IL PARTIGIANO ROMANO CHE COMANDO’ LE “BRIGATE MATTEOTTI”

di Dario Gracceva

Peppino Gracceva in via Tasso non parlò!

Giuseppe Gracceva nasce a Roma il 3 febbraio 1906. Sin da giovane partecipa all’attività politica del Paese come corriere della Sezione di Roma del Partito Comunista Italiano. Viene arrestato il 23 maggio 1925 assieme al comunista Giuseppe Alberghi in piazza Esquilino a Roma perché «trovato in possesso di un pacco alquanto voluminoso contenente 3500 manifestini volanti, stampati alla macchia intestati: “Lavoratori di tutti i paesi unitevi” che cominciano con le parole: “Lavoratori di Roma! Una persecuzione metodica” e terminano con le altre “Le persecuzioni della polizia romana devono dare questo frutto. Evviva le vittime della reazione borghese. Evviva l’emancipazione del proletariato opera dei proletari stessi!“. “I Comunisti”».

Non riceve la condanna grazie ad una amnistia mentre era in attesa del giudizio del Tribunale (31 luglio 1925) di associazione eversiva (comunista) diretta a stabilire violentemente la dittatura di una classe sociale sulle altre, alla propaganda comunista verbale o tramite la diffusione di opuscoli, giornaletti e manifestini soprattutto nelle zone di Genzano e dei Castelli Romani. Viene arrestato nuovamente, processato e condannato (1937) a 5 anni di reclusione nel carcere di Civitavecchia per “complotto contro i poteri dello Stato“. Viene rilasciato nel 1940 grazie ad un indulto chiesto dalla moglie e accettato dal Principe di Savoia ma con la libertà vigilata senza limite. Dopo il patto Ribbentrop-Molotov, passa dal Partito Comunista al Partito Socialista e diventa comandante militare delle Brigate Matteotti del Lazio, Umbria, Marche e Abruzzo sotto la direzione di Sandro Pertini e Giuliano Vassalli.

Benché vigilato dalla polizia riorganizza clandestinamente il Partito Socialista e l’8 settembre 1943, conquistate le armi, è tra i primi a iniziare la lotta armata contro i tedeschi e i fascisti.

Il suo nome di battaglia era “Maresciallo Rosso”.

Fu tra i protagonisti dei famosi combattimenti per la difesa di Porta S. Paolo. Riuscì assieme ad altri partigiani (Giuliano Vassalli) nella storica opera di far evadere dal carcere di Regina Coeli i comandanti Pertini e Saragat.

Nel febbraio 1944 è il principale artefice di una delle azioni più incisive della Resistenza romana: l’esplosione alla stazione Ostiense di un treno carico di munizioni ad opera di una squadra di partigiani diretta dai fratelli Vurchio. Riesce a collaborare con la “spia americana” Peter Tompkins per inviare sulla stazione gli aerei alleati per la distruzione dei treni. Individuato dalle SS che da tempo lo ricercano per stroncare l’organizzazione delle Formazioni, ferito da un colpo di mitra penetrato nel polmone sinistro, si getta dal 2° piano dello stabile in cui era stato accerchiato per sfuggire alla cattura. Sanguinante e con un braccio spezzato, con l’aiuto del fratello si trascina ad un rifugio dell’organizzazione clandestina.

Sottoposto con mezzi di fortuna a doloroso intervento per l’estrazione del proiettile, appreso che le SS hanno individuato e circondato il rifugio, supplica il medico e sua moglie (rispettivamente Dott. Alfredo Monaco e la moglie Marcella) di finirlo per non cadere in mano nemica ed assicurare così la salvezza dei compagni e dell’organizzazione. La moglie del medico e un partigiano lo trascinano invece attraverso i tetti e da questi ad altro rifugio.

Rifiuta sdegnosamente il ricovero in luogo protetto da extra-territorialità e, curato e fasciato alla meglio, si preoccupa soltanto di assicurare la fuga dei familiari e la continuità della lotta delle Brigate. Purtroppo, dopo 3 giorni catturato dalle SS e tradotto al tristemente noto carcere tedesco di via Tasso viene segregato in completo isolamento, con la ferita aperta e sanguinante, il braccio spezzato, e privato di qualsiasi cura.

Gli propongono il ricovero in clinica a condizione che riveli la dislocazione delle Formazioni, dei depositi di armi e i nomi dei capi della resistenza romana. Oppone uno sdegnoso rifiuto e da quel momento ha inizio il suo doloroso calvario. Per 46 giorni viene sottoposto a crudeli sevizie e interrogatori che molto spesso, come risulta dai verbali originali del carcere, più tardi recuperati, si protraggono fino a 12 ore consecutive. Ridotto al limite della resistenza fisica e psichica, ma consapevole che la vita di molti uomini e la continuità della lotta delle “Brigate Matteotti” è legata al suo silenzio, continua a tacere fino a che gli aguzzini, stupiti e ammirati da tanto coraggio, decidono l’esecuzione, che per fortuna non può essere effettuata per l’arrivo degli Alleati.

Il coraggio e l’indomita fierezza del Comandante Giuseppe Gracceva furono di esempio per tutti i detenuti del carcere, che ne trassero sostegno per affrontare le torture fisiche e morali alle quali furono sottoposti, ed è stato ricordato ed esaltato con grata ammirazione in tutti gli scritti del tragico carcere di via Tasso. Una volta terminato il conflitto mondiale, rifiuta la Medaglia d’Oro al Valor Militare, accettando invece la Medaglia d’Argento (la sua idea era che altre persone meritavano quella d’oro).

Riceve la pensione di invalidità a seguito delle torture ricevute durante la sua prigionia. Diventa Presidente dell’ANPI di Roma nei primi anni della sua formazione.

Quando nel 1947 fu deciso l’esilio per l’ex re Vittorio Emanuele e Umberto di Savoia, gli ex regnanti si rifiutarono di lasciare le loro proprietà. Fu Gracceva, assieme ad un altro ex partigiano, ad andare dall’ex re e a farlo partire per l’esilio. Fu membro attivo della Costituente nel Partito Socialista per l’approvazione della “Carta della Costituzione Italiana”. Riceve anche una medaglia di commemorazione per questa storica impresa. Dopo qualche anno si ritira dall’attività politica perché capisce che la politica è fatta di compromessi e questo va contro ogni sua ideologia e coerenza (soprattutto quando il 25 marzo 1947 vengono riconfermati i famosi “Patti Lateranensi” ossia il rapporto tra Chiesa e Stato).

In quegli anni conosce l’ex partigiano Enrico Mattei che nomina Gracceva Presidente dell’ENI nel Sud Italia. Gracceva si trasferisce con tutta la famiglia a Salerno. Consegna le dimissioni di Presidente dell’ENI il giorno della morte di Mattei e ritorna a Roma dove muore nel 1978.

Il giorno dei funerali il Presidente della Repubblica Sandro Pertini si presenta con i corazzieri in divisa.

Oggi Gracceva è sepolto nel cimitero monumentale del Verano a Roma.