COSTANTINO LAZZARI. VITA DI UN SOCALISTA LOMBARDO DA BERTANI A LENIN(1857-1927)

Tratto da un’opera di Giovanni Artero: APOSTOLI DEL SOCIALISMO

Nell’Italia nord-occidentale: Giovanni Lerda, Oddino Morgari, Costantino Lazzari, Dino Rondani

1. Da Cremona a Milano
2. Il lavoro e l’inchiesta sociale. Anna Maria Mozzoni
3. Il Circolo operaio. Eliseo Reclus
4. Il primo arresto. Il Fascio operaio e la Lega Figli del lavoro
5. L’incontro con Bertani e l’inchiesta agraria
6. La Federazione Regionale dell’Alta Italia del Partito Operaio Italiano
7. Dalla costituzione del POI ai Congressi di Milano e Mantova (1885).
8. Turati scrive l’Inno dei lavoratori per il Partito Operaio
9. Le elezioni del 1886 e la polemica con Felice Cavallotti
10. La ripresa dell’attività del POI. Il congresso di Pavia (1887)
11. Parentesi di vita privata
12. I Congressi di Bologna (1889) e Milano (1890)
13. La fondazione del Partito socialista a Genova (1892)
14. Trasferimento a Busto Arsizio
15. Nascita della Camera del lavoro e della Società Umanitaria
16. Amministratore della Lotta di classe
17. L’adesione di De Amicis al PSI
18. Il Congresso di Reggio Emilia e quello clandestino di Parma
19. Polemiche sulla tattica
20. Il domicilio coatto a Borgotaro
21. Il giurì per la gestione della Lotta di classe
22.Commesso viaggiatore del socialismo
23. Dimostrazioni per il pane
24. Il “novantotto”
25. Finalborgo
26. Propagandista e canditato
27. Enunciazione della linea politica
28. Intransigentismo e sindacalismo rivoluzionario
29. “I principi e i metodi del Partito Socialista”
30. Segretario tra “settimana rossa” e intervento. “Né sabotare né aderire”
31. Nuova carcerazione
32. Nel dopoguerra; La terza Internazionale
33. Gli ultimi anni
Conclusione

 

Introduzione

L’aggettivo usato nel sottotitolo individua una caratteristica fondamentale del personaggio,  lombardo per la matrice culturale che, se nei “momenti bassi” si esprime in un “buonsenso” un po’ gretto  e provinciale individuato con ironia da compagni e avversari[1], si manifesta in positivo nell’agire concreto dell’organizzatore di circoli, dell’ amministratore di iniziative editoriali, del tessitore di reti di sezioni; il suo antiriformismo non è retorico “atteggiamento” ma espressione di una diffidenza classista nei confronti dei politici di professione e degli intellettuali, come si vedrà più avanti nell’episodio del segretario del carcere di Finalborgo “…non saremo noi Milanesi ignoranti che andremo a prendere lezione di socialismo dai Napoletani sapienti, perché noi nella vita sociale facciamo già pratica militante della poli­tica socialista[2].

Abbiamo utilizzato l’autobiografia scritta nel 1926[3] – ma che si arresta alla fine dell’Ottocento – riproducendone ampi stralci, per l’esposizione  vivace, con qualche eccesso “cruento” (probabile derivazione dalla “letteratura d’appendice). Questo scritto aveva anche una motivazione pratica perchè la “Fondazione Giacomo Matteotti” (istituita nel 1925 allo scopo di raccogliere autobiografie di organizzatori del movimento socialista), aveva offerto a Lazzari, che aveva perso l’indennità parlamentare e si avviava ai 70 anni con a carico la moglie e una figlia adottiva, una modesta retribuzione in cambio della sua collaborazione a questo progetto.

Tra poco avrò raggiunto i settant’anni della vita. Arrivato a quest’ultimo periodo della vita, povero e proletario come sono nato, trovo di non possedere altra ricchezza che la coscienza tranquilla e la fede sicura nell’avvenire del socialismo …. Come si è formata in me questa fede e come ho acquistata questa tran­quillità di coscienza? Non è possibile rispondere a queste domande senza avere la conoscenza dell’ambiente sociale in cui sono cresciuto e il cui carattere ebbe certamente una influenza capitale nel determinare in me la comprensione completa delle dottrine egualitarie moderne.”

Da Cremona a Milano

Così inizia le sue memorie, e prosegue “Sono figlio della gleba cremonese per parte della stirpe paterna (una mia nonna contadina morì suicida in un accesso di pellagra)” ma la madre, Anna Grandi “apparteneva ad una discendenza di privilegiati decaduti, imparentata con una delle più illustri famiglie di Lombardia”, mentre il padre era insegnante di storia e letteratura nelle scuole secondarie. Pur enfatizzando l’ ascendenza contadina dal lato paterno, è comunque difficile definirla una famiglia proletaria. Problemi dovettero sorgere presto in famiglia perchè (secondo la sua versione non molto chiara) “l’ardente idealismo con cui mio padre diede inizio alla vita della propria famiglia, fu causa di gravi e profondi turbamenti nei nostri reciproci rapporti,” per cui a otto anni  si trasferisce col fratello maggiore dai nonni materni impiegati dell’Istituto tecnico ”Santa Marta” di Milano.

Nel 1857 Cremona aveva circa 30.000 abitanti e, pur essendo solo il capoluogo di una provincia lombarda, era però negli anni tra l’ultimo quarto dell’Ottocento e il primo del ‘900 ricca di personalità di rilievo nazionale[4], come Guido Miglioli, organizzatore delle “leghe bianche” (cattoliche) contadine, il radicale Ettore Sacchi, il socialista lriformistia Leonida Bissolati, il repubblicano Arcangelo Ghisleri, il cattolico Stefano Jacini, il vescovo Geremia Bonomelli; ma la precoce partenza dalla città natale non gli consentì un radicamento nell’ambiente locale, immergendolo nella realtà milanese fin dalla prima adolescenza.

Dopo le classi elementari, per le ristrettezze economiche familiari, frequenta non il ginnasio, che preparava agli studi universitari, ma la scuola tecnica, preferita dalla piccola borghesia perchè dava immediato accesso agli impieghi, e quì inizia ad interessarsi di problemi sociali e politici  “Gli avvenimenti della vita italiana esercitavano su di me una strana attrattiva ed io con avidità ed entusiasmo leggevo i letterati che vi avevano dedicato le loro opere : Guerrazzi, Berchet, Massimo D’Azeglio, Manzoni, Grossi, Niccolini, ecc.” La scoperta della politica avviene anche tramite un compagno di classe  “Enrico Dalbesio, un simpatico giovanotto proletario di vivace ingegno e di cuore ardentissimo. Da certi parenti che aveva in Francia egli riceveva molte di quelle pubblicazioni che al tempo della Comune di Parigi e dopo avevano circolato per l’Europa. Noi le leggevamo di nascosto ed erano l’argomento favorito dei nostri discorsi: così si iniziò nel mio animo il primo germe delle cognizioni sociali.”

Il lavoro e l’inchiesta sociale. Anna Maria Mozzoni

Finita la scuola tecnica, è costretto a cercare un impiego a quindici anni – età non precoce in quel tempo per l’ingresso nel mondo del lavoro, che anzi nei ceti proletari avveniva anche molto prima – entrando “come garzone di magazzino presso la ditta del sig. Luigi De Giorgi, una vecchia e riputata casa di rappresentanza e deposito di filati. Dopo alcuni mesi di lavoro gratuito — allora si usava così — il 15 agosto 1873 vi guadagnai le prime 50 lire come mancia di ferragosto: mi parve di essere diventato ricco e mi comperai l’orologio! Passato il tempo del mio tirocinio, nel 1875 cominciai a ricevere lo stipendio regolare di L. 30 mensili. In quelle condizioni ritrovai il mio compagno di scuola e di banco Enrico Dalbesio … Dopo il nostro orario di lavoro ci trovavamo sempre a passare qualche ora ragionando intorno ai nostri preferiti argomenti sociali…. L’amico Dalbesio era poi un grande entusiasta per le arti belle e ambedue, durante la scuola tecnica, ci eravamo tanto distinti nello studio del disegno che io mi decisi a frequentare l’Accademia di Brera approfittando dell’orario mattiniero (dalle 6 alle  9) nella stagione estiva… Per tre anni mi dedicai con passione allo studio elementare della figura: arrivato ai corsi di nudo, essendo cambiato l’orario scolastico, dovetti abbandonare l’Accademia per non perdere quel piccolo guadagno che mi permetteva di aiutare la vecchiaia dei nonni.”

Quando il nonno morì, la nonna si trasferì a Cremona. Rimase solo, abitando per sette anni “in un abbaino, sotto i tetti, dove d’estate si moriva di caldo e d’inverno di geloperché il fratello maggiore, maestro elementare, viveva da sé. In quel periodo, pure lavorando nel magazzino dei filati, continuò lo studio della lingua francese e iniziò anche quello delle lingue tedesca ed inglese frequentando una scuola serale “dove ero accolto gratuitamente per simpatia del titolare alla memoria del povero nonno”.

Sfuggito al servizio militare avendo estratto un alto numero di leva, si dedicò alla conoscenza degli ambienti e dei personaggi impegnati nelle questioni sociali e politiche, venendo a contatto anche con la “Lega Promotrice degli Interessi Femminili” e con la sua presidentessa, ”una nobile e gentile signora, Donna Anna Maria Mozzoni, che mi impegnò in un grande lavoro di osservazione, di studio e di azione. Questa mia attività … ebbe anche il prezioso risultato di svelarmi gli abissi di miseria del proletariato di città e di campagna. Ricordo che per parecchi anni vissi come ossessionato dalle scoperte che andavo facendo: tutte le domeniche invece di andare a spasso in cerca di divertimento, approfittavo dell’orario di entrata libera nell’Ospedale Maggiore per girare in quelle corsie dolenti, fra quei letti dove la poveraglia manda i suoi malati e i suoi moribondi e poi scappavo nel mio abbaino a meditare, a imprecare, a piangere di rabbia e di impotenza di fronte a tanti spettacoli di dolore e di miseria”.

Fu cooptato nel comitato esecutivo della Lega, composto dalla Mozzoni, da Paolina Schiff e da due operaie, con l’incarico del coordinamento con le società operaie. [5]

Intanto progrediva nella carriera commerciale. “Il mio salario mensile da 30 lire era salito a 50, poi a 90, poi a 100, ciò che era allora una ricchezza, tanto che mi decisi a far venire a Milano i miei tre piccoli fratelli, ai quali mio padre non voleva più provvedere. Alloggiai i due maschi come novizi in botteghe di salumieri, e la sorella in una buona famiglia di onesti proletari, pagando le relative quote di pensione e di noviziato. Io vivevo spendendo meno di 60 lire al mese mangiando nelle modeste trattorie dei sobborghi.”

Dopo qualche anno fece venire a Milano tutta la fami­glia, padre, madre e nonna, che andarono ad abitare in un piano terreno di via Lanzone. “Ricostituimmo così alla meglio un po’ di vita domestica : io rimasi sempre nell’abbaino di via Santa Marta, dove coi libri che mi procurava l’amico Dalbesio andavo perfezionando le mie cognizioni politiche”.

In quel periodo di tempo il fratello gli propose di aiutarlo a stampare manualetti razionali di istruzione infantile. “Comperammo a credito un vecchio torchio, due o tre quintali di caratteri e nella casa di via Lanzone ci mettemmo ad imparare l’arte tipografica.”

Intanto era venuto a morire il signor De Giorgi, e il suo magazzino passò in eredità al genero, che lo fece diventare il suo alter ego: “cassiere, procuratore, viaggiatore con uno stipendio di 150 lire mensili. Ma anche il relativo benessere che così potevo procurarmi, non valse a farmi cambiare il regime di vita, di studio e di pensiero … La grande energia muscolare, che nel passato mi aveva permesso di andare a piedi, d’estate e d’inverno, da Milano a Cremona, per trovare i miei parenti, non bastava più a soddisfare gli impegni che man mano si moltiplicavano nella mia vita e perciò, allo scopo di accelerare i miei movimenti, pensai di adottare l’uso del velocipede. Oltre a girare la Lombardia in lungo e in largo, percorsi così per la prima volta l’Emilia, la Toscana, la Liguria, sempre infaticato e infaticabile.”

Il “Circolo operaio”. Eliseo Reclus

Proseguendo nell’esplorazione degli ambienti politici, si iscrisse al Circolo Operaio che era stato allora istituito nei locali del democratico Consolato Operaio, per avere occasione di scambiare “parole ed idee cogli uomini e con le donne, vecchi e giovani, specialmente repubblicani, anzi mazziniani, che allora popolavano quei locali. Quante conoscenze vi feci allora di ardenti giovinetti che poi, dopo cinquant’anni, ritrovai in parlamento deputati e anche ministri del re !”

Iniziò a concorrere all’opera di propaganda con un discorso intorno alla “Emancipazione della donna”: “ricordo che davanti a quel ristretto uditorio non ebbi il coraggio di alzare gli occhi dai fogli sui quali leggevo il mio discorso. Quel primo saggio però valse a farmi rompere la crosta dell’abitudine, e da allora in poi, in piccolo o in grande, mi abituai a discutere pubblicamente e a sostenere le mie opinioni.”

Frattanto, con le elezioni del 1882, entrava in vigore la legge promulgata dal governo Depretis che allargava il diritto di voto politico.  Il campo politico era conteso a Milano tra i costituzionali e i democratici, che col giornale “II Secolo” esercitavano la loro influenza sul Consolato Operaio, una federazione di società di mutuo soccorso patrocinate dai democratici.

I democratici del “Secolo” lanciarono la candidatura operaia di Antonio Maffi, un fonditore di caratteri, e lo fecero parlare in un grande comizio popolare tenuto nel Teatro della Canobbiana per esporre il programma degli operai democratici. “Vi accorremmo tutti: egli esordì con queste precise parole: «Guerra alla guerra fra il capitale e il lavoro !». Fu per noi una grande delusione, perché noi credevamo nella esistenza della questione sociale e nella necessità della sua soluzione.” Il giornale “La Plebe”, che Enrico Bignami pubblicava a Lodi, diventò allora il loro portavoce permettendo di allargare la cerchia delle conoscenze e quindi la sfera d’ influenza.

Nelle elezioni politiche di quell’anno 1882 era diventato primo deputato socialista Andrea Costa: la sua nomina aveva destato infiniti commenti fra i giovani del Circolo Operaio. Specialmente gli anarchici avevano criticato l’entrata di Andrea Costa in parlamento e fra i giovani si era sollevata una accanita discussione, alla quale “anche io presi parte senza avere però in proposito una opinione precisa e sicura. Allo scopo di orientarmi definitivamente nell’indirizzo da seguire, decisi di approfittare della buona stagione estiva, per andare ad informarmi personalmente presso il grande geografo Eliseo Reclus che abitava a Clarens sul lago di Ginevra e che in nome dell’anarchia conduceva una violentissima campagna contro Andrea Costa deputato. A cavallo del mio velocipede, attraversai le Alpi, passando per il San Gottardo, percorsi in tutta la sua lunghezza il cantone Vallese, passai da Losanna ed arrivai a Clarens dove fui accolto ed ospitato con grande cordialità. Per una giornata intera, restai nello studio di quel grande scienziato a discutere con lui e con altri suoi amici intorno alla situazione politica italiana. Venuta la sera, mi accomiatai dicendogli: «Se la vita del mondo fosse tutta racchiusa in questa bella villetta sulle rive del lago, coperta di rose, ridente di luce di azzurro e di verde, le vaste teorie politiche potrebbero avere ragioni ma essa si svolge nei grandi centri di popolazione, dove si fatica e soffre nelle tribolazioni e nella miseria ed io vado là per aiutare fraternamente il lavoro pratico, preparatore dell’ideale futuro”.

Il primo arresto. Il Fascio operaio e la Lega Figli del lavoro

Il 20 dicembre 1882 era stato impiccato a Trieste  Gugliemo Oberdan e i repubblicani avevano chiesto al Circolo Operaio di partecipare a una manifestazione di protesta.nel giorno di Natale in piazza del Duomo. “Io vi avevo aderito più reagire contro la barbarie della pena di morte, che per adesione al programma irredentista della dimostrazione .. fui caricato dai carabinieri, afferrato da cento mani, schiacciato contro un muro .. e finalmente arrestato, ammanettato e condotto nelle prigioni della Questura. Mio fratello che aveva assistito alla scena ed era accorso per vedere cosa mi facevano, venne pure arrestato e così ci trovammo in undici giovinetti chiusi in quelle orribili e vergognose prigioni di S. Fedele, dove passammo una notte di insonnia e di disgusto. Il giorno seguente fummo condotti nel Carcere Cellulare e dopo pochi giorni giudicati per direttissima. Io venni assolto  [ma] messo di fronte al dilemma: o abbandonare la vita commerciale o abbandonare la vita politica, ben inteso col diritto alla più ampia libertà del mio pensiero !”

Al padrone della ditta era insopportabile l’idea di avere per procuratore uno che era stato in prigione e poteva tornarvi: così nel 1883 fu licenziato pur avendo sulle spalle il carico della famiglia paterna e la vita della vecchia nonna “allora, a venticinque anni, mi sentivo una forza di salute e una tale baldanza di avvenire, che mi sentivo di affrontare e di vincere qualsiasi difficoltà. Però in quel tempo io non avevo ancora una precisa direttiva politica. Leggevo avidamente libri, opuscoli, specialmente di autori francesi e russi che trattavano della questione sociale, Guesde, Malon, Lafargue, Deville, Bakunin, Kropotkin, Herzen”

Frattanto aveva abbandonato l’abbaino di via S. Marta per andare ad  abitare in un pianterreno, dove aveva collocato una piccola macchina tipografica a pedale “Cogli amici del Circolo Operaio ci accordammo per iniziare un lavoro di propaganda operaia indipendente, che l’elemento democratico dominante cercava in ogni modo di ostacolare. A tal fine avevamo trovato un vecchio magazzeno e vi tenemmo le prime riunioni, finché il 29 luglio 1883 iniziammo la pubblicazione del settimanale “II Fascio operaio, voce dei Figli del Lavoro” che continuò la sua vita per tutto l’inverno del 1883”

Il gruppo del Fascio operaio lo incaricò di presentare alle elezioni amministrative del novembre di quell’anno il punto di vista dal quale la classe operaia doveva parteciparvi in un comizio che si tenne al Teatro Castelli.   Fu il suo primo discorso davanti al grande pubblico.

Nel febbraio del 1884 fu costituita una prima Lega dei Figli del Lavoro, la quale aveva un programma di propaganda per il miglioramento delle condizioni materiali e morali dei lavoratori mediante la resistenza (come allora venivano chiamati gli scioperi) e la solidarietà, e che divenne un centro per la formazione di una corrente operaia indipendente ed autonoma dai partiti politici.

In quel tempo il ministro Domenico Berti, di fronte allo sviluppo della propaganda operaia e socialista, aveva tentato di portare all’approvazione del Parlamento un blocco di leggi sociali destinate a demandare ad organi dello Stato la tutela delle condizioni di vita più elementari dei lavoratori. Fu un’occasione per proclamare ed affermare il principio dell’autonomia e indipendenza del movimento operaio, ed infatti, il 27 gennaio 1884, “in una giornata freddissima, nel teatro scoperto della Commenda si tenne un comizio su quell’importante argomento. (…) e mentre cadeva un lento nevischio che faceva aprire gli ombrelli a chi era in platea, la discussione si svolse intrepidamente per diverse ore, concludendo con un ordine del giorno nel quale era detto che «non riconoscendo in qualsiasi organizzazione politica né la capacità, né la competenza di dettar leggi favorevoli ai lavoratori, si respingeva ogni ingerenza governativa nelle questioni operaie e si reclamava la più assoluta libertà nei rapporti fra capitale e lavoro” 

Era una tendenza che non si rifaceva a opzioni teoriche , ma alla collocazione di classe degli individui e dei gruppi sociali e che puntava non alla conquista di uno spazio politico in senso tradizionale, ma allo spostamento sul terreno della lotta di classe di strati sempre più consistenti di lavoratori organizzati. Le proposte operaiste erano infatti semplici ed al tempo stesso di grande impatto: portare le Società Operaie ad adottare il principio della resistenza (in alternativa od accanto al tradizionale mutualismo) ed agitare il principio (rivolto contro ogni concezione elitaria, foss’anche di estrema sinistra, della politica) che “l’emancipazione degli operai dev’essere opera degli operai medesimi” .

Questi propositi erano il frutto delle discussioni che si facevano quando “ci riunivamo settimanalmente intorno al Dr. Gnocchi-Viani per intenderci sulla formazione del numero del giornale che si doveva pubblicare. Egli era la nostra guida e il nostro consigliere”

La Lega organizzava anche gite di propaganda nei centri vicini, a Monza, Busto, Gallarate, Varese, Como, inizialmente ritrovi con amici, conoscenti o parenti in cui avvenivano scambi di idee e si allacciavano rapporti. Il giornale serviva da mezzo di comunicazione e da bandiera di raccolta, ma il ricavato delle vendite non era sufficiente a coprire le spese e nell’aprile del 1884 fu costretto a sospendere la pubblicazione.

Dopo aver perso il posto nell’azienda commerciale si era sforzato di sviluppare il lavoro indipendente della sua piccola tipografia: aveva iniziato diverse pubblicazioni di carattere politico, anticlericale e sociale, opuscoli clandestini, stampati di notte, ma tutto ciò non bastava per vivere. Occorreva darle un’impronta commerciale, ma proprio in quel tempo vennero introdotte nuove macchine tipografiche che misero  fuori mercato la sua piccola azienda. Nell’impossibilità di lottare contro questa concorrenza, abbandonò il lavoro indipendente ed entrò come compositore in diverse tipografie.

L’incontro con Bertani e l’inchiesta agraria

Si manifestarono i primi sintomi di intossicazione da antimonio per le emanazioni tipografiche, tanto che Anna Maria Mozzoni che “aveva per me una vera sollecitudine materna”, lo presentò al suo amico Agostino Bertani, deputato radicale nonché medico, perché si facesse visitare “Dopo avermi esaminato attentamente, egli mi impose di abbandonare subito l’arte tipografica.«Come farò a vivere, professore?» gli disse «Ho anche la famiglia da mantenere insieme a mio fratello e non posso restare inoperoso».«Vieni con me» gli rispose Bertani. «Sto appunto cercando un segretario per l’inchiesta dell’igiene rurale e tu puoi fare al caso mio. Ti darò 3 lire al giorno e le spese quando saremo in viaggio».Accettai e così diventai il suo segretario più fidato.”

A margine della grande Inchiesta agraria, Bertani aveva persuaso il suo vecchio amico Depretis ad iniziare, coi fondi del Ministero dell’Interno, una rapida e pratica inchiesta per  l’igiene rurale.  Andò con lui nella sua casa di Genova, poi a Roma, poi nella sua casa di campagna a Miàsino sul Lago d’Orta, poi in viaggio per l’Umbria, le Marche, in Lombardia, in Emilia e in Toscana, “e fu così che io riuscii ad acquistare una straordinaria quantità di cognizioni sociali e politiche per le quali andai sempre più consolidando la formazione della mia coscienza e della mia volontà per una azione positiva strettamente legata al grande ideale della emancipazione proletaria. È interessante questa storia dell’inchiesta per l’igiene rurale, perché si può dire che io vi feci la prima parte della mia educazione politica.”

Bertani aveva organizzata in casa sua la distribuzione di un questionario ai medici condotti dei comuni italiani, i quali avevano risposto quasi unanimi alla richiesta del loro collega e la sua casa di Genova fu piena dei questionari compilati che egli esaminava personalmente. Dove apparivano lacune o informazioni irregolari egli mandava propri incaricati per esaminare e raccogliere notizie precise. Così Lazzari ebbe allora occasione di compiere diverse gite in alcune province: “partivo la mattina solo, con un modesto calessino, e percorrevo villaggi, cascinali e casolari osservando, interrogando, notando e ritornavo la sera stanco morto, ma colla testa e col cuore pieno di nuove cognizioni, di impressioni e sensazioni.”

in tal modo percorse e visitò alcune zone della provincia di Milano, di Como, di Macerata e Perugia sempre in mezzo alla povera gente di campagna “dovunque egualmente legata dalla schiavitù del lavoro agricolo o da quella del lavoro industriale. Quanti quadri e quanti episodi ignorati di dolori, di sacrifici e di stenti fra quelle povere popolazioni governate e dominate dai signori, dai preti e dai carabinieri”.

Durante questo periodo, che ebbe la durata di circa tre anni, per due volte si separarono a causa di divergenze politiche “Ricordo che egli mi accomiatò dicendomi queste precise parole che non ho mai più dimenticato:   «Quando ti sento parlare mi pare che tu abbia  ragione e che ormai la questione sociale sia la sola e la vera grande questione interessante per la vita e l’avvenire del popolo italiano; quando sento parlare gli altri temo che voi abbiate a far rovinare l’edificio che noi abbiamo innalzato con tanti sacrifici. In ogni modo non fidarti degli uomini della nostra generazione: noi siamo troppo compromessi col lavoro patriottico che abbiamo fatto per poter essere difensori della nostra causa e non essere nello stesso tempo sostenitori del regime di privilegio e di oppressione che voi volete combattere”.

 La Federazione Regionale Alta Italia del Partito Operaio

Nel settembre del 1884 il “Fascio operaio” aveva potuto riprendere le sue pubblicazioni, sorretto da 117 azionisti che versarono 5 lire l’uno; animato dal proposito di gettare le basi di un lavoro metodico per il miglioramento e l’emancipazione della classe, il gruppo del Fascio operaio, pur facendo tesoro delle esperienze della propaganda anarchica e internazionalista, decise di iniziare un’azione essenzialmente politica, ed applicando la massima fondamentale che l’emancipazione dei lavoratori deve essere opera dei lavoratori stessi, stabilì di riservare l’iscrizione ai soli uomini e donne che vivessero di lavoro e di salario.Su questa base il 1° settembre 1884 cinque Società di Figli del Lavoro fondate a Milano, Gallarate, Busto, Legnano, Sacconago, senza alcuna ingerenza di elementi estranei alla classe operaria, dichiararono costituita la Federazione Regionale dell’Alta Italia del Partito Operaio Italiano.

A fianco di questa organizzazione era sorta la Lega Socialista Milanese, destinata a fornire al movimento operaio il bagaglio teorico necessario al suo sviluppo, e a proporre alla pubblica opinione il risultato dei suoi studi; facevano parte di questa una cinquantina di pubblicisti, professionisti, commercianti, industriali, studenti.

Così attrezzato, il movimento continuò la sua azione: la più grande affermazione ebbe luogo il 23 novembre 1884 durante un comizio contro le convenzioni ferroviarie con cui il governo vendeva l’esercizio del trasporto ferroviario. Tutta l’estrema sinistra parlamentare si era raccolta intorno all’ex ministro Alfredo Baccarini, il quale sosteneva l’esercizio dello Stato; la Federazione Alta Italia fece parlare Osvaldo Gnocchi-Viani, il quale “con veemente ed infiammato discorso dimostrò che la questione ferrovia non era che un aspetto della questione sociale e che soltanto l’esercizio delle ferrovie affidato ai ferrovieri organizzati poteva rispondere all’ interesse della nazione. Da allora in poi cominciò a determinarsi nelle file della democrazia e sulle colonne del “Secolo” una sorda ostilità contro la nostra organizzazione e contro la nostra propaganda”.

Dalla costituzione del Partito Operaio Italiano ai Congressi di Milano e Mantova (1885)

Il 1885 fu di ancor maggiore e più intenso impegno. Lazzari era ritornato a lavorare in tipografia, per quanto sentisse che la salute non resisteva. Il Partito Operaio Italiano si estendeva: i primi sequestri e i primi processi avevano colpito il Fascio operaio, ma crescevano le file degli aderenti e il numero dei lettori.

Il 12 aprile e il 3 maggio di quell’anno si tenne a Milano il primo  Congresso del POI che in tale occasione si diede gli organi statutari. Del suo primo Comitato Centrale, che si radunava almeno una volta alla settimana, Lazzari fungeva da segretario.

Quell’anno cominciarono i sequestri del Fascio operaio, il primo per un voto di solidarietà degli operai metallurgici di Savona in favore dei contadini mantovani in sciopero. Ne seguì il 23 luglio 1885 un processo in Corte di Assise, che inflisse sette condanne.

I giorni 6-7-8 dicembre di quello stesso anno il 2. Congresso del Partito Operaio Italiano si tenne a Mantova per solidarietà coi contadini di quella provincia in sciopero generale agricolo. I capi di quell’agitazione erano stati imprigionati, ma al congresso assistevano in gran numero lavoratori agricoli venuti da ogni parte della regione, e fu questa la novità: le logge del teatro stipate di contadini e una organizzazione operaia che per la prima volta delineava un abbozzo di programma agrario.

Lo scopo di questo congresso era, oltre quello già detto, di realizzare la fusione sotto la bandiera del Partito Operaio Italiano delle organizzazioni, specie società di mutuo soccorso,  che facevano parte della Confederazione operaia lombarda, già diretta dai democratici  ma al cui congresso di Brescia del 4-5 gennaio 1885 erano prevalse le tesi operaiste sulla resistenza, cioè sullo sciopero.

Il Partito Operaio vi partecipava con 40 Sezioni e la Confederazione Lombarda vi aveva portato 60 organizzazioni. La fusione venne sanzionata aggiungendo all’art. 1° dello Statuto la seguente dichiarazione: «II Partito Operaio Italiano, estraneo ad ogni partito politico o religioso, parteciperà alle lotte della vita pubblica come classe distinta che tende alla sua emancipazione».

Il lavoro di organizzazione diventò febbrile: “si può dire che il Comitato Centrale era costretto a sedere in permanenza e i suoi membri si riunivano tutte le sere per parecchie ore, con grande disperazione delle loro donne e delle loro famiglie ormai abbandonate. Non passava domenica o festa di precetto, senza che noi ne approfittassimo per organizzare qualche gita di propaganda in provincia o fuori secondo i pochi soldi che si trovavano in cassa. Fra le altre, restò indimenticabile quella che, per iniziativa di Leonida Bissolati, io feci a Cremona il 14 febbraio 1886 ”

Turati scrive l’ ”Inno dei lavoratori” per il Partito Operaio

Mentre si compiva questo lavoro organizzativo, la Lega Socialista Milanese aumentava di numero e di influenza: fra i suoi membri più attivi e più volonterosi si contavano Filippo Turati, Giuseppe De Franceschi, Osvaldo Gnocchi-Viani[6], Paolo Valera, Enrico Dalbesio, Enrico Bignami[7], Enrico Besana, Enrico Viscardi. Fra tutti, costituivano una specie di riserva intellettuale alla quale si poteva ricorrere nei bisogni materiali e morali del Partito.

Fu in omaggio a questa funzione che nella primavera del 1886 il Partito Operaio ottenne da Filippo Turati le parole per un inno che fosse la sintesi delle sue aspirazioni ed esprimesse musicalmente la formazione civile della sua forza organizzativa[8].

Lo pubblicò il 20 marzo di quell’anno il Fascio operaio e riuscì a farlo musicare da un maestro addetto allo stabilimento Sonzogno e “ne facemmo la prima pubblica prova in una allegra serata carnevalesca, che passammo nella modesta trattoria Tresoldi in Via Bocchetto. Ne restammo tutti commossi ed entusiasti e da allora in poi diventò il nostro ritornello di richiamo: io andai persino a zufolarlo lungo le muraglie del carcere di Casale Monferrato dove era stato rinchiuso Alfredo Casati andato colà per una delle nostre solite gite di propaganda, ed egli mi rispondeva… Questo inno doveva per la prima volta essere cantato in coro durante la inaugurazione del caratteristico stendardo che la Lega dei Figli del Lavoro di Milano aveva adottato come suo distintivo e rappresentava un giovane fabbro che guardava il sole nascente. Il ricamo era un vero capolavoro uscito dalle mani della compagna Norma De Grandi che era la moglie di Alfredo Casati.”

Le elezioni del 1886 e la polemica con Felice Cavallotti

Alle elezioni del 1886 il POI era deciso a presentarsi con una propria lista che i radicali temevano, non tanto perché il Partito Operaio Italiano fosse in grado di far eleggere alcuno dei suoi candidati, quanto per i molti voti che avrebbe sottratto alle loro liste. Si comprende che in quella congiuntura il governo Depretis, interessato a una sconfitta dei radicali specialmente in Lombardia, lasciasse, in quei mesi di accesa vigilia elettorale, una certa libertà d’azione al POI, che aveva sottoposto sino a poco prima a persecuzioni poliziesche.

I radicali, irritati da questa tolleranza governativa, e dall’aspra campagna che il Partito Operaio conduceva contro di loro, cominciarono ad avanzare, specialmente sul «Secolo», vaghe insinuazioni su non precisati favori e appoggi da parte del governo. Gli operaisti reagirono, e il «Fascio operaio: voce dei figli del Lavoro» giunse a parlare di «democrazia vile». Frattanto le elezioni del 2 maggio 1886 dimostravano che, nonostante il buon successo dei radicali a Milano, il Partito Operaio era riuscito a sottrarre non poche migliaia di voti alla loro lista: Lazzari ebbe 3.359 voti a Cremona, 824 ad Alessandria e 1.425 a Casale Monferrato; altre candidature furono presentate con successo a Busto Arsizio, Monza, Como, Pavia, Intra, Vercelli, Torino, Sanremo, Arezzo, Napoli. Nessuno fu eletto, ma, col ristretto suffragio allora in vigore, fu un successo. Il partito democratico che si vedeva minacciato nella sua tradizionale egemonia ed influenza sulla classe operaia, accusò gli operaisti di aver fatto il gioco del governo Depretis. Il giornale “II Secolo”, commentando il risultato delle elezioni, li denunciava apertamente come dei venduti e il deputato Felice Cavallotti lanciò l’infamante accusa al Partito Operaio di essere un prezzolato strumento del governo.

II Comitato Centrale del  POI domandò al deputato Cavallotti un colloquio personale, allo scopo di persuaderlo dell’errore in cui egli si trovava sul suo conto. II colloquio ebbe luogo il 31 maggio 1886: nella sua abitazione si recarono Lazzari, Croce e Casati e lo trovarono che li attendeva, secondo le sue abitudini duellistiche, con due testimoni. Alla esibizione dei documenti di prova della vitalità finanziaria mediante copialettere, registri e bollettari, dopo tre ore di discussione pareva, secondo Lazzari,  convinto dell’infondatezza delle sue accuse e promise che per l’indomani sarebbe stata pubblicata una dichiarazione in tal senso sul  “Secolo”;  invece nel numero del 1° giugno pubblicò una violenta e furibonda requisitoria colla quale, ricorrendo a reminiscenze classiche, ribadiva le sue accuse.

Frattanto Depretis, passato appena un mese dalle elezioni, faceva arrestare dal questore di Milano i principali dirigenti del Partito Operaio, sequestrarne le carte, sopprimere il giornale «Fascio operaio», con deferimento alla magistratura sotto l’accusa di «associazione di malfattori». Depretis, con quei severi provvedimenti, da un lato assestava un duro colpo al movimento operaio del Nord, e dall’altro, alla vigilia della sua interpellanza, metteva in imbarazzo Cavallotti.

All’ultima requisitoria del “Secolo” decise la pubblicazione di un numero del “Fascio operaio” dedicato alla difesa delle proprie ragioni “Per preparare questo numero straordinario avevo vegliato tutta la notte e spuntava l’alba del 23 giugno. Avevo spento la lucerna a petrolio — allora non c’era la luce elettrica e il gas era un lusso — quando irruppero nella mia povera abitazione un delegato di questura con tanto di sciarpa a tracolla seguito da questurini e da carabinieri. Fui dichiarato in arresto: si fece un gran fascio di tutte le mie carte e bene ammanettato fui condotto, in mezzo alla squadra, nella questura centrale di S. Fedele.

Colà trovai già in stato d’arresto gli altri membri del nostro Comitato Centrale: il questore ci lesse con voce imperatoria un bel decreto del Prefetto col quale veniva dichiarato sciolto e proibito il Partito Operaio Italiano. Col solito carrozzone fummo condotti e rinchiusi nel carcere cellulare sotto la duplice accusa di cospirazione e di associazione di malfattori.”

L’istruttoria durò tre mesi, ma finalmente una ordinanza della Sezione di accusa accordava la libertà provvisoria e rinviava al giudizio della Corte d’Assise.

L’ostilità per Cavallotti ebbe strascichi che si manifestarono anche anni dopo questo episodio: il deputato radicale, che si presentava come candidato nelle elezioni del 1888,  aveva convocato un comizio il 23 maggio.

Gli “operaisti” vi andarono col proposito di far conoscere le ragioni della astensione e siccome venne negato loro il diritto di replica “sollevammo un tal coro di proteste e di fischi che il comizio diventò ben presto un campo di battaglia contro di noi. Noi fummo scacciati dal locale tutti pesti e sanguinolenti, ma l’adunanza andò a monte e del grande comizio democratico non rimase che un mucchio di vetri infranti, di sedie rotte e di tavoli capovolti” . Quasi quarant’anni dopo così commentava il Lazzari “Da allora in. poi Cavallotti, che era stato l’esponente di tutte le calunnie e le diffamazioni che ci avevano colpito, non riuscì più a diventare deputato di Milano”!

Vi è in queste affermazioni una rimozione perchè numerose furono in seguito i  momenti di convergenza che lo videro personalmente impegnato insieme ai radicali, come il   Comizio internazionale per i diritti del lavoro dell’aprile 1991 e la Lega per la difesa della libertà fondata nel 1995; da notare, a questo proposito, che i 3.359 voti di Cremona nel 1886,  furono ottenuti grazie all’appoggio dei radicali locali.

Ripresa dell’attività del Partito Operaio. Il congresso di Pavia (1887)

La Lega socialista in questa polemica era scesa in campo in difesa del POI con una «Dichiarazione d’onore» che li rendeva solidali con la loro lotta in favore del­la classe operaia  e avevano manifestato il loro appoggio morale e materiale, per cui il 16 ottobre 1886 ricomparve il Fascio operaio, privato del sottotitolo di organo del Partito Operaio Italiano

Le organizzazioni erano state sciolte con decreto prefettizio, ma ben presto furono riannodati i rapporti valendosi del giornale, il quale non era contemplato nel decreto di soppressione del Partito.

Fu fissato il recapito del giornale presso una Società Operaia che aveva la sede in corso Ticinese, ma la sorveglianza della polizia obbligò a cercare un altro locale “e lo trovammo in una lurida cameraccia di una vecchia casa, nell’ora scomparso vicolo di S. Marcellino, tetro ricovero di malviventi e di prostitute presso il Ponte Vetero. Là, nel freddo e nell’umido, ci riunivamo su quattro sedie e su quattro panche per discutere le nostre questioni e spedire il giornale.”

L’atteso processo ebbe luogo nella Corte di Assise nei giorni dal 18 al 31 gennaio 1887. Erano sei imputati e le imputazioni che li avevano colpiti, di eccitamento all’odio, al saccheggio, alla strage, vennero sostenute dal Procuratore Generale. Però i giurati ridussero tutte quelle imputazioni al semplice reato di istigazione allo sciopero e quindi furono condannati: Alfredo Casati a 9 mesi, Giuseppe Croce e Costantino Lazzari a 3 mesi, altri a 3 e 2 mesi, più alcune migliaia di lire e le solite spese processuali. La sentenza venne letta in mezzo ad una folla enorme che aveva seguito con passione le varie fasi del lungo dibattimento e venne salutata col grido di: «Evviva il Partito Operaio Italiano»

Però il sistema di adesione collettiva mise ben presto di fronte a insuperabili difficoltà: individualmente arrivavano consensi e simpatie (erano di quel tempo le manifestazioni favorevoli di uomini delle alte classi come Simone Weill-Schott, Prospero Moisé Loria e altri), ma nes­suno si sentiva di mettere le sorti e gli interessi collettivi delle organiz­zazioni operaie in balia e sotto i colpi delle persecuzioni che il decre­to prefettizio di scioglimento poteva sempre autorizzare. Per queste considerazioni fu deciso di trasportare il centro del movimento fuori della provincia di Milano e a tal scopo fu indetto un Congresso generale a Pavia nei giorni 18-19 settembre 1887.

“Ero ritornato in prigione per scontare il resto della pena che mi era toccata e dopo una quindicina di giorni avevo ripreso il mio tenore di vita ma, nemmeno ingegnandomi col mio materiale tipografico, un lavoro stabile e serio non riuscii a trovarlo più. Ero scoraggiato e preoccupato per i bisogni della famiglia e malandato di salute fisica e morale; pensai di rivolgermi agli amici che mi volevano bene. Bissolati di Cremona mi mandò 500 lire — allora erano un capitale — e De Franceschi mi offrì un posto come contabile nel suo ufficio di ingegneria con uno stipendio di 90 lire al mese, lasciandomi naturalmente piena libertà di dedicarmi alla propaganda militante dopo il normale orario del suo ufficio. Quindi ripresi poco a poco la mia attività in compagnia dei vecchi amici ed accettai di partecipare al nuovo congresso. In causa della grave penuria di danaro che era generale fra di noi delegati di Milano, decidemmo di andare a Pavia a piedi viaggiando per buona parte della notte”.

Il Congresso dopo due giorni di discussione si concluse con l’approvazione del programma. Le disposizioni statutarie erano distribuite in 28 articoli e la sede del Comitato Centrale venne fissata in Alessandria dove le organizzazioni avevano meglio resistito alla bufera della repressione e dove vi era un saldo nucleo.

Il giornale continuò a pubblicarsi in Milano con varia fortuna presso una Società Operaia Mutua ed Istruttiva alla quale si erano iscritti i vecchi compagni della disciolta Lega dei Figli del Lavoro, ed era il centro da cui irradiavano le agitazioni della classe operaia milanese.

La vita privata

In quel frattempo, nelle diverse riunioni di operai e di operaie che andavamo facendo, io avevo notato la presenza di una giovane cucitrice in guanti, certa Giuseppina Manzoli la quale prendeva sovente la parola per esporre in modo semplice e suggestivo le dure condizioni di vita e di lavoro della sua categoria. Era una giovane pallida, di alta statura, di carattere serio, e ben presto fra noi si stabilì una viva corrente di simpatia. Apparteneva ad una famiglia di poveri proletari: il padre, venuto dalla campagna, era un abile e robusto fuochista presso la Società del Gas … la Giuseppina aveva cominciato come pulitrice in una fonderia di caratteri e poi era andata in una fabbrica di guanti come cucitrice: il suo lavoro era una specialità ricercata per cui guadagnava bene …. In quel povero ambiente che io frequentavo, la nostra simpatia diventò ben presto una relazione, ma la povera Giuseppina che da anni ed anni lavorava a macchina aveva contratto una grave malattia negli organi interni per cui, da me consigliata, venne operata all’Ospedale Maggiore dal Prof. Luigi Mangiagalli, al quale l’avevo raccomandata a mezzo dell’amico De Franceschi.

Nella primavera del 1889 uscì guarita dall’ospedale e decise di sposarla civilmente con la “fiducia che colla sua compagnia la mia esistenza avrebbe avuto un ritmo più regolare e più razionale. È stato questo uno dei miei più gravi errori; per quanto essa condividesse pienamente le mie idee e il mio ardore politico, la sua femminilità era stata infranta e la nostra casa restò una povera casa deserta e sterile senza il sorriso né la gioia dei bambini, mentre io avevo così vivo e forte l’istinto paterno! Anche per questa ragione la passione esuberante della mia vita si concentrò tutta nell’attività politica alla quale io dedicavo tutti i ritagli di tempo, di giorno e di notte, che mi restavano disponibili.”

Qualche anno dopo “l’amico dott. Viscardi andato in rotta con sua moglie, mi propose, dal momento che io amavo tanto i bambini, di allevare i suoi due figliuoli, Bruno di 6 e Mario di 3 anni. Accettai con entusiasmo e da allora in poi la nostra casa con la presenza e colle cure per quei due cari ragazzini fu un vero teatro di festa e di gioia!” Tanto era forte il suo istinto paterno, che nel 1915 adottò Caterina Devoti, una bambina rimasta orfana in occasione del terremoto della Marsica del 13 gennaio, che gli tenne compagnia negli ultimi anni e cui fece intraprendere gli studi magistrali.

I Congressi di Bologna (1889) e Milano (1890) del POI

Per sviluppare l’organizzazione del Partito venne convocato il quarto Congresso a Bologna nei giorni 8, 9 e 10 settembre 1889; in esso venne elaborato, discusso ed approvato, pur tra contrasti, il programma comunale che il Partito avrebbe adottato per la sua partecipazione alle prossime elezioni generali amministrative.

L’autorità ogni tanto, con qualche sequestro del giornale o con qualche perquisizione domiciliare, veniva ad interrompere il lavoro organizzativo. Nella notte del 22 maggio 1889, mentre era stata appena trasportata la sede del giornale in Piazza Vetra e arrivavano dalla provincia notizie che i contadini in sciopero si ribellavano ai carabinieri, “venimmo tutti arrestati nelle nostre case e rinchiusi nel carcere cellulare. Dopo un mese di prigione, senza la notifica di alcuna accusa, fummo rimessi in libertà e riprendemmo il nostro lavoro, ma eravamo tanto stremati di forze e tanto minacciati dalle continue persecuzioni che, dopo alcuni mesi, fummo costretti ad abbandonare anche la pubblicazione del giornale” e infatti il 16 novembre 1889 uscì in Milano l’ultimo numero del Fascio operaio.

Ma i compagni di Alessandria il 16 maggio 1890 intrapresero essi stessi la pubblicazione del Fascio operaio, specialmente allo scopo di organizzare il quinto congresso del Partito che ebbe luogo a Milano nei giorni 1 e 2 novembre 1890.

In questo Congresso si fece una revisione della situazione, la quale aveva assunto una speciale importanza dopo la celebrazione del 1° maggio, che si era fatta in Italia per la prima volta quell’anno e che era stata accolta dalla classe lavoratrice col più grande favore. Nel Congresso di Milano Lazzari è relatore del quinto punto all’OdG, quello sulle coooperative.

Né si trascurava la partecipazione alla vita internazionale della classe lavoratrice: “nel novembre 1888 io ero andato come rappresentante italiano al Congresso Mondiale delle Trade Unions tenutosi a St. Andrew Hall di Londra (il Comitato Centrale di Alessandria non aveva potuto raccogliere a questo scopo più di L. 278, ma io in nove giorni di viaggio e permanenza che passai dormendo su una poltrona in casa di Paolo Valera, risparmiai ancora 50 lire)” e nel luglio 1889 Giuseppe Croce era andato a Parigi per rappre­sentare il POI al Congresso di fondazione dell’Internazionale Socialista.

Il 12 aprile 1891 a Milano si tenne un “Comizio internazionale per i diritti del lavoro”. Di fronte a una platea di oltre mille persone presero la parola i più noti esponenti dei gruppi di estrema sinistra (dai radicali agli anarchici) e portarono il loro saluto alcuni rappresentanti di movimenti socialisti europei, mentre Filippo Turati lesse un messaggio inviato da Wilhelm Liebknecht.

L’iniziativa era stata promossa nel mese di marzo da un grup­po di cinquantasette associazioni popolari milanesi, tutte di area radical-democratica, e da un comitato nazionale del quale facevano parte i maggiori esponenti dell’Estrema Sinistra: Rosa, Bovio, Cavallotti, Maffi, Colajanni, ma anche Andrea Costa, Gregorio Agnini e Antonio Labriola.

Segno questo che si andava ricomponendo il conflitto tra operaisti  e radicali divampato cinque anni prima  in occasione della denuncia di Cavallotti, che abbiamo visto Lazzari enfatizzare e presentare come definitivo

Per il comizio fu anche preparato un “numero unico” che si intitolava “/ diritti del lavoro” e conteneva alcuni messaggi augurali (di Engels e altri) e brevi scritti di agitazione, tra i quali quelli di Antonio Labriola, di Costantino Lazzari (Gli scioperi), di Filippo Turati e di Anna Maria Mozzoni

Ma persistevano divisioni culturali e ideologiche, che emer­gevano con particolare evidenza ogni qual volta si discutesse di legislazione sociale, di leggi di protezione del lavoro, di rapporto tra movimento operaio e Stato, poiché su questo terreno i diversi gruppi continuavano a mantenere le proprie posizioni, e ciononostante a lavorare fianco a fian­co, a comparire nelle stesse manifestazioni, a disputarsi lo stesso spazio politico.

Infine nel giugno del 1891, in occasione delle elezioni amministrative milanesi, si arrivò a un accordo politico e alla formazione di un blocco tra radicali, operaisti, Lega socialista e mazziniani

La fondazione del Partito socialista a Genova (1892)

Profittando delle agevolazioni ferroviarie previste in occasione del centenario di Colombo, venne convocato a Genova nei giorni 14 e 15 agosto 1892 un congresso al quale parteciparono tutti gli elementi che si interessavano delle questioni operaie. Il POI, entrato in una fase di crisi, vi prese parte insieme alla Lega  socialista milanese che era rappresentata da Filippo Turati e Anna Kuliscioff, e la caotica discussione cominciata nella Sala Sivori si concluse con una netta separazione fra i militanti anarchici che rimasero legati alle loro teorie, e gli altri che volevano mettersi sul terreno della lotta di classe. Per poter fare liberamente ciò, dopo una intera giornata di furibonde discussioni procedurali, prima per la nomina della Presidenza e poi per l’ordine dei lavori, si radunarono separatamente i rappresentanti di 150 associazioni, i quali dopo aver votato la seguente mozione: «I sottoscritti rappresentanti di associazioni intervenute al Congresso del Partito dei Lavoratori Italiani invitano tutti gli altri congressisti che accettano la lotta elettorale come uno dei mezzi per la conquista dei pubblici poteri, alla riunione che si terrà oggi lunedì nella sala della Società Carabinieri Genovesi“, iniziarono la discussione ed approvazione dello Statuto, che si componeva di soli 5 articoli; venne deliberato che l’organo del Partito sarebbe stato il giornale Lotta di classe che i socialisti milanesi avevano cominciato a pubblicare ogni settimana. Il Comitato centrale venne nominato nelle persone di Antonio Maffi, Costantino Lazzari, Giuseppe Croce, Enrico Bertini, Carlo Dell’Avalle, Luigi Fossati e Camillo Prampolini venne designato a dirigere il giornale.

Oltre agli impegni politici, che assorbivano le ore serali e le giornate domenicali, Lazzari continuava la sua funzione contabile presso l’ingegner De Franceschi, che aveva sviluppato la sua azienda: il suo studio si era trasformato in una officina meccanica e anche il suo stipendio era salito a 150 lire mensili. “Ciò mi aveva permesso di passare da quell’umile stanzetta che occupavo con mia moglie nella casa di corso Genova 17, in un appartamentino di due camere, per ammobiliare le quali l’amico Della Torre Luigi, che avevo allora conosciuto, mi aveva prestato 300 lire. (…) Ma un bel giorno l’ing. De Franceschi credette di dover procedere a certi cambiamenti nell’andamento dell’amministrazione che io non credevo fossero, dopo cinque anni di fiducia, conciliabili colla mia dignità: di più, per aver prestato in suo nome 10 lire all’amico Majocchi che era appena uscito di prigione, e per aver lasciato rompere in officina una macchina di cui mi aveva affidato il carico, mi aveva imposto il rimborso di quelle ed una multa di 20 lire per questa”.

Trasferimento a Busto Arsizio

Licenziatosi, andò a Busto Arsizio come impiegato amministrativo presso la ditta di Enrico Castiglioni, anche per fare compagnia alla sorella Bice che là era diventata maestra comunale. Anche la nomina della sorella a quel posto di Busto ebbe le sue contrarietà politiche. Essa aveva cominciato la sua carriera a Musocco nella scuola femminile “con 102 bambine e con 42 lire mensili di stipendio” poi, caduta ammalata di petto, aveva dovuto sospendere le fatiche dell’insegnamento. Si era iscritta presso il Provveditorato di Milano, ma i mesi passavano inutilmente perchè il Provveditore era fratello del deputato radicale Scipione Ronchetti, che credeva di dare così prova di amicizia  al suo collega Cavallotti.

Avvisata dagli amici che a Busto Arsizio vi era vacante un posto, essa si affrettò a concorrere, ma non l’avrebbe ottenuto se non era per l’appoggio del Soprintendente scolastico, perchè in Consiglio comunale era sorto il radicale Travelli ad opporsi alla sua nomina.A Busto Arsizio rimase un paio di anni sempre impiegato presso la ditta Castiglioni con uno stipendio mensile di 120 lire. “Furono forse gli anni più belli della mia vita coniugale, passati in compagnia dei figliuoli Viscardi e di mia sorella, circondati dall’amore degli amici e dalla simpatia di tutta la popolazione”

In mezzo a quella folta massa di operai e di operaie, andò sviluppando l’organizzazione del Circolo Operaio di M. S. e quella di una Cooperativa di Consumo. L’esempio di quanto si faceva a Busto Arsizio destava una gara in tutti i paesi del circondario e dapper­tutto sorgevano iniziative di organizzazione e di propaganda sia fra i lavoratori dell’industria che fra i contadini. Nondimeno coi compagni di Milano aveva mantenuto le più amichevoli relazioni: “sovente, nelle lunghe serate invernali, ci trovavamo a passeggiare in Galleria”

Nascita della Camera del Lavoro e della Società Umanitaria

Nelle elezioni generali amministrative del 1889 i pochi socialisti ed operai che avevano potuto entrare nelle Amministrazioni comunali e provinciali vi avevano portato l’eco dei bisogni specifici delle classi lavoratrici che per il passato non erano mai stati considerati e fu cosi che il Comune di Milano nel 1891, dietro proposta di Gnocchi-Viani, deliberò di concorrere per l’organizzazione del mercato del lavoro cittadino, concedendo alcuni locali disponibili nel Castello che era stato abbandonato dall’autorità militare e diecimila lire di sussidio annuo. Si formò cosi il primo nucleo di quella forma di Camere del Lavoro che dovevano poi diffondersi in tutta Italia e rappresentare le forze locali della classe lavoratrice, sia industriale che agricola. “Noi, vecchi avanzi del Partito Operaio, ci radunavamo si può dire ogni sera colle nostre famiglie in quei locali del Castello, per discutere intorno al miglior modo di dare fondamento stabile e sicuro alla nuova istituzione”, che ebbe ufficialmente inizio nell’ottobre del 1891 con una memorabile riunione a cui presero parte i rappresentanti e i membri delle varie arti e mestieri

A queste iniziative venne presto ad aggiungersi una nuova istituzione dovuta alla genialità utopistica di un singolare personaggio: Prospero Moisé Loria, israelita ed ex-banchiere, il quale viveva sdegnoso e solitario in una bellissima casa di via Alessandro Manzoni. “Una volta sola ebbi occasione di parlargli per domandargli aiuto in un frangente di sciopero disperato e ricordo che, timoroso e sospettoso, mi ricevette in cortile e mi diede un biglietto da 250 lire scongiurandomi di non farlo sapere a nessuno. Poi, passeggiando nell’atrio della sua casa, mi confidava che la sua  idea era quella di intervenire a favore degli operai milanesi mediante la fondazione di una grossa istituzione cooperativa agricola, che valesse a frenare l’esodo urbano dei contadini il cui affollamento nella città per trovare qualche lavoro industriale faceva ribassare i salari e produceva la crisi della disoccupazione. «Vedi – mi diceva- io ci metto 5 milioni, Weill-Schott ce ne mette 1, De Asarta 1 e cosi facciamo una grande azienda di campagna per trattenere i contadini nel lavoro agricolo… Questa sarebbe l’impresa alla quale dovreste dedicarvi anche voi e non  la  lotta che sostenete! .«Sta bene – rispondevo io – voi altri che avete i mezzi finanziari fate pure i vostri tentativi. Noi che siamo spinti dal bisogno, abbiamo un obbiettivo di miglioramento immediato; lavorare di meno (la giornata di otto ore rimedia alla disoccupazione) e guadagnare di più e questo rimedia alla miseria. Aiutateci a sostenere questa lotta, noi ci mettiamo il fastidio e il pericolo…».«Ma se si sapesse, se si sapesse! Cosa si direbbe contro di noi?». «Non si saprà nulla»; ma più di quel biglietto da 250 lire non riuscii a strappargli.”

Nel novembre 1892 Prospero Moisé Loria morì e lasciò per testamento tutto il suo patrimonio liquido, circa 13 milioni, per fondare la Società Umanitaria collo scopo di «fornire ai diseredati i mezzi per elevarsi da sé». L’esempio della Camera del Lavoro di Milano venne ben presto seguito ed imitato a Firenze, a Genova, a Torino, a Venezia, a Parma, a Bologna, ecc. e una nuova rete di interessi e di rapporti collettivi della classe lavoratrice veniva a stendersi da un capo all’altro della nazione.

Un sentito ringraziamento a Giovanni Artero per averci offerto la possibilità di pubblicare on line la sua opera.

 

[1]  Ved. un polemico ritratto anonimo in “Rivoluzione Liberale” 1922, n.30. Ezio Riboldi in “Vicende socialiste. Trent’anni di vita italiana nei ricordi di un deputato massimalista”, Milano, 1964, riferisce che a Lenin che lo sollecitava all’occupazione delle fabbriche Lazzari rispose: «Sì, l’idea è giusta, ma poi… che ne facciamo degli industriali?». E Lenin, ammiccando: «Liquidateli!»… « Ma scior Lenin – esclamò in dialetto milanese il buon Costantino – nun milanes semm brava gent».

[2]   Ma c’e qui anche un pregiudizio antimerdionale che si ripresenta nel tempo, come si desume da una testimonianza  del   comunista siciliano Gerolamo Li Causi in “Il lungo cammino. Autobiografia 1906-1944“, Roma, 1974: “Ricordo una frase di Lazzari a proposito di Bordiga: “L’è un  napoletano”, come per dire, in  senso spregiativo, che era uno le cui opinioni non contavano perchè non aveva niente a che vedere con la classe operaia del Nord”

[3]  In  “Movimento operaio e socialista” nn. 4 e 5 del 1952.

[4]  F.Invernici “Una città nella storia dell’Italia unita: classa politica e ideologie in Cremona nel cinquantennio  1875-1925″, Cremona, 1986. Il socialismo cremonese, nato in ambito laico e positivista con influenze massoniche,  dal 1893 affiancato dalla Camera del Lavoro fondata da Garibotti, Quaini e Bissolati,  fu essenzialmente riformista, senza escludere tendenze estremiste nello scontro sindacale, che avveniva spesso in concorren­za con le Leghe bianche. Ved. CGIL Cremona, Ottantanni di lotte del movimento operaio cremonese, Cremona, 1974

[5]  R.Zangheri “Storia del socialismo italiano”, Torino, 1997, pag.212. Di ciò non fa cenno nell’autobiografia, così come non menzioni l’adesione della Lega al P.O.I nel 1888

[6]  G. Angelini, Il socialismo del lavoro : Osvaldo Gnocchi-Viani tra mazzinianesimo e istanze libertarie, Milano, 1987; F. Della Peruta, Osvaldo Gnocchi Viani nella storia del movimento operaio e del socialismo, Milano, 1997

[7]              G. Angelini, La cometa rossa: internazionalismo e quarto stato: Erico Bignami e La plebe, 1868-1975, Milano, 1994; G. Carazzali Enrico Bignami : il coraggio dell’ideale. Milano, 1992

[8]  Questo il testo: Su fratelli, su compagne / su, venite in fitta schiera: / sulla libera bandiera / splende il sol dell’avvenir./ Nelle pene e nell’insulto /  ci stringemmo in mutuo patto, /  la gran causa del riscatto /  niun di noi vorrà tradir. / Il riscatto del lavoro / dei suoi figli opra sarà:/o vivremo del lavoro / o pugnando si morrà. / La risaia e la miniera / ci han fiaccati ad ogni stento / come i bruti d’un armento / siam sfruttati dai signor./ I signor per cui pugnammo / ci han rubato il nostro pane,/ ci han promessa una dimane:/ la diman si aspetta ancor./ Il riscatto del lavoro…/ L’esecrato capitale / nelle macchine ci schiaccia, / l’altrui solco queste braccia / son dannate a fecondar. / Lo strumento del lavoro / nelle mani dei redenti / spenga gli odii e fra le genti / chiami il dritto a trionfar. / Il riscatto del lavoro…/ Se divisi siam canaglia, / stretti in fascio siam potenti;sono il nerbo delle genti / quei che han braccio e che han cor. / Ogni cosa è sudor nostro, / noi disfar, rifar possiamo; / la consegna sia: sorgiamo / troppo lungo fu il dolor. / Il riscatto del lavoro…/ Maledetto chi gavazza / nell’ebbrezza dei festini, / fin che i giorni un uom trascini / senza pane e senza amor. / Maledetto chi non geme / dello scempio dei fratelli, / chi di pace ne favelli / sotto il pie dell’oppressor. / Il riscatto del lavoro…/ I confini scellerati / cancelliam dagli emisferi; / i nemici, gli stranieri / non son lungi ma son qui. / Guerra al regno della Guerra, / morte al regno della morte; / contro il dritto del del più forte, / forza amici, è giunto il dì./ Il riscatto del lavoro…/ O sorelle di fatica / o consorti negli affanni / che ai negrieri, che ai tiranni / deste il sangue e la beltà. / Agli imbelli, ai proni al giogo / mai non splenda il vostro riso: / un esercito diviso / la vittoria non corrà. /Il riscatto del lavoro…/Se eguaglianza non è frode, / fratellanza un’ironia,/ se pugnar non fu follia / per la santa libertà;/ Su fratelli, su compagne, / tutti i poveri son servi: / cogli ignavi e coi protervi / il transigere è viltà. /  Il riscatto del lavoro...