AMERICA, PAESE DELLE OPPORTUNITA’ O DEI RICCONI?

di Pierfranco Pellizzetti

«La rivoluzione avverrà in America o non avverrà…Bum!»[1].
Mary McCarthy (vs. Jean François Revel)

«If you want to read a real history book, read Howard
Zinn’s “A People’s History of the United States”.
That book will knock you on your ass»[2].
Matt Damon

 

Howard Zinn, Storia del popolo americano, il Saggiatore, Milano 2017
Fabrizio Tonello
, “L’oligarchia americana”, MicroMega 5/2017

Comprare qualcosa

Le cronache riferiscono che qualche giorno dopo la tragedia dell’11 settembre e il crollo delle Torri Gemelle newyorchesi, mamma Barbara Bush chiamò al telefono il presidente degli Stati Uniti – suo figlio George jr. – chiedendogli come si potesse contribuire alla reazione patriottica post-attentato e quello le rispose di “compiere il gesto americano per eccellenza: andare in un negozio e comprare qualcosa”. Storiella che contiene, al tempo stesso, tanto un po’ di vero come di falso. Una verità di superficie, smentita dell’effettiva natura profonda di quello stato continentale nato dall’insurrezione delle Tredici Colonie nel fatidico 16 dicembre 1773 e che chiamiamo “rivoluzione americana”. Scoppiata per una questione di tasse.

In effetti – come ha dettagliatamente illustrato Victoria De Grazia, storica della Columbia University – già agli inizi del Novecento la democrazia degli affari americana aveva teorizzato con il presidente Woodrow Wilson la creazione di un grande emporio mondiale guidato dagli States, che sostituisse con lo scambio delle merci la bellicosità imperiale degli europei: «gli Stati Uniti si consacravano come il primo regime al mondo basato sui consumi di massa»[3].

Un’invenzione, a conferma che il popolo e i suoi orientamenti sono una costruzione sociale; non un dato immutabile, per così dire, “spontaneo”.

Difatti, nel caso americano, siamo in presenza di una sapiente operazione manipolatoria a misura delle esigenze insite nella nascente produzione di massa. Ce lo raccontava anni fa Jeremy Rifkin: «convertire gli americani dalla psicologia della sobrietà a quella della spesa si rivelò un compito assai difficile. L’etica protestante del lavoro, che dominava lo spirito della frontiera americana, aveva radici molto profonde. La parsimonia e il risparmio erano le chiavi di volta dello stile di vita americano, elementi fondamentali della tradizione yankee che aveva avuto una funzione di guida per intere generazioni e costituiva un punto di riferimento per milioni di emigranti che speravano in un futuro migliore. Per la maggioranza degli americani, la virtù del sacrificio di se stessi continuava ad avere il sopravvento sul richiamo dell’immediata gratificazione»[4]. Sicché la comunità degli affari si diede il compito di cambiare radicalmente la psicologia che aveva costruito la nazione, con l’obiettivo di trasformarne la popolazione da investitori nel futuro in consumatori nel presente. E lo strumentario per realizzare l’operazione fu molteplice quanto ingegnoso: dall’invenzione del marketing alle vendite rateali. Ma ci volle quasi un secolo per raggiungere definitivamente l’obbiettivo atteso: la tossicodipendenza consumistica collettiva di vivere al di sopra dei propri mezzi, grazie a quella bolla drogata di denaro in prestito che esploderà periodicamente; come si è visto per l’ennesima volta nell’ultima grande recessione, datata 2008-2011. Nel frattempo le distanze sociali si allungavano, nel corso di quella che Thomas Piketty definisce «la rivoluzione conservatrice anglosassone degli anni settanta-ottanta»[5].

Il peccato originale stelle-e-strisce

Nel recente intervento apparso su MicroMega, in cui si sostiene che «il fenomeno Trump è incomprensibile al di fuori di un’analisi di lungo periodo dell’esplosione della disuguaglianza negli Stati Uniti», l’americanista Fabrizio Tonello, professore dell’Università di Padova, individua la matrice di tale patologia nel fatto «che gli Stati Uniti di oggi rappresentano l’idealtipo dell’oligarchia».

Tuttavia il suo “lungo periodo” rispetto a questa cronica frattura strutturale, ormai incolmabile, tra in e out si circoscrive al Novecento. Tanto da utilizzare come pezza d’appoggio la riflessione sull’attualità del post-filosofo postmodernista Richard Rorty; il quale, nel suo pamphlet su “l’eredità dei movimenti progressisti americani del Novecento”, denuncia la formazione di una sorta di “Partito interno dei super-ricchi” il cui scopo principale è quello di «mantenere il più povero 75% degli americani e il più povero 95% della popolazione mondiale occupato in conflitti etnici e religiosi e in dibattiti sulle abitudini sessuali»[6]; per evitare che si renda conto della propria effettiva condizione. Operazione – prosegue Rorty – facilitata dal fatto che «un qualche giorno degli anni Settanta l’idealismo della classe media americana è andato in stallo. Sotto i presidenti Carter e Clinton, il Partito Democratico è sopravvissuto allontanandosi dai sindacati e da ogni accenno alla redistribuzione, e spostandosi in un vuoto sterile chiamato ‘centro’»[7].

Ma è questa la datazione corretta?

In effetti potrebbe fornire ulteriori (e decisive) conferme a tale analisi demistificante, insieme a una più convincente cronologia, tenere conto della ricostruzione – certo non meno dissacrante quanto significativamente retrodatata – proposta dallo storico radicale militante Howard Zinn (1922 – 2010); nel suo classico saggio “Storia del popolo americano”: in estrema sintesi, l’ineguaglianza come vizio di nascita della nazione stellata in quanto plutocrazia coloniale (condizione riscontrabile ben prima del distacco dalla madre patria britannica).

Testo già pubblicato da il Saggiatore nel 2005 e che ora lo stesso editore ci ripropone aggiornato e arricchito di 250 pagine.

Insomma, certamente la situazione è andata incancrenendo nell’esaurimento della stagione newdealistica a partire dalla presidenza Reagan (per cui Tonello annota che «le famiglie senzatetto, che nel 1981 erano praticamente inesistenti, nel 1989 erano già 20mila, e se già nel 2005 rappresentavano un terzo dei poveri senza fissa dimora, nel 2014 costituiscono più del 36 per cento della popolazione dei senza casa»[8]). Ma – come si diceva – la causa viene da molto, molto, più lontano. Nel momento fondativo: l’originario cuore di tenebra insito nella «contraddizione di un paese ricchissimo che ospita milioni di poverissimi»[9]. Una moltitudine depistata e irretita ma – comunque – ansiogena per privilegiati che ne percepiscono i rischi insiti nella sua precarietà potenzialmente ribellistica e sovversiva. Che – appunto – data da secoli. Se è vero che gli studi sui contribuenti di Boston mostrano come nei primi anni Settanta del Settecento – quindi già prima della grande insurrezione – il 5% degli abitanti che costituiva la fascia dei maggiori contribuenti detenesse il 49% dei beni soggetti a imposizione fiscale. E la stessa concentrazione di ricchezza era riscontrabile anche a Philadelphia o New York.

Una situazione che continua da secoli.

Per quanto riguarda la situazione odierna, un rapporto pubblicato a dicembre dall’Università di Berkeley dagli economisti Thomas Piketty, Emmanuel Saez e Gabriel Zucman sulla diseguaglianza sociale negli Stati Uniti rivela un’immensa redistribuzione della ricchezza dalla classe lavoratrice ai ricchi. La quota netta del reddito nazionale del 50% più basso è caduta dal 20% del 1980 al 12 % nel 2014, mentre la quota di reddito dell’1% più ricco è quasi raddoppiata al 20%. L’1% più ricco possiede ora oltre il 37% della ricchezza nazionale, mentre il 50% costituito dagli strati sociali più bassi – circa 160 milioni di persone – non possiede quasi niente, un mero 0.1%.

Commenta Zinn: «La Rivoluzione americana, sotto questo profilo, fu un’impresa geniale, e i padri fondatori meritano l’omaggio ammirato che è stato loro tributato nel corso dei secoli. Crearono il sistema di controllo nazionale più efficace dei tempi moderni e mostrarono alle future generazioni di leader i vantaggi che si ottengono associando il paternalismo al comando».[10] E più avanti, «abbiamo la prefigurazione di una caratteristica duratura della politica americana, che ha spesso visto politici appartenenti alla classe superiore sfruttare l’energia della classe inferiore per raggiungere i propri scopi»[11]. Quell’equilibrio di cui si diceva, mantenuto fomentando ricorrenti “guerre tra poveri”. Allora proletari bianchi contro i nativi, gli schiavi neri, le giubbe rosse di re Giorgio III… Operazione aggiornata nei conflitti tra ultimi e penultimi etnici, per giungere all’attuale guerra civile tra abbienti e non; secondo quanto dichiara compiaciuto il mega-plutocrate Warren Buffett: «c’è una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo»[12].

Per cui si potrebbe dire che se di certo gli Stati Uniti sono “liberali” (nel senso anglosassone di libertà come sinonimo di proprietà), molto più problematico diventa definirli anche “democratici”, nel senso pieno del termine.

Mimetismo manipolatorio

Improntitudine di Buffett a parte, una situazione effettiva da tenere prudentemente “coperta”. Fin dagli inizi. Mettendo in campo operazioni di stampo comunicativo declinato mimeticamente al servizio dell’ideologia proprietaria nordamericana.

Si parlava del depistaggio ottenuto indirizzando il risentimento verso bersagli di comodo. A fianco di questa invenzione del “nemico” già i sagaci Padri Fondatori – tra l’altro in gran parte proprietari terrieri – si specializzarono in operazioni finalizzate a promuovere processi di identificazione psicologica nelle condizioni degli sfruttatori da parte delle masse sfruttate. La creazione di un fittizio sentire di “appartenenza gratificante”, assolutamente funzionale al mantenimento dello status quo; dei suoi equilibri di potere e di controllo della ricchezza. Quell’operazione, perpetuata nei secoli, che ha fatto osservare al direttore de Le Monde Diplomatique Serge Halimi – riprendendo uno studio pubblicato da il The Economist del 6 dicembre 2003 – come «il 19 per cento dei contribuenti crede di fare già parte dell’1 per cento dei contribuenti più ricchi e il 20 per cento immagina di raggiungerla ben presto»[13].

La cosiddetta “illusione del benessere” che diffonde una coscienza di classe fasulla e – al tempo stesso – spiega una serie di esiti elettorali apparentemente incomprensibili, quanto certamente autolesionistici; dall’appoggio popolare alla reaganiana America is back fino al First America di Trump: l’odio pregiudiziale contro gli effetti redistributivi delle tasse e quanto abbia sentore di “pubblico”, sanità in primis. Il contestuale entusiasmo per le politiche destrorse (ormai bipartisan) tipo “Robin Hood alla rovescia”, grazie alle quali si spoglia il popolino a beneficio dei ricchi; con il beneplacito di penalizzati, beatamente illusi di esserne i privilegiati.

La cornice ideologica di tale operazione attualmente risulta duplice: un’azione dichiarativa di stampo mistificatorio, per convincere la pubblica opinione che l’ordine vigente corrisponde al “migliore dei mondi possibili” e un retro-pensiero che criminalizza chi in tale ordine non è stato capace di integrarsi.

Nel primo caso, che vede all’opera in misura spudorata la pratica della cosiddetta post-verità (insomma, “ballismo” accreditato attraverso la reiterazione ossessiva), si passa dall’acronimo thatcheriano TINA (there is no alternative) al mito rivisitato del One Best Way. Da qualche mese circola un saggio, pubblicato dal solito Saggiatore (nella sua oscillante politica editoriale odierna) che ribatte colpo su colpo le critiche mosse negli ultimi anni alla finanziarizzazione del globo. Un gioco delle tre carte opera del direttore dell’International Center of Finance dell’Università di Yale William Goetzman, in cui il pompierismo diventa apologetica puramente assertiva, priva di riscontri fattuali: «la tecno-finanza di fatto ha democratizzato il capitale. Un’infrastruttura finanziaria in grado di incanalare gli investimenti di coloro che detengono la ricchezza verso chi invece ha dalla sua le idee è al tempo stesso in grado di generare tanto una crescita quanto una più ampia partecipazione a quella stessa crescita»[14]. Idilliaco! Però bisognerebbe andare a spiegarlo a milioni di cittadini ridotti allo stato di dropout dall’esplosione delle bolle finanziarie di questi anni e dall’azzeramento dei loro risparmi per le acrobazie truffaldine di banche, assicurazioni e fondi d’investimento.

Infatti, la tesi pelosamente rassicurante si fonda su un’idea della finanza anodina e deliberatamente semplificatoria, che la accredita retrodatandone fantasiosamente la comparsa a 5mila anni fa, nella Mesopotamia sumerica, come «capacità di trasportare il valore economico avanti e indietro lungo la linea del tempo»[15]. Insomma, un servizio assolutamente neutrale che non ha riscontro nel mondo della vita, dove è la speculazione a farla da padrona. Nella deliberata ignoranza che l’attuale passaggio dalla fase industrialista alla globalizzazione finanziaria non si connota per il semplice maneggio del denaro, bensì per l’accumulo di ricchezza ottenuto attraverso la presa di distanza dalla società materiale.

Quanto sottolinea una definizione di segno opposto, fornita dal sempre rimpianto Luciano Gallino dell’Università di Torino: «la finanziarizzazione è un gigantesco progetto per generare denaro mediante denaro, riducendo al minimo la fase intermedia della produzione di merce o, preferibilmente, saltandola per intero. Sviluppatosi come formazione dalla base eminentemente industriale, il capitalismo l’ha abbandonata nell’ultimo terzo del Novecento per diventare via via, più che un produttore di merci dal tangibile valore d’uso, soprattutto un produttore di rendite»[16]. Appunto, quella produzione di “denaro a mezzo denaro” che dall’ultimo quarto del secolo scorso (come in precedenti fasi storiche) ha mutato l’economia reale in fittizia, producendo quanto ormai abbiamo sotto gli occhi: crisi delle imprese, disoccupazione crescente, peggioramento delle condizioni degli occupati residuali, emarginazione del lavoro femminile, riduzione delle protezioni sociali.

Se poi il coro angelico politicamente corretto del pluralismo inclusivo (che, secondo il politologo di Harvard Robert Putnam, «canta con un forte accento altoborghese»[17]) dovesse mostrare la corda, c’è sempre la soluzione di riserva: la politica della paura. Come ci ricorda giustamente il professor Tonello.

Homeless e immigrati vengono trasformati in un nemico sociale, contro cui bisogna difendere se stessi e il proprio patrimonio, in primo luogo creando barriere alla partecipazione elettorale di questi “scarti umani”. Da cancellare, visto che la loro sola presenza suona a negazione del sogno americano.

Una criminalizzazione del povero che è presente da secoli nella cultura protestante, in particolare anglosassone. Non per niente un maître à penser dei plutocrati bostoniani quale Beniamino Franklin teorizzava il principio che meno si farà per i poveri “meglio riusciranno a cavarsela”. David Ricardo, nei suoi Principi di economia politica, poteva scagliarsi contro ogni forma di assistenza sociale che – a suo dire – avrebbe trasformato “la potenza e la ricchezza in miseria e debolezza”; il cugino di Charles Darwin – Francis Galton, inventore della pseudo-scienza Eugenics – proporrà addirittura la sterilizzazione dei “poveri inutili”, rei di infettare la razza inglese con i loro vizi e con l’incapacità “costituzionale” di inserirsi nel mondo del lavoro.

D’altro canto, si tratta di quell’orientamento che oggi sta contagiando anche le società europee di tradizione cattolica, un tempo refrattarie a tale pregiudizio, a seguito dell’inarrestabile americanizzazione colonizzatrice dei nostri immaginari.

NOTE

[1] M. McCarthy, introduzione a Né Cristo, né Marx di J. F. Revel, Rizzoli 1972

[2]“ Will Hunting, genio ribelle”, film del 1997 diretto da Gus Van Sant

[3][3] V. De Grazia, L’impero irresistibile. Einaudi, Torino 2006 pag. XVII

[4] J. Rifkin, La fine del lavoro, Baldini & Castoldi, Milano 1995 pag. 48

[5] T. Piketty, Il Capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2014 pag. 511

[6] R. Rorty, Una Sinistra per il prossimo secolo, Garzanti, Milano 1999 pag. 89

[7] Ivi pag. 88

[8] F. Tonello, cit.

[9] ivi

[10] H. Zinn, cit. pag. 69

[11] Ivi pag.71

[12] D. Harvey, L’enigma del capitale, Feltrinelli, Milano 2011 pag. 261

[13] S. Halimi, Il grande balzo all’indietro, Fazi, Roma 2006 pag. 50

[14] W. N. Goetzman, Denaro, il Saggiatore, Milano 2017 pag. 621

[15] Ivi pag. 10

[16] L. Gallino, Il Denaro, il Debito e la Doppia Crisi, Einaudi, Torino 2015 pag. 35

[17] R. Putnam, Capitale sociale e individualismo, il Mulino, Bologna 2004 pag. 417

(7 febbraio 2018)

Fonte: Micromega