DALLE PROCLAMAZIONI DEGLI ELETTI ALLA PRIMA SEDUTA DELLE NUOVE CAMERE: PROSPETTIVE E PROBLEMI

di  *Giampiero Buonomo

Sommario.1. Introduzione. 2. L’informatica elettorale. 3. L’Effetto flipper. 4. Le dimissioni preventive.

 

  1. Introduzione.

 All’interno dell’intervallo massimo di venti giorni dallo svolgimento delle elezioni – che l’articolo 61, primo comma, secondo periodo della Costituzione accorda per la convocazione della prima riunione delle nuove Camere – il presidente Mattarella ha prudenzialmente scelto di valersi di ben diciannove giorni, fissando per il 23 marzo l’inizio della XVIII legislatura repubblicana.

L’esercizio di tale discrezionalità, che ai sensi all’articolo 11 del testo unico elettorale della Camera accompagna il decreto di convocazione dei comizi, già in passato era stato inteso come un modo di dare fiato agli uffici elettorali responsabili delle proclamazioni degli eletti.

Vieppiù tale cautela si rivela opportuna, con una legge elettorale fior di conio: alcuni elementi inediti della procedura di conversione dei voti in seggi avranno un rodaggio in corso d’opera e questo non può essere sfuggito al Capo dello Stato.

Altre questioni si sono aggiunte in campagna elettorale, e non è detto che la strumentazione esistente sia in grado di disimpegnarle col mero ricorso ai precedenti.

I diciannove giorni saranno utili anche per questo.

 

  1. L’informatica elettorale.

Il primo contatto dell’apparato elettorale con l’opinione pubblica in attesa non ha i caratteri dell’ufficialità, quanto piuttosto quelli dell’ufficiosità. L’afflusso dei dati dalle sezioni elettorali agli uffici elettorali sopraordinati registra, sin dai primi momenti, un sorpasso del tutto informale: il Ministero dell’interno corrisponde all’ovvia esigenza di celerità informativa acquisendo a voce i dati dello scrutinio, con un’attività svolta in modo puntiforme dai suoi messi su tutto il territorio nazionale.

Il caso di scuola del candidato che la notte vede il suo nome a fianco della sospirata dizione eletto (sul tabellone del Viminale o addirittura nel telegramma del Prefetto), e che poi si sveglia escluso delle proclamazioni, nasce proprio da questo doppio binario: mentre i processi verbali delle sezioni confluiscono lentamente, in forma cartacea e con trasporto motorizzato, agli uffici elettorali centrali responsabili delle proclamazioni, già è all’opera al Viminale un apparato parallelo, che senza alcuna ufficialità simula la trasformazione dei voti in seggi e ne dà notizia al Paese.

A dire il vero, l’organizzazione dello scrutinio dovrebbe essere curata da un organo imparziale: lo afferma il Codice di buona condotta elettorale stilato nel 2002 dalla Commissione per la Democrazia attraverso il Diritto del Consiglio d’Europa[1], al paragrafo 3 del Codice di buona condotta elettorale.

Un codice, giova ricordarlo, che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha utilizzato – sia pur non acriticamente[2], nella sentenza 6 novembre 2012 (Ekoglasnost contro Bulgaria), ai fini dell’accertamento della violazione l’articolo 3 del Protocollo addizionale alla CEDU.

Non è impossibile che questo dualismo esecutivo/giudiziario[3] produca un corto circuito: l’errore si può annidare sia nella comunicazione telefonica di chi ottiene a voce dal presidente di seggio i risultati da comunicare a Roma, sia nella lenta e ripetitiva redazione dei prospetti ai fini del verbale di proclamazione (ricopiando i risultati dei voti di centinaia di sezioni, pervenuti in forma cartacea). Al primo tipo di disservizio intendeva porre rimedio la sperimentazione di procedure informatizzate presso alcuni seggi, nelle tornate elettorali tra il 2004 ed il 2006, volte sia al conteggio elettronico che alla trasmissione dei suoi esiti al Viminale in tempo reale.

Il secondo problema, invece, impedisce di completare in tempi ragionevoli la verifica dei poteri: occorre dotarla di una strumentazione idonea a prevenire il verificarsi di gravi situazioni di incertezza concernenti il mandato parlamentare. Si tratta di situazioni evidenziate dai Documenti III, nn. 1 e 2 della XIV legislatura, che diedero luogo all’annullamento delle elezioni di due senatori per errori nelle trascrizioni dei verbali e dei relativi conteggi.

Vi si sarebbe potuto ovviare con procedure omogenee di redazione elettronica dei verbali sezionali delle operazioni di scrutinio, di loro trasmissione agli uffici circoscrizionali nonché di redazione dei verbali circoscrizionali in base ai quali vengono effettuate le proclamazioni degli eletti.

Per questo il 27 luglio 2004 la Giunta delle elezioni del Senato richiese quanto meno l’utile trasmissione elettronica dei dati dei verbali circoscrizionali agli uffici parlamentari incaricati della verifica dei poteri, mediante un’omogeneità di ambienti informatici; in proposito va segnalato che il Senato e la Camera si sono da tempo dotati di appositi programmi elettronici per l’immissione e l’elaborazione dei dati elettorali pervenuti in esito alle consultazioni riguardanti ciascun ramo del Parlamento.

La dichiarazione – con cui il Ministro dell’interno Amato, nel novembre 2006, escluse il voto elettronico in Italia (a seguito dell’inchiesta del giornalista Deaglio) – espressamente faceva salvi i conteggi elettronici dei voti. Eppure, per vedere adempiuto l’invito della Giunta del Senato si è dovuto attendere il finanziamento recato dalla legge di bilancio per il 2018, che (al comma 1123 dell’articolo 1) ha per la prima volta previsto «la trasmissione in formato elettronico alle Camere di tutti i dati necessari per la proclamazione degli eletti». Tutto è bene quel che finisce bene, dunque?

Forse, se non fosse che lo stesso comma contiene anche altre finalizzazioni della (medesima) spesa: l’attuazione degli obblighi di trasparenza previsti dalla legge elettorale, nonché «l’implementazione dei sistemi informativi a supporto dei nuovi adempimenti degli uffici elettorali». Il milione di euro per il 2018, cioè, deve porre rimedio (anche) ad un aggravio di adempimenti amministrativi degli uffici elettorali, evidentemente maggiore di quelli esistenti a legislazione vigente.

A parte il curioso modo di smentire la clausola di invarianza finanziaria (recata dal Rosatellum appena un mese prima), viene da chiedersi in che misura dal 5 marzo l’informatica dovrà aiutare gli uffici elettorali. Se sono nuovi adempimenti, non sono certo quelli degli uffici sezionali, che spogliavano le schede prima e continueranno a farlo ora. Se l’esigenza c’è, è evidentemente quella degli uffici elettorali centrali, onerati dalla nuova legge di un complicato meccanismo di batti-e-ribatti fatto di assegnazioni provvisorie, di conteggi di soglie, di nuove assegnazioni e di calcoli di capienze ed incapienze, conditi di seggi eccedentari e deficitari.

A tutto questo nuovo corteo di adempimenti, il legislatore di bilancio ha ritenuto che gli uffici non potessero far fonte soltanto con «uno o più esperti scelti dal presidente» (v. art. 77, comma 1 per l’Ufficio centrale circoscrizionale), ma anche con apparecchiature più sofisticate (e quindi con costi aggiuntivi per acquisirle ed utilizzarle). Se il buon giorno si vede dal mattino, quello dei diciannove giorni si rivela, dunque, un termine azzeccatissimo. 

 

  1. L’effetto flipper.

Il ping-pong tra uffici centrali circoscrizionali ed ufficio centrale nazionale, per le proclamazioni degli eletti alla Camera dei deputati, non era una novità nel nostro ordinamento, neppure ai tempi del Mattarellum (e persino ai tempi del proporzionale); ad esso si aggiunge ora, in Senato, il ping-pong anche tra uffici elettorali regionali ed ufficio centrale nazionale, sia pur limitatamente al riscontro del superamento delle soglie nazionali delle liste.

Non è però questa la vera, prima insidia del meccanismo delle proclamazioni: piuttosto, il Rosatellum riapre la questione dello slittamento dei voti, ossia la traslazione degli effetti del voto espresso in un ambito territoriale, ai fini dell’attribuzione del seggio ad eletti in altro ambito territoriale. Essa fa calare sulle liste la qualifica di eccedentarie ovvero deficitarie, per i casi di non corrispondenza (verso l’alto o verso il basso) della somma dei seggi loro assegnati nelle circoscrizioni, rispetto al numero dei seggi loro spettanti a livello nazionale. Già l’Italicum ne faceva discendere un articolato potere correttivo dell’Ufficio centrale nazionale, che influenzava le proclamazioni alterandone l’ordine naturale.

Nella pur prolissa sentenza n. 35 del 2017, il redattore Zanon dedicava alla questione un lunghissimo § 10.2 del Considerato in diritto, a riprova di quanto la faccenda fosse spinosa già allora: tra varie precisazioni (vedasi la parentetica sull’assegnazione dei seggi «tra le diverse circoscrizioni […] e non anche tra i collegi plurinominali»), la traslazione ricevette dalla Corte costituzionale una mezza assoluzione.

L’argomento fu che essa, nell’Italicum, «ha l’obbiettivo di consentire che le compensazioni avvengano all’interno di una medesima circoscrizione, anche a costo di danneggiare la lista eccedentaria, la quale potrebbe risultare privata del seggio non nella circoscrizione dove ha ottenuto meno voti, ma in quella in cui ne ha ottenuti di più. E tale operazione è condotta allo scopo di impedire che le compensazioni avvengano, come più frequentemente accadeva nella vigenza dei precedenti sistemi elettorali, tra circoscrizioni diverse. Dunque, proprio per evitare che si verifichino traslazioni di seggi da una circoscrizione ad un’altra».

Se questo è il disvalore supremo dell’intero istituto della traslazione, allora essa si legittima se, e solo se, opera «quale norma di chiusura» per il caso residuale in cui, nonostante tutte le operazioni correttive, «permanga l’impossibilità di effettuare la compensazione tra liste eccedentarie e deficitarie in una medesima circoscrizione».

Non basta invocare la differenza tra l’assegnazione dei seggi ex ante con decreto del Presidente della Repubblica ed il «meccanismo normativo di assegnazione dei seggi alle singole liste previsto all’esito delle elezioni, sulla base dei voti ottenuti da ciascuna lista»; l’articolo 56, quarto comma Cost., ha contenuti precettivi non solo in riferimento al momento antecedente alle elezioni, ma «intende anche impedire che tale ripartizione possa successivamente esser derogata, al momento della assegnazione dei seggi alle diverse liste nelle circoscrizioni, sulla base dei voti conseguiti da ciascuna di esse»:  sul punto la legge n. 52 del 2015 si salvava, insomma, solo per le «ampie cautele» dispiegate «proprio allo scopo di evitare la traslazione» e per il fatto che «l’effetto traslativo, attraverso l’applicazione della disposizione indubbiata, si presenta, di risulta, solo se il ricorso a quelle cautele si riveli inutile, in casi limite che il legislatore intende come del tutto residuali».

Non è affatto certo che, anche per il Rosatellum, sia possibile rilasciare la tremebonda liberatoria della Corte, secondo cui «l’art. 56, quarto comma, Cost., deve essere quindi osservato fin tanto che ciò sia ragionevolmente possibile, senza escludere la legittimità di residuali ed inevitabili ipotesi di traslazione di seggi da una circoscrizione ad un’altra». Infatti il trend compressivo della traslazione (onestamente riscontrabile nell’Italicum) parrebbe essere stato invertito da una legge, la n. 165/2017, che rende possibile l’effetto flipper tra territori anche lontanissimi tra di loro (vedansi i commi 4, 6 e 7 del nuovo articolo 84 del testo unico Camera).

Lo sostiene già il ricorso n. 8/2017, depositato dall’avvocato Besostri per conflitto di attribuzione[4]. Quid iuris se i medesimi addebiti dovessero essere reiterati, già in sede di proclamazione degli eletti, in quei famosi diciannove giorni? Quanto potrà reggere l’affermazione della sentenza Zanon, secondo cui «il disposto di cui all’art. 56, quarto comma, Cost. non può essere […] inteso nel senso di richiedere, quale soluzione costituzionalmente obbligata, un’assegnazione di seggi interamente conchiusa all’interno delle singole circoscrizioni, senza tener conto dei voti che le liste ottengono a livello nazionale»? E se anche si dovesse tener fermo che «l’art. 56, quarto comma, Cost. non è preordinato a garantire la rappresentanza dei territori in sé considerati» (perché «la Camera resta […] sede della rappresentanza politica nazionale»), quid iuris per il Senato (questione non pregiudicata dalla sentenza n. 35, per l’elementare ragione che l’Italicum non lo toccava)?

È ben vero che la previsione costituzionale di un Senato eletto «a base regionale» (articolo 57, primo comma della Costituzione) parrebbe essere stata oggetto di un supplemento di riflessione, da parte degli autori del Rosatellum: non ci si riferisce solo alla seconda soglia, quella calibrata appunto su base regionale (articolo 16-bis testo Unico Senato: esenzione dalla soglia dell’1 per cento nazionale per le liste, siano o meno collegate in coalizione, che abbiano conseguito almeno il 20 per cento dei voti nella Regione), ma anche all’eccettuazione dei commi 4, 6 e 7 dal rinvio all’articolo 84 del testo unico, ad opera dell’articolo 17-bis del testo unico Senato.

Ma siamo certi che tutto ciò basti? Il gioco delle pluricandidature non potrebbe, invece, rimettere in pista, anche per la Camera alta, l’obiezione contro un effetto lato sensu traslativo? Il mix tra l’inattuazione dell’articolo 49 Cost. e la compressione dei requisiti dell’elettorato attivo e passivo (articoli 48 e 51 Cost.) trova la sua epitome nello sradicamento territoriale del voto.

Si viene a creare indubbiamente un circuito vizioso, tra le decisioni dei partiti di proporre pluricandidature (cui si applica, in caso di plurielezione, il criterio del nuovo articolo 85 testo unico Camera, valido anche per il Senato ai sensi del predetto articolo 17-bis, comma 3), lo scorrimento verso i candidati uninominali ripescati e l’impatto del voto esogeno nel plurinominale (se il listino bloccato contiene pluricandidati destinatari anche di voti espressi fuori regione). Tutto ciò potrebbe risultare difficilmente digeribile per le parti contro-interessate all’attribuzione del seggio: un’operazione che rischia di bloccarsi, laddove venisse sollecitato, già in sede di proclamazione, uno scrutinio di costituzionalità della nuova legge elettorale.

In questi casi, sotto l’imperio del tempo ci si cava d’impaccio con argomenti procedurali che, nella complessa materia del contenzioso elettorale politico, certo non mancano. Essi ruotano in buona parte intorno alla previsione dell’articolo 87 del testo unico di cui al d.P.R. n. 361 del 1957, secondo cui spetta alla Camera il «giudizio definitivo sulle contestazioni, le proteste e, in generale, su tutti i reclami presentati agli Uffici delle singole sezioni elettorali o all’Ufficio centrale durante la loro attività o posteriormente. […] Le proteste e i reclami non presentati agli Uffici delle sezioni o all’Ufficio centrale devono essere trasmessi alla Segreteria della Camera dei deputati entro il termine di venti giorni dalla proclamazione fatta dall’Ufficio centrale. La Segreteria ne rilascia ricevuta”.

Gli Uffici elettorali regionali hanno una consolidata prassi, in virtù della quale derivano l’inammissibilità di incidenti di costituzionalità dal loro configurarsi come organi meramente amministrativi, e non giurisdizionali: in un caso recente (elezioni del 2008 per il Senato), l’Ufficio elettorale regionale per la Campania ha espressamente respinto la richiesta – avanzata da un ricorrente in sede di reclamo contro le determinazioni del medesimo Ufficio in sede di proclamazione degli eletti al Senato – volta a sollevare questione di legittimità costituzionale contro la legge elettorale. Nella fattispecie, il reclamo dichiarato inammissibile dall’Ufficio regionale era proprio in ordine al meccanismo di trasformazione dei voti in seggi[5].

La conseguenza, a rigori, dovrebbe essere che – se le Camere svolgono in via esclusiva ai sensi dell’articolo 66 della Costituzione una funzione giurisdizionale sulla verifica dei poteri – esse potrebbero in quella sede sollevare questione di legittimità costituzionale in sede di giudizio sui ricorsi contro gli atti del procedimento elettorale, rilevanti nel controllo dei titoli di ammissione dei componenti delle Assemblee parlamentari.

Ma della loro renitenza a farlo c’è già ampia prova[6]; più in generale, sulla «giustizia politica» (copyright Cassazione – Sezioni unite civili – sentenza 8 aprile 2008, n. 9151) aleggia oramai una delegittimazione sia a livello nazionale che sovranazionale: dopo il rapporto OSCE del 2008 o dopo le conclusioni dei saggi del presidente Napolitano, non appare più azzardato affermare che in Seconda Repubblica la verifica dei poteri consacra meramente le proclamazioni, secondo il vieto principio per cui passata la festa, gabbato lo santo.

 

  1. Le dimissioni preventive.

 Mentre sulla giurisdizionalità degli uffici elettorali responsabili delle proclamazioni persistono radicate resistenze, è rimarchevole che ad essi si richiedano sempre più adempimenti che sfuggono allo schema – meramente amministrativo – norma/potere/atto. La discrezionalità, in un’attività rigidamente tipizzata dalla legge elettorale, soffre di margini assai stretti, specie laddove si versi in ambito di riserva (sia pur relativa) di legge, come quella stabilita dall’articolo 51 Cost. per lo ius in officio: eppure il caso delle candidature indesiderate dal partito di appartenenza, per motivi sopraggiunti all’ammissione della lista, produce istanze che si rivolgono proprio agli uffici elettorali.

Non si intende qui prendere posizione tra i contrapposti argomenti profusi, con competenza e rigore, da opposte dottrine[7]. Basta semplicemente notare che non risulta che sia stato sin qui accolto l’invito a valersi della possibilità di depositare rinuncia alla candidatura prima delle elezioni, con dichiarazione agli uffici elettorali che la ricevettero (l’ipotesi Ainis la corredava dell’ulteriore requisito dell’autenticazione notarile, e metteva in pista il candidato supplente). Ecco perché il problema si converte (in caso di elezione del candidato indesiderato per motivi sopravvenuti) in quello delle dimissioni e della possibile richiesta agli uffici elettorali di soprassedere alla proclamazione.

Nella prassi degli uffici elettorali, sin qui l’unico caso di salto del nome dell’avente diritto alla proclamazione era il decesso del candidato, il cui nome era forzatamente rimasto sulla scheda: ai tempi del proporzionale, vi si provvedeva con lo scorrimento nella lista. Ipotizzando che il caso limite si ponesse oggi (con le dovute scaramanzie), lo scorrimento avvantaggerebbe il secondo nella lista plurinominale, ovvero, nell’uninominale, si farebbe ricorso alle elezioni suppletive: mentre quest’ultimo caso richiede adempimenti della Camera neoeletta (art. 86, comma 4 del testo unico Camera), il primo potrebbe essere tranquillamente esitato dall’ufficio elettorale già in fase di proclamazione (art. 86 comma 1 T.U.: «per qualsiasi causa, anche sopravvenuta»).

Mutatis mutandis, potrebbe applicarsi la medesima procedura all’eventuale lettera di rinuncia alla proclamazione? Sempre ammesso che qualcuno la depositi (e/o la confermi ore rotundo dinanzi all’ufficio elettorale), quanto impatterebbe questa decisione – preventiva ed extra-parlamentare – sul disposto (lasciato invariato dal Rosatellum) dell’art. 89 del D.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, secondo cui «è riservata alla Camera dei deputati la facoltà di ricevere e accettare le dimissioni dei propri membri»?

È ben vero che la legislatura decorre dalla prima seduta e, quindi, dal 23 marzo 2018; ma è anche vero che le norme regolamentari (articolo 1 comma 1 Reg Sen.: «I Senatori acquistano le prerogative della carica e tutti i diritti inerenti alle loro funzioni, per il solo fatto della elezione o della nomina, dal momento della proclamazione se eletti, o dalla comunicazione della nomina se nominati»; art. 1 Reg. Cam.: «I deputati entrano nel pieno esercizio delle loro funzioni all’atto della proclamazione») appaiono ricognitive di un principio risalente direttamente alle guarentigie costituzionali e che, tra di esse, non vi sono solo quelle dell’articolo 68 ma anche quelle dell’articolo 67 Cost.

La quadratura del cerchio potrebbe essere quella di spostare tutto nel più comodo alveo parlamentare della prima seduta: precedenti di dimissioni accolte dall’Assemblea neoistituita sono rari ma non mancano, come dimostrano le dimissioni di Emma Bonino e Giovanni Negri presentate (ed accolte) nella prima seduta della Camera dei deputati della X legislatura. Il presidente provvisorio Aldo Aniasi il 2 luglio 1987 le pose ai voti addirittura prima di convocare la Giunta delle elezioni provvisoria, che pure (secondo l’articolo 3 Reg. Cam.) dovrebbe essere il primo adempimento da soddisfare, dopo la costituzione dell’Ufficio di Presidenza provvisorio[8]. Ma c’è comunque un voto da tenere e, come dimostrano i precedenti della legislatura uscente, non è detto che questo voto incontri gli auspici del dimissionario.

C’è allora chi potrebbe vedere nella Giunta provvisoria la sede per regolare la faccenda, affidandosi a remoti precedenti. In un’epoca in cui c’era ancora una commistione dottrinaria tra i due diversissimi istituti della proclamazione e della convalida, il problema si era posto in rapporto alla norma che attualmente è nell’articolo 3 del Regolamento del Senato («Costituito il seggio provvisorio, il Presidente, ove occorra, proclama eletti Senatori i candidati che subentrano agli optanti per la Camera dei deputati»). Se l’interessato optava per il Senato, si riteneva che producesse il titolo che attestava il venir meno dell’incompatibilità (le dimissioni da deputato nonché la presa d’atto dell’Assemblea); se optava per la Camera, l’Ufficio per la verifica dei poteri del Senato la qualificava rinuncia preventiva alla proclamazione a Senatore, equiparandola alle dichiarazioni di Senatori che – trovandosi ad assumere cariche che costituiscono condizione di incompatibilità – dichiaravano di voler continuare a rivestire tali cariche e perciò rinunciavano alla carica di Senatore (casi per i quali non si dà luogo a votazione in Assemblea, per l’accoglimento delle dimissioni, ma per i quali si fa luogo ad una mera presa d’atto). Si tratta, invero, di un istituto coniato per il caso del cablogramma con cui Arturo Toscanini dichiarò di voler rinunciare alla nomina a senatore a vita: letto dal Presidente, dopo che nella seduta precedente ne era stata annunciata la nomina, vi fece seguito la mera presa d’atto del Senato. In realtà, però, è da tener presente la diversità della situazione del senatore di nomina presidenziale (la quale può cadere del tutto inattesa ed inopinata) da quella del senatore eletto attraverso il procedimento elettorale, il quale al momento di porre la candidatura ne accetta implicitamente tutte le vicende correlate e susseguenti[9].

In ogni caso, nella logica tutta costruita sulle dichiarazioni di volontà dell’interessato, va notato che, ancora nella X legislatura, a seguito dell’opzione per la Camera dei deputati esercitata dall’onorevole Pannella – candidato eletto sia alla Camera che al Senato – la Giunta accertò che la prima dei non eletti nel relativo Gruppo era Maria Adelaide Aglietta, già proclamata anch’essa deputata; costei scrisse al Presidente del Senato dichiarando che, pur trovandosi nella condizione di essere proclamata senatrice in sostituzione di Pannella, preferiva continuare ad appartenere alla Camera dei deputati. Di conseguenza la Giunta riscontò che, fra i candidati non eletti del medesimo Gruppo, colui che seguiva la deputata Aglietta in cifra individuale era Piero Craveri, che fu proclamato eletto Senatore[10].

Il problema, non secondario, è però quello di chiarire quale margine di vitalità abbia ancora un istituto, la Giunta provvisoria, sorto in presenza di tutt’altro ambito legislativo.

Gli adattamenti, in proposito, sono avvenuti con strumenti diversi: alla Camera si è prescelta la modifica di diritto positivo delle norme interne. Il 6 ottobre 1998 l’Assemblea approvò sia l’articolo 17-bis del Regolamento generale, sia l’articolo 18 del Regolamento speciale che – oltre a dilatare le competenze della Giunta delle elezioni di quel ramo, includendovi le attività conseguenti al sopraggiunto Mattarellum – risolveva positivamente l’antico dilemma del rapporto tra proclamazione e verifica, spiegando che la prima (che avvenisse prima dell’esaurimento della seconda) non pregiudicava le risultanze della verifica dei poteri, anche per il seggio del subentrante.

In Senato, invece, si proseguì in via di prassi interpretativa. Ai tempi del passaggio dal proporzionale al Mattarellum, l’articolo 3 del Regolamento del Senato fu, ad esempio, reinterpretato per attribuire alla Giunta incombenze diverse ed ulteriori, rispetto a quella (collassata col divieto di candidature contemporanee alla Camera ed al Senato) delle opzioni intercamerali[11].

Anche con la legge Calderoli, in Senato, è sopraggiunto un parere, reso dalla Giunta del Regolamento del 7 giugno 2006 per le proclamazioni in subentro.

Nel Rosatellum, il problema è più vasto della mera questione dei dimissionari preventivi ed attiene alla stessa applicazione del nuovo articolo 85 del testo unico Camera (ed alla sua estensione al Senato ai sensi dell’articolo 17-bis, comma 3 del testo unico Senato). Rispetto al vecchio testo dell’articolo 85, la proclamazione del plurieletto oggi è declinata al singolare: avendo il legislatore scelto un criterio (diverso dal sorteggio, residuato dalla caducazione dell’opzione libera) per le plurielezioni nei collegi plurinominali, la proclamazione del deputato plurimo non avviene a cura di tutti gli Uffici centrali circoscrizionali coinvolti.

Dopo la sentenza n. 35/2017 della Corte costituzionale, la norma lasciava alla Giunta provvisoria della Camera solo di procedere al sorteggio; ora l’articolo 85 pare invece prefigurare (con la pessima scelta di drafting legislativo della diatesi passiva, priva del complemento d’agente) una competenza degli Uffici elettorali, che tra di loro si scambino (in un ennesimo flipper) i dati della minore cifra elettorale percentuale di collegio e lascino al fortunato tra loro di effettuare l’unica proclamazione. In alternativa, il ping pong sarebbe tra tutti con l’Ufficio centrale nazionale, il quale provvederebbe a livello accentrato all’unica proclamazione, acquisiti i dati da tutti.

Quid iuris per il Senato? Nonostante il fatto che l’articolo 57 primo comma Cost. sia stato interpretato come costitutivo di venti chiese autocefale, un ping pong tra gli Uffici elettorali regionali (per il Senato) e l’Ufficio centrale nazionale (per la Camera)  c’è anche dopo lo svolgimento delle elezioni, ai fini del calcolo della soglia nazionale del 3 per cento. Ciò legittima l’Ufficio nazionale centrale ad esercitare un ruolo anche per la proclamazione dei plurieletti al Senato? O non sarà invece riscontrabile una lacuna ordinamentale, che riapre la possibilità (per la sola Camera alta) di una proclamazione ad opera della Giunta provvisoria? Ed in questo caso, rivivrebbe anche l’antica giurisprudenza della rinuncia preventiva alla proclamazione a senatore e quella – da essa derivante – che prescinde dal voto dell’Assemblea in caso di dichiarazione di volontà dell’interessato?[12]

Se il buon giorno si vede dal mattino, quello dei diciannove giorni si rivela, dunque, un termine azzeccatissimo.

In certi casi, anche le ventiquattr’ore fanno la differenza: quando la pallina del flipper sta per andare in buca, ruit hora.

Pubblicato su Diritto pubblico europeo rassegna online marzo 2018

*Giampiero Buonomo è Consigliere Parlamentare.

 

 

[1] V. risoluzione 1320 (2003) adottata il 30 gennaio 2003 dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, allegato, paragrafo 3: a. Un organo imparziale deve essere competente per l’applicazione del diritto elettorale.  b. In assenza di una lunga tradizione d’indipendenza dell’amministrazione rispetto al potere politico, devono essere create delle commissioni elettorali indipendenti e imparziali, partendo dal livello nazionale fino al livello di seggio elettorale.

[2] L’elemento temporale è stato giudicato dalla Corte europea estremamente indicativo, ai fini della ricerca del giusto equilibrio tra le esigenze della collettività e le situazioni giuridiche soggettive incise da modifiche apportate alla legge elettorale: ciò sulla scorta anche di una ricca elaborazione culminata nel Codice di buona condotta elettorale del Consiglio d’Europa. Nonostante l’autorevolezza del Codice, la Corte europea non però ha recepito pedissequamente ed acriticamente la sua raccomandazione che indica in un anno il periodo minimo, decorrente a ritroso dalla data delle elezioni, in cui non andrebbe modificata la legge elettorale: piuttosto, ha saputo calarla nei casi concreti sottoposti al suo giudizio, differenziandoli in uno sforzo di apprezzamento delle singole fattispecie. Infatti, a fronte delle elezioni bulgare convocate per il 25 giugno 2005, la Corte europea ha giudicato conforme alla Convenzione l’introduzione in Bulgaria dell’obbligo di produrre la certificazione della Corte dei conti sul bilancio annuale dei partiti desiderosi di candidarsi alle elezioni, entrato in vigore il 1° aprile 2005: la Corte europea ha giudicato rilevante, ai fini del rispetto del giusto equilibrio, che la misura fosse stata proposta in Parlamento sin dall’aprile 2003 e che tutto il 2004 sia stato attraversato dal pubblico dibattito parlamentare sulla misura in questione. Al contrario, non ha passato lo scrutinio della Corte europea la modifica della legge elettorale – approvata dal Parlamento bulgaro il 7 aprile 2005 – richiedente il deposito di 2500 firme di elettori come sottoscrizione delle liste: la Corte ha rilevato che la misura era comparsa per la prima volta in Parlamento il 1° febbraio 2005 ed era stata discussa soltanto in due occasioni, il 23 marzo ed il 7 aprile 2005. Questo è sicuramente indizio di alterazione dell’equilibrio richiesto dal Primo Protocollo, perché il Legislatore viola l’esigenza di prevedibilità delle regole nell’imminenza della loro applicazione: ciò tanto per le regole elettorali fondamentali (sistema di scrutinio, composizione degli uffici elettorali e struttura delle circoscrizioni), tanto per le condizioni di partecipazione alla competizione elettorale (§ 69).

[3] Sulla natura giurisdizionale, quanto meno sotto il profilo soggettivo, degli Uffici elettorali centrali, v. Senato della Repubblica, XVI Legislatura – Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari – Resoconto sommario n. 10 del 31/07/2008, Allegato, Estratto dal verbale della seduta del 26 febbraio 2008 n. 45, Relazione sulla verifica delle votazioni senatoriali del 9-10 aprile 2006 nella Regione Abruzzo (Relatore: Sen. D’Onofrio): Tar Catania, 22 aprile 2006, n. 629 ha “espresso, in ordine alla natura dell’Ufficio centrale nazionale, la chiara preferenza «che si tratti di una sezione specializzata del G.O. chiamata a pronunciarsi, per utilizzare la condivisibile terminologia adoperata di recente dalla Giurisprudenza (cfr. Cass. SS.UU. n. 8119/06, cit.), su posizioni giuridiche fondamentali che hanno rilievo” […] nella “fase preparatoria delle elezioni (così il titolo III del T.U. sulle elezioni)». A questo proposito l’accostamento più immediato è stato con l’Ufficio centrale per il referendum, sempre istituito presso la Corte di Cassazione dalla l. n. 352 del 1970, e cui la dottrina prevalente riconosce natura giurisdizionale.  La fase di ammissione delle liste e delle candidature sarebbe propria ed esclusiva dell’Ufficio centrale nazionale, il cui giudizio apparirebbe dal vigente sistema «configura[to], implicitamente ma sicuramente, quale atto conclusivo espressivo di una funzione giurisdizionale», di modo che, «anche a non voler accedere alla tesi della [sua] funzione paragiurisdizionale ed atipica, … emerg[e] la possibilità di considerare lo stesso quale sezione specializzata del G.O., secondo i dettami dell’art. 102 Cost.» (V. A. Cariola, L’ammissione delle liste elettorali alla ricerca di un giudice: l’art. 66 Cost. alla prova del giusto processo. Nota a commento di Tar Catania, 22 aprile 2006, n. 629, in www.giustizia-amministrativa.it).

[4] Consultabile alla URL http://www.giurcost.org/cronache/index.html nella sezione Selezione di casi pendenti davanti alla Corte costituzionale.

[5] V. Senato della Repubblica, XVI Legislatura – Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari – Resoconto sommario n. 33 del 20/05/2009, intervento dei senatori Orsi e Sanna (“ricorda come gli Uffici elettorali regionali qualifichino se stessi come uffici amministrativi e che la natura giurisdizionale – necessaria per essere giudice a quo – è stata negata proprio dall’Ufficio partenopeo nel respingere la doglianza di Scotti”) e XVI Legislatura – Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari – Resoconto sommario n. 37 del 01/07/2009, intervento del relatore Mercatali (“l’assunto dell’Ufficio regionale campano in ordine alla sua natura meramente amministrativa”).

[6] V. G. Buonomo, La procedura parlamentare e il conflitto di attribuzioni sulle leggi elettorali, laCostituzione.info, 9 dicembre 2017.

[7] M. Ainis, La furbizia dei rinuncianti, Repubblica, 15 febbraio 2018; cfr. anche da G. Piccirilli, Ma cosa significa “rinunciare alla candidatura” (e all’elezione)? Ma è davvero possibile farlo anche adesso?, su laCostituzione.info, 19 febbraio 2018.

[8] Atti Camera, Assemblea, resoconto stenografico, 2 luglio 1987, p. 5.

[9] G. Buonomo, I subentri nelle assemblee parlamentari in corso di legislatura, in Quaderni costituzionali, n. 4 del 2007.

[10] Atti Senato, Assemblea, resoconto stenografico, 2 luglio 1987, p. 4.

[11] G. Buonomo, Problematiche applicative dei regolamenti di verifica dei poteri delle due Camere, in Il Filangieri, Quaderno 2007.

[12] V. Assemblea del Senato, 4 luglio 2007, dichiarazione del senatore Bobba.