LIBERI E UGUALI MA PUR SEMPRE REFRATTARI AL SOCIALISMO

di Carlo Patrignani Alla fine, per rifarsi all’Ars poetica di Orazio: parturient montes, nascetur ridiculus mus (i monti avranno le doglie, nascerà un ricolo topo) la montagna ha partorito la carovanina rossa dei Liberi e Uguali, che d’ora in avanti dovrà dimostrare, come narra, di rappresentare la titolarità dell’onda maestosa dei più di 19 milioni di No al referendum del 4 dicembre scorso. Un’impresa questa assai ardua: chi può dire, tra coloro che si sono schierati per il No, quanti di quei 19.419.507 pari al 59,1% sono propri elettori, specie in un contesto in cui l’astensione, per la disaffezione crescente verso la partitocrazia, marcia a livelli vicinissimi al 50, e, in alcuni casi, addirittura superiori alla metà degli aventi diritto? E tra i tantissimi No quanti sono – soprattutto tra i giovani accorsi numerosi ai seggi – coloro che non condivevano le contro-riforme istituzionali del governo in carica e quanti hanno utilizzato il voto referendario per indicare con il No il loro pollice verso sul premier di allora, Matteo Renzi? Intestarsi, anche parzialmente, la straordinaria vittoria referendaria, è scorretto: basta vedere le disastrose – tanto per il Pd di Renzi, non più premier, quanto per la sinistra a sinistra del Pd – elezioni regionali in Sicilia per rendersi conto che l’onda maestosa ritiratasi ha lasciato sulla spiaggia il 53,24% del non voto, più di un elettore su due e ha spinto il ritorno al governo del risorto centro-destra. Liberi e Uguali non è la riedizione, dieci anni dopo il tracollo del 4 aprile 2008, della Sinistra Arcobaleno ma quasi: entrambe le carovane rosse discendono dal vecchio Pci del centralismo democratico e entrambe, al di là di richiami formali, i conti con il socialismo e le diverse anime europee -laburismo e/o socialdemocrazia – non li hanno fatti e non intendono farli. Lo stesso dicasi del Pd di Renzi: pur se ha aderito al Pse, di socialismo nelle sue scelte – emblematica l’abrogazione dell’art.18 dello Statuto dei Diritti dei Lavoratori  propedeutica al Jobs Act che avrebbe prodotto un milione di posti di lavoro tutti da dimostrare, e forse più virtuali che reali – se ne è vista poco, ce ne è assai poco: per entrambi – Pd e Liberi e Uguali – la parola laicità è totalmente sconosciuta. Eppure basterebbe volgere lo sguardo al di là delle Alpi dove un distinto signore di 68 anni, Jeremy Corbyn, sta realizzando giorno dopo giorno una seconda rivoluzione in Inghiliterra: il Labour Party  ripulito – a differenza del Pd renziano e delle carovane rosse alla sua sinistra – dai Blaires dinosaurs, quelli del libero mercato che aggiusta tutto, è dato dal sondaggio di Survation, l’istituto che indovinò i clamorosi risultati delle elezioni di giugno scorso, ben otto punti avanti ai Tories della Premier Theresa May: 45% ai laburisti e 37% ai conservatori. Si dirà: qual’è la differenza? Sta tutta nella credibilità e coerenza di Corbyn, laburista da sempre: qualità che alimentano la diffusa popolarità tra i giovani, i ceti popolari e la middle class, ma che mancano all’establishment a trazione catto-comunista e ex-comunista: Pd e carovane varie. Poi gli apprezzamenti dello storico Luciano Canfora tutti i punti di riferimento che abbiano un richiamo esplicito al socialismo vanno benissimo come appunto Corbyn o quelli di Pippo Civati libertà, uguaglianza e socialismo sono parole antiche ma sempre attuali, lasciano il tempo che trovano perchè vengono dall’establishment poco credibile, coerente e quindi poco popolare. Fonte: alganews.it SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

CAPITALISMO E SOCIALISMO

Economia e società nella prima metà dell’Ottocento Nella prima metà dell’Ottocento, in seguito all’estensione della Rivoluzione industriale, la divisione della società fra proletari e capitalisti diventa sempre più evidente. La principale caratteristica di questo periodo consiste nel trionfo di un’economia fondata sul mercato. In altri termini, viene a compimento quel processo, già iniziato da tempo, ma che subisce nell’Ottocento una brusca accelerazione, per il quale non si produce più per il consumo, ma per mercati sempre più vasti, a livello nazionale ed internazionale. Insieme con il mercato e la rapida moltiplicazione degli scambi, gli altri due protagonisti della prima Rivoluzione industriale sono il capitale e il lavoro salariato. Si verifica una netta distinzione tra l’imprenditore, fornito di capitali, e coloro che lavorano per lui. Le nuove ricchezze prodotte si distribuiscono in modo molto ineguale. La diffusione di sistemi di produzione capitalista provoca un fenomeno sociale rilevante: la progressiva eliminazione di varie categorie di lavoratori indipendenti e la loro trasformazione in salariati o, come si comincia a chiamarli, in proletari. Si è molto discusso sulle condizioni delle classi lavoratrici in questo periodo. Prima di tutto occorre notare che, nella logica del capitalismo, il lavoro è considerato una merce come le altre, che si compra e si vende sul mercato. Le frequenti crisi economiche e la conseguente disoccupazione sono minacce sempre pendenti sulla testa dei lavoratori salariati ed in particolare degli operai di fabbrica, subordinati e legati al ritmo delle macchine. Questi ultimi ricevono paghe in genere superiori a quelle degli altri lavoratori salariati, ma non si può non considerare la gravosità degli orari di lavoro, le cattive condizioni igieniche e di sicurezza, la disciplina da caserma vigente nelle fabbriche. In Inghilterra nascono le prime forme di resistenza e di tutela dei lavoratori dell’industria. L’impossibilità di ogni protesta legale scatena dapprima una reazione negativa e violenta contro l’introduzione delle macchine e la proletarizzazione del lavoro operaio: è il fenomeno del luddismo, al quale aderiscono gruppi di operai, che si danno alla distruzione delle macchine e all’incendio degli stabilimenti. In seguito sorgono le prime forme di associazione tra operai, le Trade Unions, inizialmente segrete, poi legalmente riconosciute. Le origini del socialismo Alla maturazione del movimento proletario danno un importante contributo i primi teorici del socialismo (tra i quali ricordiamo i Francesi Saint-Simon, Fourier e Proudhon, e l’Inglese Owen); essi, ognuno a suo modo, intraprendono il progetto di un nuovo tipo di società, un nuovo ordine sociale. Le prime teorie socialiste hanno appunto la funzione di mettere in rilievo i problemi sociali derivanti da un tale sistema di produzione e organizzazione della ricchezza, e di emancipare l’uomo dalle contraddizioni dell’età industriale capitalistica. Karl Marx e la fondazione del “socialismo scientifico” Il massimo contributo alla fondazione teorica del socialismo è però dato da Marx ed Engels, che insieme elaborano il Manifesto del partito comunista, pubblicato all’inizio del 1848. I due autori ritengono che il sistema capitalistico, dopo aver stimolato efficacemente lo sviluppo delle forze produttive, sia ormai diventato un ostacolo all’ulteriore progresso: esso deve perciò essere abbattuto da una rivoluzione, che lo sostituirà con un sistema comunistico, caratterizzato dalla proprietà comune, e non privata e individuale, dei mezzi di produzione. Questo risultato, necessario per la liberazione di tutti gli uomini, si può raggiungere solo contrapponendo all’organizzazione internazionale del capitale l’organizzazione internazionale dei lavoratori, alla quale – secondo Marx ed Engels – spetterà il compito di fondare una società senza classi. Marx ed Engels elaborano i principi fondamentali del materialismo storico e del cosiddetto socialismo scientifico: la storia dimostrerebbe – sostiene il Manifesto – che lo sviluppo stesso della società capitalistica comporta il continuo aumento del numero dei proletari, elimina le classi intermedie e divide la società in due grandi classi direttamente contrapposte, borghesia e proletariato. L’inasprimento dei conflitti di classe preparerebbe le condizioni per lo scontro finale, che si dovrebbe concludere con la vittoria del proletariato e con l’avvento di una società comunista. Il socialismo di Marx si definisce “scientifico” in quanto si fonda non su desideri personali dell’autore, ma su analisi molto accurate della società esistente, condotte in una serie di saggi e in particolare nell’opera Il capitale. La Prima e Seconda Internazionale Coerentemente con queste premesse, Marx ed Engels partecipano nel 1864 alla fondazione della Prima Internazionale, associazione di operai, contadini e intellettuali, fondata allo scopo di coordinare sul piano mondiale la lotta contro il capitalismo. L’internazionale prese posizione contro la guerra franco-prussiana, scoppiata nel 1870 e, l’anno seguente, fu a favore della nascita della Comune di Parigi, intervenendo attivamente nelle sue vicende storiche; ciò contribuì ad una sua ulteriore espansione. Questa associazione è però lacerata da contrasti insanabili fra marxisti e anarchici, seguaci di Bakùnin: i marxisti puntano sulla lotta di classe condotta dalle grandi masse, che si dovrebbe concludere con la conquista del potere politico e la collettivizzazione dei mezzi di produzione; gli anarchici credono invece nei metodi rivoluzionari tradizionali delle congiure e degli attentati, e sono contrari ad ogni forma di collettivismo. Il Consiglio dell’Internazionale fu trasferito a New York. Nel 1876 al Congresso di Filadelfia venne deliberato il definitivo scioglimento dell’Associazione. Il suo compito, secondo Marx, era stato portato a termine e si doveva lasciar spazio allo sviluppo di partiti operai e socialisti in ogni paese. Gli anarchici, molto diffusi in Svizzera, Spagna, Italia e Russia si riunirono in una struttura parallela all’Internazionale, chiamata Alleanza della Democrazia Socialista o “antiautoritaria”, che si definì prosecutrice dell’originaria organizzazione, con sede a Ginevra. L’influenza anarchica in Europa tese a diminuire sempre più col tempo. Durante la prima internazionale vi fu anche uno scontro fra il delegato italiano, inviato da Giuseppe Mazzini, ed i marxisti. I mazziniani infatti erano decisamente contrari alle teorie che prevedevano la lotta di classe (pensavano di risolvere i problemi sociali attraverso la solidarietà nazionale), ma nello statuto provvisorio Marx aveva già inserito dei punti che qualificavano in senso classista l’organizzazione. In seguito infatti anche i mazziniani si ritirarono dall’Internazionale (al contrario di Garibaldi, che espresse il suo favore verso l’Internazionale). La Seconda Internazionale, fondata a Parigi nel …

LA “FELICE GIOVINEZZA”DEL SOCIALISMO

di Domenico Argondizzo Prendo le mosse da un concetto chiaramente espresso nell’editoriale “Il socialismo, l’Italia e l’Europa”, su «mondoperaio» n. 6/2012. Si parla della necessaria presenza sullo scenario politico-elettorale di opzioni ben radicate nella cultura politica europea. Lo esige la profondità della crisi, che postula risposte innovative sia sul piano sociale (crisi fiscale e riforma del Welfare), sia sul piano economico (limiti al capitalismo finanziario), sia infine sul piano politico (ruolo degli Stati-nazione e democratizzazione dell’Unione europea). Come contributo, anche in occasione del centoventicinquesimo anniversario della fondazione del Partito socialista, mi permetto di richiamare un po’ di anima e respiro socialista, poggiandomi su alcuni documenti che si collocano in un passaggio cruciale della storia del movimento socialista, a cavallo tra la sua massima affermazione nella società italiana ed in Parlamento, ed il suo assassinio. Se infatti è necessaria la presenza anche e soprattutto del movimento socialista, essa è necessaria non semplicemente – e riduttivamente – perché manchi una organizzazione che si richiami direttamente ad esso (cosa infatti che non è, vista la longeva vita del Partito socialista italiano), ma bensì per il contributo di pensiero, di analisi, di idee, di progetti concreti che il socialismo seppe esprimere in epoche lontane e per questioni (forse) remote; contributo che potrebbe essere decisivo anche e soprattutto oggi. Ciò che mi preme è stabilire un nesso – direi inscindibile – tra la necessaria presenza dei valori del socialismo, del suo metodo di analisi (esso stesso tra i suoi caratteri distintivi, e precondizione per la definizione dei suoi valori di riferimento), del suo metodo di prospettazione di risposte alle esigenze sociali (prospettazione orientata dai suoi valori), e le ragioni di merito del suo assassinio. Altrimenti tale necessaria presenza sarebbe fatua e comunque non atta a durare. Se non si ricostituisce un legame consapevole con il passato, se non si ripercorrono gli iter logici, i ragionamenti, che motivarono scelte concrete, e più concrete reazioni, non può mettersi a frutto tutta la potenzialità dirompente degli ideali socialisti. Ci si dovrebbe contentare della presenza di un simulacro mendace ed incapace di parlare incisivamente all’elettorato. Inizio dall’intervento che Filippo Turati tenne il 7 ottobre 1919, al congresso socialista nazionale di Bologna[1]. La prima questione che veniva affrontata era l’antagonismo tra riforme e rivoluzione. Secondo Turati era mal posta tale antitesi perché le rivoluzioni più sostanziali (e quindi “socialiste”) sono il frutto di tante piccole riforme affiancate le une alle altre (e tendenti tutte agli obiettivi del socialismo). Ragione per cui gli “atteggiamenti” “anarchici” che pretendevano di sostituirsi al socialismo, ne invece erano la “diametrale negazione”. Questi erano gli stessi temi dibattuti a Milano nel 1891, alla Sala Sivori di Genova nel 1892, a Reggio Emilia nel 1893 (“Quale eterna giovinezza è la nostra! Felice giovinezza, per la quale, dopo oltre un quarto di secolo, ci si ritrova qui a ribalbettare gli stessi identici discorsi che facemmo. Nel partito socialista, come a tavola, evidentemente non si invecchia”). Sin da quei momenti fondativi del PSI venne infatti confutato il preteso antagonismo fra rivoluzionarismo e riformismo fondato su una differenziazione tra piccole e grandi riforme. Si può dire, anzi che il socialismo italiano nacque proprio quando si affrancò idealmente e praticamente da quegli atteggiamenti “anarcheggianti”. E discuteva quindi la centrale questione del metodo riformista (perciò stesso socialista). Esso guidò “quel partito operaio – che del resto, per quei tempi e per le condizioni dell’Italia d’allora, era pure una grande e gloriosa affermazione politica di classe […], a poco a poco, verso la conquista del potere, verso una molto più alta comprensione di concetti politici nazionali e internazionali, insomma verso il socialismo”. Quello che si battezzava nel 1919 come massimalismo rigettava in un canto, come armi superate, tutti i principi, i metodi, gli organismi, che nei precedenti trenta anni erano stati affermati, conquistati e perfezionati dal socialismo italiano. L’apologia e l’esaltazione della violenza, come il migliore, se non l’unico, mezzo per la più pronta attuazione dell’ideale socialista, non “è che il rinculo di 30 anni; non è che la ripetizione ad litteram della discussione che facemmo al congresso di Genova, 28 anni or sono”. Tutta l’esperienza accumulata, dal 1882, di azione socialista avrebbe dovuto essere superata per l’apparire prodigioso di una nuova rivelazione (“Alla elevazione della classe proletaria che, via via […] come più acquista di compattezza, di capacità, di valore, e più impara a farsi valere, a improntare di sé l’evoluzione storica, a instaurare nello Stato e nella nazione e nei rapporti internazionali la grande, la vera democrazia, quella del Lavoro, con le armi della intelligenza, della civiltà, della libertà più sconfinata, si sostituisce un gretto ideale di violenza armata e brutale”). La cosiddetta dittatura del proletariato avrebbe escluso d’un sol colpo dalla vita sociale tutte le altre capacità, tutti gli altri contributi, tutte le altre classi, e la stessa grande maggioranza dei lavoratori; rivelandosi così per essere la dittatura di alcuni uomini sul proletariato, ossia la dittatura contro lo stesso proletariato. Questo metodo apparteneva alla preistoria politica del movimento popolare, ed il socialismo scientifico non fu che “la reazione dottrinale e pratica contro questi vecchiumi”. Prima di esso dominava ancora il concetto che il socialismo potesse improvvisarsi in virtù della bontà della causa che esso rappresenta, per un atto di volontà, e quindi, o per decreto imperiale, o per concessione generosa delle classi dominanti, oppure per un atto di violenza delle masse; che una rivoluzione soprattutto economica, che interessa i più profondi tessuti dell’organizzazione sociale, potesse instaurarsi, trionfare, mantenersi prima della completa elaborazione di tutti gli elementi tecnici, morali, economici, politici, che rendono questa nuova formazione possibile (“La compagine sociale è un prodotto storico complicatissimo, di elementi economici, tecnici, morali, politici”). Preciso che specifiche proposte – allora formulate anche da Turati – come la collettivizzazione dei mezzi di produzione, si dovrebbe trattarle con l’acquisita maggiore comprensione dei fenomeni economici, portato degli ulteriori 80 anni che ci separano dagli anni venti del 1900 (“Le formule dei programmi sono sempre effetto di transazioni […]. Poi la storia le seppellisce”). All’idea – un …

AUTONOMIA, UNITA’ E CHIARIFICAZIONE

Tratto dalla relazione indroduttiva al 41° Congresso del PSI, Torino 29 marzo-2 aprile 1978 – Bettino Craxi Abbiamo insistito e insistiamo sulle caratteristiche autonome della nostra azione e sulla natura autonoma, non subalterna, non sussidiaria, del nostro ruolo nel movimento operaio e dei lavoratori, nella sinistra italiana. Senza una nitida e rigorosa affermazione della nostra identità non riusciremo a rovesciare le tendenze negative e a uscire da una crisi che per tanti aspetti ci mortifica e che per altri ci ha indotto a molte riflessioni autocritiche e che però consideriamo tutt’altro che irreversibile. Ricaviamo dalla nostra storia, dalle nostre tradizioni, dalle molteplici esperienze condotte dal nostro Partito nel trentennio della vita repubblicana, i tratti della nostra autonomia, la giustificazione del nostro ruolo, l’individuazione delle nostre prospettive future. Sono i lineamenti di un Partito ancorato al socialismo occidentale per comune origine e per comune tradizione democratica. Un Partito che lotta per cancellare i tratti classisti della società capitalistica e per accelerarne il superamento senza cadere nei vizi e nelle degenerazioni della società burocratica. Siamo in questo senso un Partito progressista e riformatore. Un Partito aperto a tutte le esperienze e a tutti gli apporti che possono approdare al terreno del socialismo nella democrazia e nella libertà. Consideriamo estranei alla realtà e all’accettabilità della trasformazione socialista nel nostro Paese tutti i principali postulati della teoria leninista e del tutto inattuali le implicazioni storiche che ne derivano per tanta parte alla sinistra italiana. La questione non riguarda la rivoluzione bolscevica e ciò che ne è derivato. Riguarda noi ed il nostro socialismo. Né la teoria del potere, né quella dello Stato, né quella dell’economia, né quella del Partito, né quella dell’imperialismo possono indicarci le vie maestre del socialismo nel nostro Paese. Su questo terreno si è sviluppato con grande ricchezza di elaborazione il filo del revisionismo socialista e la critica socialista si è fatta più incalzante. Essa mira a stimolare il processo revisionistico dei comunisti che ristagna. Se esso rimane a metà del guado rischia di impantanarsi nei suoi limiti e nelle sue contraddizioni. La nostra posizione nella sinistra corrisponde ad una idea di unità e di chiarificazione. Abbiamo salutato la tendenza che ha preso il nome di eurocomunismo come un fatto importante e positivo e ne abbiamo accreditato il valore, e sottolineato tutte le potenzialità positive ai fini di una nuova e più compatta realtà della sinistra europea. Assistiamo oggi ad una disarticolazione di questo fenomeno ed alla sua crisi oramai evidente. La improvvisa svolta del Partito comunista francese e la rottura deliberatamente provocata dalla unità delle sinistre con le conseguenze che ne sono derivate e che non erano difficili da prevedersi, risponde ad una logica estranea ad una possibile strategia socialista e della sinistra nell’Europa occidentale e può essere piuttosto collocata in altre logiche. In Francia non sono bastati anni di unità di azione, un programma comune, il vaglio di promettenti prove elettorali ad impedire un ritorno virulento ad un passato di settarismo e di dogmatismo di classico stile internazionalista. La campagna di accuse, di sospetti, di processi all’intenzione, imbastita contro Francois Mitterrand e i compagni socialisti francesi li ha posti in una posizione di grande difficoltà. I compagni francesi si sono difesi, hanno conservato ed anzi accresciuto la loro forza; non hanno potuto evitare lo sfondamento elettorale del blocco conservatore ed il fallimento del disegno alternativo. Ciò introduce un fattore e una difficoltà nuova in quel processo di convergenza tra «eurosocialismo» ed «eurocomunismo» e che era stato auspicato con particolare chiarezza dal segretario del Partito comunista spagnolo Santiago Carrillo quando indicava il movimento socialista occidentale come l’interlocutore principale e indicava una politica di convergenze verso di esso come la tendenza naturale dell’eurocomunismo. Nella nuova situazione si accrescono le responsabilità dei comunisti italiani posti al bivio tra un ennesimo tentativo di unire diverse e contrastanti impostazioni strategiche in una zona grigia in cui prevalgono le ambivalenze e le ambiguità, o riprendere con forza e con convinzione la via della revisione lungo un cammino già del resto illuminato da lucide ed anticipatrici analisi di intellettuali comunisti italiani. L’affermazione del compagno Berlinguer «siamo e resteremo comunisti» è una affermazione puramente retorica. Nessuno chiede di rinnegare le tradizioni o di mettere in causa le denominazioni storiche. Ciò che si chiede è che nella sostanza vada avanti il processo di trasformazione e di accostamento alle impostazioni del socialismo occidentale. Non è del resto una pretesa assurda se devo prestar rilievo a quanto scrive Paolo Spriano nella sua Storia del Partito Comunista Italiano riferendo che Togliatti stesso non escludeva nel ’44 una evoluzione in senso laburistico della esperienza comunista italiana. Noi non intendiamo riaprire il capitolo di aspri conflitti concorrenziali tra socialisti e comunisti anche se non possiamo rinunciare a considerare legittimo e necessario il riequilibrio delle forze nell’ambito della sinistra. Noi siamo spinti a tenere viva e critica un’esigenza di chiarificazione nella convinzione che dal successo di molte delle ragioni che facciamo valere dipende l’avvenire di tutta la sinistra italiana, l’avvenire ed il successo di tutte le forze della riforma e del progresso. Dalla difesa della identità del Partito e dalla vitalità che sapremo imprimere al ruolo che ne deriva dipende in grande misura il successo dell’imponente lavoro che ci aspetta per estendere e consolidare il nostro insediamento nella società, per portare la presenza socialista in una molteplicità di aree sociali e istituzionali nelle quali siamo o assenti totalmente o insufficientemente e male rappresentati. Nella politica di autonomia e di iniziativa del Partito non c’è posto per divagazioni terzaforziste, o per progetti unificazionisti. Abbiamo risposto con rispetto alle esigenze altrui ma in modo negativo a tutte le sollecitazioni che in modo diretto ed indiretto ci sono state indirizzate in questo senso. I problemi della cosiddetta area intermedia non sono omogenei e comunque investono in modo tutt’affatto particolare il Psi, Partito medio ma non intermedio. Siamo certo interessati a frenare lo sviluppo bipolare, attorno ai due maggiori Partiti ma ci proponiamo di farlo radicando ancora più la nostra presenza nel terreno storico e di classe …