LA QUESTIONE NAZIONALE

Già la guerra di Libia avrebbe dovuto metterli sull’avviso. La risposta che era stata data dal sindacato e dal partito aveva ricalcato fedelmente i canoni dell’ideologia pacifica e internazionalista che aveva accompagnato il PSI dalla sua nascita.

La “questione nazionale” non aveva occupato l’attenzione di nessuno dei teorici “riformisti” o “rivoluzionari” perché nei vent’anni precedenti essa era stata sostituita dalla “questione sociale”, che era indubbiamente la più pertinente alla vita e allo sviluppo del movimento socialista. Qualcuno, come Antonio Labriola, aveva manifestato il suo assenso per l’espansione coloniale del capitalismo italiano: ma era stato il risultato di un’analisi “marxista”, che aveva destato, più che altro, curiosità e stupore.

Certo dalla tradizione risorgimentale che in una qualche misura i socialisti avevano ereditato da Garibaldi, da Pisacane e da altri socialisti dell’Ottocento, il tema della “questione nazionale” aveva in qualche modo continuato a vivere nell’animo di alcuni intellettuali socialisti, soprattutto come sentimento di solidarietà per i popoli oppressi. Ora essa tornava in campo, con la prepotenza degli eventi che si susseguivano con la rapidità del vento.

La propaganda nazionalistica, essenzialmente antidemocratica e conservatrice, tranne che per alcune eccezioni, non aiutava affatto alla comprensione del problema: anche se alcuni scrittori nazionalisti, come Corradini e Sighele, avevano avvertito l’esigenza di collegare il discorso nazionale al discorso sociale, tentando una difficile, e forse impossibile, sintesi tra le esigenze del movimento operaio e quelle nazionali.

Cos’è che divideva il nazionalismo e la sua cultura dal socialismo e anche dalla democrazia?

In questo quadro – commenta Giorgio Galli nella sua disamina storica – si appalesa in tutta la sua evidenza… di fronte a tutte le forze: da quelle economiche, ben note, a quelle psicologiche, trascurate, che si scatenano nell’estate 1914“.

La stragrande maggioranza dei socialisti scelse in realtà la strada più tradizionale, mitigandola proprio per tener conto delle “forze psicologiche” che emergevano nell’opinione pubblica e degli orientamenti dei poteri reali, dalla monarchia all’esercito e alla grande industria, che buttavano alle ortiche la vecchia politica triplicista e si apprestavano a schierarsi a fianco della Francia e dei suoi alleati.

La posizione sostanzialmente neutralista dei socialisti corrispondeva, per onore della verità, al sentimento più diffuso tra i militanti, che erano pacifisti e in larga parte antimilitaristi (non si dimentichi che appena qualche mese prima la “settimana rossa” era nata da una manifestazione antimilitarista).

La formula coniata dal segretario del partito, Costantino Lazzari, “né aderire né sabotare“, all’atto dell’entrata in guerra, era, allo stato delle cose, la più corrispondente ai sentimenti delle masse. Né, come è noto, il neutralismo era solo dei socialisti: era anche la posizione dei cattolici, quella di Giolitti e dei giolittiani. Ecco la ragione per cui l’interventismo democratico di Bissolati (già fuori del partito) e l’interventismo rivoluzionario di Mussolini (che ne venne espulso) finirono per avere una scarsa incidenza sulla base socialista.

A distanza di tempo si può fare un’opera di revisione critica dell’atteggiamento neutralista, ma occorre serenamente riconoscere che esso corrispondeva al modo di pensare della stragrande maggioranza dei socialisti in quel momento. Altre ipotesi come quella dell’interventismo nel suo duplice aspetto, o quella leninista, che fu appena conosciuta in Italia, furono in realtà ipotesi che almeno all’inizio del conflitto appartennero a ristrette minoranze, sempre se si fa riferimento al mondo popolare e all’area del socialismo.

Per quanto riguarda Mussolini, il suo mutamento di posizione fu senza dubbio troppo rapido e troppo brusco: in pochi mesi, dal giugno all’ottobre, egli passò da una posizione antimilitarista, pacifista e sovversiva, di cui al momento della “settimana rossa” era stato il fautore e il propagandista più scalmanato, a quella di interventista attivo, cioè di interventista “prima” che la patria fosse in guerra.

Lungi da noi ogni indulgenza a forme di dietrologia, che tra l’altro spiegano poco o addirittura nulla. Interessa soltanto il pettegolezzo e l’aneddotica storica il discorso sui veri o presunti finanziamenti stranieri. Quello che importa rilevare per un corretto giudizio sui fatti del tempo, è che Mussolini non fu in grado allora, né mai, di spiegare in modo convincente questo brusco passaggio da una posizione estrema a un’altra, altrettanto estrema anche se opposta a quella precedente. Sarebbe stato più comprensibile un suo trascorrere a una posizione interventista se ciò fosse avvenuto nel maggio del 1915, “dopo” l’entrata in guerra dell’Italia. Resta difficilmente spiegabile come un uomo che nel giugno del 1914 si atteggiava ostentatamente a leader del sovversivismo e dell’odio antimilitarista, nel volgere di un’estate – sia pur carica di eventi drammatici – si trasformi in un acceso sostenitore dell’intervento militare italiano. Da questo punto di vista appare scarsamente attendibile anche il paragone con Guesde e con i socialisti francesi, i quali si risolsero a schierarsi per la difesa della Francia quando il loro paese era già sotto la minaccia degli Imperi Centrali.

Forse l’atteggiamento di Mussolini può paragonarsi a quello che, sulla sponda opposta avevano assunto i socialdemocratici tedeschi, i quali avevano votato i crediti di guerra. Ma i socialdemocratici tedeschi non erano stati, come lui, su posizioni rivoluzionarie e antimilitariste fino a pochi mesi prima, quando dalle colonne dell'”Avanti!” incitava all’odio di classe, all’attacco fisico anche contro l’esercito, oltre che contro il capitalismo e la monarchia.

Dalle colonne dello stesso “Avanti!” il 18 ottobre 1914 Mussolini confermava le voci che già circolavano da qualche settimana circa un suo sorprendente mutamento di opinione rispetto alla posizione neutralistica assunta dal partito.

Per la verità, come scrive Leo Valiani, “alcuni socialisti indipendenti, come Battisti, Salvemini, Giuseppe Lombardo Radice, e dei libertari come Massimo Rocca, premettero pubblicamente su di lui” perché assumesse questa posizione. Valga per tutte la lettera che gli indirizzò Gaetano Salvemini.

Mussolini rimase del tutto isolato nella riunione della direzione del partito che confermò la linea neutralista, e dovette dimettersi dal posto di direttore dell'”Avanti!” che, per la verità storica, aveva riportato a tirature allora vertiginose. Sfruttò subito la sua indubbiamente eccezionale capacità giornalistica fondando “Il Popolo d’Italia“, dalle colonne del quale iniziò immediatamente una incandescente campagna a favore dell’intervento, definendo la guerra, tanto per non smentirsi del tutto, come “intrinsecamente rivoluzionaria”.

I fedeli che lo seguirono, dopo la sua espulsione dal PSI, furono in numero limitato, anche se combattivi. L’espulsione fu un atto di intolleranza politica, fu probabilmente inutile, perché Mussolini era isolato. Era stato però Mussolini stesso ad inaugurare la politica delle espulsioni, con i revisionisti bissolatiani prima, con i massoni dopo. Si potrebbe dire “chi di spada ferisce…“. In ogni caso Turati fu contrario.

Subito dopo la conversione di Mussolini all’interventismo, Giovanni Zibordi scriveva sulla “Critica Sociale” che l’originario neutralismo di Mussolini non aveva significato affatto deprecazione della guerra. Al contrario, allo scoppio del conflitto egli non celava affatto la sua gioia “per la smentita che l’immane catastrofe prorompente infliggeva a quei marmottoni di riformisti positivisti che – a suo dire – avevano esiliato le catastrofi dalla storia”. Egli vedeva nel conflitto “il. mito che s’adempie; l’imprevisto che scoppia; il destino che matura“, tant’è che nella riunione della direzione del partito, a Bologna nell’ottobre del ’14 Mussolini esclamava: “O gettiamoci nella guerra, o con il nostro consenso; o gettiamoci contro la guerra o con la rivolta!“. Tra le due anime rivoluzionarie, quella interventista e quella leninista, Mussolini sceglieva la prima, anche se tutto il suo passato avrebbe dovuto far presumere che egli avrebbe scelto la seconda.