AUTONOMIA E LIBERTA’ NEL MOVIMENTO FEMMINILE SOCIALISTA DEL ’900

di Fiorenza Taricone*

Una sfida impegnativa

Parlare di autonomia e libertà per le donne nel movimento femminile socialista delle origini implica di per sé presupporre in loro una concezione mentale basata sul progressismo, una disponibilità all’eresia, l’accettazione della riprovazione sociale. La condizione femminile, infatti, tratteggiata nel Codice Civile Italiano del 1865, antecedente all’Unità definitiva dopo la presa di Porta Pia del 1870, è quella di una paria e di una minus habens. Sottoposta all’autorità del capo famiglia, anche all’esterno, poiché per ogni atto pubblico aveva bisogno dell’autorizzazione maritale, testimone nei tribunali solo a partire dal 1877, impedita a svolgere le professioni liberali, anche se dal 1874 poteva accedere a qualunque laurea, condannata a non rivedere i figli se si separava anche con giusta causa, priva di una autonomia economica perché non poteva in prima persona affittare un immobile, contrarre mutui, avere un deposito postale, e infine priva del diritto di voto anche se tale limitazione non era espressamente citata nel Codice Civile, parlare di cittadinanza femminile era veramente un eufemismo.

Anna Kuliscioff giocò un ruolo fondamentale nell’evoluzione della condizione femminile per il suo “venire da lontano”, e proporsi come modello, sprovincializzando la cultura politica e sociale italiana, per l’essere dentro e fuori la mentalità arcaica che regnava nei rapporti fra i sessi e per il suo rappresentare anche personalmente un modello di vita anticonformista1.

Il Programma della Lega socialista milanese, in cui la Kuliscioff figura fra i fondatori,  con  Turati  e  Anna  Maria   Mozzoni,   poi   distaccatasi dal, socialismo, apparso nel 1891 su «Critica Sociale», la vecchia «Cuore e Critica» di Arcangelo Ghisleri, rilevata da Turati e Kuliscioff, si pone come un obiettivo avanzato per i due sessi. Il Socialismo- si legge agli inizi del programma- considera la convivenza civile come una serie di rapporti per i quali il godimento delle ricchezze, la cultura, la giustizia e la libertà, elementi costitutivi del sociale benessere siano assicurati a tutti gli esseri umani. Si propone di combattere e demolire i privilegi della civiltà capitalista risolvendo cosi la questione sociale (…). L’ideale politico del Socialismo, antipatriottico e antiautoritario, era per la fusione delle razze, nell’attenuarsi degli odi religiosi, nella libertà degli scambi, nell’autonomia delle popolazioni, nella tendenza al decentramento, all’autogoverno, al suffragio universale, all’abolizione degli eserciti. Le forme politiche non erano che un corollario dei rapporti economici. Era quindi necessario combattere il principio di autorità in tutte le sue forme (…) il sistema familiare con l’assoluta indissolubilità delle nozze, con i privilegi autocratici del padre di famiglia [che] garantisce in realtà solo il principio individuale della proprietà e non garantisce alla prole i diritti elementari di un’educazione civile.

“Il matrimonio diventa una combinazione d’interessi più che una combinazione d’affetti e quindi una forma consacrata di prostituzione (…) con manifesto detrimento del carattere in un sesso e nell’altro, condannando all’onta e al disonore l’amore non legalizzato o la maternità non approvata dalla legge”. Il Socialismo proponeva quindi di sostituire a questo tipo di famiglia l’unione libera fra i due sessi, in piena uguaglianza di diritti e poteri, elettiva, dove tutti conservavano la libera disposizione di sé e dei propri affetti nell’interesse della felicità individuale, dell’armonia sociale e del progressivo perfezionamento della specie”2.

Il socialismo proclamava dunque l’autonomia e l’uguaglianza in diritto dei due sessi, tanto sul terreno economico, (a lavoro uguale, uguale mercede), quanto sul terreno dei diritti civili e politici (ammissione illimitata della donna all’amministrazione dei propri beni, al voto, alle funzioni professionali e politiche). Riguardo all’istruzione e all’educazione, esse dovevano essere integrali per tutti, ispirate unicamente alla scienza, con il generalizzarsi di un’educazione civile: istruzione obbligatoria, laica e razionale, il miglioramento dell’educazione e l’autonomia dei maestri, la cura delle scuole d’arti e mestieri e professionali operaie.


Donne al lavoro nello stabilimento ceramico Saime negli anni venti. Fotomuseo Giuseppe Panini, Modena

“Le religioni erano, invece, detronizzate dalla scienza positiva. Il socialismo vuole abolire le religioni; alla morale religiosa della rassegnazione, a quella metafisica del libero arbitrio, contrappone la morale utilitaristica e sociale basata sull’utilità di tutti gli uomini. Infine, il socialismo scientifico non crede a un rinnovamento miracoloso dell’organismo sociale per effetto di decreti dall’alto o sommosse dal basso. Lascia impregiudicata la questione se il conseguimento dei grandi fini renderà necessario il ‘cozzo violento e sanguinoso’. Perciò l’azione dei socialisti pur avendo come scopo principale l’organizzazione del proletariato nelle sue rivendicazioni economiche, non deve trascurare dal mescolarsi a tutte le manifestazioni della vita pubblica, non escluse le agitazioni elettorali e l’accesso alle pubbliche funzioni, cercando di attuare anche nella vita privata i principi della coerenza3”.

Il movimento e l’associazionismo femminile socialista, sia quello più direttamente legato al partito, sia quello di area, furono interpreti più o meno tenaci e fedeli del Programma, fino alla scissione del ‘21, quando molte donne divennero, come dissero di se stesse allora, ‘comuniste secessioniste’. “Siamo comuniste secessioniste- affermano nel ‘21- non per asservimento al verbo di Lenin, ma perché riteniamo che i 21 punti di Mosca non solo siano applicabili al movimento socialista italiano ma anche perché rappresentano l’unico mezzo per togliere il nostro partito dal caos in cui si è dibattuto da qualche anno”4.

Come è noto, dal Programma della Lega Socialista Milanese alla costituzione del partito il passo fu breve. Il Congresso di Genova si aprì il 14 agosto 1892 alla Sala Sivori, con circa duecento delegati, di cui una decina di donne, fra cui la stessa Mozzoni, in rappresentanza di 324 associazioni: organizzazioni economiche, come società di mutuo soccorso, società e leghe di resistenza bracciantili e contadine, cooperative; organizzazioni politiche come circoli, comitati elettorali, unioni democratico- sociali, leghe socialiste5. Le vicende sono risapute: in seguito a dissensi con gli operaisti e gli anarchici, Turati, Kuliscioff, Prampolini e altri delegati della maggioranza decisero di invitare i delegati che li condividevano a proseguire il congresso nella Sala dei carabinieri genovesi, una società democratica che ricordava nel nome il famoso reparto dei Mille. Alla Sala Sivori rimasero i delegati di 97 società. I delegati riuniti con Turati procedevano all’approvazione del programma e dello Statuto che sanciva la nascita del Partito Socialista. Marxista sul piano dei principi, contrario all’anarchismo, il programma “risultava un compromesso tra quello votato dalla Lega Socialista milanese e quello del partito Operaio del 1888”. Rispetto a questo il punto di maggiore differenziazione era costituito dall’introduzione nel programma di Genova del principio della socializzazione dei mezzi di produzione e della conquista dei poteri pubblici 6.

Veniva anche abbandonata l’affermazione del diritto naturale all’eguaglianza, ed è anche in ciò, assieme ad altri motivi, che può essere ricondotto il graduale allontanamento di Anna Maria Mozzoni dalle politiche emancipazioniste del Partito. Tutta la complessa rete associazionistica post-risorgimentale, di origine democratica e mazziniana, maschile e femminile, con una più che decennale attività, poteva trovare nel nascente partito di massa delle sintonie; l’intesa con l’associazionismo femminile si estrinsecò attraverso una serie di organismi “di area” socialista, come i Comitati pro-voto, in cui spesso la maggioranza era ancora espressione di una sinistra composita, radicale e repubblicana, che trovava su alcuni punti, appunto il suffragio universale, una  compiuta rappresentanza nel Partito Socialista.

Il campo d’azione teorico e pratico che si apriva per le donne nella costruzione di una soggettività femminile era veramente enorme; soprattutto da costruire era il rapporto fra élite femminile socialista, punta avanzata di un riformismo non solo politico, ma mentale, e la gran parte delle donne lavoratrici, prive, oltre che di una cultura scolastica, anche di un’autonomia economica; l’eventuale salario, per una famiglia governata da un pater familias, non era indice di indipendenza economica, ma considerato un contributo al reddito familiare, come del resto si è verificato in Italia fino agli anni Cinquanta-Sessanta del Novecento. Nella peggiore delle ipotesi, una forza lavoro concorrenziale a quella maschile7.

Propaganda e organizzazione politica

L’attenzione all’organizzazione della propaganda fra le donne rifletteva, come abbiamo visto, un’esigenza precisa del movimento socialista non solo italiano.

Si trattò di una novità veramente inedita per le donne forse non ancora del tutto valutata nella sua portata innovativa. Le resistenze mentali al mutualismo, alla cooperazione, alle organizzazioni di resistenza, ai sindacati di mestiere erano molto tenaci nelle donne, più lontane degli uomini rispetto alla conoscenza del pensiero socialista e alla politica strutturata.

Il primo decennio del Novecento segnò un salto di qualità. “Anche le donne cominciano a sentire la necessità della difesa e a organizzarsi. Nei primi anni erano nemiche delle leghe di resistenza, perché tutto ciò che è nuovo urta la loro anima conservatrice e perché i preti la incitavano ad avere paura, a distogliere anche gli uomini; poi si sono andate man mano avvicinando sospinte dalla constatazione dei benefici che la lega arreca. Vedono il lato utilitario delle cose e nelle leghe sono entrate quando hanno compreso che consentivano minor fatica e più pane”. Delle Cooperative di consumo invece, una più complessa forma di organizzazione, non hanno ancora compreso l’importanza; preferita quando vende quasi a prezzo di costo, era abbandonata quando i prezzi diventavano simili a quelli di mercato. Comportamento sbagliato per due motivi: la loro costituzione aveva comportato sforzi notevoli e comunque esercitava una funzione di calmiere. La Cooperativa andava sostenuta non perché serviva ad arricchire qualcuno in particolare, ma perché il guadagno aumentava il capitale sociale. “La Cooperativa, infatti, non è solo il luogo che si apre alle riunioni dei lavoratori, ma quello dove fiorisce la solidarietà anche di coloro che non sono interessati alla lotta, perché tra gli iscritti ad una stessa istituzione nasce sempre un sentimento come di parentela, si stabilisce un legame”8.

L’autonomia femminile rischiava spesso di confliggere con la leadership maschile del Partito e con la prudenza di molte militanti che temevano reazioni ostili. Nel 1905 su «La donna socialista» la “lavoratrice dei campi” Annita Fontana condanna una sezione femminile di recente costituita che intendeva boicottare un giornale socialista perché vi scriveva un compagno, nascosto sotto uno pseudonimo femminile. “Uguali diritti e uguali doveri di tutti i lavoratori di fronte alla società non vuol dire dichiararsi nemiche degli uomini(…)come l’uomo ha bisogno della donna, così pure noi abbiamo bisogno dell’uomo che, più forte e più conoscente del movimento sociale, può guidarci verso la giustizia”. D’accordo si dichiara anche la direttrice del periodico, Ines Oddone Bitelli: “Organizzare le donne vuol dire creare una nuova falange dell’esercito proletario, non costituire un antagonismo fra i lavoratori dei due sessi. Sarebbe doloroso che noi banditrici di giustizia e di fratellanza, diventassimo seminatrici di diffidenza e di disordine, perpetuando l’illogica separazione dei sessi, che è una delle colpe principali della società borghese9.

Ines Oddone, di estrazione borghese, il padre era ingegnere, si era diplomata maestra a Roma. Il marito, Giovanni Bittelli, di estrazione proletaria, era stato operaio prima di vincere una borsa di studio per la Normale di Urbino. Dopo pochi mesi dal suo arrivo a Bologna, Ines era entrata a far parte dell’esecutivo della Camera del Lavoro, dove si era legata al gruppo sindacalista rivoluzionario, seguace del pensiero di Sorel che considerava lo sciopero generale strumento di azione diretta per sovvertire la società borghese. All’interno del movimento operaio, la Oddone si batteva per l’autonomia delle organizzazioni politiche da quelle economiche. Nel 1907, fu nominata direttrice de «La lotta di classe», dichiarandosi contraria non al riformismo di Turati, ma a quello di Bissolati e Cabrini che erano diventati uomini di governo ed esponenti di una democrazia illuminata, ma non socialista. Nel 1912, al congresso del Comitato Nazionale Azione Diretta, organo di coordinamento dei sindacalisti rivoluzionari, presentò una mozione a sostegno dell’unità delle organizzazioni sindacali, ma risultò vincente la mozione di Alceste De Ambris, che fondò l’Unione Sindacale Italiana. La Oddone Bitelli morì nel 1914.

Ille per gli amici, nacque a Suno Novarese nel 1875 dal padre notaio, democratico di ispirazione  risorgimentale  e  dalla  madre  Filomena, di famiglia aristocratica e reazionaria. Maestra, insegnò nelle scuole comunali di Milano, fino all’esonero disposto dalle autorità fasciste nel ’27. Di formazione cattolica, si avvicinò progressivamente alle idee  socialiste,  svolse dopo il 1910 un’attività quasi frenetica all’interno del movimento femminile socialista. Fu anche membro della Commissione Esecutiva della Camera del Lavoro di Milano. Pacifista, subì per le sue idee, condanne. Dopo la guerra, contribuì  alla  costituzione di  una  Internazionale  socialista della  scuola. Dopo  il  ’21,  si  schierò  con  la  frazione terzinternazionalista, sostenendo la fusione   coi comunisti. Dopo essere entrata nel PCI, nel ’24 fece parte del direttivo della Federazione Comunista di Milano.

Giselda Brebbia nacque nel 1878 a Comabbio (Varese) da  Pietro, possidente  e  da Carolina Berrini, maestra; fu anch’essa insegnante elementare. Collaborò all’«Avanti!» e fu tra le fondatrici de «La Difesa delle Lavoratrici» che lasciò per le sue posizioni accesamente interventiste. Nel 1916 uscì anche  dal  PSI, legandosi ai gruppi interventisti mussoliniani de  «Il  Popolo d’Italia». Nel ’18, aderì all’Unione Socialista Italiana e come sua rappresentante partecipò alla riunione per la fondazione dei fasci di combattimento; alla frenetica attività politica e giornalistica cominciarono in seguito ad accompagnarsi turbe mentali; lasciato l’insegnamento, si tolse la vita dandosi fuoco nella sua casa di Milano nel 1920; si veda su di lei la scheda curata da MARCO TAMBORINI, in Dizionario dei lavori fu proposto che il Partito, le Camere del Lavoro e singole organizzazione aiutassero finanziariamente i gruppi femminili e nascesse la figura di una propagandista retribuita che potesse dedicarsi in modo esclusivo ai suo lavoro. La nascita e il progressivo consolidamento dell’organizzazione solo femminile, comprese le sezione separate da quelle maschile, creano frizione all’interno del Partito. Le ostilità maschili erano corpose e se nella vita privata i compagni poco o nulla si curavano di sensibilizzare politicamente le donne, gli stessi pregiudizi assumono spessore politico all’interno del partito. Ad esempio, se «La Difesa delle Lavoratrici», il primo periodico delle donne socialiste su scala nazionale edito dal 1912, fondato e diretto per i primi anni dalla Kuliscioff, tende ufficialmente a smorzare le polemiche, lascia in compenso parlare su questo problema le lettrici che nelle rubriche Corrispondenze e Voci dalle Officine e dai Campi danno libero sfogo ai misoneismo dell’elemento maschile con cui vivevano a contatto: compagni  di lavoro, congiunti  stretti, militanti di sezione. Un disagio chiaro era esplicitato da donne diverse tra loro che affermavano d non trovarsi bene nelle  sezione  maschile e di esprimersi meglio in altre sedi di lavoro riservate.

Gli uomini dal canto loro, avevano gioco facile nell’accusare la mancanza d’interesse delle donne alla vita pubblica. Rinaldo Rigola, citando come esempio da imitare Carlotta Clerici e Argentina Altobelli11, rappresentanti rispettivamente le Società di Mutuo Soccorso e la Federazione dei Lavoratori della terra, che attraverso un tirocinio pratico erano passate a far parte di un corpo politico quale il Consiglio dei Lavoro 12, scrive: “Finché la  donna se manterrà appartata anche da quella vita collettiva che le è consentita oggi, è dubbio se essa perverrà mai ad eguagliare l’uomo; c’è un femminismo vano e frivolo nelle classi cosiddetti superiore il quale non si propone altro che di conquistare il diritto di scimmieggiare il maschio soprattutto in ciò che questa fa  di meno degno, ma  ce n’è  un  altro, sano e consistente che erompe dal dolore della moltitudine proletaria femminile vittima de una doppia oppressione de classe e di sesso. Il primo si sbizzarrisce in una specie di fatuo sport politico ad uso della donna. Il secondo invece se matura e se ingagliardisce nelle associazioni operaie. Per questa via la donna acquista non pure il diritto, ma financo la capacità di partecipare alla vita pubblica13”.

Per Maria Goia, propagandista del ferrarese, le donne erano nemiche delle leghe di resistenza perché tutto ciò che era nuovo urtava la loro anima conservatrice. In compenso però, erano più pratiche di quel che se pensasse; privilegiando il lato utilitario, erano entrate nelle Leghe quando avevano compreso che esse consentivano con minor fatica una maggiore certezza del pane. Delle Cooperative di consumo invece ancora non ne afferravano l’importanza, non avendo ancora del tutto compreso che le Cooperative nel momento di lotta erano non solo luogo di riunione dei lavoratori, ma anche “quello dove fiorisce la solidarietà sostegno degli scioperanti perché offre il credito negato dai bottegai”14. Sofia Avoni, bibliotecaria della sezione delle Biblioteche Popolari a Milano, scrive che le donne sentono ben poco il dovere della solidarietà, “attirate nell’organizzazione per l’attiva propaganda delle nostre compagne e tenutevi più che tutto dal miraggio del possibile miglioramento economico della propria categoria; esse restano estranee o quasi allorché s’intraprendono agitazioni di carattere generale(…)”15.

Riaffiorano sistematicamente fra uomini e donne le puntualizzazioni sull’autonomia del Gruppo Femminile Socialista federato all’Unione Femminile Nazionale Socialista, che in nessun caso andavano interpretate come sezione femminile del partito, dovevano bensì essere costituite solo da donne iscritte nella locale sezione dei partito, mentre alle minorenni simpatizzanti era riservato il Circolo Giovanile. Dal Gruppo così strutturato sarebbero dovute uscire le propagandiste che essendo contemporaneamente iscritte alle Leghe e alle Camere del Lavoro avrebbero fatto opera di proselitismo fra le classi lavoratrici.

Nella relazione presentata al II Convegno Nazionale delle donne socialiste, Carlotta Clerici rassicura apertamente i compagni: nessuna aveva mai pensato di creare un femminismo socialista incompatibile colla natura del movimento di classe16 . E ancora, alla chiusura dei Congresso dei Partito Socialista di Ancona, dove furono votate l’incompatibilità di appartenenza alla massoneria e al partito, l’intransigenza nelle  elezioni amministrative  e la mozione sui voto alle donne, si afferma: Molte gruppi femminili non hanno acquistata la visione chiara del proprio compito nel partito. Noi  non vogliamo una divisione per sesso(…)bisogna che le compagne si convincano che il lavoro più utile per noi è quello del dissodamento. Già gli uomini fanno troppa accademia in confronto a quella scuola moderna che pur è tanto necessaria ancora.

Una sferzata in materia di organizzazione viene nel ’22 da una penna maschile, Pietro Pietrobelli, che in verità esordisce condannando la noncuranza dei compagni verso il movimento socialista femminile, quasi frutto di una tacita intesa fra gli uomini  e voluto sabotaggio. “Secondo  noi questa lacuna e cioè la mancanza di affiatamento fra compagne e compagne è una delle principali ragioni per cui nel nostro paese non si è ancora creata una salda e vitale organizzazione politica femminile  aderente ai nostro Partito”. La risoluzione dell’impasse è trovata in un riconoscimento della necessità della gerarchia maschile.

“La donna(…)ha bisogno assoluto de essere educata e guidata da chi per ragioni di coltura ed esperienza si trova nella condizione di poter rendere con profitto questo speciale e utilissimo servizio. A che valgono infatti le riunione domenicale delle donne simpatizzanti se in queste riunioni manca la parola della fede e il consiglio fraterno di chi conosce già la teorica socialista?”.

Utile era quindi la creazione di una Federazione Femminile Socialista aderente al Partito piuttosto che lasciare le compagne nelle sezioni, retta da un Comitato Centrale al pari di quella giovanile, con un proprio rappresentante nella Direzione del Partito, la quale a sua volta avrebbe dovuto stabilire che ogni segretario di sezione presenziasse alle “adunanze delle donne”17.

Con toni duri risponde in uno dei suoi rari scritti Tilde Momigliano: “Abbiamo la sensazione di aver raggiunto l’età delle maggiorenni(…)vi fu tempo già in cui le donne furono  sole, dissero le loro ragioni, scesero  nelle vie e nelle piazze, fecero i loro congressi. Parvero forti e forse troppo baldanzose e venne il deliberato della Direzione dei Partito e disse che le donne dovevano far parte cogli uomini delle sezioni e che i Circoli (da non confondersi coi Gruppi femminili che dovevano sciogliersi). Ciò, caro compagno Pietrobelli è già nell’archivio. Ora, noi fummo presuntuosette, ma, lasciate lo sfogo, volemmo pure vedere a che ci avrebbero portato i presuntuosi(…)personalmente non voglio dire più che gli uomini ci trascurano benché io abbia assistito ad un Congresso del Biellese in cui gli uomini vollero l’alzata di mano per deliberare se le donne avessero diritto al voto come gli uomini in seno ai Partito. Noi sentiamo che se gli uomini ci trascurano noi sappiamo curarci da noi, quando vogliamo. In seno al Partito la donna deve sapere che è uguale all’uomo e che ha di fronte allo statuto tutti i diritti di fare, di sapere,  d’indagare,  di  cooperare. Di fronte invece alla società essa, molti e quasi tutti i diritti se li deve conquistare colla associazione politica ed economica. E’ proposto da voi che il segretario o chi per esso presenziasse alla seduta delle donne. Ove questo rappresentante sia ben accetto e serio, approvato. Molte volte però un uomo di mezzo pelo è già scettico, tanto più se si tratta di noi, e il più delle volte se è brizzolato, si crede poi un gallo nel pollaio, l’esperienza insegna18”.

Una nuova morale

Non tutti all’interno del Partito socialista condividono la necessità di mutamenti all’interno della sfera familiare paragonabili o analoghi a quelli che venivano teorizzati e auspicati per la società. La precedenza del lavoro femminile all’interno della famiglia anziché nelle fabbriche, che metteva al riparo dalla disgregazione della famiglia e dall’indebolimento della specie dovuto a fisici consumati dalle fatiche, deriva di solito dagli scritti e dal pensiero di Proudhon. Il pensatore francese, secondo cui la donna doveva essere courtisane o ménagère, considerava la famiglia come una società mutualistica, presupposto della struttura mutualistica della società in generale. Il lavoro domestico è quindi visto in modo positivo, con una funzione precisa che si rifletteva positivamente sulla società, quella pedagogica svolta dalla madre nei confronti dei figli. Il ben noto atteggiamento polemico di Proudhon nei confronti dell’emancipazionismo femminile deriva anche dal fatto che la disgregazione della famiglia come gruppo sociale organico e autonomo, avrebbe portato a un indebolimento della struttura politica della società e alla temuta ginocrazia19.

Coloro che invece trasportano il bisogno di cambiamento anche nella famiglia e nella sfera affettiva si rifanno a Fourier, rappresentante e teorizzatore di una nuova morale libera ed egalitaria. Per lui, le differenze naturali fra uomo e donna si limitano alla funzione riproduttiva di quest’ultima e non si estendono alla cura della prole, che può essere  svolta da entrambi. Gli uomini, sulla base delle proprie predisposizioni possono anche scegliere spontaneamente di assumere compiti femminili. Se la vita matrimoniale poteva inoltre preservare da alcuni inconvenienti tipici del celibato, essa non garantiva mai alcuna “felicità positiva”, neppure nel caso di un perfetto accordo fra i coniugi perché se i loro caratteri sono assortiti alla perfezione, niente impedirebbe loro di vivere insieme in un ordine in cui l’amore fosse libero e l’unione domestica diversamente organizzata(…)per confonderci le idee sulla patente incompatibilità tra matrimonio e passioni, la filosofia ci predica il fatalismo; essa va blaterando che in questa vita noi siamo destinati alle tribolazioni, che bisogna saper rassegnarsi etc. Niente affatto; basta solo inventare un nuovo tipo di unione domestica conforme ai dettami delle passioni(…)20.

Il matrimonio indissolubile allontanava dai piaceri reali, come la libertà amorosa, la buona tavola, la spensieratezza e altre gioie. Nella civiltà moderna, la fanciulla era solo una merce esposta in vendita per chiunque volesse contrattarne l’acquisto e la proprietà esclusiva. L’assenso da lei fornito era frutto dei pregiudizi tirannici che la ossessionavano fin dall’infanzia. Fra i sovrani civili, nessuno era stato ben disposto verso le donne, poiché molta distanza correva fra la galanteria e l’equità. La prima misura di giustizia che Fourier propone è quella di fissare una ‘maggiore età amorosa’, cioè diciotto anni; al di sotto di tale età, per Fourier sono ‘giovinette’, al di sopra ‘emancipate’; all’incirca a quattordici anni ogni fanciulla inizia ad essere ‘esposta’: ai balli, a passeggio, alle messe e ai sermoni e se dopo quattro anni nessun “zoticone avrà contrattato il prezzo della sua verginità”, occorreva dare una sistemazione in via definitiva a chi era rimasta ‘priva di acquirente’. Le emancipate avrebbero dovuto avere il diritto di prendersi degli amanti, “salvo fare leggi sulla sorte dei figli che nascessero da simili unioni”21.

Le catene dell’opinione pubblica, lungi dall’allentarsi, si erano rafforzate. Tre erano i fattori indicati da Fourier che contribuivano a radicare nei moderni questo spirito vessatorio nei confronti del sesso debole: le malattie veneree, il cui rischio giocava a favore della libertà sessuale. L’influsso del cattolicesimo, i cui dogmi di condanna della voluttà fanno sì che essa non abbia alcuna influenza sul sistema sociale. La nascita del maomettismo che, “aggravando la triste sorte e l’abiezione delle donne barbare, riverbera una falsa tinta di felicità sulla condizione meno deplorevole delle donne civili”22. L’attenuazione della schiavitù femminile sarebbe stato un atto di giustizia reclamato dalla ragione umana: la ribellione ad essa aveva causato per Fourier una prigionia nelle tenebre della filosofia durata ventitré secoli di troppo.


Un gruppo di personalità del Congresso, “La Donna” 5 maggio 1908

Se i teorici socialisti come Fourier esercitano un’attrazione tutto sommato tardiva in Italia, per la nascita di una morale libertaria che si accompagnava ad una società futura in cui sarebbe stato sconosciuto lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla donna, il tema delle libere unioni e la possibilità di scioglimento del vincolo coniugale rimandano al contrattualismo. Infatti, erano essenzialmente due i principi giuridici che regolavano il matrimonio: il principio istituzionale e il principio contrattuale. Per il primo, esso è un’istituzione che trascende la volontà dei singoli individui. Per il secondo, il matrimonio è un contratto bilaterale, in cui l’elemento essenziale è la libera volontà dei contraenti. All’interno della concezione istituzionalistica, sono poi individuati vari momenti fondanti: l’ordine naturale, secondo cui era soprattutto la donna che trovava in esso la sua collocazione in quanto madre, educatrice e custode di esso, la natura etica del matrimonio, il carattere sacramentale, tipico nel pensiero giuridico di formazione cattolica; per coloro che si opponevano al divorzio, di formazione strettamente cattolica, non si poteva parlare a rigor di termini, di vera e propria opposizione allo scioglimento del vincolo coniugale poiché l’uomo non poteva comunque sciogliere ciò che Dio aveva consacrato23. Nell’ipotesi istituzionalista, il criterio contrattuale viene respinto perché se il matrimonio è concepito come un contratto, cioè come un negozio giuridico basato sull’utilità, sull’interesse reciproco delle parti, e determinato quindi anche negli esiti finali dalle volontà dei contraenti, il carattere morale ne risulta fortemente limitato.

La concezione istituzionalistica considera il matrimonio come uno status superpersonale, pertanto essa limita il valore della consensualità e nega la mobilità e la dissolubilità del vincolo coniugale. L’essenza del matrimonio in questa prospettiva non risiede nella libertà dei contraenti, ma nell’ordine morale. Non è il consenso all’origine del matrimonio, ma la necessità etica, che va oltre la libertà del singolo24.

In Italia, fu dapprima lo schieramento laico-massonico-radicale, collegato con quello francese, a introdurre il dibattito sul divorzio, principalmente con il patriota Salvatore Morelli, studioso dei filosofi e pensatori oltr’alpe, da Condorcet a Saint Simon, a Fourier, e in rapporto con John Stuart Mill; nel 1874 avanzava la prima delle sue proposte sul divorzio, unitamente ad altre richieste per una famiglia paritaria e non dispotica, per uscire dalla contraddizione “di proclamare la libertà in piazza e il dispotismo in famiglia”. Quando nel 1878 ripresentò per la terza volta il disegno di legge sul divorzio, il ministro di Grazia e Giustizia Conforti gli ricordò che il matrimonio era sì un contratto, ma anche una grande istituzione sociale, base della famiglia, che è il fondamento dello Stato25. Dopo S. Morelli, i progetti di legge sul divorzio, tranne quelli dei liberali Villa e Zanardelli, furono essenzialmente dovuti all’iniziativa dei socialisti, Agostino Berenini e Alberto Borciani nel 1902 e Costantino Lazzari e Guido Marangoni nel 1920 26.

In Italia, la critica di Fourier, dei socialisti francesi, dei divulgatori come A. Bebel e dei liberali avanzati come Mill, alla morale borghese, danno una forte spinta allo svecchiamento della morale, soprattutto cattolica. Alcune delle donne socialiste più attive nel Partito mettono coraggiosamente in pratica, anche privatamente, una nuova morale sia individuale, sia allargata alla famiglia, contraria ai dettami prevalenti nella società. Si pongono quindi come agenti attivi di cambiamento, ponendosi come modelli emancipatori. A cominciare da Anna Kuliscioff che lascia presto la famiglia d’origine per frequentare il Politecnico di Zurigo; poco  tempo dopo, strappato non metaforicamente il libretto universitario, si dedica a tempo pieno alla politica, abbracciando il socialismo anarchico. Sposa in quegli anni un compagno di lotta di cui però non si hanno notizie certe e prosegue quella militanza che la porterà a essere attentamente sorvegliata dalla polizia; peregrinando per il mondo come messaggera apolide dell’anarchismo, incontra Andrea Costa, dal quale ha una bambina, Andreina. Non regolarizza la sua unione con l’anarchico italiano, il quale matura intanto la sua conversione politica espressa nella famosa Lettera agli amici di Romagna dell’ ’84.

La Kuliscioff non fu mai vista di buon’occhio dai genitori di Costa, per i quali essa rimase sostanzialmente un’estranea, venuta da lontano. La teorica del socialismo riformista manifestò sempre un grande desiderio d’indipendenza e d’autonomia: mano a mano che i rapporti col Costa si raffreddavano, provvide da sola alle necessità economiche di Andreina, non vivendo certo nell’agiatezza, specialmente nell’inverno trascorso a Napoli, dove riuscì a laurearsi in Medicina con la figlia malata e bisognosa di cure.

Riguardo al matrimonio, nelle sue lettere al Costa è molto esplicita, come quando scrive alla fine del suo rapporto col deputato socialista: “Non sono romantica, ma desidero la realtà umana(…)perché dunque battere la strada tradizionale dei mariti e delle mogli?”27.

Rispetto alla stessa situazione affettiva con Filippo Turati, Anna Kuliscioff conserva il suo senso d’indipendenza. Angiolo Cabrini ricorda che a Zurigo nel 1898, mentre i socialisti si recavano nella sede del Congresso Internazionale un compagno domanda all’altro chi fosse quella signora. “E’ la signora di Turati, risponde l’altro stupito di tanta ignoranza. Anna Kuliscioff, con vivacissimo movimento, si volge verso il provinciale con queste parole: Io non sono la signora di nessuno, sono semplicemente Anna Kuliscioff. Il buon Filippo- continua Cabrini- si accosta sorridendo al giovane compagno: Sai, non avertene a male, in Russia sono tutti cosi vivaci”28.

Argentina Bonetti ha poco più di vent’anni quando conosce il trentasettenne professore Abdon Altobelli. Ha già tenuto la sua prima conferenza, diciottenne, nell’84, in un circolo di Parma, intitolata L’emancipazione della donna. Il matrimonio che conclude la conoscenza, fu, per usare le parole della Altobelli, “felice e sostenuto da un profondo sentimento di rispetto e di amore”. Ma anche Abdon testimonia un diverso rapporto fra i sessi. La nascita del primo figlio infatti, mette di fronte Argentina all’esigenza di dover conciliare le cure della maternità con il lavoro politico di presidente della Società Operaia. Quella della maternità è una parentesi fatta di profumi di borotalco e di fragranze delicate tutte per quel neonato che sta tra loro(…)vezzi, ninnananna e carezze riempiono quei mesi appena scanditi dall’arrivo del giornale di Andrea Costa, che ricorda i fatti del mondo(…)è Abdon a dare uno strappo a quell’involucro che sta facendosi pericoloso, porterà lui il peso della situazione familiare. Argentina deve riprendere la sua attività. Prevale in Abdon il senso di responsabilità che deve spingere gli allievi il più possibile fuori dal ruolo protetto(…)29.

La Bonetti ricorda che il marito cercava di tenere accesa in me la fiaccola dell’ideale che aveva brillato in tutta luce e mi portava giornali e libri adatti a perfezionare le mie idee ed a tener vivo il mio spirito combattivo, e spesso mi ripeteva che voleva che non si spegnesse in me la bella fiamma della mia idealità. Ed i miei compagni si ricordavano sempre di me e mi rinnovavano di tanto in tanto gl’inviti a riunioni, conferenze, mi nominavano in qualche Commissione; cosi fui nominata nella Commissione Esecutiva della Camera del Lavoro che a Bologna si stava organizzando: mio marito volle che accettassi tale carica30.

Se la Altobelli vive un rapporto coniugale positivo, e comunque innovativo per i tempi, poiché non era frequente che un marito, pur condividendo gli ideali della moglie, ne accettasse la dimensione pubblica, altre emancipazioniste, come Anna Franchi, vivono situazioni laceranti e lottando per l’introduzione del divorzio, ne ribaltano l’immagine di elemento distruttore della famiglia, considerandolo invece portatore di una nuova moralità, all’interno di nuclei che erano ormai solo esempi di corruzione e sopraffazione.

La genealogia della sua famiglia la destinava per così dire, all’impegno sociale. Il nonno materno per seguire gl’ideali patriottici, aveva trascurato gli affari al punto di rovinarsi economicamente. La nonna aveva protetto attivamente molti cospiratori perseguitati. Anche i nonni paterni condividevano le idee liberali. Il padre di Anna, Cesare, le aveva insegnato a leggere e scrivere; come lei stessa ha lasciato scritto a proposito dell’educazione, era stata ‘cullata al ritmo dei classici’31. Nel salotto della casa livornese si riunivano assiduamente e con regolarità tutti i patrioti amici del padre, seguaci del Mazzini, che le insegnavano a viva voce la storia dei tentativi e delle lotte che avevano portato 1’Italia ad essere uno stato, poco prima che lei nascesse nel 1867.

La Franchi ha scritto: “La mia era una famiglia un po’ troppo seria: mio padre era brillante senza essere mai cupo o immusonito, non sempre aveva voglia di udir ridere una bimba”32. La madre, Iginia, di ventiquattro anni più giovane del padre, passava quasi tutto il suo tempo nel salotto della casa. Anna F. la definisce moglie fedele, ma collega i frequenti stati di malinconia alle sue vicende amorose e ad ambizioni svanite. In gioventù infatti, aveva avuto un amore infelice conclusosi tragicamente con  la morte del pretendente che la famiglia aveva sempre rifiutato e che era annegato nel tentativo di rivederla. Aveva anche amato il teatro, ma il padre l’aveva minacciata ‘del convento e del bastone’, riuscendo a dissuaderla. Iginia occupava il suo tempo a ricamare, dipingere e a creare bellissime composizioni di fiori artificiali, spesso assorta nei suoi pensieri e in parte irraggiungibile. Quando Anna F. inizia lo studio del pianoforte si pensa di mandarla al Conservatorio di Milano, ma poi si abbandona il progetto perché gli zii ritengono disdicevole che diventi ‘un’artista da palcoscenico’. Nel 1881 il violinista Ettore Martini diventa il suo maestro e due anni dopo suo marito, quando Anna ha 17 anni. Nel primo anno di matrimonio Anna ha un figlio che porta il nome del padre, Cesare, poco dopo un secondo, Gino; un altro vive poco più di un anno. Infine, nell’ ’89, l’ultimo figlio, Ivo.

Avanti! del 28 Aprile 1908

Il rapporto coniugale va male fin dagli inizi. Il marito conduce una vita per proprio conto e Anna Franchi abbandona progressivamente le esibizioni al pianoforte dopo avere per breve tempo accompagnato i concerti del marito. Nel 1896 la separazione è un dato di fatto. Insieme alla madre liquida gli ultimi avanzi del patrimonio di famiglia già dissestato quando il padre era ancora in vita. La Franchi deve lavorare per vivere e inizia a scrivere un libro per ragazzi genere cui si dedicherà molto durante il ventennio fascista. Si avvicina anche alla critica d’arte e comincia a collaborare a periodici e quotidiani. La professione di giornalista la mette in contatto  con una delle tematiche tipiche dell’emancipazionismo, il libero accesso alle professioni anche per le donne. Viene accettata nell’Ordine dei giornalisti, seconda donna dopo Anna Kuliscioff. La Franchi descrive in maniera molto efficace il suo primo ingresso nella sede dell’Ordine a Milano:

“La prima volta che mi presentai nella sala di lettura coloro che vi trovai e che non mi conoscevano, mi guardarono direi quasi con apprensione. Una donna? Si leggeva nel loro atteggiamento un certo malessere. Come regolarsi? Una donna e non vecchia. Bisognava farle la corte, trattarla da signora, da femmina o da collega? Nessuna donna frequentava il locale(…)Non nego che una certa timidezza mi prese allorché salite le scale entrai fingendo una disinvoltura che non avevo. La mia presentazione con un buongiorno che ostentava una specie di familiarità fece alzare la testa  a colui che leggeva e chiuse la bocca all’altro. E’ tale l’impressione rimastami per quella specie di presa di possesso del mio stato di giornalista che mi è rimasta perfino la memoria dell’abito che portavo(…)Non so più chi mi domandò con discreta cortesia: Collega? Sì. Di passaggio? No. Penso di rimanere a Milano33”.

Anna Franchi consolida via via le sue simpatie per il socialismo. Accetta di parlare, dopo il deputato Berenini, firmatario insieme all’altro socialista Borciani della proposta di legge sul divorzio, in un comizio al Teatro Politeama di Livorno, gremito di donne, esponendosi in prima persona nella sua città natale. Lo stesso Berenini sarà l’autore della prefazione al romanzo autobiografico della Franchi Avanti il divorzio!, uscito nello stesso anno, 1902. Il libro fu tanto coraggiosamente autobiografico da mantenere il suo nome e quello del marito, modificando solo i cognomi. Il romanzo divenne un testo base nel duello verbale accesosi dentro e fuori il Parlamento tra divorzisti e anti divorzisti34.

A tradurre in pratica quella morale socialista che, all’avanguardia, aveva rifiutato il matrimonio tradizionale fu, forse più delle altre, Maria Giudice. Qualificatasi fin dagli inizi della sua attività di militante e propagandista, socialista “intransigente”, si unì a Carlo Civardi, giovane agricoltore di Stradella, in libera unione, mettendo al mondo sette figli, che divisero con lei situazioni di grande indigenza e difficoltà legate alle conseguenze dell’attivismo politico: il nomadismo da una località all’altra, gli arresti, il carcere, talvolta il licenziamento. Coerente nei suoi ideali politici fino a pagarne tutte le conseguenze, fu in sintonia nella vita privata con la nuova morale socialista che criticava il matrimonio tradizionale borghese in quanto si serviva della maschera dei sentimenti per nasconderne la vera sostanza: un rapporto di proprietà in cui la moglie era, al pari di tante altre merci, un oggetto.

Un’etica laica, è stata definita quella della Giudice, non priva di saldi obblighi morali, come, ad esempio, il rispetto della fedeltà coniugale, postulato che la Giudice osserverà sino in fondo nei confronti di Civardi, e ispirata alla teoria malthusiana della regolamentazione delle nascite; principio quest’ultimo, al contrario, regolarmente disatteso da lei che, anche in ciò, dimostra una larghezza di vedute e un’elasticità di comportamenti non solo con riferimento alla morale cattolica, ma anche in relazione ad alcuni assiomi della morale socialista35.

Un episodio narrato dalla Balabanoff dà una piccola idea della difficoltà di sostenere il peso di tali scelte; nel 1910, Maria Giudice schiaffeggiò il direttore di una rivista clericale che aveva avanzato pesanti riserve sulla sua moralità36.

 

*Fiorenza TariconeProfessoressa in Storia delle Dottrine Politiche, Università degli Studi di Cassino

Fonte: Fondazione Anna Kuliscioff

 

Note

1 Nella Mostra organizzata nel 2015 dalla Fondazione Kuliscioff, Anna Kuliscioff e Angelica Balabanoff: la guerra, l’emancipazione, il voto, nel 90° della scomparsa della Kuliscioff e nel 50° della Balabanoff, era acclusa una raccolta di scritti nella Collana Figure del ‘900, con la Prefazione di WALTER GALBUSERA, Presidente della Fondazione Kuliscioff. Una bibliografia recente è contenuta nel volume Anna Kuliscioff il socialismo e la cittadinanza della donna, a cura di MAURIZIO DEGL’INNOCENTI- FIORENZA TARICONE-PAOLO PASSANITI-LUIGI TOMASSINI, Fondazione A. Altobelli 2015
2 FIORENZA TARICONE, Teoria e prassi dell’associazionismo italiano dal XIX al XX secolo, Cassino, Edizioni dell’Università, 2006, pp. 187-9.
3 Lega Socialista Milanese Programma, «Critica Sociale», a.I, n.6, 20 aprile 1891.
4 Dibattiti intorno al Congresso Il pensiero delle donne socialiste Perché siamo comuniste secessioniste, «La Difesa delle lavoratrici», a. X, n.2, 9 gennaio 1921. La responsabilità era da addebitarsi ai riformisti che dirigevano i sindacati, ma non avevano mai preso sul serio i consigli di fabbrica, disorientando i lavoratori. La Russia invece insegna che “coll’armamento del proletariato, la conquista violenta del potere, e la dittatura s’instaura il regime comunista e noi che accettiamo questi mezzi, come possiamo tollerare al nostro fianco coloro i quali ancora tentano di farci passare attraverso alla trafila delle riforme per raggiungere il medesimo scopo?(…). La reazione dei riformisti è la rivolta delle teorie sconfitte”. Sull’analisi delle tematiche del periodico si veda F. TARICONE, «La Difesa delle lavoratrici»: laboratorio politico, a. XXVII, n. 4 , agosto 1996, rielaborazione del reprint del periodico curato da GIULIO POLOTTI, Istituto Europeo di Studi Sociali, 1992.
5 Le associazioni aderenti alla fondazione del Psi risultano in tutto 194 per Genova e 294 per Reggio Emilia. Per la prima città erano presenti 35 circoli e società politiche, 93 società operaie, 13 fra leghe e fasci, 34 società cooperative, 2 società contadine, 8 fra società educative e culturali, 1 società giovanile, 2 società morali, 5 società ricreative, 1 società di reduci dalle patrie battaglie. Per Reggio Emilia si hanno 96 società politiche, 72 operaie, 63 leghe e fasci, 25 società cooperative, 3 contadine, 20 educative e culturali, due femminili, 6 giovanili, 2 morali, 6 ricreative, nessuna di reduci, in M. RIDOLFI, Il circolo virtuoso sociabilità democratica, associazionismo e rappresentanza politica nell’Ottocento, Firenze 1990, p.85.
6 Z. CIUFFOLETTI-M. DEGL’INNOCENTI-G. SABBATUCCI, Storia  del PSI, Roma-Bari 1992, p.95.
7 Nel 1905 compare su «La donna socialista» un piccolo breviario su che cosa significhi essere socialisti, un decalogo comportamentale e politico: mirare all’abolizione dei privilegi, all’instaurazione dell’uguaglianza sia nel campo politico che in quello economico, mirare a far sì che in ogni società alla divisione antica ed odiosa in poveri e ricchi, in lavoratori e oziosi, si sostituisca una sola classe di cui tutti i componenti, eccettuati i vecchi, gli ammalati, e gli infermi, abbiano l’obbligo e la possibilità di lavorare senza poter far lavorare altri al loro posto e a loro profitto (…) Essere socialista significa credere che quest’opera di trasformazione sociale può essere compiuta sulla terra; che è conforme alle aspirazioni di un cuore generoso e alle esigenze di una intelligenza sana; che è d’accordo con i dati della scienza e con le tendenze dell’evoluzione storica.
8 MARIA GOIA, La cooperazione e la donna, «La Difesa delle lavoratrici», a. I,
n. 3, 4 febbraio 1912.
9 La parola delle lavoratrici, «La donna socialista», a.I, n.15, 28 ottobre 1905. Il giornale uscì nel luglio 1905 per trentanove numeri, intervallati da sequestri, tutti autofinanziati dagli abbonamenti. Le pubblicazioni del giornale cessavano nell’aprile del 1906 e fu considerato una “disfatta” dalla redattrice torinese Annita  Fontana  perché  era  il terzo  tentativo  fallito  in  Italia  dopo  il giornale «Eva» della ferrarese Rina Melli e di «Cronache Femminili» di Emilia
Nel I Convegno provinciale femminile socialista milanese, le relazioni principali erano due, una sull’organizzazione economica, affidata a Abigaille Zanetta e l’altra su quella politica, affidata a Giselda Brebbia10. Alla fine Mariani a Torino, di un giornale femminile che “parlasse proletariamente”, in ANNA CORUZZI,«La donna socialista» Ines Oddone Bitelli, una donna, un giornale, Bologna 1993, p.11.
10 Abigaille Zanetta,
Biografico delle donne lombarde, a cura di RACHELE FARINA, Milano 1995, ad nomen.
11Carlotta Clerici nacque a Milano a metà dell’Ottocento. Di professione maestra, fu compagna d’ideali e di vita di Linda Malnati, con la quale, insieme a Giuditta Brambilla fondò nel 1890 la sezione femminile della Camera del Lavoro di  Milano. Propose ripetutamente la riforma di educandati e orfanotrofi e la ristrutturazione e laicizzazione delle Opere Pie della propria città. Consigliera  della Congregazione di Carità, fu promotrice dell’esperimento, peraltro poco fortunato, dei “nuclei familiari” per le orfane adulte. Fu anche, assieme alla Altobelli, la prima donna  a far parte del Consiglio Superiore del Lavoro; entrò  nel 1912 nel gruppo pro-suffragio femminile milanese che faceva capo all’Unione Femminile. Nel 1918 guidò un Comitato che tentava di risollevare le sorti dell’«Avanti!»compromesse dalla gestione interventista del triennio precedente; su di lei la scheda a firma di BEATRICE PISA, in Dizionario Biografico delle donne lombarde, cit.
Sul ruolo dell’associazionismo socialista femminile a Milano si veda FIORELLA IMPRENTI, Il municipalismo femminile in età liberale, Soveria Mannelli 2012. Argentina Bonetti Altobelli nacque nel 1866 a Imola da famiglia di tradizioni liberali. Passata dal mazzinianesimo al socialismo, fondò a Bologna una Società operaia femminile. Sposatasi col socialista Abdon Altobelli, entrò a far parte della commissione esecutiva della Camera del Lavoro di Bologna. Nel 1901 fu tra i fondatori della Federazione Nazionale dei Lavoratori della terra, di cui assunse la segreteria nel 1906 fino allo scioglimento da parte del fascismo. Riformista, fu un’instancabile organizzatrice; nel ’21, si schierò con la frazione di Concentrazione. Su di lei, la voce relativa in FRANCO ANDREUCCI-TOMMASO DETTI, Il movimento operaio italiano, cit., e gli Atti del Convegno del 1987 intitolati Il  riformismo nelle  campagne. Da Argentina Altobelli all’agronica, a cura  di FULVIO BEATO,Venezia 1989, in particolare MAURIZIO DEGL’INNOCENTI, Argentina Altobelli e la Federterra, pp.40-53 e recentemente, SILVIA BIANCIARDI, Argentina Altobelli e la “buona battaglia”, Milano 2012.
12 Il Consiglio rappresentava Società, Camere di Commercio, Consorzi Agrari,
Banche Popolari, Associazioni operaie e professionali, Lavoratori del mare e della terra.
13  R.  RIGOLA,   La   donna   nei   corpi   tecnici  dello  stato,  «La  Difesa  delle lavoratrici», 3 marzo 1913.
14 M. GOIA, La cooperazione e la donna, «La Difesa delle Lavoratrici», 4 febbraio 1912. Nacque a Cervia, di Romagna, nel 1878; si iscrisse al Partito Socialista nel 1898 e fu poi segretaria della Camera del Lavoro di Cervia e Faenza. Quella di Suzzara fu fondata da lei. Con Maria Biggi, moglie di Angelo Cabrini e successivamente compagna di Meuccio Ruini, entrò nel 1906 a far parte della Commissione Nazionale Femminile del Partito. Fondò e diresse il periodico «Il Seme». Pacifista, fu arrestata e confinata; dopo la scissione di Livorno, rimase attiva nel partito riuscendo a mantenere in vita l’organizzazione socialista locale fino alla sua morte, nel 1924.
15 S. AVONI, Il dovere delle organizzate, «La Difesa delle lavoratrici», 16 marzo 1913. Gina Lombroso, figlia di Cesare L., affermava che “gli scioperi femminili sembrano avere un esito più sfavorevole che i maschili(…)certo quando uomini e donne scioperano insieme le probabilità di vittoria sono minori che quando scioperano soli uomini; il che fa credere che l’influenza femminile sia piuttosto deleteria, a causa dello stato di disorganizzazione in cui si trova il proletariato femminile”, GINA LOMBROSO, I coefficienti della vittoria negli scioperi, Milano 1897, p.19.
16 Congresso Socialista di Ancona. II Convegno Nazionale delle donne socialiste, «La Difesa delle Lavoratrici», 5 aprile 1914.
17 PIETRO PIETROBELLI,    Ai margini del movimento femminile socialista. Una lacuna da colmare, ivi, 18 marzo 1922.
18 TILDE MOMIGLIANO, Non precipitiamo! A Pietro Petrobelli, ivi, 25 marzo 1922.
19 A rispondere alle requisitorie di Proudhon contro le pretese emancipazioniste delle sue contemporanee furono principalmente tre scrittrici e politiche francesi: Jeanne Deroin, Jenny d’Héricourt e Juliette Adam. Si veda il capitolo Le antiproudhoniane, in GINEVRA CONTI ODORISIO- F. TARICONE, Per filo e per segno, Antologia di scritti politici sulla questione femminile dal XVII al XIX secolo, Torino 2008.
20 CHARLES FOURIER, Teoria dei quattro movimenti e altri scritti, a cura di MIRELLA LARIZZA LOLLI, Torino 1972, p.349.
21 Ivi, p.376. L’opinione pubblica era totalmente illogica per Fourier, massimamente con le ragazze incinte. La gravidanza e l’aborto erano considerati crimini, tuttavia dovevano difendere l’onore cancellando le tracce della loro debolezza. Dunque, non erano da biasimare se abortivano all’inizio, quando il feto non era ancora vivo. L’esistenza femminile era un sacrificio continuo, anche nel campo del lavoro, dove l’uomo aveva usurpato anche i lavori del cucito e della penna, mentre le donne si sfiancavano nei lavori di campagna. “Non è scandaloso vedere dei colossi si trent’anni accovacciati dietro una scrivania, o che portano con braccia villose una tazza di caffè?(…), ivi, p.396. Quest’ultimo argomento, cioè la distribuzione del lavoro che non teneva conto della forza fisica, verrà ripreso in Italia anche da Anna Maria Mozzoni.
22 Ivi, p.398.
23 Si veda M. MANFREDI- A. MANGANO, Alle origini del diritto femminile. Cultura giuridica e ideologie, Bari 1983.
24 MICHELA DE GIORGIO, Raccontare un matrimonio moderno, in AA.VV., Storia delle donne in Italia, Roma Bari 1986.
25 ANNA MARIA ISASTIA, L’attività parlamentare di S. Morelli, in S. Morelli, emancipazionismo e democrazia nell’Ottocento europeo, a cura di G. CONTI ODORISIO, Napoli 1992.
26 Sugli autori che si sono espressi all’epoca sul tema del divorzio, si può vedere EMILIO BIANCHI, Il divorzio, considerazioni sul progetto di legge Morelli presentato al Parlamento italiano, Pisa 1879. L’autore, esaminando uno ad uno gli articoli del Morelli,  non  approva  lo  scioglimento  per  incompatibilità  di  carattere perché vicino alla formula dello scioglimento per mutuo consenso, inaccettabile mentre approva l’equiparazione dell’infedeltà fra i due sessi. Le sole cause ammesse di divorzio risultavano quindi l’infedeltà, gli eccessi, sevizie e ingiurie gravi, condanne a pene criminali, assenza dichiarata, volontario abbandono. ENRICO CENNI, in Il divorzio considerato come contro natura e anti giuridico, Firenze 1881, considera il divorzio, con evidente allusione a pensatori come Fourier, come un “insediamento della pornocrazia universale”; Non crediamo sul serio- afferma- che si vorrà rispondere additando qualche raro oscuro o mediocre scrittore o qualche giornale i quali non hanno autorità alcuna, non accettati dalla enorme maggioranza della nazione, e molto meno allegare i capricci nervosi di donne “morelliste” rarissime per fortuna fra noi, ivi,.46. Infine il testo di CARLO FRANCESCO GABBA, Il divorzio nella legislazione italiana, Milano 1902; il  giurista, che da una giovanile simpatia per il divorzio, passò alla posizione opposta, affermò che il matrimonio non era sinonimo di libertà astratta, o utilità privata. Il matrimonio era necessità etica, subordinazione del senso alla ragione, e perfezionamento umano nel senso più ampio, concetti ribaditi anche in uno studio precedente, Della condizione giuridica delle donne, Torino 1880, dove aveva peraltro espresso timide aperture al miglioramento della condizione femminile.
27 PAOLO PILLITTERI, Anna Kuliscioff Una biografia politica, Venezia 1986.
Lo stesso Costa non dimostrò del resto di aver superato del tutto gli steccati morali del proprio tempo, se, dopo aver conosciuto la ventenne Argentina Bonetti, al termine di una conferenza, le disse: “Una figliola come te deve fare all’amore e non occuparsi di politica perché essa è pericolosa e chissà dove potrebbe trascinarti”.
28 MIMMA DE LEO-GIACOMO RECH, La vela e il vento. Socialismo e movimento delle donne dall’Ottocento al Novecento, suppl. al n.12 di «Argomenti Socialisti», nov- dic., 1988, p.18.
29 MARICLA BOGGIO- ANNABELLA CERLIANI, Venezia 1977, p. 65.
31 ANNA FRANCHI, La mia vita, Milano 1940, p.13.
32 Ivi, p. 52.
33 Ivi, p. 236.
34 Recentemente è stato ripubblicato il testo di ANNA FRANCHI, Avanti il divorzio, a cura di ELISABETTA DE TROJA, Firenze 2012.
35 VITTORIO POMA, Una maestra fra i socialisti. L’itinerario politico di Maria Giudice, «Rivista milanese di economia», Serie Quaderni, suppl. n.37, gennaio-marzo 1991, p.30.
36 Si veda sulla Balabanoff, il testo di AMEDEO LA MATTINA, Mai sono stata tranquilla. La vita di Angelica Balabanoff, la donna che ruppe con Mussolini e Lenin, Torino 2011.