Bruno Trentin: «Vorrei poter morire socialista»

Iginio Ariemma , Il socialismo eretico di Bruno Trentin

Bruno Trentin – in una intervista rilasciata a Bruno Ugolini, (L’Unità 6 giugno 2006), poco più di due mesi prima di essere colpito dal trauma che lo ha portato alla morte un anno dopo, disse:” …intendo partecipare a questo processo unitario e nello stesso tempo morire socialista”. Il riferimento è al Partito democratico di cui allora si discuteva la costituzione, ritenuta necessaria e urgente dopo l’esito positivo delle elezioni che portarono al secondo governo Prodi. Bruno in questa intervista si pronuncia per la forma federativa del nuovo partito, al fine di garantire il pluralismo degli orientamenti e la più ampia partecipazione. E con saggezza aggiunge:” E’ un tragitto che ha bisogno di anni di esperienze comuni, al basso come in alto, per diventare un fattore di contaminazione tra le culture diverse”.

La nascita del PD, invece, è stata innanzitutto il risultato di un  accordo  di vertice tra i due partiti fondatori o meglio tra i due gruppi dirigenti; un accordo per giunta frettoloso che non è riuscito a dare una chiara identità al partito né regole per davvero condivise. Né diede coesione e solidità al governo Prodi.

Ma che cosa Bruno Trentin intendeva dicendo che voleva “morire socialista”? Che cosa intendeva per socialismo? Quale socialismo aveva in testa? Nell’ultima sua opera “La libertà viene  prima”, pubblicato nel 2005, si trova la risposta. Ad un certo punto egli si chiede: “Che cosa resta del socialismo” Non che cosa è il socialismo, ma che cosa resta, quasi a rimarcare i ruderi, le macerie lasciate dall’esperienza comunista e del socialismo reale che ha attraversato il Novecento.

E così risponde:” Certo il socialismo non è più un modello di società compiuto e riconosciuto, al quale tendere con l’azione politica quotidiana. Esso può essere concepito soltanto come una ricerca ininterrotta sulla liberazione della persona e sulla sua capacità di autorealizzazione, introducendo nella società concreta degli elementi di socialismo – le pari opportunità, il welfare della comunità, il controllo sulla organizzazione del lavoro, la diffusione della conoscenza come strumento di libertà – superando di volta in volta le contraddizioni e i fallimenti del capitalismo e dell’economia del mercato, facendo della persona e non solo delle classi il perno di una convivenza civile”.

Sicuramente è una concezione originale del socialismo.

Colpisce innanzitutto  la visione graduale, processuale, riformista se si vuole,  della via al socialismo, Non parla di superamento del capitalismo tout court, ma di superamento dei “fallimenti “ e delle “contraddizioni” del capitalismo e dell’economia di mercato quasi a rimarcare da un lato la sua contrarietà alle teorie sui crolli e sulla crisi catastrofica del capitalismo, dall’altro lato il processo riformatore che caratterizza la costruzione di una nuova società. Il socialismo non è un sistema predeterminato, codificato, ma un processo, un divenire, addirittura una “ricerca. Nello stesso tempo però il socialismo non è il sole dell’avvenire, è attuale e va edificato immediatamente – dal basso, dalle fondamenta – attraverso gli elementi di socialismo, intesi soprattutto come elementi di coscienza civile e sociale di massa. Emerge anche così il suo antideterminismo economico e sociale, in controtendenza a molta cultura comunista. Il socialismo è scelta di libertà e di democrazia, prima che una necessità.

Del resto fin dagli anni Cinquanta, specialmente dopo l’invasione sovietica in Ungheria  del  1956,  che condannò, insieme a Di Vittorio e alla segreteria della CGIL , egli si considerava- curioso ossimoro – riformista- rivoluzionario. Così come Riccardo Lombardi e Antonio Giolitti, di entrambi amico e molto vicino politicamente. La loro ricerca aveva un obiettivo centrale: non spostare a dopo la conquista del potere la edificazione del nuovo modello di società, ma avviarla subito. Di qui la critica , anche aspra, che sarà continua in Bruno anche dopo, di ogni strategia di transizione al vertice del potere statale che diviene un alibi persino per il trasformismo.

Di qui anche la ricerca di quelle riforme , le famose riforme di struttura. nel quadro di una programmazione democratica, che fossero in grado non soltanto di sradicare le basi del fascismo sempre pericoloso, ma di intaccare il potere capitalistico e di introdurre nuove forme di democrazia diretta, in particolare operaia, in collegamento con la democrazia rappresentativa e parlamentare, A questo proposito è illuminante l’opuscolo di Antonio Giolitti significativamente intitolato “Riforme e rivoluzione” pubblicato nell’aprile 1957. Giolitti prima di uscire dal PCI preannunciò a Trentin la sua decisione con una lettera che purtroppo non abbiamo ritrovato. Bruno gli rispose in modo accorato e quasi disperato – questa lettera è stata rinvenuta nell’archivio giolittiano- in cui chiede di ripensarci, venendo a mancare il punto di riferimento principale all’interno del PCI di coloro che intendevano rinnovare il partito.

Io credo che l’Ungheria del 1956 sia uno spartiacque della sua concezione socialista. E non soltanto sul piano della libertà e della democrazia. Ma su quello del potere politico. Prima la conquista dello Stato era, anche per lui, comunque, un “acceleratore” per la liberazione delle classi popolari e umana, dopo non più. Nella definizione citata gli elementi di socialismo, per lui fondamentali, vengono elencati sia pure tra parentesi. Le pari opportunità, che per Bruno è il sistema dei diritti umani fondamentali e il modo concreto con cui si manifesta la solidarietà. I diritti umani sono i veicoli per l’esercizio concreto ed effettivo della libertà. Infatti Amartia Sen li chiama libertà al plurale. Ricordo bene la sua furente irritazione, quando all’interno del PDS, si cercò di contrapporre li diritti alla modernizzazione, ritenendo alcuni di essi superati e ostacoli alla modernità e al cambiamento. Per Bruno i diritti umani erano il “retaggio duraturo del progresso”, “le sole grandi e durature conquiste del movimento operaio nella sua lotta per l’uguaglianza”. E considerava i diritti sociali – il lavoro, la sicurezza, la salute, l’istruzione ecc-non inferiori, ma diritti di cittadinanza alla pari dei diritti civili e politici, perché, ripeto, base delle pari opportunità e dell’eguaglianza. In secondo luogo il welfare della comunità, che è diverso dal welfare statale tradizionale in quanto determinante è la partecipazione democratica e solidale.

In terzo luogo il controllo sulla organizzazione del lavoro, uno dei suoi permanenti cavalli di battaglia, perché senza libertà nel lavoro non ci può essere la autorealizzazione della persona. Infine la conoscenza come strumento di libertà. e come presupposto sia di un lavoro libero sia della partecipazione democratica. Bruno riteneva quella del diritto al sapere e alla formazione permanente lungo l’arco di tutta la vita la nuova frontiera dei diritti e  della democrazia.

Il costituzionalista Vittorio Angiolini, parlando di Trentin ha detto acutamente: “Il socialismo di Trentin è esercizio quotidiano dei diritti e delle libertà per vincere la resistenza di qualunque potere anche più democratico, tanto pubblico che privato, a perpetuare se stesso, e quindi anche le proprie contraddizioni e la propria vocazione a mettere freni alla libertà.” “il potere eteronomo, continua, per quanto democratico è acquisito come dato imprescindibile del vivere sociale, ma è visto come sempre imperfetto, incompiuto, sospetto in confronto all’autoaffermazione “ (p.48, in “Il futuro del sindacato dei diritti. Ediesse 2009)

In questa ricostruzione del pensiero di Bruno sembra di leggere Primo Levi quando scrive in “ I sommersi e i salvati”, libro grandissimo :” Il potere è come la droga … nasce la dipendenza e la necessità di dosi sempre più alte; nasce il rifiuto della realtà e il ritorno di sogni infantili di onnipotenza” (p.51).

Concordo con Vittorio Angiolini il quale ha definito la visione della democrazia di Trentin ”eretica”, poiché prevalenti se non dominanti sono l’autotutela individuale e collettiva della libertà e dei diritti. Una democrazia dunque dal basso , che si manifesta prima di tutto nella società civile, sebbene Bruno non abbia mai messo in discussione le regole e le procedure democratiche (il suffragio universale, la separazione dei poteri, il principio di maggioranza ecc) e il sistema politico parlamentare. Ma questo sistema è solido e in grado, di edificare una società socialista libera ed altamente democratica se c’è un altrettanto forte e radicato sistema di autotutele alla base, nella società civile, che non si limita ai partiti politici. L’antidoto alla tossicità del potere è la sua democratizzazione e socializzazione; e comprende una questione di principio che i comunisti, fino al collasso del 1989, hanno evitato di affrontare: l’accettazione dell’alternanza democratica, tra destra e sinistra e viceversa, anche dopo la conquista del potere politico..

Il perno centrale della sua concezione del socialismo è tuttavia la prima parte della definizione, cioè la ricerca ininterrotta per la liberazione della persona e per la sua capacità di autorealizzazione”. Qui sta, a mio parere, la parte più innovativa. Innanzitutto la concezione della persona. Per Trentin la persona umana viene prima della classe e di ogni collettività. E così deve essere considerata. La persona è l’individuo elevato a valore, perché ha un progetto vita, di autoaffermazione. E’unica e indivisibile. Anche per questa ragione i diritti fondamentali sono indivisibili. Sono evidenti i debiti di Bruno nei confronti del personalismo cristiano di Enmanuel Mounier e di Jacques Maritain e la sua vicinanza a Simone Weil, ma non va ignorato che suo padre Silvio colloca la libertà della persona in primo piano tra i quattro principi fondamentali degli abbozzi di Costituzione, dettati durante la guerra di Liberazione, sia in quella francese che in quella italiana, insieme all’autonomismo locale e al federalismo, al fine di bilanciare e di correggere i pericoli dello statalismo monocratico e dell’economia collettivista.

Potrebbe essere utile una ricerca sul tragitto compiuto da Bruno per giungere alla priorità della persona nei confronti della classe. Bruno ovviamente non nega il concetto di classe, ma la classe operaia non è mai stata  per lui una mera ideologia, ma oggetto di ricerca molto concreto, nella sua composizione, nelle sue differenze e così via. In uno scritto ponderoso inedito, del 1956, trovato tra i suoi appunti giovanili, critica proprio questa visione ideologica in risposta ad un saggio di Franco Rodano, pubblicato su “Nuovi argomenti.

E’ significativo ciò che scrive nel 1977 nell’introduzione del libro “ Da sfruttati a produttori”, libro che rappresenta un po’ il bilancio dei suoi anni a capo della FIOM e della FLM. “ E’ difficile sottrarsi- scrive- alla sensazione che, ricorrentemente, questa concezione della classe operaia dirigente , come classe di produttori … è stata calata e sovrapposta sui problemi specifici della classe operaia italiana, con il risultato che accanto a momenti di feconda coincidenza sono stati registrati , anche, gravi sfasature rispetto agli impulsi reali della lotta di classe e del movimento delle masse….e la concezione del ruolo dirigente ed egemone della classe operaia  e  il processo di trasformazione cosciente dello sfruttato in produttore si presentano come riferiti unicamente all’azione che i lavoratori possono svolgere all’esterno del luogo di lavoro e quindi all’esterno della loro condizione specifica di sfruttati” (p. LXXXIII).

Non mi sembra che sia necessario aggiungere alcuna postilla, se non che il riferimento critico è anche al pensiero di Gramsci che riprenderà con maggiore ampiezza in “La città del lavoro” ”. Il primato della persona è pienamente maturo quando diventa segretario generale della CGIL e ripensa il sindacato come sindacato del lavoratore-persona, dei diritti, della solidarietà e del programma- progetto. L’altro aspetto innovativo è il modo con cui concepisce la libertà. Non a caso la sua ultima opera la intitola “La libertà viene prima”. Anche a questo proposito c’è un rovesciamento rispetto al pensiero comune della sinistra e del movimento operaio, socialista e comunista, che ha sempre considerato l’eguaglianza prioritaria rispetto alla libertà, come ci ha più volte ricordato Norberto Bobbio.

Quando si parla di libertà ciò che sta più a cuore a Bruno è la libertà nel lavoro. Perché è con e attraverso il lavoro che l’uomo si realizza. Per Bruno il lavoro è il diritto dei diritti, il garante fondamentale della libertà della persona. E’ evidente la diversità rispetto alla dottrina liberale che concepisce la proprietà come matrice della libertà. Ma è diverso anche rispetto alla concezione che fa dipendere la liberazione umana dalla proprietà collettiva e dal primato, direbbe Bruno, dello statalismo e del classismo. La sua è una concezione del lavoro antropologica, cioè come tratto tipico della condizione umana. Ne vede anche la centralità economica, come fondamento dello sviluppo della società e della sua stessa democrazia. Non fa mai alcuna concessione verso il lassismo e verso  la mancanza del dovere. e quindi c’è anche una centralità etica del lavoro, ma non ideologica.

Trentin , per esempio, è sempre stato contrario al reddito minimo garantito e alle altre forme di salario sociale. Questo modo di concepire la persona e il lavoro ha ovviamente conseguenza anche sulla visione del socialismo. Il problema che si pone per tutta la vita è come far uscire il lavoro dalla sua mercificazione, ancora più pesante con il taylorismo, come riuscire a trasformarlo da fatica, sacrificio, imposizione in lavoro libero, e mezzo per l’autoaffermazione della persona ed anche della sua gratificazione per l’opera ben fatta. Il suo pensiero dominante è che non ci può essere socialismo senza umanizzazione del lavoro.

Troppo nota è la sua lotta contro la cosiddetta organizzazione scientifica del lavoro per riprenderla ancora una volta. “La città del lavoro”, il suo libro più maturo, è imperniato sulla critica del taylorismo, mettendo in luce i ritardi e la passività della sinistra comunista e socialdemocratica L’alienazione del lavoro e la stessa disumanizzazione non possono essere combattute –soltanto – con la riduzione del tempo di lavoro e con gli aumenti salariali. Questi sono risarcimenti compensazioni, non è la libertà e l’umanizzazione nel lavoro. Con l’organizzazione scientifica del lavoro il lavoro viene “svuotato”, diviene una appendice della macchina e della tecnica.

La brutalità del taylorismo Bruno la scopre dopo la sconfitta della FIOM alla Fiat, nel 1955, quando viene inviato da Di Vittorio a cercare le ragioni di quella sconfitta, a verificare sul campo la condizione operaia e il rapporto con il sindacato. A detta di molti, a partire da Aris Accornero, che allora era operaio della RIV di Torino, Trentin fu il primo che ipotizzò la necessità di intervenire e di lottare come sindacato non solo sul salario ma su tutti gli aspetti del rapporto di lavoro e per un controllo complessivo dell’organizzazione produttiva. Per questo scrive persino, con Renzo Ciardini, allora segretario della Camera del lavoro di Genova, a Palmiro Togliatti, che in un intervento al comitato centrale del partito aveva indicato come prioritaria la lotta salariale nella lotta al capitalismo. La lettera è del febbraio 1957. In quegli anni, come si ricava dai suoi appunti, il neocapitalismo è l’oggetto più frequente delle sue ricerche.

Chiede persino – invano- alla segreteria della CGIL di potere fare il part time per scrivere su questo tema uno studio più organico destinato alla pubblicazione. Di qui si dipana la sua riflessione, teorica e pratica, che lo porterà ad essere uno dei più competenti studiosi del capitalismo italiano ed europeo ( le relazioni ai convegni dell’Istituto Gramsci del 1962 e del 1965) e il protagonista teorico e pratico della esperienza degli anni Settanta dei consigli di fabbrica. Trentin prende atto del fallimento storico dell’ideologia consiliare, e , al suo posto, cerca una nuova via che considera i consigli non come potere autonomo e tanto meno come organi del nuovo Stato dei consigli e dell’autogoverno dei produttori, ma come strumenti e organi di base del sindacato unitario il cui compito non è la gestione aziendale, considerata da Bruno velleitaria, ma il controllo della organizzazione del lavoro. Per ragioni di libertà del lavoratore, ma anche di giustizia sociale, affinché il sindacato non operi soltanto a valle del processo  produttivo, ma a  monte  laddove si forma l’accumulazione della ricchezza. Il consiglio di fabbrica però deve tenere conto parimenti delle logiche di impresa e manageriali, ed anche dell’interesse generale, misurando responsabilmente la partecipazione e il conflitto. Anche in questo consiste il suo essere socialista, che pensa non soltanto al capitalismo di oggi, ma al socialismo di domani.

Una società in cui il sindacato è totalmente libero e autonomo da qualsiasi potere, sia economico che politico specialmente; ed è uno dei soggetti principali della riforma della società civile. Trentin era parecchio più avanti del PCI nella critica, spesso aspra, nei confronti del modello sovietico e del socialismo realizzato dei paesi dell’Est, tanto da sostenere ovunque il dissenso apertamente e spesso fattivamente come accadde prima con la rivoluzione di velluto cecoslovacca e poi con Solidarnosc in Polonia.

Come definire la sua visione del Socialismo? Socialismo liberale? Socialismo libertario? Parlando a Montecitorio del suo rapporto con Foa anch’io ho utilizzato questo termine, anche perché ne “La città del lavoro”confessa di sentirsi parte della storia della sinistra minoritaria e libertaria che ha perso la battaglia rispetto al socialismo di Stato. Senza dubbio qualcosa dell’eredità di Carlo Rosselli e di “Giustizia e Libertà” e dell’azionismo c’è in Bruno. Come in una certa misura è rimasta in lui l’adolescenza libertaria con le sue prime esperienze politiche anarchiche; e la libertà rimane la sua bussola per tutta la vita.

Inoltre a me ha colpito una sua frase che ho letto nel suo diario degli ultimi anni, in cui scrive dinanzi alla babele dei riformismi, al profluvio sul nuovo riformismo: “Meglio la socialdemocrazia”. E’ vero, egli non amava il riformismo e neppure la socialdemocrazia: per ragioni, se si vuole, storiche, basate sulla propria esperienza ( il cedimento di fronte al nazismo e al fascismo,l’incertezza nella guerra civile di Spagna), ma anche perché vi scorgeva un opportunismo teorico che, come il comunismo storico, perpetuava il primato dello statalismo e del classismo.

Giannantonio Paladini ha definito la politica di Silvio Trentin “socialismo federalista”. Sicuramente Bruno ha ereditato anche questo modo di concepire il socialismo. E in modo non secondario, dato il fortissimo affetto che lo legava al padre. Egli tuttavia, a mio parere, è meno giacobino del padre, meno propenso a riconoscere un ruolo decisivo alle èlites nel processo rivoluzionario e nella edificazione dello Stato federale. Del resto operano in contesti storici parecchio diversi.

Ma tutte queste definizioni non danno il senso del suo pensiero. A mio parere egli non si lascia racchiudere In nessuna di esse. Per me Bruno è un sindacalista intellettuale e uno scienziato ricercatore, che studia continuamente le trasformazioni della società, dell’economia, della politica; e dunque uno scienziato empirico e antidogmatico, che tra l’altro non si limita a studiare, ma verifica nell’attività pratica sindacale e politica i risultati delle sue ricerche. Del resto aveva gli strumenti e l’esperienza per compiere questo percorso. Conoscenza delle lingue, conoscenza del mondo che aveva girato in lungo e in largo, contatti e relazioni diffusi in tutti i paesi più importanti, una esperienza a largo raggio non soltanto sindacale, ma politica ed anche istituzionale (consigliere comunale a Roma, parlamentare nazionale ed europeo).

Ultima annotazione. Come si giustifica o si spiega la sua appartenenza al PCI, mai smessa, con la sua concezione del socialismo, di certo originale ed anche anomala? Il suo è, senza dubbio, un socialismo eretico. Bruno si iscrive al PCI nel 1950. Non era comunista quando, nell’autunno 1949, entrò nell’ufficio studi della CGIL come ricercatore chiamato da Vittorio Foa. Ebbe la fortuna di partecipare subito alla straordinaria battaglia del “piano del lavoro”. Il primo articolo lo pubblica su “Quarto Stato”, la rivista di Lelio Basso ed è la recensione di “Americanismo e fordismo” di Gramsci, appena uscito. (“La società degli alti salari”, giugno 1950).

Il suo maestro è Di Vittorio, ma anche i massimi dirigenti del PCI lo seguono con attenzione. Nell’archivio del PCI si è trovata una sua richiesta del 1953 di passare alla sezione economica del partito, a causa dei dissapori con Ruggero Amaduzzi, che dirigeva l’ufficio studi della CGIL. La richiesta venne accolta da Longo e Scoccimarro, ma bloccata da Di Vittorio. Il rapporto con il partito si allenta parecchio, dopo l’Ungheria. Bruno era allora il responsabile della cellula del PCI della sede centrale di corso d’Italia. Infatti non viene eletto nel comitato federale di Roma, Non si spegne però. Trentin continua a collaborare con il “Gramsci” e con “Politica ed economia” la rivista che aveva sostituito “Critica economica” di Antonio Pesenti, di cui era stato stretto collaboratore. Nei suoi confronti da parte del partito c’è una certa diffidenza, ma non tale da impedire di indicarlo come relatore all’importante Convegno sulle tendenze del capitalismo italiano e prima ancora, nel congresso del 1960, di essere eletto nel comitato centrale; e nel 1963 deputato in Parlamento da cui si dimette prima della fine della legislatura per incompatibilità sindacale.

Anche durante gli anni della sua segreteria della FIOM e della FLM il rapporto con il partito ha alti e bassi. La tensione si manifesta in più occasioni: all’XI congresso, 1966, in cui si discusse il primo centrosinistra, quando Bruno si schiera a fianco di Pietro Ingrao, nella discussione molto accesa sui consigli di fabbrica, nella vicenda del Manifesto (Bruno è contro la radiazione, pur non essendo d’accordo con le loro posizioni). Più in generale Trentin è critico con la politica del partito incapace di dare uno sbocco politico adeguato alla lotta operaia. Condivide la sostanza politica della proposta del compromesso storico di Berlinguer, ma la considera eccessivamente verticistica, e dunque inefficace e rischiosa. Dopo la fine della solidarietà nazionale gli viene chiesto però, sebbene in modo non ancora ufficiale, di assumere l’incarico di responsabile economico del partito, ma non accettò. Per quanto il PCI fosse un animale strano –giraffa o liocorno che fosse – prima del partito per Bruno Trentin c’è sempre stata la CGIL.

Anche dopo, negli anni Ottanta e Novanta, nella segreteria della CGIL e da segretario generale, dissente spesso dalle posizioni del partito. Ma mai pensa di lasciare il partito. Il suo rapporto è sempre leale e rigoroso nel rispetto delle regole di vita interna.,nel partecipare alla discussione e alle riunioni. Il suo pensiero è certamente eterodosso; egli stesso , nel racconto in cui ricorda gli anni 1956-1957, e la sua condanna dell’intervento sovietico in Ungheria, si definisce eretico, o meglio uno degli eretici della CGIL. Ma rimane parte e all’interno del partito. Come tutti gli eretici d’altra parte. Non c’è mai in Trentin aristocraticismo , né tanto meno narcisismo morale o intellettuale. Sa bene, per esperienza, specialmente quella azionista, che l’attività politica non può esaurirsi nella testimonianza, ma si invera se di massa, non solo di massa e per le masse, ma con le masse.

Bruno segue il partito anche durante la svolta del 1989 e lo scioglimento del PCI, pur essendo convinto – e lo dice- che l’obiettivo della costituente di un partito nuovo di sinistra democratica fosse giusto, ma il processo fosse sbagliato, poiché si doveva partire dalla cosa, cioè dai contenuti e dal progetto di una nuova società, non dal nome. Dalla “svolta” coglie l’occasione per superare le correnti all’interno del sindacato; e dopo la segreteria della CGIL e dopo essere ritornato, come desiderava, a fare il ricercatore sociale, nel 1999 diventerà parlamentare europeo del PDS.

Alla domanda di un giovane studente che stava scrivendo la tesi di laurea e che gli chiese se suo padre Silvio allo scioglimento del Partito d’Azione “sarebbe diventato comunista, se non fosse morto così prematuramente” Bruno rispose.” E’ molto difficile dare una risposta. Certamente avrebbe aderito più al partito socialista che al partito repubblicano; tuttavia non so se magari non sarebbe stato attratto dall’idea di cambiare il PCI”. Io credo che, dando questa risposta, Bruno pensasse a se stesso. (tesi di laurea di Michele Traverso, Università di Genova, Scienze politiche, 2001-2002)

C’è un orizzonte che Bruno ha tenacemente cercato : la politica della sinistra non può esaurirsi nell’ arte per la conquista e per la gestione del potere, pena di cadere nel narcisismo politico e quindi nel cinismo e nel trasformismo. La buona politica è creazione di libertà individuali e collettive; è l’utopia della trasformazione della vita quotidiana; è soprattutto cimento per ridurre la distanza tra i governati e i governanti, Così, come è noto, la pensava anche Antonio Gramsci Bruno, mentre si avvicina agli ottanta anni, nel diario personale cerca di fare un bilancio delle sue idee e della propria vita. E’ un bilancio amaro. “ Sento -scrive- che il mio messaggio sulla libertà nel lavoro, sulla possibile autorealizzazione della persona non è passato e che la politica ha preso ormai un’altra strada. Questo vuol dire essere “Out”, bellezza!”

Io non credo che sia così. Almeno lo spero. Ma dipende da noi e anzitutto dalle generazioni giovani fare in modo che il suo messaggio non sia acqua passata.

Fonte: centrotrentin.it