CONTRO LA DISUGUAGLIANZA NON BASTA LA LEVA FISCALE

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Economia. La prima grande questione è trattare l’eguaglianza come fenomeno che riguarda non solo la sfera redistributiva ma quella della produzione

Il dilagare dei populismi e il diffondersi del disorientamento non si contrastano con la mimetizzazione che accentua la spoliticizzazione – la ripetizione ossessiva del mantra «meno tasse (per i ricchi)» o il ricorso ad un argomento tipico dell’antipolitica quale la polemica sui vitalizi -, ma con il rilancio della dimensione programmatica del «progetto».

Ce n’è bisogno anche per problematiche che, dopo un lungo oblio, hanno riconquistato le luci della ribalta, come la diseguaglianza. Se non vogliamo, infatti, che su di esse si dia vita ad una sorta di nuova retorica inconcludente, dobbiamo andare più a fondo.

LA PRIMA GRANDE questione aperta è trattare l’eguaglianza come fenomeno che riguarda non solo la sfera redistributiva – su cui invece si concentra, con la fondamentale eccezione di Atkinson, la letteratura prevalente in materia, compreso Piketty –, ma primariamente la sfera produttiva, l’allocazione, le strutture in cui si articolano i vari modelli di sviluppo, ponendo in evidenza la profonda connessione tra i trend della diseguaglianza e le dinamiche della finanziarizzazione e del deterioramento dell’economia reale esplose con la crisi del 2007/2008.

Le recenti analisi di Lazonick mettono in luce da una parte come l’odierno incremento delle diseguaglianze sia dovuto all’incredibile capacità dello 0,1% al top della distribuzione del reddito di appropriarsi delle risorse generate e di tutti i guadagni di produttività – una capacità «estrattiva» predatoria, acutizzante il vecchio potere monopolistico della rendita, consentita non da autentici contributi propri ma dalla posizione che si occupa nel processo di produzione -, dall’altra come esso sia veicolato da specifici meccanismi connessi alle nuove tecnologie.

Il dispositivo degli stock buybacks – con cui le imprese vendono e ricomprano freneticamente le loro azioni per farne salire il valore, così da remunerare al rialzo i propri manager – e gli incentivi non salariali ai manager, come la remunerazione attraverso l’erogazione di stock options – che alimentano lo shortermismo e deprimono la spinta ad investire in capacità produttiva reale e in innovazione – sono tutti interni al processo di finanziarizzazione neoliberistica in atto da molti anni, a sua volta strettamente legato all’avanzare del ciclo innovativo odierno.

D’ALTRO CANTO, anche dal lato redistributivo l’analisi viene molto complicandosi, dando più concretezza al dibattito sulla scomparsa del ceto medio (the disappearing middle class): Richard Reeves, per esempio, insiste che il problema non è solo l’1% più ricco (che certo dei 7 mila miliardi dollari di ricchezza nazionale creata negli Usa dal 1979 al 2013 è riuscito ad accaparrarsene ben 1300), ma anche la upper middle class (il 19% che è riuscito ad accaparrarsene 2.700 miliardi, mentre al rimanente 80% sono andati solo 3.000 miliardi), facendo sì che la vera frattura sociale, perpetuata attraverso una drammatica confisca del sistema educativo dalle scuole elementari alle Università, corra lungo quel confine di reddito (pari a 112 mila dollari l’anno), al di sotto del quale stanno la middle class e la bottom class.

SONO QUESTE, peraltro, le ragioni che inducono a ritenere inefficaci per contrastare i meccanismi innovativi profondi alla base dell’acuirsi odierno delle diseguaglianze, così come delle tensioni occupazionali e dell’elevata disoccupazione, semplici misure di trasferimento monetario – quale la riduzione delle tasse, ma anche il reddito di cittadinanza – e a considerare preferibili misure di taglio più strutturale, quale la proposta di Lazonick di vietare gli stock buybacks e di rivedere radicalmente la struttura degli incentivi ai manager (tra l’altro non consentendo la vendita a breve delle stock options).

La stessa Bce da una parte riconosce esplicitamente che i programmi di quantitative easing (che iniettano massicciamente liquidità mediante l’acquisto di titoli dei debiti pubblici generante guadagni di capitale per i suoi possessori) hanno accresciuto la ricchezza dei già ricchi producendo effetti redistributivi perversi non voluti, dall’altra ancora alza il velo sull’inadeguatezza dei salari e ne denunzia la mancanza di corrispondenza con i fondamentali dell’economia.

LA SECONDA GRANDE questione aperta, se vogliamo andare più in profondità nel trattare la problematica «eguaglianza/diseguaglianza», è quella della democrazia economica, prendendo atto che le dinamiche di finanziarizzazione sono strettamente intrecciate con lo shift dell’ottica imprenditoriale verso profitti di breve periodo e verso l’enfasi sulla teoria della shareholder value e lo schortermismo, trasformando il ruolo del manager da attore contemperante i vari interessi in gioco in agente di se stesso e del capitale finanziario.

SIGNIFICATIVAMENTE tra i lavori prodotti dalla Commission on Economic Justice istituita dallo Ippr londinese nel 2016 (in esplicito rinvio/distacco dalla Commission on Social Justice creata dal Labour di Tony Blair nel 1994) ve ne sono alcuni che mettono in evidenza la correlazione tra il primato, nella corporate governance inglese, degli interessi degli azionisti – all’origine dell’innalzamento della quota dei profitti distribuiti e non reinvestiti – e il declino degli investimenti, argomentando come tale modello di corporate governance (basato sull’esclusività della rappresentanza degli azionisti e privo della partecipazione degli altri stakeholder, in particolare dei lavoratori) sia una delle ragioni delle debolezze e delle fragilità dell’economia britannica (specie per quanto riguarda la stagnazione della produttività).

In questo ambito non si dovrebbe dimenticare che Roosevelt, iniziando la sua straordinaria opera riformatrice dalla denunzia delle molte cose che andavano male nell’economia americana (la distribuzione del reddito, la bilancia dei pagamenti, la struttura bancaria, ecc.), non mancò di sottolineare la «cattiva struttura societaria», rea di aver dato vita, con le parole di John Galbraith, a «una specie di alta marea del furto societario».

Così come dovrebbero essere recuperate le ispirazioni «non proprietarie» del piano Meidner del 1975-76 (che aveva al proprio cuore la preoccupazione per la caduta dell’interesse dei capitalisti agli investimenti, quando ancora sarebbe stato possibile uscire dalla crisi innescata dal primo shock petrolifero in modo diverso dalla sola compressione dei salari).

PER TUTTE QUESTE ragioni Atkinson collega all’idea di tornare a prendere nuovamente molto sul serio l’obiettivo della piena occupazione – eluso dalla maggior parte dei paesi Ocse dagli anni ’70 – facendo sì che i governi offrano anche «lavoro pubblico garantito» agendo come employer of last resort, altre proposte radicali: quella – memore di quando nel 1961 nel Regno Unito vigeva per i giocatori di calcio una retribuzione massima di 20 sterline alla settimana, pari alla retribuzione media nazionale – che le imprese adottino, oltre che un «codice etico», un «codice retributivo» con cui fissare anche tetti massimi alle retribuzioni dei manager pure nel settore privato. O quelle della creazione di un Fondo pubblico sovrano che faccia investimenti, per aumentare il patrimonio dello Stato, e di un programma nazionale di risparmio che offra ad ogni risparmiatore un rendimento garantito. Inoltre Atkinson infrange il tabù secondo il quale è la globalizzazione a impedire di mantenere strutture fiscali progressive e ad imporre che le aliquote marginali siano sempre inferiori al 50%, proponendo che il ripristino della progressività preveda per i benestanti aliquote massime del 55 e perfino del 65%.

Fonte: Il Manifesto