ENZO TORTORA A TRENT’ANNI DALLA MORTE

di Nicolino Corrado

Giorgio Bocca lo definì: “IL PIU’ GRANDE ESEMPIO DI MACELLERIA GIUDIZIARIA DEL NOSTRO PAESE”.

La “via crucis” di Enzo Tortora durò quasi quattro anni: dal 17 giugno 1983, data dell’arresto per traffico di droga e associazione per delinquere di stampo camorristico, al 18 maggio 1988, giorno della morte per cancro ai polmoni.

Su mandato di cattura della Procura della Repubblica di Napoli, Tortora fu prelevato dai carabinieri in piena notte, alle quattro del mattino, come un grande criminale, all’Hotel Plaza di Roma. Fu trattenuto nella caserma di via Inselci fino alla tarda mattinata: con un’accurata regia, fu fatto uscire in manette solo dopo che operatori televisivi, fotografi e giornalisti si erano ammassati davanti all’edificio, tra gli insulti e gli sputi della folla, la stessa che fino al giorno prima l’aveva acclamato. Tortora rimase in carcerazione preventiva per sette mesi, prima a Regina Coeli e poi a Bergamo.

I “pentiti”

C’è una valanga di accuse strampalate e deliranti a base del provvedimento giudiziario: ha rubato i fondi raccolti per i terremotati dell’Irpinia, ha comprato uno yacht con i soldi dello spaccio di cocaina… Provengono da una frotta di “pentiti”, una quindicina di figuri, molti dei quali, stranamente, si ricordano di Tortora solo dopo che la notizia del suo arresto è comparsa sui “media”.

Ma chi sono questi “pentiti” che sparano accuse a palle incatenate al solo scopo di ottenere sconti di pena? Il primo è Giovanni Pandico, killer di professione, segretario di Raffaele Cutolo, il capo della Nuova Camorra Organizzata: ha ucciso due impiegati comunali perché tardavano a rilasciargli un certificato. “Schizoide e paranoico” secondo le perizie mediche, é colui che indica la strada agli altri. Viene scarcerato nel 2012. Poi c’è Pasquale Barra, “’o animale”, sessantasette omicidi tra cui quello di Francis Turatello nel super-carcere di Bad-e-carros: ne fa a pezzi il cadavere e ne mangia il cuore. Viene ascoltato dai magistrati diciotto volte, solo al quinto interrogatorio si ricorda che Tortora è un camorrista. Muore in carcere nel febbraio del 2015, ma in regime di favore, perché rientrante in un programma di tutela. Gianni Melluso detto “Gianni il bello”. Più volte in carcere, da ultimo per sfruttamento della prostituzione. Fa il nome di Tortora solo sette mesi dopo l’arresto del presentatore. Dopo le accuse a Tortora in carcere fa quello che vuole, si incontra con la fidanzata, messa incinta e sposata con testimoni due giornalisti.

Le accuse di questi signori all’inizio sono vaghe e contrastanti, ma poi diventano sempre più dettagliate: ciò perché i pentiti possono parlare tra di loro e scambiarsi le reciproche versioni, ad esempio durante i processi quando si ritrovano tutti nella stessa cella.

I giornalisti

Il sistema dell’informazione scaglia nel fango l’immagine e la storia professionale di Tortora. Il giornalismo italiano erutta tutto il proprio cannibalismo verso un uomo che fino a quel giorno era stato pur sempre un collega. I giornalisti contribuiscono ad accrescere la confusione intorno a questo processo, mettendo in circolazione notizie false o comunque non verificate. Ad esempio, “Il Messaggero” di Roma titola in modo spudoratamente bugiardo: “Tortora ha confessato”. Nessuno lo difende, sopratutto nella sinistra filocomunista, area in cui il garantismo viaggia a corrente alternata: vale con gli amici ma non con i nemici. Sono gli stessi ambienti che contestano in blocco la magistratura “borghese”, che scrivono appelli e raccolgono firme contro le istituzioni e i “questurini massacratori”. Arriva a scrivere la radical-chic Camilla Cederna: “Se uno viene preso in piena notte qualcosa avrà fatto”. Tra i pochi che lo difendono Enzo Biagi, che chiede: “Scusate, ma se per caso fosse innocente?”.

Tortora è un presunto colpevole davanti al tribunale dell’opinione pubblica, non è un presunto innocente come stabilisce la Costituzione.

I magistrati

In spregio ai più elementari principi dello Stato di diritto, Tortora è interrogato per la prima volta da un magistrato dopo oltre un mese dall’arresto; la seconda dopo altri tre mesi, la terza e ultima dopo ulteriori sei mesi; sempre per pochi minuti e su fatti a lui sconosciuti.

I magistrati di Napoli non ordinano verifiche, riscontri, intercettazioni (che invece abbonderanno oltre ogni misura dopo il “caso Tortora”). Costruiscono il loro impianto accusatorio solo sulle dichiarazioni dei “pentiti”, anche se sono in contraddizione tra di loro. I sostituti procuratori titolari delle indagini sono Lucio Di Pietro, detto “il Maradona del diritto”, e Felice Di Persia. Nel processo contro la camorra in cui viene coinvolto Tortora chiedono e ottengono dal giudice istruttore Giorgio Fontana 857 ordini di cattura, con 216 errori di persona che ridurranno i rinviati a giudizio a 640, di cui 120 assolti già in primo grado (in appello le assoluzioni saranno 114 su 191).

La procedura penale avrebbe consentito un processo senza gogna, ma nel dibattimento il pubblico ministero Diego Marmo definisce Tortora un “un uomo della notte, ben diverso da come appariva a ‘ Portobello’”, ” cinico mercante di morte”; arriva ad affermare che Tortora, nel frattempo diventato euro-deputato radicale, sia stato eletto grazie ai camorristi: “Tutti lo sanno che quei voti sono della camorra”.

Il processo di primo grado inizia nel febbraio 1985, un anno e otto mesi dopo l’arresto, e termina il 17 settembre 1985 con la condanna del presentatore a dieci anni di reclusione e a una multa di cinquanta milioni di lire. I cronisti giudiziari appiattiti sulle tesi della Procura brindano alla notizia.

Il presidente della corte, Luigi Sansone, scrive una monumentale sentenza di duemila pagine in sei volumi, uno dei quali dedicato esclusivamente a Tortora per il quale, stravolgendo il diritto penale, formula un principio “ad personam” di inversione dell’onere della prova: “L’imputato non ha saputo spiegarci il perché di una congiura contro di lui”.

Tortora si dimette dal Parlamento europeo e, dagli arresti domiciliari, ricorre in appello. Alla fine viene creduto. Il 15 settembre 1986, la Corte d’Appello di Napoli lo assolve (con sentenza poi confermata in Cassazione), dopo aver disposto finalmente i riscontri delle dichiarazioni dei “pentiti”, perché “non ci si può fidare solo ed esclusivamente” di esse, e aver censurato il comportamento dei giudici di primo grado, affermando che il giudice “non deve interpretare la legge, ma limitarsi ad applicarla, rispettando norme e procedure”.

Tortora diviene così la più illustre vittima della malagiustizia nel nostro Paese, scandalo per cui nessuno ha pagato. Anzi, gli inquisitori hanno fatto tutti clamorosi balzi di carriera.

Scrisse Leonardo Sciascia sul “Corriere della sera del 7 agosto 1983”: “… resterà il problema del come e del perché dei magistrati, dei giudici abbiano prestato fede ad una costruzione che già fin dal primo momento appariva fragile all’uomo della strada, al cittadino, che soltanto legge ed ascolta le notizie. Ogni cittadino, quale che sia la sua professione o mestiere, ha l’abito mentale della responsabilità. Che faccia un lavoro dipendente o che ne eserciti uno in proprio e liberamente, sa che per ogni errore deve rendere conto e pagarne il prezzo, a misura della gravità e del danno che alle istituzioni, da cui dipende ed alle persone cui ha prestato opera, ha arrecato. Ma un magistrato non solo non deve rendere conto dei propri errori e pagarne il prezzo, ma qualunque errore commesso non sarà remora alla sua carriera, che automaticamente percorrerà fino al vertice e credo che sia, questo, un ordinamento solo italiano… Un rimedio paradossale quanto si vuole sarebbe quello di far fare ad ogni magistrato, una volta superate le prove di esame e vinto il concorso, almeno tre giorni di carcere fra i comuni detenuti e preferibilmente in carceri famigerate, come l’Ucciardone e Poggioreale. Sarebbe indelebile esperienza, da suscitare acuta riflessione e doloroso rovello, ogni volta che si sta per firmare un mandato di cattura o per stilare una sentenza…”.

Epilogo

Dopo l’assoluzione Tortora ormai è un uomo distrutto, spezzato nell’animo e nel fisico. Le sue difese immunitarie indebolite hanno lasciato via libera al cancro. Muore il 18 maggio 1988. All’interno dell’urna contenente le sue ceneri, tumulata in una colonna nel Cimitero Monumentale di Milano, viene posta secondo la sua volontà una copia della “Storia della colonna infame” di Alessandro Manzoni. Manzoni, infatti, scrisse questo libro per dimostrare come la furia di trovare a tutti i costi un capro espiatorio, da dare in pasto alla folla che reclama subito un colpevole, sia un comportamento da barbari, indegno della civiltà del diritto.

Con il “caso Tortora” gli italiani si rendono conto che possono essere svegliati in qualsiasi momento della notte e portati via, come nelle peggiori dittature, in un tunnel senza fine, annientati e coperti dalla vergogna. Purtroppo, a trent’anni da allora, la “questione giustizia” nel nostro Paese non è stata risolta e, tristemente, proseguono gli errori e gli orrori impuniti, le umiliazioni e le vessazioni a danni dei cittadini.