disgrazia presso certi settori del Palazzo. Quando ai funerali delle vittime della strage di Bologna la tv lo inquadra, lui è un passo avanti alle altre autorità, con la mano destra appoggiata su una bara quasi a rimarcare una esplicita continuità tra il popolo rabbioso giù nella piazza e le istituzioni sul palco, e la politica si preoccupa. Qualcuno si spinge a psicanalizzare il rapporto edipico tra il vecchio con la pipa (un nonno? un padre?) e gli italiani, e recrimina: sì, in questo modo Pertini rilegittima il Quirinale, ma non rischia forse di delegittimare le altre istituzioni? «Non è andata così – obietta Maccanico -. I suoi sette anni sono stati semmai terapeutici per tutti. La verità è che faceva e diceva ciò che pensava, e che era sempre sintonizzato con il sentimento comune. Basta pensare al dopo-terremoto in Irpinia, quando fece saltare un prefetto avendo scoperto che la Protezione civile di fatto non esisteva perché in 10 anni le Camere non avevano approvato i regolamenti di attuazione» .

«Per la prima volta in Italia la gente sente dire da uno che sta molto in alto quello che dicono i vicini di casa», scrive il Times , bocciando chi lo accusa di «esagerare» con un anticonformismo calcolato e dunque demagogico. E’ la critica che gli muovono quando veglia l’agonia di un bimbo caduto in un pozzo, Alfredino Rampi, e le ultime ore del leader comunista Berlinguer, del quale porta a Roma la salma sul suo aereo. «In quei casi agì sotto la spinta dell’emotività, proprio come un nonno o un fratello. Ben diversamente da quando fece delle scelte politiche, momenti nei quali fu invece freddissimo», dice l’ex segretario generale del Colle. «In poco tempo erano scomparsi dalla scena Moro, La Malfa e Berlinguer, che stavano costruendo il nuovo equilibrio politico della solidarietà nazionale, un disegno che lui aveva condiviso con l’obiettivo di far evolvere il Pci su una posizione occidentale.

Pertini cercò di costruire un assetto nuovo, quello che poi divenne il pentapartito, con gli incarichi a Spadolini e Craxi, e quindi con governi in grado di reggere una crisi del sistema che il terrorismo e la questione morale esplosa con lo scandalo P2 stavano portando al collasso. Risultato: riuscì a stabilizzare la politica e fu tonificante per la credibilità delle istituzioni. Pur con tutti i difetti che gli si vogliano trovare, ed essendo uomo di carattere difetti ne aveva, non mi pare poco».
Ha ragione Maccanico. Quei meriti glieli riconobbe persino un polemista ruvido come Montanelli. Alla morte di Pertini scrisse: «Quando entrò al Quirinale portò con sé solo una collezione di pipe e una ventata d’aria fresca. Ce n’era urgente bisogno… Chi incarna lo Stato ha il dovere di farlo amare, oltre che rispettare.

Nessuno ci è riuscito meglio. Rimpiangeremo tutto, di lui».

Avanti! 9-10 Luglio 1978