Giacomo Matteotti nacque il 22 maggio 1885 a Fratta Polesine, un piccolo paese non distante da Rovigo. Era una famiglia di modesta estrazione la sua e Giacomo era ancora uno studente del liceo Celio di Rovigo quando la politica entrò nella sua vita.
Fu il primogenito della famiglia Matteotti, Matteo, a far incontrare all’allora tredicenne Giacomo il socialismo. Dopo le prime esperienze di militanza attiva nella sezione giovanile del partito prese la tessera nel 1904. Il Psi era nato da poco e la sua struttura doveva ancora formarsi. I partiti di massa erano un’assoluta novità del nuovo secolo. Fino a qualche decina di anni prima in Italia, attraverso sbarramenti di censo e di istruzione, gli ammessi al voto erano poche migliaia.
Esisteva un rapporto pressoché personale tra gli eletti e gli elettori. Il neonato Partito Socialista, riuscì ad affermarsi perché già radicato sul territorio. Esisteva infatti una fitta rete di leghe, cooperative agricole, associazioni, che oltre ad occuparsi di istruzione e formazione, aiutavano i militanti nei momenti di difficoltà e li federavano. A questa parte di mutuo soccorso si aggiunse negli anni quella più strettamente politica. Il giovane Giacomo operò attivamente e a lungo nelle cooperative.

La grande guerra
Si laureò in legge a Bologna nel 1907, ma quando venne candidato alle elezioni per il Consiglio provinciale di Rovigo e venne poi eletto lascio la giurisprudenza per occuparsi a tempo pieno di politica. Tra massimalisti e riformisti, Giacomo scelse i secondi e come rappresentante di questa corrente divenne consigliere in una decina di comuni, Sindaco di Villamarzana del 1912 e di Boara Polesine dal 1914, guidò poi l’opposizione socialista nel Consiglio provinciale di Rovigo.
I vertici del partito si accorsero di lui in occasione del congresso dei comuni socialisti tenutosi a Bologna nel 1916 e, nello stesso anno, Matteotti fu eletto segretario. Era intanto scoppiata la Prima Guerra Mondiale, destinata a cambiare per sempre gli equilibri tra le nazioni europee, ma anche la gestione interna del potere all’interno dei singoli Stati. L’Italia all’inizio si tenne fuori dal conflitto. Giolitti sperava di mercanteggiare la neutralità del nostro paese per ottenere, senza spargimento di sangue, i territori che le guerre di indipendenza non avevano ancora annesso all’Italia, ma nel 1915, spinto dalla piazza e dalla corona, il Parlamento dichiarò guerra all’Austria.
Matteotti, dalle colonne del periodico polesano Lotta proletaria, di cui era redattore dal 1912, fu in prima linea nella lotta del Partito Socialista per tentare di impedire la carneficina. Anche tra le forze di sinistra c’era chi aveva spinto per la guerra, vedendo in essa l’opportunità di lottare contro i governi reazionari. Matteotti non cadde in questo equivoco e pagò in prima persona il suo strenuo impegno antibellicista, scontando una condanna a trenta giorni di reclusione.
Chiamato alle armi nel luglio 1916 venne congedato nel marzo 1919. Immediatamente tornò alla polita a tempo pieno e riprese l’opera di amministratore ed organizzatore. Le difficili lotte dei bracciantili del Polesine lo videro ancora in prima linea. Quest’impegno fu ciò che lo traghettò alla Camera. Fu eletto deputato nella circoscrizione di Ferrara-Rovigo, carica confermata nel 1921 e 1924 per la circoscrizione di Padova-Rovigo. La lunga attività nelle cooperative, l’esperienza nelle leghe l’aveva reso particolarmente competente in materia finanziaria e amministrativa.

Il fascismo
Così entrò nella giunta del bilancio e della commissione finanza e tesoro della Camera. Comprese il fascismo fin da subito. Per molti il Partito dei Fasci da combattimento era uno dei tanti movimenti post bellici, che crescevano nel malcontento e nella frustrazione degli ex combattenti. Una piccola formazione destinata a scomparire, ad essere riassorbita, non appena la vita della nazione fosse tornata alla normalità. Così il vecchio partito liberare lasciava correre le violenze, evitava che l’esercito o la polizia intervenissero durante le spedizioni punitive che i fascisti compivano contro i giornali, contro le cooperative di mutuo soccorso, contro chi manifesta e scioperava.
Gli industriali che si erano arricchiti con la guerra, gli agrari del nord, trovarono così in esso quella mano forte che poteva fermare i movimenti popolari. Ma Matteotti, fin dal suo nascere, fu un critico intransigente del fascismo, comprendendone il pericolo e la carica eversiva. Per questo fu duramente perseguitato e costretto a lasciare la sua regione già dal 1921.
La crisi in cui l’Italia versava si rifletteva anche nei partiti di sinistra. Nell’ottobre 1922, dopo la scissione tra massimalisti e riformisti, Matteotti divenne segretario del nuovo Psu, impostandone la linea politica come lotta ad oltranza contro il fascismo. Pur privato del passaporto espatriò clandestinamente per assistere al congresso del Partito operaio belga, per incontrarsi con alcuni dirigenti del Labour party e delle Trade unions e per ridimensionare, attraverso tali colloqui, il mito mussoliniano, sottolineando la pericolosità potenziale del regime fascista anche per le altre potenze europee.
Nel 1924 in Parlamento denunciò i brogli ed il clima di violenza nel quale si era espressa l’ultima consultazione elettorale. Il 10 giugno dello stesso anno venne rapito e ucciso da sicari fascisti. Il suo corpo venne ritrovato il 16 agosto successivo nei dintorni di Roma.

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Il delitto Matteotti

La commemorazione di Turati

Il 27 giugno del 1924 Filippo Turati pronunciò un commosso discorso in ricordo dell’amico assassinato durante la riunione delle opposizioni parlamentari. Queste le parole dell’anziano leader socialista:
“Vorrei che a questa riunione non si desse il nome logoro, consunto – specialmente qui dentro – di “commemorazione”. Noi non “commemoriamo”. Noi siamo qui convenuti ad un rito, ad un rito religioso, che è il rito stesso della Patria. Il fratello, quegli che io non ho bisogno di nominare, perché il Suo nome è evocato in questo stesso momento da tutti gli uomini di cuore, al di qua e al di là dell’Alpe e dei mari, non è un morto, non è un vinto, non è neppure un assassinato. Egli vive, Egli è qui presente, e pugnante. Egli è un accusatore; Egli è un giudicatore; Egli è un vindice. Non il nostro vindice, o colleghi. Sarebbe troppo misera e futile cosa. Egli è qui il vindice della terra nativa; il vindice della Nazione che fu depressa e soppressa; il vindice di tutte le cose grandi, che Egli amò, che noi amammo, per le quali vivemmo, per le quali oggi più che mai abbiamo, anche se stanchi e sopraffatti dal disgusto, il dovere di vivere. E il dovere di vivere è anche, e soprattutto, il dovere di morire quando l’ora lo comanda. Di morire per rivivere; di morire perché tutto un popolo morto riviva; di morire perché il nostro sangue purifichi le zolle, le sacre zolle della Patria, che alla Patria – se le fecondi sudore di servi – procacciano messi avvelenate. E questo vivo, che è qui accanto a me, alla mia destra, ritto nella sua svelta figura di giovane arciere, di cui voi vedete il sorriso, di cui voi scorgete il cipiglio – perché non è un’allucinazione, perché li vedete, perché non vi inganno – questo vivo, questo superstite, questo ormai immortale e invulnerabile, fatto tale dai nemici nostri e d’Italia; questo vivo, nell’odierno rito, è trasfigurato. È Lui ed è tutti. È uno ed è l’universale.

È un individuo ed è una gente. Invano gli avranno tagliato le membra, invano (come si narra) lo avranno assoggettato allo scempio più atroce, invano il suo viso, dolce e severo, sarà stato sfigurato. Le membra si sono ricomposte. Il miracolo di Galilea si è rinnovato. A che le vane ricerche, o farisei d’ogni stirpe? A che gli idrovolanti sul lago, a che il perlustrare la macchia, il frugare nei forni? L’avello ci ha reso la salma. Il morto si leva. E parla. E ridice le parole sante, strozzategli nella gola, che furono da uno dei sicari tramandate alle genti, che son Sue quand’anche non le avesse pronunciate, che son vere se anche non fossero realtà, perché sono l’anima Sua; le parole che si incideranno nel bronzo sulla targa che mureremo qui o sul monumento che rizzeremo sulla piazza a monito dei futuri: “Uccidete me, ma l’idea che è in me non la ucciderete mai… La mia idea non muore… I miei bambini si glorieranno del loro padre… I lavoratori benediranno il mio cadavere… Viva il Socialismo!”. È qui trasfigurato, o colleghi. E di ciò il mio egoismo si duole, il mio piccolo egoismo di individuo, di fratello maggiore, di anziano, di padre; ché Egli non è più soltanto il mio figliolo prediletto. L’uomo di parte, l’assertore nobile ed alto di un’idea nobilissima, quegli che fu, per noi socialisti, tutto in una volta, il filosofo, il finanziere, l’oratore, l’organizzatore, il commesso viaggiatore, l’animatore sovra tutto, il pensiero insomma e l’azione congiunti – anche l’azione più umile che altri sdegnava – l’unico, l’insostituibile; colui che, come già Leonida Bissolati pel Cremonese, travolto dalla sublime follia dell’amore dei suoi contadini, del suo proletariato polesano, per esso aveva rinunziato indifferente agli agi e alla tranquillità della vita, alla seduzione degli studi cari in cui più eccelleva, e di sé e della sua giovinezza poteva dire, col poeta della Versilia “e tutto ciò che facile allor promettono gli anni,/ io ‘l diedi per un impeto lacrimoso di affanni,/ per un amplesso aereo in faccia all’avvenir” e per questa sua passione divorante, gelosa, era l’esule in patria, il bandito dalla sua terra, il maledetto dai parassiti della sua terra, il profugo eterno, sempre presente soltanto dove l’ora del periglio battesse la diana; quest’uomo, questa figura così staccata e viva su lo sfondo verde e bigio di questo singolare paesaggio politico, non sparisce, no, non scolora, ma si riaffaccia oggi in troppo più ampia cornice.

Quello che era cosa nostra, è divenuto anche la cosa vostra, l’uomo di tutti, l’uomo della storia. E, ingrandito così, quasi è tolto a noi, come alla famiglia dolorante, perché è divenuto un simbolo. Il simbolo di un oltraggio che riassume ed eterna cento e cento mila altri oltraggi, tutti gli oltraggi fatti ad un popolo; la figura che compendia tutti gli altri trucidati e percossi per lo stesso fine, da Di Vagno a Piccinini, agli infiniti altri oscuri; il simbolo di una stirpe che si riscuote; il simbolo di un passato che si redime, di un presente che si ridesta, di un avvenire che si annunzia; della immortale democrazia, della indefettibile giustizia sociale, che si rimettono in cammino; dell’Italia che, dopo una parentesi di spaventoso Medio Evo, risale nella luce dell’età moderna, rientra tra le genti civili. Il simbolo e la Nemesi: la Nemesi augusta, o signori, che è della storia. Cerchi il Magistrato le colpe e le ferocie secondarie e minori; incalzi gli esecutori codardi e i mandanti immediati; compito anche questo, altamente rispettabile e necessario. Frughi e tenti di sventare la congiura degli intrighi, di snodare il groviglio dei silenzi comprati o ricattati, le mendicate omertà, e il tagliaborse che si annida nell’assassino. Tutta questa è la cronaca. La Nemesi vola più alto. Essa addita il grande mandato; il mandato che erompe da più anni di violenze volute, di violenze inanellate alla frode, di consenso cercato ed irriso; dal sarcasmo di una pacificazione, proclamata a parole e impedita e violentata nei fatti; dall’incitamento perenne alla soppressione del pensiero libero e di chiunque lo incarni, la quale è soppressione della vita, della Patria, della civiltà. Addita il mandato che scese dall’istrionismo bifronte, che adesca insieme e minaccia, che offre il ramo d’olivo ed affila nell’ombra i pugnali.

Addita il mandato che salì dalle viltà incommensurabili, dalle fughe abbiette, dagli obliqui fiancheggiamenti, dai silenzi complici, dalla corruzione demagogica esercitata su anime semplici, talvolta generose ed eroiche, persino di combattenti insigni od oscuri, i quali in buona fede hanno creduto che un regime di minaccia e di prepotenza potesse essere ricostruttore, che la più immonda curée potesse germogliare la rigenerazione del Paese, che gli errori e le colpe fugaci di una massa illusa (e non cerchiamo illusa da chi; e non domandiamoci se veramente esistano le colpe di un popolo) dovessero espiarsi, non col richiamo severo alla ragione, ma con la catena dei delitti, con la tregenda delle sopraffazioni esercitate su quel popolo; col dileggio di ogni umana dignità; con la tragedia del terrore, accoppiata alla coreografia di vetusti trionfi mal redivivi. Lo credettero in buona fede; alcuni – sempre più radi – lo credono ancora. Ma per poco, ormai. L’oscena leggenda è sfatata. Giacomo Matteotti l’ha dispersa; l’ha dispersa per sempre. L’edificio dell’iniquità e dell’ipocrisia crolla da ogni parte. Ah! sì. I masnadieri avevano bene scelto, avevano mirato giusto, sopprimendo il nostro migliore. Mirando al suo cuore, sapevano di mirare al nostro cuore. Ma ignoravano la sanzione inesorabile che fu sempre nelle vicende del mondo. Ignoravano – fu confessato – che il delitto era soprattutto un errore. Che la vittima sarebbe stata il giustiziere. Che la coscienza di un popolo, che ha millenni di storia e di gloria, si assopisce, si comprime, ma non si spegne. Che i morti non pesano soltanto, ma sopravvivono. Giacomo Matteotti vince morendo e ci accompagna e ci guida. Se commemorazione è questa, se questo è un lugubre rito, non è l’epicedio del suo tumulo ignorato, non è la riconsacrazione di una salma che non può riapparire e che più è presente quanto più è assente e celata. Altro è oggi il funerale. Altri sono i morti. L’edificio dell’iniquità e dell’ipocrisia crolla da ogni parte. Neppure la speculazione ultima e più scaltra ed audace – quella sulla nostra speculazione – ha alito e ali per reggersi. Lo sguardo vitreo della vittima illumina un panorama d’infamia che i più non sospettavano ancora. Ove la sua ombra si leva, ivi si stende attorno la solennità del deserto.

Noi parliamo da quest’aula parlamentare, mentre non vi è più un Parlamento. I soli eletti stanno sull’Aventino delle loro coscienze, donde nessun adescamento li rimuove sinché il sole della libertà non albeggi, l’imperio della legge non sia restituito e cessi la rappresentanza del popolo di essere la beffa atroce a cui l’hanno ridotta. Le futili contese tacciono fra essi, e una grande unità si costituisce fra essi tutti e fra essi e l’anima della Nazione. Quella che fu la maggioranza, è ridotta a un reparto di milizia, cui è intimato di obbedire in silenzio, perché ogni sua parola la disgregherebbe. I due tronconi non si saldano. E i politici già si domandano se vi sia più un Governo, se vi possa essere più un Governo. Se vi è per l’Italia; se vi è per il resto del mondo. Ma un paese moderno non vive senza queste due cose che vennero meno: un Parlamento rispettato e libero; un Governo legale e non sospettato. Signori, dall’eccidio di Giacomo Matteotti la nuova storia d’Italia incomincia. A noi un solo compito: esserne degni. Eppure, neppure questo ci consola. Perché, se un eccidio, e il più brutale degli eccidii, era necessario, una cosa non era necessaria: che colpisse Lui. E, se parve, come ho detto, ch’egli fosse il più designato perché era il più forte e il più degno, dice l’effetto che non sempre è profetessa la malizia dei masnadieri. Lui giovane, Lui forte, Lui armato di tutte le armi civili, Lui temerario nel coraggio, Lui che si fece volontario della morte – questo fanciullo dagli occhi pieni di bontà, che tutti ci rimbrottava ed a tutti indulgeva, perché tutti sapeva comprendere e sapeva la inanità delle prediche contro la umana fralezza -; Lui, figlio di una madre antica, che geme; Lui, sposo di una sposa giovane, che paventa di smarrire il senno; Lui, padre di tre teneri bimbi, virgulti inconsci che un giorno metteranno le spine, verso i quali Egli aveva tenerezze di madre, come, nell’intimità della casa felice, pareva un figlio alla sposa. No! inferocire su questo idillio non era necessario! Altrove poteva la sorte cieca e maligna eleggere il suo strumento di pace e di giustizia.

E questa vecchia carcassa di chi oggi vi parla, che la vita ha tutta ormai spesa e che il proprio inverno avrebbe barattato con gioia per salvarvi la primavera superba del nostro eroe, è oggi dilaniata dal rammarico, direi dal rimorso, di non averlo vigilato abbastanza, di non essersi imposto, col peso della anzianità a cui forse Egli avrebbe obbedito, alle sue gagliarde imprudenze… Lasciate, o colleghi, ch’io cessi queste parole, così ìmpari, e che il singhiozzo minaccia di rompere; ch’io dimentichi dove siamo e donde parliamo; ch’io mi inginocchi idealmente accanto alla salma del figliuolo prediletto, e gli carezzi la fronte e gli chieda perdono della mia, della nostra indegnità e gli dica tutta la gratitudine nostra, la gratitudine di tutto un popolo. E gli giuri, a nome di voi tutti, che la Sua ombra, presto, sarà placata”.