Movimento Socialista in terra di Bari 1874 -1946

La Puglia, fin dagli esordi del movimento operaio, non era rimasta ai margini della storia d’Italia. Essa fu dapprima interessata dallo sviluppo del movimento anarchico bakuniano. Non a caso il “Comitato per la rivoluzione sociale” aveva disposto che la Puglia fosse il “centro di raccolta” degli internazionalisti meridionali in vista dell’insurrezione che doveva scoppiare nell’agosto del 1874. Il progetto insurrezionale dell’agosto del 1874 che, nelle intenzioni degli internazionalisti doveva chiamare le masse italiane alla “rivoluzione sociale“, emerge con estrema chiarezza dagli atti del procedimento penale istruitosi a Trani nel corso del 1875 a carico di ERRICO MALATESTA e di altri internazionalisti meridionali. La Puglia, infatti, si trovò al centro, per opera di Cafiero, della trama anarchica nel Mezzogiorno, fino alla crisi dell’Internazionale, apertasi con il fallimento dei “Moti del Matese” del 1877 di cui fu ispiratore lo stesso Cafiero. Figure come Cafiero, Covelli e Palladino, non sono esempi isolati, ma espressione di una realtà organizzativa che collegava tutto il Mezzogiorno ai centri direttivi dell’Internazionale. Ciò spiega il termine iniziale della ricerca fissato non al 1892, data di fondazione del Partito, ma appunto al 1874. E’ stato così possibile mettere a nudo le origini del movimento che prendeva le mosse dalla crisi della I Internazionale e dal conseguente distacco dall’anarchismo collettivista, di un filone del socialismo che si pose sul terreno della democrazia e che dette vita anche in Puglia al primo nucleo del Partito dei lavoratori italiani. Da quella crisi e dal tramonto dei progetti del radicalismo repubblicano più intransigente si venne a formare contemporaneamente a quanto avveniva in campo nazionale, quel movimento socialista moderno che aveva avuto come elementi di spicco Andrea Costa e Filippo Turati. Nel 1893, subito dopo il Congresso di Genova, sorse in Puglia la “Federazione socialista pugliese“. A Molfetta nell’estate di quell’anno si celebrava il I° Congresso regionale che dette l’avvio alla griglia provvisoria del partito. Vi parteciparono figure destinate ad avere un ruolo importante nella diffusione del socialismo: Giovanni Ancona-Martucci di Bitonto, Giovanni Colella di Bitetto, Leonardo Mezzina di Molfetta, Carlo Musacchio di Gravina. Dopo la caduta del governo Crispi la breve ripresa legale è sottolineata dalla venuta in Puglia di Costa e dalle elezioni del 1897. Il partito pugliese si trovò al centro della bufera con i moti del 1898 che interessarono centri importanti come Minervino Murge e la stessa Bari. Moti che vennero repressi duramente e che dettero luogo ad una serie di processi di cui il più importante fu quello per i fatti di Minervino Murge in cui fu coinvolto Carmine Giorgio. Con la repressione del governo Pelloux il movimento socialista uscì rafforzato dalla “crisi di fine secolo”. Infatti una lettera di Turati a Giovanni Colella sottolinea la crescita del movimento socialista in Puglia che entrerà a far parte dell’area “forte” del movimento nazionale, grazie al lavoro di alcuni pionieri come Felice Assennato, Vito Mario Stampacchia ed altri. L’elezione di Gaetano Salvemini nel collegio di Molfetta, dove i partiti popolari (repubblicani e socialisti) riescono a sconfiggere il corrotto partito clerical-moderato, introduce nella città un primo esperimento di governo riformista. Subito dopo il primo dopoguerra il movimento socialista pugliese era ormai un moderno movimento di massa e nelle elezioni del 1919 riuscì ad eleggere cinque deputati. Nelle elezioni successive si assicurò il controllo di importanti amministrazioni come Corato, Barletta, Santeramo e Canosa. Ancora nelle elezioni del 1921 precedute e seguite da gravissimi episodi di cui il più tragico fu l’assassinio di Di Vagno la forza socialista si mantenne quasi inalterata. Anche a livello regionale le divisioni interne nel socialismo, dopo la scissione di Livorno, per la presenza di un folto gruppo di sindacalisti rivoluzionari, esposero il movimento operaio, senza più un sistema di alleanze, all’attacco fascista. Quest’ultimo fu caratterizzato da episodi “militari” come la conquista di Andria ad opera delle squadre di Starace e Caradonna. Il socialismo pugliese, sottoposto ad una nuova e più grave scissione, quella della frazione “Terzo internazionalista“, oppose ciò nonostante una forte resistenza al fascismo sino alle leggi eccezionali. Dopo l’assassinio di Matteotti, nasceva contemporaneamente un filone di “nuovo socialismo“. Esaminando i documenti relativi agli anni della clandestinità emerge un quadro inedito dell’antifascismo pugliese. All’interno del movimento socialista nasce una linea liberal-socialista che, traendo origine dalla crisi del combattentismo passa attraverso le esperienze dei gruppi come quelli di “Rivoluzione liberale” di Rosselli. Questa corrente darà poi vita a “Giustizia e Libertà” e più tardi al partito d’Azione che ebbe in Puglia una sua posizione di forza. Dopo la caduta del regime, tutta la vita amministrativa “si inquadra in una sostanziale continuità dei modi del governo locale rispetto al pre – 25 luglio, mentre sul versante politico” vi sono da registrare le deliberazioni in misura di epurazione. A fronte di un biennio 1944-45, che “registra una ulteriore progressiva disgregazione delle forme di governo e di controllo sulla situazione eccezionale” bisognerà attendere gli ultimi scorci del 1945 perché le forme di protesta popolare spontanee si tramutino “in un movimento più politicamente orientato e più attivamente gestito dalle Camere del lavoro locali”. Dai primissimi giorni del 1944, l’attenzione delle autorità civili e militari e delle neo-ricostituite forze politiche si accentra intorno all’ipotesi di tenere a Bari il Congresso dei C.L.N., dopo le difficoltà sorte a Napoli, con una minuziosissima attività di informazioni e sorveglianza estesasi sino a tutto il 29 gennaio. Altresì interessanti – ai fini di una puntuale ricostruzione storica – si manifestano i precisi e ricorrenti rapporti mensili del Questore sulla situazione dei diversi partiti riorganizzatisi nella Provincia, che consentono di seguirne i ritmi dell’incremento numerico e della localizzazione territoriale. Con l’appressarsi del 1946 i motivi politici cominciano a mutare anche nella Puglia barese: ai moti politici e ai movimenti ai protesta organizzati, tenderà sempre più a contrapporsi uno Stato che è in grado di rispondere con la forza, man mano che si avvicina a quelle elezioni amministrative. Il moltiplicarsi dello sforzo organizzativo di gruppi e partiti politici, in vista delle elezioni amministrative, la complessa procedura attivata per la consultazione politica e referendaria e i risultati elettorali, il …

L’ECCIDIO DI MARZAGAGLIA

Il primo luglio del 1920, in pieno biennio rosso, si consumava la strage di Marzagaglia di Gioia del Colle che si può definire la Portella della Ginestra pugliese, anche se maturata in un contesto storico differente. La polizia e l’esercito spararono su uomini e donne inermi per difendere gli agrari. Quasi cento anni fa, il primo luglio del 1920, Gioia del Colle fu scossa da una strage di inaudita violenza. Si era nel pieno del «biennio rosso» alimentato dalle promesse non mantenute di dare la terra ai braccianti affamati e disoccupati tornati dalle trincee della Grande Guerra, e inasprito – a Sud, e soprattutto in Puglia – da nuove forme di rivendicazione: i contadini si recavano su un terreno, spesso incolto, lo lavoravano e alla fine della giornata pretendevano un compenso. Contro queste azioni si scatenò in quegli anni una violentissima repressione, oggi del tutto dimenticata. Basta rileggere le cronache dell’epoca per capire come quasi ogni giorno – nel Tavoliere, nelle Murge, in Salento, e in Sicilia, Lucania, Calabria, così come nella Pianura Padana – la polizia e l’esercito sparassero su uomini e donne inermi per difendere gli agrari, o, in alcuni casi, per difendere i mezzadri dei grandi latifondi che si trovano spesso in prima linea in quel cruento conflitto di classe: ex braccianti a loro volta, che pretendevano e volevano «ordine» più degli stessi proprietari. Il socialismo e il movimento dei lavoratori (come testimoniano le biografie di Peppino Di Vittorio) sono nati nelle campagne pugliesi non meno che in quelle romagnole. Così come, in fortissima contrapposizione, il fascismo agrario ha avuto nelle stesse lande uno dei suoi laboratori di incubazione. Ma torniamo a Gioia del Colle, e al primo luglio di novant’anni fa. Alcune decine di braccianti avevano lavorato alla pulitura della vigna a Marzagaglia, una contrada tra Gioia e Castellaneta, presso la masseria della famiglia Girardi. Quel giorno i braccianti furono attirati dalla promessa di un lavoro retribuito. Ma a fine giornata, raccolti nell’aia per ottenere il pagamento, si ritrovarono inaspettatamente vittime di una «punizione esemplare». Dal tetto della masseria, dalle feritoie, dai balconi furono presi a fucilate. E coloro che riuscirono a scappare da quel cortile di morte, furono raggiunti e finiti a freddo da uomini a cavallo, anche a due-tre chilometri di distanza dall’epicentro delle prime raffiche. Alla fine si contarono sei morti: Pasquale Capotorto, Vito Falcone, Vincenzo Milano, Rocco Montenegro, Rocco Orfino, Vitantonio Resta. Vitantonio aveva solo sedici anni. La particolarità della strage di Marzagaglia non è tanto nel numero dei morti (purtroppo consueto all’epoca), quanto nella sua organizzazione. A sparare sui lavoratori inermi, non fu l’esercito e non fu neppure lo squadrismo che sarebbe nato successivamente. Furono direttamente alcuni proprietari e alcuni mezzadri del paese, che raccoltisi in gran numero nella masseria gioiese, e stretto tra loro una sorta di «patto di sangue» ancestrale e pre-politico, decisero di far da soli. Nel suo carattere di violenza assoluta, non mediata, costituisce quasi un caso studio. La reazione popolare all’eccidio fu scomposta e disperata, a stento contenuta dal Partito socialista e dalla Camera del lavoro. Furono creati dei posti di blocco improvvisati, e il 2 luglio – in risposta alle violenze del giorno prima – furono ammazzate tre persone che si riteneva legate all’iniziativa degli agrari. Poi arrivò l’esercito a ristabilire l’ordine. Per i funerali dei contadini uccisi, un lungo corteo funebre attraversò il paese: tra le orazioni, ci fu anche quella di Giuseppe Di Vagno, che sarebbe stato ucciso dai fascisti solo pochi mesi dopo. Il processo per i fatti di Gioia del Colle fu lungo e tortuoso e si concluse con la piena assoluzione di tutti i proprietari e mezzadri che avevano organizzato o partecipato all’eccidio con la tesi (assurda) della legittima difesa. Ma per comprendere l’incredibile conclusione della vicenda, bisogna anche ricordare che la sentenza fu emessa dalla Corte d’Assise di Bari nell’agosto del 1922, in un momento molto particolare, negli stessi giorni in cui la città visse tensioni da guerra civile, con l’aggressione dei fascisti alla Camera del lavoro di Bari vecchia. La marcia su Roma fu intrapresa solo due mesi dopo. Il ricordo dell’eccidio incrudelì per molto tempo le relazioni sociali dei paesi delle Murge, e il «fare come a Gioia» rimase a lungo una minaccia anti-operaia. Poi la memoria dei fatti si affievolì. Nel 1970 fu celebrato il cinquantenario della strage, negli anni Ottanta le vittime della sparatoria furono equiparate alle vittime della persecuzione fascista e ottennero tardivamente una medaglia. Poi più niente, salvo le ricostruzioni di alcuni storici che hanno impedito che l’oblio risucchiasse tutto. Eppure a Gioia, ancora oggi, sono molte le persone che discendono dai protagonisti di quella giornata di sangue, e che ricordano quanto vi accadde nei minimi particolari. La memoria non ha mai un percorso lineare, e a volte il mare della dimenticanza è intervallato da inaspettati grumi di ricordi affastellati. Il novantennale della strage di Marzagaglia (che non è cosa retorica definire la Portella della Ginestra pugliese, anche se maturata in un contesto storico differente) fu ricordato a Gioia del Colle in una commemorazione pubblica presso l’Arco Nardulli. Gioia e la Puglia sono enormemente cambiate, come è ovvio, ma quella violenza sui braccianti, su chi la terra la lavora, rimane un paradigma. Un paradigma che purtroppo – anche se in forme nuove – si è riprodotto in anni recenti contro numerosi braccianti stranieri, provenienti dall’Africa o dall’Europa dell’Est. Alessandro Leogrande  

Concorsi pubblici negli Enti Locali, la rassegna settimanale

Come di consueto si pubblica la rassegna dei concorsi pubblici selezionati dalla Gazzetta Ufficiale. Gazzetta Ufficiale 4° Serie Speciale – Concorsi ed Esami n. 84 del 3.11.2017: COMUNE DI ALESSANO CONCORSO (scad. 30 novembre 2017) Concorsi pubblici, per titoli ed esami, per la copertura di complessivi quattro posti di vari profili professionali (17E08195). COMUNE DI AUSTIS CONCORSO (scad. 4 dicembre 2017) Concorso pubblico, per titoli ed esami, per un posto di pedagogista, categoria D1, a tempo indeterminato – part-time, ai sensi dell’articolo 52, comma 1-bis, del decreto legislativo n. 165/2001. (17E08128). COMUNE DI BIASSONO CONCORSO (scad. 4 dicembre 2017) Concorso pubblico, per soli esami, per l’assunzione a tempo pieno ed indeterminato di due istruttori amministrativi categoria C1. (17E08112). COMUNE DI CERENZIA CONCORSO (scad. 4 dicembre 2017) Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto a tempo indeterminato e part-time al 50% di istruttore direttivo per l’area tecnica – categoria D, posizione economica D1. (17E08245). COMUNE DI CISTERNINO CONCORSO (scad. 18 novembre 2017) Avviso pubblico di selezione, per titoli e colloquio, per il conferimento di incarico a tempo determinato, ex articolo 110 del decreto legislativo n. 267/2000 per il profilo professionale di funzionario contabile, categoria D3, cui il Sindaco intende attribuire l’incarico di responsabile di posizione organizzativa. (17E08146). COMUNE DI CIVITA CASTELLANA CONCORSO (scad. 4 dicembre 2017) Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di collaboratore farmacista, a tempo pieno ed indeterminato – categoria giuridica D1 dell’ordinamento professionale. (17E08199). COMUNE DI LEMIE CONCORSO (scad. 4 dicembre 2017) Selezione pubblica, per esami, per la copertura di un posto di agente di polizia locale – categoria C a tempo indeterminato e pieno. (17E08246). COMUNE DI MARANELLO CONCORSO (scad. 23 novembre 2017) Selezione per la copertura a tempo indeterminato, con orario di lavoro a tempo pieno, di un posto di istruttore amministrativo categoria C, presso il Servizio cultura, sport e politiche giovanili mediante passaggio diretto di personale appartenente alla stessa categoria e profilo professionale, in servizio presso altre pubbliche amministrazioni, ai sensi dell’articolo 30 del decreto legislativo n. 165/2001. (17E08247). COMUNE DI MARANELLO CONCORSO (scad. 23 novembre 2017) Selezione per la copertura a tempo indeterminato, con orario di lavoro a tempo pieno di un posto di istruttore direttivo amministrativo categoria D, presso il Servizio istruzione mediante passaggio diretto di personale, in servizio presso altre pubbliche amministrazioni, ai sensi dell’articolo 30 del decreto legislativo n. 165/2001. (17E08248). COMUNE DI MARTINA FRANCA CONCORSO (scad. 4 dicembre 2017) Concorso, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di istruttore direttivo informatico categoria D, posizione economica D1 a tempo pieno ed indeterminato. (17E08196). COMUNE DI MONCHIO DELLE CORTI CONCORSO (scad. 4 dicembre 2017) Concorso pubblico, per esami, per la copertura di un posto di collaboratore tecnico – operaio specializzato categoria B3, a tempo pieno ed indeterminato. (17E08201). COMUNE DI MONTIRONE CONCORSO (scad. 4 dicembre 2017) Avviso esplorativo per la selezione di personale finalizzato all’eventuale passaggio diretto di un dipendente – categoria C – agente di polizia locale – (posto non ancora vacante) in servizio presso altre pubbliche amministrazioni ai sensi dell’articolo 30 del decreto legislativo n. 165/2001. (17E08198). COMUNE DI ORTONA AVVISO (scad. 4 dicembre 2017) Comunicato di rettifica e proroga del termine di presentazione delle istanze di partecipazione del concorso, per titoli ed esami, per l’assunzione a tempo indeterminato e pieno di un istruttore tecnico, categoria C, da assegnare al settore attivita’ tecniche e produttive. (17E08216). COMUNE DI PIGLIO CONCORSO (scad. 4 dicembre 2017) Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di istruttore direttivo amministrativo e contabile, categoria giuridica D, categoria economica D1 a tempo indeterminato e parziale ventiquattro ore. (17E08129). COMUNE DI RIVARA CONCORSO (scad. 4 dicembre 2017) Selezione pubblica, per esami, per la copertura a tempo pieno ed indeterminato di un posto di agente di polizia municipale – categoria C, posizione economica C.1. (17E08148). COMUNE DI RIVOLI VERONESE CONCORSO (scad. 4 dicembre 2017) Selezione pubblica, per titoli ed esami, per la copertura di un posto a tempo pieno ed indeterminato, categoria giuridica ed economica D3 da assegnare al settore economico finanziario. (17E08111). COMUNE DI ROBBIO CONCORSO (scad. 4 dicembre 2017) Selezione pubblica, per esami, per la copertura di un posto a tempo pieno ed indeterminato di agente di polizia locale – categoria C – posizione economica C1. (17E08244). COMUNE DI ROE’ VOLCIANO CONCORSO (scad. 4 dicembre 2017) Concorso pubblico, per esami, per la copertura a tempo indeterminato e pieno di un posto di agente polizia locale – categoria C. (17E08200). COMUNE DI SALERNO CONCORSO (scad. 4 dicembre 2017) Selezione pubblica per l’assunzione a tempo indeterminato di un dirigente contabile mediante presentazione di candidature da parte di idonei in graduatorie di concorsi pubblici espletati da altri enti. (17E08153). COMUNE DI SALERNO CONCORSO (scad. 4 dicembre 2017) Selezione pubblica per l’assunzione a tempo pieno ed indeterminato di un assistente sociale mediante presentazione di candidature da parte di idonei in graduatorie di concorsi pubblici espletati da altri enti. (17E08154). COMUNE DI SALUZZO CONCORSO (scad. 4 dicembre 2017) Concorso pubblico, per soli esami, per la copertura di un posto a tempo indeterminato e pieno e di un posto a tempo determinato e pieno di istruttore direttivo tecnico – categoria D, posizione giuridica D base D.1 – per i Comuni di Bagnolo Piemonte e Saluzzo. (17E08150). COMUNE DI SANT’ANTONIO ABATE CONCORSO (scad. 4 dicembre 2017) Rettifica e riapertura dei termini del concorso pubblico, per esami, per la copertura di due posti per istruttore di vigilanza, categoria giuridica C, posizione economica C/1, contratto collettivo nazionale di lavoro regioni e autonomie locali, a tempo indeterminato, part-time 50%. (17E08110). COMUNE DI SETTALA CONCORSO (scad. 4 dicembre 2017) Concorso pubblico, per soli esami, con riserva per i militari delle Forze Armate, per la copertura di un posto di categoria C, posizione economica C1, a tempo parziale (trenta ore settimanali) e indeterminato, profilo professionale di istruttore amministrativo-contabile, da assegnare al settore economico-finanziario. (17E08149). COMUNE DI STELLA CONCORSO (scad. 4 dicembre 2017) Concorso pubblico, per esami, per la copertura di un posto, a tempo pieno e indeterminato, interamente riservato alle predette categorie, inquadrato nella categoria giuridica C1 del vigente contratto collettivo nazionale di …

Il Partito Socialista Italiano dal 1948 al Rapporto Chruščëv

di Angelica Migliorisi  La storia del Partito Socialista Italiano è quasi come quella di un paziente terminale che, non ancora disposto ad abbandonare la vita, rantola nel suo letto d’ospedale in preda a convulsioni e deliri di onnipotenza, deciso più che mai a non lasciarsi sfuggire quell’ultimo soffio di vita che gli viene concesso. La situazione sembra ripetersi all’infinito e nonostante la diagnosi continui a essere quella di “malattia terminale”, egli riesce sempre a beffarsi dei medici, a sopravvivere, tra lo stupore di molti e lo sgomento di altri. Quello che apparentemente può sembrare un paragone azzardato è in realtà un modo come un altro per connotare l’affanno e il turbamento con cui il socialismo italiano, specialmente all’indomani del secondo dopoguerra, si è barcamenato tra i marosi della politica italiana e internazionale. I socialisti avevano dato il loro addio al Fascismo sorridenti ma completamente prostrati sulle ginocchia. Il durissimo colpo inferto loro dal regime aveva reso presto impellente la necessità di una nuova istituzionalizzazione. Tra scissioni, cambiamenti strutturali e battute d’arresto il PSI era riuscito, con somma fatica, a dotarsi di un nuovo assetto organizzativo che, seppur non del tutto stabile, appariva senza dubbio dignitoso. La Fenice d’Italia era arrivata dunque alla vigilia delle elezioni del 1948 piena di speranze e voglia di riscatto, per poi arrestarsi a quel tragico 9% che ne avrebbe compromesso, ancora una volta, la sopravvivenza. Si era imposta quindi l’urgenza di una rinascita, la seconda nel giro di una manciata di anni. La sfida era ambiziosa, la posta in gioco forse ancor più elevata dell’ultima volta. I tempi d’altronde erano cambiati, la società appariva destinata a trasformazioni progressivamente più drastiche ed evidenti (di cui il boom economico sarebbe stata solo la punta dell’iceberg). Le spinte centrifughe interne alla Direzione si sommavano agli attacchi esogeni provenienti dagli altri partiti e dal clima internazionale, al punto che per il PSI, questa volta, restare a galla fu un’impresa titanica. «La lunga notte del socialismo italiano» La sconfitta elettorale aveva finito per generare un profondo solco all’interno del Partito Socialista, sia a livello di base sia a livello di Direzione. Le discussioni circa le cause dell’insuccesso si ripetevano lunghe e violente tanto in seno alla dirigenza quanto tra gli iscritti finché presto non fu avvertita la necessità di un nuovo Congresso. Le linee proposte erano tre: una di “centro” facente capo a Riccardo Lombardi e Alberto Jacometti, una di “sinistra” con Nenni e Morandi e una di “destra” guidata da Giuseppe Romita. Il “centro” perseguiva la rottura del Fronte popolare con i comunisti, pur mantenendo con essi un’alleanza strategica, al fine di ridare al PSI una veste di autonomia; inevitabile, dunque, lo scontro con la “sinistra”, feroce sostenitrice dell’unità d’azione con il PCI. Nell’inquietudine generale che ormai da anni faceva da sfondo ai Congressi socialisti, si aprì a Genova il nuovo assise, tra lo sconcerto, questa volta, di molti: Sandro Pertini, punta di diamante della linea centrista, assesta un “tiro franco” a Lombardi e compagni tirandosi fuori dalla mozione di “centro” e spiegando come l’asse PSI-PCI fosse (troppo) importante per la sopravvivenza del Partito. Tra bocche aperte, occhi sbarrati e un via vai di sali pronti a rianimare deputati svenuti, il Congresso si chiuse con la vittoria del “centro”, che sancì l’avvento alla Segreteria di Jacometti e la nomina a direttore dell’Avanti! di Lombardi. Il Partito, tuttavia, era ormai sull’orlo del precipizio e alle casse vuote si andò sommando lo scarso carisma ed eco “mediatica” della nuova Direzione. A buttare benzina sul fuoco contribuì poi un fatto del tutto eccezionale, quasi impossibile da prevedere: nel giorno in cui i francesi festeggiavano gioiosi la ricorrenza della presa della Bastiglia, tre colpi di pistola raggiungono il corpo di Palmiro Togliatti all’uscita di Montecitorio. L’onda d’urto fu tale da far salire la tensione alle stelle, con sommovimenti che sfociarono in scioperi e, addirittura, nella fuoriuscita della componente cattolica dalla CGIL. In merito all’alleanza con i comunisti, si decise allora di “dare un colpo al cerchio e uno alla botte”: il Fronte veniva mantenuto a livello tattico ma il PSI diventava autonomo a livello organizzativo. Intanto la Direzione doveva far fronte alle veementi e continue tensioni provenienti dall’esterno, soprattutto da quei funzionari che, non riconoscendo il nuovo centro, avevano ripreso a tessere i rapporti con Nenni e Basso. Quando la Direzione si decise a sciogliere il Fronte, iniziò un’opera di infiltrazione comunista all’interno della base socialista (avallata da Togliatti) con l’obiettivo di evitare la rottura definitiva dell’idillio, un’eventualità tragica per i comunisti soprattutto all’indomani dell’attentato. Gli attacchi alla Direzione erano dunque molteplici, scanditi dagli incontri tra Nenni e Malenkov (secondo di Stalin) che rendevano evidenti le mire della “sinistra” di riprendersi il vertice. Circondato da piranha di ogni specie e dimensione, il “centro” aveva come unica chance quella di un’intesa con Romita. Il rifiuto del politico di Tortona fu però così categorico da lasciare completamente isolata la Direzione, ormai sotto scacco. La strada da percorrere rimaneva una e una soltanto: la convocazione di un nuovo Congresso, tra l’incredulità di quanti, avendo fatto un rapido conto, si erano accorti che quello sarebbe stato il quinto in soli tre anni. Le mozioni presentate erano sempre le stesse e, come da pronostico, la “sinistra” uscì dall’assise fiorentino completamente vittoriosa (51%). Nenni, trionfante, riprese il suo posto al tavolo dei “grandi” e, con lui, Morandi e Basso. Il cambiamento nella Direzione avrebbe sancito una svolta strutturale dell’intero assetto partitico in senso autoritario e l’impronta morandiana si sarebbe fatta sentire severa e implacabile. Per dirla con Paolo Mattera, la «lunga notte del socialismo italiano» era appena iniziata. Di fronte alla crisi persistente in cui gravava il partito, la nuova Direzione (composta da un gruppo esiguo di uomini fidati) decise di applicare una linea rigida e inflessibile, che aveva il suo uomo di ferro in Rodolfo Morandi. La strategia utilizzata comprendeva un irrigidimento dei processi amministrativi e di controllo, un approccio paternalistico, una politica d’indirizzo e uno “svecchiamento” dei funzionari di partito, il tutto condito con un pizzico …

“C’è bisogno di socialismo. Intervista a Roger Waters «Pink Floyd»

di Andy Green Intervistare Roger Waters può essere una corsa sfrenata. Se una domanda gli piace, è felice di pontificare a lungo, ma se lo annoi con domande trite e ritrite, svicola e (lui che è capace di risposte del tipo: “se non mangi la carne, non avrai il budino”) ti liquida in pochi, terribili secondi. L’occasione per un’altra chiacchierata con il co-fondatore dei Pink Floyd è l’imminente pubblicazione – il 20 novembre – di ‘Roger Waters The Wall’, documento in CD/BluRay del recente tour di ‘The Wall’, ma inevitabilmente la politica è entrata nella discussione. La telefonata con Waters è avvenuta pochi secondi dopo che Joe Biden ha annunciato il ritiro dalla corsa per le presidenziali; sapendo dell’interesse di Roger per la scena politica, siamo partiti da questo argomento. Roger, hai sentito la notizia di Joe Biden? Ha detto che non si candiderà per la presidenza. “Non capisco che cosa stai dicendo. Non ha senso.” Stavo solo dicendo che Joe Biden non concorrerà per le elezioni presidenziali. “E quindi?” Sono sorpreso. Pensavo che si sarebbe candidato. (tre secondi di pausa) “Grazie di avermi espresso il tuo pensiero.” Va bene, allora. Parliamo di ‘The Wall’. Perché, secondo te, dopo 35 anni ancora riesce ad entrare nel cuore di così tanta gente? “Dopo la morte del movimento di protesta, che era molto vivo tra i giovani nel corso degli anni Sessanta e Settanta, benché in qualche modo disperso nella rivoluzione della Silicon Valley, credo che adesso la gente sia pronta a confrontarsi su questioni filosofiche e politiche di ampio respiro e ‘The Wall’ ne è molto ricco. E molte di tali questioni hanno a che fare con la qualità della vita, con la vita e con la morte. Pertanto, credo che ‘The Wall’ ci consenta di focalizzare l’attenzione su una questione fondamentale, ovvero se vogliamo o non vogliamo vivere in società molto molto simili alla Germania Est prima della perestroika. Non ritorno agli anni Trenta perché dovrei entrare in problemi enormi, ma credo che la gente, pur percorrendo con i paraocchi le strade del capitalismo imperiale, cominci a capire che la legge viene erosa e che le forze armate stanno prendendo il sopravvento nel commercio e le corporazioni sui governi e che la gente non ha più voce in capitolo. In un certo senso, ‘The Wall’ pone la domanda: ‘Ti serve una voce? Se sì, devi assolutamente andare a cercarla perché nessuno te la porterà su un piatto d’argento’.” Com’è cambiato per te il significato dell’album da quando lo hai scritto? “Ho risposto un sacco di volte a questa domanda. All’inizio, aveva una narrazione molto più personale a proposito di un uomo tra i venti e i trent’anni che non riusciva a dare un senso a quanto gli accadeva e a spiegarsi perché si sentisse isolato rispetto agli altri ed incapace di aprirsi. Tale narrazione venne fuori dalla mia esperienza di giovanissimo musicista di successo che, sul palco di fronte al pubblico, avvertivo un’estrema lontananza e fu per quello che pensai alla trovata teatrale della costruzione fisica di un muro davanti al palco che esprimesse il mio senso di alienazione. Adesso ‘The Wall’ parla di me che, però, non avverto più quel senso di alienazione rispetto al pubblico. Il rapporto con il mio pubblico durante gli anni in cui ‘The Wall’ ha girato il mondo è stato molto intimo, vicino e gratificante per me, per cui ‘The Wall’ è diventato una riflessione comune delle condizioni politiche in cui viviamo.” Hai fatto circa 220 repliche dello spettacolo. Hai mai pensato che il tour potesse durare così tanto? “Non avevamo idea di quanti spettacoli avremmo fatto. Era anzitutto una grossa scommessa mettere insieme uno show di talI dimensionI, ma la gente ha risposto, ha funzionato il passaparola e di conseguenza abbiamo continuato per tre anni.” Sei tentato dal fare altre repliche di ‘The Wall’ in futuro o è finita per sempre? “Se Israele lavora per l’uguaglianza e per la vera, concreta, genuina democrazia, senza apartheid e senza l’infezione del razzismo nella società, andrò lì a rifare ‘The Wall’. È tutto conservato e ciò che dovesse mancare lo ricostruiremmo. Ho parlato con gli israeliani e con i palestinesi, ma soprattutto con gli israeliani, dal momento che hanno tutto il potere. Inoltre, se il muro illegale che circonda senza pietà i… sì, possiamo definirli tali… territori occupati, la Palestina… se quel muro dovesse cadere, andrò a fare ‘The Wall’. È una promessa che ho fatto un po’ di anni fa e che vale ancora.” Speri che quel giorno possa venire nel futuro prossimo? “È interessante che tu dica questo. L’altra sera ero a letto e cambiavo canale come si fa quando cerchi una partita di Champions League; all’improvviso mi fermai e pensai: ‘Bè, questo sembra interessante. Devo guardarlo.’ Era JLTV, che sta per Jewish Life Television. Quel che suscitò la mia attenzione e mi fece sorridere fu lo slogan dell’emittente: “JLTV, la rete prescelta”. O Dio, mi è venuto da ridere ad alta voce. Ma quanto è incredibilmente inappropriato?. C’era una bella e giovane donna di un’organizzazione di cui avevo sentito parlare chiamata Stand With Us, a sostegno di Israele. Di Israele, non degli israeliani. Di Israele, per sostenere il governo di Israele e il paese chiamato Israele. Aveva due ospiti: una giovane donna bionda e un tizio che sembrava essere francese. Cominciarono a parlare di BDS (il movimento Boycott, Divestments and Sanctions) ed erano tutti e tre d’accordo sulla pericolosità delle iniziative di BDS, prive di radici nel paese ed organizzate all’estero. Dicevano che il denaro viene raccolto all’estero e che i sostenitori del movimento BDS nelle università americane sono soltanto dei fantocci al soldo di ricchi palestinesi che ne muovono i fili. Hanno continuato mostrando grandi muri che sono stati costruiti nei campus del sud della California e altrove. Sono belle strutture, copie dei muri di separazione, ricoperte di slogan politici, con persone coinvolte che ne raccontano la storia. I tre moderatori cercavano disperatamente di confutare la protesta di BDS contro l’occupazione …

Risolviamo la crisi dell’Italia: adesso!

Per una  moneta fiscale gratuita Come uscire dall’austerità  senza spaccare l’euro Manifesto / Appello a cura di: Biagio Bossone, Marco Cattaneo, Luciano Gallino, Enrico Grazzini, Stefano Sylos Labini I primi firmatari sono: Maria Luisa Bianco, Massimo Costa, Stefano Lucarelli, Guido Ortona, Tonino Perna.   Per uscire dalla crisi e dalla trappola del debito, proponiamo di rilanciare la domanda grazie all’emissione gratuita da parte dello Stato italiano di Certificati di Credito Fiscale (CCF) convertibili in euro e all’utilizzo di titoli di Stato con valenza fiscale. In questo modo lo Stato creerebbe nuova moneta potenziale e capacità  di spesa addizionale senza però generare debito. Questa proposta risulta così compatibile con le regole e i (rigidi) vincoli posti dal sistema dell’euro e delle istituzioni europee. La crisi dell’eurosistema Molti autorevoli economisti avevano avvertito che difficilmente una moneta unica che unisce paesi molto diversi per livelli di competitività, produttività  e inflazione avrebbe potuto essere un motore di sviluppo, soprattutto in mancanza di una forte politica cooperativa e solidale a livello europeo. Le loro previsioni si sono purtroppo avverate. Il sistema della moneta unica divide più che unire i paesi europei e, soprattutto dopo lo scoppio della crisi finanziaria globale, è diventato un freno per la crescita dell’Eurozona e di ogni singolo paese. La moneta unica impedisce i riallineamenti competitivi (cioè le svalutazioni monetarie dei paesi deboli e le rivalutazioni di quelli forti). Inoltre, in assenza di una politica fiscale comunitaria redistributiva, risulta inadatta alle esigenze di crescita di ciascun singolo paese. Ne seguono squilibri commerciali e finanziari, in particolare all’interno dell’Eurozona. A causa della rigidità  intrinseca della moneta unica, i paesi creditori, in primis la Germania, sostengono l’adozione di politiche depressive per i paesi debitori come l’Italia, la Francia, la Spagna e altri paesi del Sud Europa. Per garantirsi il recupero dei crediti, i primi hanno imposto austerità, riduzioni drastiche del costo del lavoro, tagli del welfare e aumenti delle tasse. I debiti pubblici denominati in una moneta che i singoli stati non controllano – e che di fatto appare quindi loro come una moneta straniera – forzano i governi ad adottare politiche procicliche. Le economie meno competitive entrano quindi nella spirale della crisi e finiscono per trascinarvi quelle dei paesi cosiddetti “virtuosi”. L’euro, invece di spingere verso la convergenza tra i 18 membri dell’Eurozona, ne aumenta le divaricazioni e i conflitti. L’Eurozona, e in particolare i paesi mediterranei, si trovano in una situazione economica pesantissima: stagnano o calano i consumi e diminuiscono gli investimenti privati e pubblici. La BCE cerca di dare ossigeno monetario al sistema ma le banche dei diversi paesi trattengono la liquidità  e non offrono sufficiente credito all’economia reale, in particolare alle piccole e medie imprese. Crescono massicciamente la disoccupazione e la precarietà  del lavoro. Aumentano le divaricazioni territoriali e sociali. Sembra che l’Europa abbia dimenticato i suoi obiettivi originari di piena occupazione, sviluppo sostenibile e benessere per tutti i cittadini: la priorità  dichiarata dagli organi della UE è piuttosto mirata esclusivamente ad aumentare la competitività  con politiche di austerità  e di “riforme strutturali”. Tuttavia risolvere i problemi di competitività  dei paesi deboli attuando riforme strutturali richiede molto tempo e nuove risorse; e l’austerità  si mostra ormai chiaramente controproducente. Non a caso i debiti pubblici dei paesi più deboli continuano ad aumentare. Il tentativo di applicare il Fiscal Compact non farebbe che aggravare pesantemente la situazione. La crisi mette a rischio la sopravvivenza stessa di qualsiasi disegno di integrazione. L’economia europea è malata e rischia di infettare l’economia mondiale. Le proposte di mutualizzazione dei debiti (gli eurobond) e creazione di un fondo federale consistente, tale da riequilibrare le crescenti asimmetrie territoriali e sociali, appaiono politicamente impraticabili a causa della ferma opposizione dei paesi del nord Europa. In questo quadro di incertezza e di grave sofferenza sono possibili diversi scenari tra di loro non necessariamente incompatibili: la continuazione di una fase prolungata di stagnazione, o peggio di recessione e depressione; la (improbabile) ristrutturazione dei debiti dei paesi dell’Europa mediterranea; la rottura caotica dell’eurozona con l’uscita forzata di uno o più paesi dall’euro e il crollo rovinoso del sistema europeo. In tale contesto, è del tutto improbabile che l’iniziativa del governo italiano di negoziare maggiore flessibilità  con Bruxelles e con Berlino sia sufficiente a rilanciare l’economia del nostro paese, perché non affronta la sostanza dei problemi strutturali che affliggono l’eurozona. Oltretutto ne accrescerebbe ulteriormente l’indebitamento. Altri propongono invece l’uscita dalla moneta unica per non subire ulteriormente un sistema monetario fortemente penalizzante; ma passare dall’euro alla lira è assai più problematico che uscire da un sistema di cambi semi-fissi, come era per esempio il Sistema Monetario Europeo. L’uscita unilaterale dall’euro, cioè dalla seconda valuta mondiale di riserva, rischia di produrre traumi economici e geopolitici dalle conseguenze imprevedibili; e, comunque, molti cittadini italiani sono contrari perché temono di vedere svalutati risparmi, stipendi e pensioni. Come uscire allora da questa gravissima crisi che l’Europa si è paradossalmente autoinflitta? E’ ormai evidente che occorre rivedere radicalmente i trattati costitutivi dell’euro, ma questo richiede volontà  politica e tempo. Per affrontare la crisi diventa allora indispensabile che, pur nel contesto dell’euro, ogni stato nazionale assuma urgentemente iniziative autonome e sovrane per rilanciare l’economia e l’occupazione. I governi dei paesi europei, dal momento che sono stati eletti democraticamente (a differenza degli organi esecutivi della UE) per offrire un futuro migliore ai loro cittadini, hanno non solo il diritto ma anche il dovere di difendere gli interessi dei loro elettori e di attuare riforme coraggiose per la prosperità  della comunità  nazionale. I cittadini si aspettano giustamente che gli organi politici da loro eletti tornino ad operare per lo sviluppo dell’economia nazionale, senza attendere permessi o concessioni da parte di altri paesi e senza subire eccessivi e ingiustificati condizionamenti. La proposta dei Certificati di Credito Fiscale La drammatica crisi economica, occupazionale e sociale ci pone di fronte a una situazione di grave emergenza. Non è possibile procrastinare le soluzioni. Occorrono misure urgenti ed efficaci. A tal fine, la nostra proposta offre un’alternativa concreta e immediatamente fattibile rispetto alle altre soluzioni …

La Fenice d’Italia: storia socialista dalla Resistenza al 1948

di Angelica Migliorisi A molti italiani, se venisse chiesto loro di indicare una foto simbolo del secondo dopoguerra, tornerebbe alla memoria il volto radioso di una giovane donna, che fa capolino dalla prima pagina del Corriere della Sera, con un titolo quanto mai evocativo a incorniciarle i capelli: «È nata la Repubblica italiana». Che l’atmosfera fosse festosa, quel 2 giugno 1946, è testimoniato da quella che diventerà una delle foto più celebri della storia italiana, e come sarebbe potuto essere altrimenti, d’altronde, considerando il giogo cui erano stati costretti gli italiani per così tanti anni? Era tempo di spegnere i fornelli, indossare l’abito da festa abbandonato nell’armadio e quasi dimenticato, scendere in strada, ballare e, perché no, farsi immortalare con la testa infilata in un buco ricavato “alla buona” in una copia dello storico giornale milanese. Non è mai bello fare il “guastafeste”, soprattutto di fronte a un quadro così allegro e gioviale, ma ogni medaglia, come recita una popolare espressione, ha sempre un suo rovescio: nel caso di specie, il Belpaese si era trasformato già da tempo nel set di un film di Sergio Leone, in un terreno riarso, cioè, da irrorare, ricostruire e rieducare ai sacri valori della democrazia, umiliata e seviziata da un ventennio di dittatura fascista. Ad assumersi l’onere (e senz’altro l’onore) di posizionarsi dietro alla cattedra, con tanto di bacchetta in mano, furono i partiti, altrettanto in ginocchio ma forti, pur sempre, del potere aggregante delle idee. Anche il Partito socialista italiano tentò di assolvere questo compito, ma lentamente e faticosamente perché, appena risorto dalle sue ceneri, si trovò investito da nuove sfide che ne avrebbero minato, ancora una volta, la sopravvivenza. A (new) born Quando ormai la seconda guerra mondiale stava quasi per volgere al termine, il PSIUP (nato nell’agosto 1943 dall’unione di PSI e MUP, il “Movimento di unità proletaria” di Lelio Basso) risuscitò come un’araba fenice in maniera del tutto “spontanea e decentrata”, prendendo in prestito due felici aggettivi usati dal Professor Paolo Mattera nella monografia Il partito inquieto. Organizzazione, passioni e politica dei socialisti italiani dalla Resistenza al miracolo economico: “spontanea” perché venne rimesso in piedi dai vecchi uomini di partito, costretti all’esilio durante il ventennio fascista e tornati in patria dopo il 25 luglio 1943, “decentrata” perché la ramificazione del partito presso la società civile presentava profonde divergenze tra Nord e Sud del Paese. D’altronde la “questione agraria”, che vedeva protagoniste le rivendicazioni terriere da parte dei contadini, era stata trattata in maniera piuttosto ambigua dai socialisti, i quali avevano fatto ideologicamente propria la causa delle masse rurali senza tuttavia schierarsi de facto al loro fianco. Il timone era stato lasciato così nelle mani del PCI che, a causa della vicinanza ideologica a Mosca e del fascino che questa esercitava in quegli anni, era potuto sopravvivere durante il fascismo, seppure in clandestinità, ritagliandosi spazi sempre più ampi di adesione popolare. Ad accreditare la presenza comunista sul territorio italiano durante la Resistenza aveva contribuito, inoltre, la decisione dei vertici del PSIUP di non incoraggiare la creazione di brigate socialiste che combattessero i fascisti, vagheggiando, di contro, la creazione di un «esercito popolare […] che avrebbe permesso una guida dall’alto della Resistenza», per usare ancora le parole di Paolo Mattera. Sarà Sandro Pertini, liberato nel 1943 dopo una lunga reclusione per attività antifascista, a foraggiare le brigate Matteotti, quando ormai, però, la mobilitazione messa in atto dalle rosse brigate Garibaldi era diventata così capillare da fagocitare ex esponenti, militanti e simpatizzanti socialisti. Molto diversa era la situazione del PSIUP al Nord, dove la rinascita del PSIUPAI (PSIUP Alta Italia) a opera, ancora una volta, di Pertini, nonché il vigore di personaggi come Lelio Basso e Rodolfo Morandi, aveva permesso il raggiungimento di una maggiore capillarità organizzativa: da un lato, attraverso la divisione delle città in un numero di zone pari ai quartieri urbani e la diffusione martellante dell’ideologia socialista tra i contadini e gli operai, dall’altro, mediante una profonda verticalizzazione del potere decisionale. Le divisioni geografiche esistenti tra Nord e Sud, nonché quelle tra veterani e nuove leve del socialismo, risultarono ancora più evidenti quando si trattò di scegliere l’impostazione organizzativa da dare al partito. Nello specifico, erano quattro le possibili strutture vagheggiate: una che riecheggiava la costruzione del PNF, una che agognava l’emulazione della costruzione partitica comunista e una che si rifaceva alla struttura localistica del PSI antecedente al fascismo. L’ideale di Giuseppe Faravelli rientrava in questa terza categoria e si esplicava nel rifiuto dell’allineamento con Mosca e, quindi, con il PCI, creando un terreno fertile per il matrimonio politico con Giuseppe Saragat, anch’egli strenuo sostenitore della necessità di svincolarsi dal mito sovietico. Lelio Basso, d’altro canto, riteneva che il PNF rappresentasse un esempio calzante di partito magistralmente strutturato e organizzato sul territorio e che dovesse essere quindi il prototipo da seguire al fine di rendere il PSIUP l’elemento “moralizzatore” delle masse. Se entrambi i dirigenti sostenevano la necessità di creare delle strutture intermedie tra i vertici di partito e la base popolare, di diverso avviso era Pietro Nenni, allora segretario del PSIUP. Egli, forte dell’eco mediatica e del fascino esercitato dai propri discorsi sulle masse, riteneva fondamentale (ma soprattutto sufficiente) un rapporto di esclusiva bidirezionalità tra la dirigenza e la base elettorale. Ancor più discorde era poi l’opinione di Rodolfo Morandi, il quale, studiando approfonditamente comunismo e socialismo, si era convinto che anche la priorità del PSIUP dovesse essere la tutela degli operai, motivo per il quale fu in prima linea nella creazione del Comitato industriale Alta Italia: un piano, per dirla con Paolo Mattera, «che mirava a servirsi della macchina pubblica e ad avvalersi dell’esperienza dei tecnici dello Stato per svolgere un lavoro di coordinamento dell’industria, al fine […] di favorire una rappresentanza nuova e democratica delle imprese industriali». È evidente come le divergenze tra i vertici del PSIUP fossero tali da rendere sofferta ogni decisione non solo politica ma anche organizzativa. La priorità assoluta nell’agenda del partito era l’omogeneità, ma questa non poteva esser certo perseguita senza la …

Oltre l’emergenza democratica

ll Rosatellum bis e stato votato a colpi di fiducia mentre la nostra Canta stabilisce che una legge elettorale sia approvata con procedura normale. E non è l’unico elemento di incostituzionalità.  Contro chi l’ha approvata non ci resta che l’arma del segreto dell’urna. di Felice Besostri Tre leggi elettorali incostituzionali rappresentano un Guinness dei primati per l’Italia: bisogna pur eccellere in qualcosa, ma dovremmo essere più cauti nella scelta. Per Transparency international siamo già ai primi posti per la corruzione, dovrebbe bastare. Quando il detto popolare afferma che non c’è il due senza il tre, non va preso come una coazione a ripetere, ma semmai come un invito ad agire con maggiore ponderazione e sapienza. Le nuove norme sono incomprensibili anche per esperti, come ho potuto personalmente constatare in un seminario presso una Facoltà di Scienze politiche, ma… non basta. Sono anche contraddittorie e contengono vere e proprie perle, confermando l’altro detto popolare, inglese, questa volta, che il diavolo si annida dei dettagli. Nel Molise si eleggono due deputati in collegi uninominali maggioritari e uno con metodo proporzionale! Non si tratta di bagatelle, ma sono l’indizio della superficialità dettata dalla fretta di arrivare ad approvare la legge e di indire le elezioni prima che la Corte costituzionale possa esaminare la legge in anticipo sul voto. I nemici della libertà di voto e di scelta personale e diretta dei parlamentari da parte dei cittadini vogliono conseguire un risultato utile: essere eletti e rimanere in carica per 5 anni malgrado un’eventuale dichiarazione d’incostituzionalità: un film già visto con questa XVII legislatura per cambiare la Costituzione a colpi di maggioranza e di fiducia, grazie ai “precedenti Boldrini” di interpretazione dell’articolo 116 del Regolamento Camera. La Presidente, per caso e fortuna sua, della Camera, che è la terza carica dello Stato, ha statuito che si può porre la fiducia su ogni legge o deliberazione che non sia vietata dal quarto comma dell’art. 116 del Regolamento Camera. Vista la delicatezza dell’argomento è bene trascriverlo: «Art.4. La questione di fiducia non può essere posta su proposte di inchieste parlamentari, modificazioni del Regolamento e relative interpretazioni o richiami, autorizzazioni a procedere e verifica delle elezioni, nomine, fatti personali, sanzioni disciplinari e in generale su quanto attenga alle condizioni di funzionamento interno della Camera e su tutti quegli argomenti per i quali il Regolamento prescrive votazioni per alzata di mano o per scrutinio segreto». Ebbene le modifiche costituzionali non sono nominate e per coerenza interpretativa la Boldrini o un suo successore, fondandosi sul “precedente Boldrini”, potrà ammettere un voto di fiducia su norme di un disegno di legge “in materia costituzionale”, benché l’art. 72 comma 4 della Costituzione reciti: «La procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera è sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale e per quelli di delegazione legislativa, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali, di approvazione di bilanci e consuntivi». La presidente della Camera, Nilde lotti, quando i presidenti delle Camere erano scelti tra parlamentari con più legislature alle spalle e con esperienza di conduzione d’aula, aveva invece stabilito nel 1980 con un lodo che se veniva chiesta la fiducia il procedimento diventava speciale, quindi non più normale, anche per la ragione che l’art. 116 era nella parte terza del Regolamento e non nella seconda intitolata «Procedimento Legislativo”. Il Rosatellum 2.0 è una legge con norme incostituzionali, come vedremo, ma in ogni caso è stato reso incostituzionale dalla sua procedura di approvazione. Un rischio a costo zero, a meno che non diventi indignazione di massa contro tutti i partiti, che hanno approvato la legge, con effetto sulle intenzioni di voto, ma qui si tocca con mano la miopia politica della maggioranza. Infatti, l’accordo elettorale comprende anche Forza Italia e la Lega Nord, ma il governo, le Presidenze di Camera e Senato e i parlamentari, che hanno votato le 8 fiducie, 3 alla Camera e 5 al Senato sono tutte espressioni del centro-ex sinistra: pagheranno di più, pagheranno tutto il tradimento della Costituzione e il disprezzo per il risultato del referendum del 4 dicembre. Gli elettori delusi potrebbero prendere la strada della non partecipazione al voto, aumentando le chances dei partiti rosatelliani. In questa situazione di emergenza democratica, quando le Presidenze delle Camere non hanno svolto un ruolo di garanzia e il Presidente del Consiglio si è rimangiato le promesse sull’estraneità del Governo rispetto la legge elettorale, da triste e tardivo epigono di Clemenceau – «In politica le promesse impegnano soltanto chi le ascolta» – ci si rende conto che la tutela della. Corte costituzionale ha tempi incompatibili per porre tempestivo rimedio. A differenza della Germania e della Spagna, i cittadini non hanno accesso diretto alla Consulta, neppure nel caso di violazione di un diritto fondamentale essenziale, come il diritto di voto per il rinnovo del Parlamento. L’opposizione deve essere determinata, non c’è una strada tecnico-giuridica contrapposta o, comunque, separata da quella politica. La, stessa legge elettorale è sempre politica: chi è a favore delle coalizioni con qualche forma di premio, se collocato a sinistra significa che vuole un accordo con il Pd, chi è a favore di un sistema sostanzialmente proporzionale vuole ripartire dalla ricostruzione di una sinistra autonoma e alternativa, che ponga al centro il lavoro, la solidarietà e il superamento delle diseguaglianze. Questa legge non lo consente perché nemmeno rispetta la Costituzione. Il voto non è libero perché non posso scegliere in modo differenziato per il candidato nel maggioritario e per la lista proporzionale bloccata. Il voto non è nemmeno personale, eguale e diretto perché non posso scegliere all’interno delle liste proporzionali e, grazie alle liste corte e alle pluricandidature, i parlamentari non saranno scelti dagli elettori della loro circoscrizione, ma da un algoritmo: non è democratico, non è giusto e non è serio. Una sola possibilità rimane: quella di fare un buon uso della segretezza del voto e quindi della sua imprevedibilità con scorno di chi si precostituisce vittoria a tavolino con leggi incostituzionali. Fonte: Left

Concorso Nazionale “MATTEOTTI PER LE SCUOLE”

La Fondazione di Studi Storici Filippo Turati Onlus e la Fondazione Giacomo Matteotti Onlus d’intesa con la Direzione Generale per lo Studente, l’Integrazione e la Partecipazione del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, indicono, per l’anno scolastico 2017/2018, la terza edizione del Concorso nazionale “MATTEOTTI PER LE SCUOLE” rivolto agli alunni della scuola secondaria di secondo grado. Per il bando e la scheda di adesione Fonte: fondazionestudistoriciturati

Di Vittorio e il ’56 ungherese, la resa dei conti

La posizione della segreteria Cgil e del suo leader sui fatti di Budapest è in contrasto con quella assunta dal Pci. Alla direzione del partito, riunita apposta per discutere di quegli avvenimenti, per il sindacalista di Cerignola è di fatto un processo Il 23 ottobre 1956 a Budapest un largo corteo popolare di solidarietà con la rivolta di Poznań, in Polonia, degenera in scontri tra polizia e dimostranti. La notte stessa il governo, presieduto dagli stalinisti Gerö e Hegedüs, viene sciolto. La formazione del governo Nagy non impedisce il divampare della rivolta nella capitale e nel resto del Paese. Il 27 ottobre, di fronte alla decisione dei sovietici di intervenire militarmente in Ungheria, la segreteria della Cgil assume una posizione di radicale condanna dell’invasione, destinata a stroncare nel sangue la domanda di democrazia e di partecipazione reclamata dalla rivolta operaia e popolare ungherese e sostenuta dal governo legittimo di Imre Nagy. La condanna non è soltanto dell’intervento militare: il giudizio è netto e investe tanto i metodi antidemocratici utilizzati dai governi dei Paesi dell’Est Europa, quanto l’insufficienza grave delle stesse organizzazioni del movimento sindacale. Nella stessa giornata del 27, Di Vittorio rilascia a un’agenzia di stampa una dichiarazione del tutto personale nella quale non solo vengono ribadite le cose dette nel comunicato della segreteria, ma vi si aggiungono parole di piena e convinta solidarietà con i ribelli di Budapest: “In ordine al comunicato emesso oggi dalla segreteria della Cgil sui fatti di Ungheria che tanto hanno commosso i lavoratori e la pubblica opinione – commenta il leader della confederazione –, credo di poter aggiungere che gli avvenimenti hanno assunto un carattere di così tragica gravità che essi segnano una svolta di portata storica. A mio giudizio sbagliano coloro i quali sperano che dalla rivolta tuttora in corso, purtroppo, possa risultare il ripristino del regime capitalistico e semifeudale che ha dominato l’Ungheria per molti decenni”. È un fatto, prosegue Di Vittorio, che tutti i proclami e le rivendicazioni dei ribelli conosciuti attraverso le comunicazioni ufficiali di radio Budapest, “sono di carattere sociale e rivendicano libertà e indipendenza. Da ciò si può desumere chiaramente che – ad eccezione di elementi provocatori e reazionari legati all’antico regime – non ci sono forze di popolo che richiedono il ritorno del capitalismo o del regime di terrore fascista di Horthy. Condivido quindi pienamente l’augurio espresso dalla segreteria della Cgil che anche in Ungheria il popolo possa trovare in una rinnovata concordia nazionale, la forza per andare avanti sulla strada del socialismo”. La posizione del segretario della Cgil è nettamente in contrasto con le posizioni assunte dal Pci. Sulla “situazione del partito in relazione ai fatti di Ungheria”, il 30 ottobre si riunisce la direzione. Per Di Vittorio è di fatto un processo. Presenti Togliatti, Longo, Amendola, Li Causi, Scoccimarro, Sereni, Roveda, Pajetta, Dozza, Di Vittorio, Colombi, Berlinguer, Secchia, Roasio, M. Montagnana, R. Montagnana, Pellegrini, Terracini, Boldrini, D’Onofrio e Ingrao. Assenti Novella, Spano e Negarville. Partecipano alla discussione Pajetta, Di Vittorio, Roveda, Roasio, Secchia, Pellegrini, Amendola, Ingrao, Boldrini, Li Causi, M. Montagnana, Colombi, Sereni, Dozza, Terracini, Berlinguer, Pajetta, Longo, Di Vittorio. Così, sulla presa di posizione di Di Vittorio, Emilio Sereni: “L’unità nella nostra direzione è di importanza fondamentale e questa unità non può avvenire che attorno al compagno Togliatti. Con la sua dichiarazione il compagno Di Vittorio si è contrapposto alla direzione”. Rincara la dose Dozza: “È noto in tutto il quadro confederale che Di Vittorio dà poca importanza al parere della direzione. Esigenza della disciplina. Sono per la lotta sui due fronti, ma deve essere lotta e ogni membro della direzione deve assumersi le sue responsabilità”. Duro anche Scoccimarro: “Gravissimo errore di Di Vittorio nell’aver ignorato l’esperienza storica”. Più morbido nei confronti di Di Vittorio, ma comunque deciso, Roveda: “Sono d’accordo anche con l’articolo di Togliatti di stamattina (apparso su Rinascita, n. 10/1956, ndr) che pone il problema sul terreno di classe di fronte alla canea avversaria. Gli operai non avrebbero capito che l’esercito sovietico non fosse intervenuto per difendere il socialismo. Gli intellettuali dopo il XX Congresso vanno tutti alla ricerca del partito. Capisco la situazione molto difficile nella Cgil, ma si poteva evitare quella presa di posizione. I socialisti vogliono indebolire il nostro partito e dobbiamo evitare atti che li aiutino in questo. Non è vero che la posizione della classe operaia sia quella della Cgil”. Assente Novella, conclude Palmiro Togliatti: “Dopo aver risposto alle argomentazioni sviluppate dai compagni – si legge sempre nel verbale – egli sottolinea che la posizione del comunicato della Cgil non è giusta. Ritiene che i comunisti della segreteria confederale avrebbero potuto e dovuto insistere per ottenere una posizione più giusta e che non disorientasse l’opinione dei lavoratori. In particolare osserva e deplora che il compagno Di Vittorio abbia aggiunto al comunicato un suo commento, non concordato con la segreteria del partito e divergente dalla linea del partito”. “La dichiarazione [di Di Vittorio] – aggiunge il segretario del Pci – non è stata concordata con noi e ha aumentato il disorientamento nel partito […] In questo momento come si può solidarizzare con chi spara contro di noi mentre si cerca di creare una grande ondata reazionaria? […] Si sta con la propria parte anche quando questa sbaglia”. Molti anni più tardi, nel volume “Di Vittorio e l’ombra di Stalin” (Ediesse 1997), Adriano Guerra e Bruno Trentin scrivono: “Alle critiche di Togliatti a Di Vittorio si associarono, con argomentazioni e toni non sempre collimanti, tutti i membri della direzione. Alcuni intervennero anche sul merito, come Roasio, Secchia (secondo il quale occorreva pero ‘abituarsi in certi momenti difficili ad avere anche posizioni diverse tra partito e Cgil soprattutto se si allargherà l’unita sindacale’), Colombi (‘La posizione di Di Vittorio non può essere approvata dalla Federazione sindacale mondiale di cui è presidente. Cattivo il suo metodo di fare tutto da sé. I socialisti cercano di dirigere la Cgil’)”. Altri posero soprattutto “un problema di disciplina, come Ingrao (‘Il compagno Di Vittorio sapeva di dire cose diverse da quelle della direzione …