Fu un contadino socialista, autodidatta, cresciuto alla scuola politico-sindacale di Verro. Assassinato dalla feroce mafia del suo paese nel 1920. «So di essere un morto in licenza», diceva ai suoi compagni giorni prima di essere ucciso…
Chi si ricorda oggi di Nicolò Alongi da Prizzi, assassinato dalla mafia del feudo quasi 100 anni fa? Anche a Prizzi, quasi nessuno ormai. L’ultima volta che quest’eroico dirigente del movimento contadino della zona del Corleonese fu ricordato ufficialmente è ormai una data lontana nel tempo: 14 anni fa, nel 1997. Allora l’amministrazione comunale di centrosinistra, guidata dal sindaco Mimmo Cannariato, fece le cose in grande. Commissionò la biografia di Nicolò Alongi allo storico palermitano Giuseppe Carlo Marino, che produsse un volume di circa 200 pagine (“Vita politica e martirio di Nicola Alongi, contadino socialista”, Edizioni Novecento, 1997), nel quale ricostruì con dovizia di particolari l’attività di questo contadino socialista, autodidatta, cresciuto alla scuola politico-sindacale del corleonese Bernardino Verro, inquadrandola nel contesto del “biennio rosso” contadino (1919-20) della Sicilia. Quell’amministrazione comunale commissionò anche la realizzazione di un busto bronzeo di Alongi, con l’idea di collocarlo in un luogo adeguato.

Ma l’anno successivo, scaduto il mandato di Cannariato, a vincere le elezioni comunali fu il centrodestra. E cominciò il lungo “calvario” per il busto del dirigente contadino prizzese. Per mesi fu “dimenticato” in un’anonima stanza del comune, fino a quando la protesta dei familiari, costrinse i nuovi amministratori a sistemarlo all’ingresso del municipio. Poi più niente. Nicola Alongi fu assassinato la sera del 29 febbraio 1920, mentre si stava recando nella sede della “Lega di Miglioramento”, in via Umberto I, per tenervi una riunione. Era quasi arrivato a destinazione, quando una fucilata, seguita immediatamente da altre due, lo colpì al fianco e al petto, facendolo stramazzare per terra. Alcuni soci della Lega, arrivati subito dopo gli spari, lo trasportarono immediatamente nella casa di Nicolò Provenzano e chiamarono un medico, il quale non poté che constatarne la morte. Alongi aveva appena compiuto 57 anni. Com’era usuale in quegli anni, le indagini per individuare esecutori e mandanti del delitto non approdarono a nulla.

Nell’immediato, tanto per far volare gli stracci, furono arrestati i Gabelloti Gristina, D’Angelo, Mancuso, Costa e Pecoraro, indicati come mandanti dell’omicidio di Alongi, e i campieri Luigi Campagna e Matteo Vallone, sospettati di essere stati gli esecutori materiali. Ma ben presto tutti tornarono in libertà. Si tratta di cognomi “pesanti” di cui ancora oggi a Prizzi non si parla volentieri. E se ne parla ancora meno, dopo una casuale scoperta del giornalista de “L’Ora” Marcello Cimino, che nel 1971, ricostruendo le origini del Partito comunista in Sicilia, venne a conoscenza del nome di almeno uno dei mandanti dell’omicidio Alongi: don “Sisì” Silvestre Gristina, all’epoca influente capomafia di Prizzi. Don “Sisì” morì accoltellato a Palermo la sera del 23 gennaio 1921, ma non fu un regolamento di conti all’interno di Cosa Nostra siciliana. Ad ucciderlo furono alcuni compagni di Giovanni Orcel, capo degli operai metalmeccanici della Cgil di Palermo, assassinato dalla mafia la sera del 14 ottobre 1920.

Questi avevano saputo che era stato lui ad ordinare gli omicidi sia di Orcel che di Alongi, avevano constatato l’incapacità e la scarsa volontà della polizia e della magistratura dell’epoca di venire a capo dei due terribili fatti di sangue, e allora decisero di vendicare i due compagni con un atto di “disperata giustizia proletaria”, scrive il prof. Marino. Probabilmente, tutto questo a Prizzi lo si sapeva da tempo. Per questo, solo raramente in 87 anni si è squarciato il velo del silenzio sull’omicidio Alongi e sulle successive tragiche vicende. “So che si congiura contro di me, che si vuole attentare alla mia vita – disse Nicolò Alongi ai suoi compagni palermitani qualche settimana prima di essere ucciso – non so se domani potrò tornare ad abbracciarvi, ma sono sicuro che altri sorgerà a sventolare la bandiera che mi si vuole strappare di mano”. E, qualche settimana dopo, durante la commemorazione alla Camera, il deputato socialista Vincenzo Vacirca accusò il governo dell’epoca di dare alla mafia “la sensazione e la coscienza” che “si può uccidere i socialisti perché la polizia e la giustizia sono cieche.

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