La nascita del PSI: ragioni e significato

La data di nascita del PSI è ben impressa nella memoria di molti socialisti e non socialisti: il 15 agosto 1892. Il luogo di nascita dovrebbe essere altrettanto conosciuto, ma a volte si fa confusione su di esso. Molti ritengono che sia a Genova, nella sala Sivori. Sbagliandosi, perché alla sala Sivori fu consumata la separazione tra anarchici e socialisti. Il nuovo partito, che non aveva ancora la denominazione di Partito socialista italiano, fu fondato invece il giorno successivo nella sala dei “Carabinieri genovesi”, il corpo dei fucilieri garibaldini.
Si è voluto ravvisare, da più parti, quasi un significato simbolico in questa coincidenza, un trait d’union tra la tradizione risorgimentale impersonata dall’esponente di essa più sensibile alle istanze del socialismo nascente e le idealità del sorgente partito dei lavoratori Italiani. Senza dubbio qualche tratto di continuità c’è stato, specie se si fa riferimento ai numerosi garibaldini, e allo stesso Garibaldi, che si erano proclamati socialisti ben prima della nascita del partito. O anche ad alcuni “protosocialisti” di fede mazziniana, quali Carlo Bianco di Saint-Jorioz, oppure a un Carlo De Cristoforis, o allo stesso Pisacane.(1) Fisicamente, uomini di tradizione risorgimentale, tra i fondatori del partito, era possibile rintracciarne ben pochi. Erano, per la maggior parte, umili operai ed anche intellettuali di idee socialiste, troppo giovani per aver preso parte al moto risorgimentale. Tra essi, il gruppo di “Critica Sociale” che aveva da qualche tempo iniziato a far circolare in Italia le idee marxiste che rapidamente si stavano diffondendo, contrassegnando incontrovertibilmente l’identità ideologica del movimento. Un compito analogo si era assunto da parte sua Antonio Labriola, tuttavia assente a Genova perché critico verso l’impostazione che veniva data al nuovo partito. Esisteva un rapporto ideale tra il moto risorgimentale e quello di emancipazione dei lavoratori. C’erano però ben due ragioni storiche a distaccare da quel moto quest’esperienza dell’organizzazione che muoveva i suoi primi passi, per divenire ben presto adulta e protagonista della vita sociale e politica del paese. La prima risiedeva nel fatto che mentre il Risorgimento era stato, per sua natura e ragione storica, dominato dalla “questione nazionale”, la nascita del partito dei lavoratori era il risultato di un’altrettanto legittima ragione storica di segno diverso, quella che faceva assumere priorità assoluta alla “questione sociale”, rispetto anche alla stessa “questione nazionale”. Non per un caso il partito si qualificò immediatamente come internazionalista e pacifista.
La tesi del “Risorgimento incompiuto”, cara a Gramsci e ai gramsciani di vecchio e nuovo conio, ha espresso il concetto – letterariamente seducente e non privo di efficacia propagandistica – dell’eredità, affidata al movimento dei lavoratori, di portare a compimento la rivoluzione risorgimentale non realizzata dalle classi dirigenti Italiane dell’800. Proprio il sorgere del partito dei lavoratori, e i modi in cui esso è nato e si è affermato, testimoniano la genericità di questa tesi e ne rappresentano una confutazione.
In realtà, il Risorgimento e la conseguita unità nazionale si presentavano già sulla fine del secolo scorso come un processo storico-politico ben definito, che aveva trovato il suo compimento con la costruzione dello Stato monarchico-costituzionale sui fondamenti di un sistema politico liberale. Ancora fragile ma con connotazioni inconfondibili. La seconda, effettiva ragione storica che conduce alla costituzione del Partito socialista sta nel fatto che le classi subalterne, e tra di esse la classe operaia che s’era andata estendendo e irrobustendo negli ultimi decenni, erano e si sentivano del tutto escluse dalla vita e dalla gestione delle istituzioni liberali, rappresentative e di governo, da quelle centrali come da quelle locali.
La stessa introduzione dei sistemi di rappresentanza elettiva, fondata su una ristrettissima base elettorale, rendeva palese la realtà di questa netta esclusione, che conduceva a una separazione conflittuale tra lo Stato e le grandi masse lavoratrici. Una esclusione sempre di più inaccettabile, a mano a mano che in Italia si sviluppano le basi di un’economia moderna in seguito all’estensione del sistema di produzione industriale. Avviene, in Italia, quel che era avvenuto e avveniva in Inghilterra, in Germania, in Francia e in molti altri Stati europei, con la Rivoluzione industriale e la susseguente nascita ed espansione della classe operaia: il mondo dei lavoratori, escluso dalla partecipazione alla gestione delle istituzioni e assoggettato alle strutture del potere economico, si autorganizzava come partito rappresentativo delle esigenze sociali emergenti e si configurava quale soggetto politico nuovo, che in breve volgere di tempo si ergeva a protagonista, in forme organizzative, propagandistiche, di lotta politica del tutto innovative rispetto alle tradizioni e ai comportamenti politici vigenti. Un soggetto sociale e politico di questa natura e di questa forza tendeva a contrapporsi non soltanto al potere delle controparti sociali, ma anche al potere delle istituzioni statuali, almeno fin quando non si trovasse ad essere in esse rappresentato. Tendeva a contrapporsi allo Stato, non soltanto alle classi dominanti, finendo per identificare queste con quello. In tale processo risiede, infatti, la ragione della fortuna che immediatamente ebbe, nei movimenti dei lavoratori della seconda meta dell’800, la formula marxista dello Stato come “comitato politico della borghesia”. Nelle diverse esperienze di formazione dei partiti dei lavoratori di ciascuna delle società europee industrializzate si rivela un tratto comune: la forma che tali partiti assumono (la “forma-partito”) si differenzia nettamente dalle forme tradizionali di altri soggetti politici collettivi ad essi preesistenti o anche coesistenti. Occorre qui fare una considerazione di natura più generale. Osserva opportunamente uno studioso italiano di storia dei partiti, il Brigaglia, che il termine “partito” ha una “valenza variabile sia da un punto di vista descrittivo che da un punto di vista valutativo”(2) aggiungendo che dal punto di vista descrittivo esso accomuna fenomeni diversi: “dai gruppi religiosi contrapposti alle fazioni parlamentari, alle organizzazioni sociali volte alla realizzazione di scopi politici”. Tra queste ultime, la forma-partito moderna, detta anche partito di massa, si contraddistingue, nelle sue varie fattispecie storiche, dalle forme-partito di epoche storiche diverse per una serie di caratteristiche relative all’organizzazione su base territoriale, ai rapporti con le strutture collettive sociali come il sindacato, le cooperative ecc. per la continuità del lavoro politico e il conseguente bisogno di un’organizzazione permanente, per le forme di propaganda e di lotta. Tale è, in buona sostanza, la forma-partito assunta nel movimento dei lavoratori, in tutti i paesi europei, contemporaneamente o susseguentemente ai processi di industrializzazione nelle singole realtà nazionali.
Anche in Italia questo tipo di organizzazione sorge in concomitanza con il processo di formazione di un’economia industriale che si sviluppa con sensibile ritardo rispetto ad altri paesi. Ma in Italia ci sono condizioni particolari che accelerano il processo di costituzione politica del partito, quali il diffondersi di elaborazioni di cultura economica e di cultura politica provenienti da altri paesi (Germania, Francia, Gran Bretagna): cosicché se il processo di industrializzazione è più tardivo, i tempi di formazione del partito politico risultano notevolmente più rapidi. Molto più rapidi di quelli registrati nell’esperienza inglese, laddove tra il processo di industrializzazione e la costituzione del partito politico intercorre all’incirca un secolo. Perché tale differenza? Dall’analisi degli storici del Labour Party, primo fra i quali il Kibbin(3), risulta che la nascita del partito politico sia stata ritardata in Gran Bretagna dalla presenza di un sistema politico e costituzionale che permetteva la rappresentanza politica “indiretta” delle organizzazioni sociali dei lavoratori, per cui non si verificava in questo paese l’esigenza da parte del movimento dei lavoratori di superare con l’autorganizzazione politica una condizione di esclusione istituzionale. Per l’Italia, come per altri paesi europei di democrazia più giovane e meno salda di quella inglese, non era sufficiente una struttura di pressione sul potere politico e di rappresentanza “indiretta” delle esigenze sociali dei lavoratori, come sostanzialmente era avvenuto per circa un secolo in Inghilterra. Le condizioni erano tali che ponevano l’esigenza di una struttura capace di assumere ed imporre, ove possibile, proprie decisioni politiche. Cioè l’esigenza di congiungere alla organizzazione sociale degli interessi anche l’associazione politica, nella forma del partito organizzato. Non è questo, cui abbiamo accennato, un problema storiografico di oggi. Fu un problema che si pose già allora. Sulla “rapidità” dell’evoluzione politica che porta alla formazione del partito organizzato, si pronunciò infatti criticamente il Labriola che riteneva “immatura” e “ambigua” la costituzione del partito, perché a suo giudizio non era ancora sufficiente il grado di sviluppo del capitalismo italiano, e conseguentemente sarebbe stata ancora troppo “debole” la coscienza politica, di classe, del movimento operaio. Di questo giudizio occorrerà in qualche modo tener conto, poiché in varie fasi della sua vita politica, il partito si troverà di fronte alla necessità di non ostacolare, ma di assecondare e sollecitare lo sviluppo economico della società italiana, rafforzando le basi del sistema sociale; di conseguenza, trovandosi anche ad assistere, come effetto di questi atteggiamenti, al rafforzamento dei propri antagonisti sociali e politici. Non è argomento da trascurare, però, la considerazione che la rapida politicizzazione e partiticizzazione del movimento dei lavoratori sia stata resa possibile dal fatto che si facevano proprie le esperienze del socialismo europeo e che ci si avvaleva di impostazioni provenienti dalle fonti internazionali del movimento, molto ascoltate, in quanto i princìpi internazionalisti erano accolti con convinzione, addirittura con entusiasmo: già al congresso costitutivo, il nuovo partito faceva propria la “Piattaforma del Congresso internazionale operaio di Bruxelles” del 1891, in cui veniva sancita la separazione degli anarchici; l’organizzazione di classe per arti e mestieri; e la partecipazione alla lotta politica. Tutte cose che a Genova trovarono puntualmente attuazione.
C’è tuttavia un’ulteriore osservazione che può concorrere a spiegare la “rapidità” della formazione della nuova forma-partito in Italia. Se si allarga infatti l’orizzonte alla storia economica generale del paese, ci si rende conto che il processo di industrializzazione benché tardivo, e forse proprio per questo, si sviluppò da noi in forme e tempi molto più accelerati che in altre nazioni. A ciò probabilmente non è estraneo un fattore culturale e storico: l’antica predisposizione al capitalismo nelle forme del policentrismo feudale e comunale della società italiana, (4) per cui il capitalismo industriale trovò, anche prima dell’unificazione nazionale, un terreno propizio al proprio sviluppo, specie in alcune regioni. Il nesso tra la rapidità dello sviluppo capitalistico italiano, e l’altrettanto rapido formarsi di una coscienza politica socialista, non sfuggì al più acuto analista e storico del socialismo di quei tempi, Robert Michels. Unendo in sé le qualità del sociologo e dell’economista, istruito anche dalla sua esperienza politica nelle fila della socialdemocrazia tedesca che preparò le sue riflessioni sulle tendenze oligarchiche nei partiti organizzati, Michels affidò le proprie considerazioni sociologiche e politiche sul socialismo italiano a un’opera che resta insuperata nell’analisi di quella fase: la Storia critica del movimento socialista italiano fino al 1911.(5)
Secondo il Michels, “fra i fenomeni atti a caratterizzare l’ambiente economico nel quale nacque e si svolse il movimento operaio in Italia” (6) il primo fu quello della “concentrazione capitalistica verificatasi nell’ambito della produzione industriale”(7). Egli ci fornisce in modo convincente gli elementi di fatto di questo processo. Accanto ai dati concernenti il grande sviluppo quantitativo realizzato in alcuni settori industriali “traenti”, come il tessile e il metallurgico, negli anni tra il 1876 e il 1902, egli offre anche le cifre relative all’enorme diffusione delle società per azioni e ad un aumento quasi ininterrotto degli investimenti di capitale, che raddoppiano in pochi anni, passando dalla cifra di L. 846.000.000 nel 1888 a quella di L. 1.505.000.000 nel 1903, con la considerazione che gli aumenti maggiori avvennero nelle società più potenti rispetto a quelle meno potenti. “Si può quindi asserire – affermava il Michels – che nel periodo suddetto l’industria italiana è stata soggetta ad una spiccata tendenza concentrica”, ciò che rese possibile anche “l’agglomerazione rapidamente crescente della popolazione nelle grandi aree urbane”.(8)
La concentrazione industriale, con la conseguente crescente meccanizzazione della produzione e l’ampliamento delle dimensioni dell’azienda, ebbe come effetto un radicale mutamento delle relazioni sociali all’interno delle imprese. In precedenza, le imprese erano di dimensioni piccole, o comunque più ridotte; la meccanizzazione relativa, specie nella industria tessile – molto diffusa all’epoca -, dove nel 1876, su 27.000 telai esistenti, solo 14.000 erano meccanici mentre gli altri erano ancora a mano.(9) In queste imprese i rapporti tra operai e padroni (molto spesso essi stessi già operai divenuti piccoli imprenditori) erano rapporti tra persone che lavorano fianco a fianco molte ore al giorno: quindi rapporti sovente ispirati a una ridotta conflittualità, anche perché in molti casi la condizione economica dell’impresa era tutt’altro che florida. Tale situazione aveva obiettivamente favorito il diffondersi delle idee sociali mazziniane, basate sul principio della collaborazione tra capitale e lavoro, tra operai e imprenditori.
E in effetti la teoria sociale mazziniana, fondata su princìpi etici “non materialistici”, era stata dominante nel mondo industriale e artigiano. Nella nuova situazione i rapporti tra imprenditori e lavoratori dipendenti mutano profondamente: la conflittualità s’accentua, come e dimostrato dalla statistica analitica del fenomeno degli scioperi. Essi assunsero un’importanza sempre maggiore, sia per il loro numero, sia per il numero degli operai in essi coinvolti, ed anche per la loro stessa durata. Dal 1879 al 1889, il numero complessivo degli scioperi crebbe da 32 a 126, e dal 1899, da 126 a 259. I relativi aumenti del numero degli scioperanti furono da 28.000 a 125.000, e da 125.000 a 259.000. Tra i vari rami d’industria, i più colpiti si dimostrarono essere quelli che avevano concentrato i loro operai in vari opifici, come le industrie tessili, edilizie, meccaniche e minerarie. In questo quadro, era più che naturale che l'”egemonia” della filosofia sociale mazziniana svanisse in fretta, per lasciare il posto alla diffusione dell’idea marxista della lotta di classe. Su questo terreno, obiettivamente ad esse favorevole, le tesi “classiche” di Marx ed Engels trovarono dunque un ambiente propizio al loro diffondersi, ed ebbero inevitabilmente la meglio tanto sulle idee sodali di Mazzini, quanto sulla prassi corporativa del “partito operaio esclusivista”, la cui esperienza si consumò nell’arco di una decina di anni. Il Partito operaio italiano s’era costituito a Milano, nel 1882, dieci anni prima di Genova, con la confluenza delle associazioni dei lavoratori dell’industria, e, nonostante il suo carattere rigorosamente corporativo, aveva rappresentato, in qualche modo, un passo avanti nel processo di politicizzazione del movimento. Il caposaldo del suo programma era stata l’accettazione del concetto di proletariato come classe antagonista alla borghesia, con la conseguente separazione dalle associazioni miste di lavoratori e imprenditori, per dar vita a un partito di soli operai, il cosiddetto “partito delle mani callose”. Rappresentava, in tal modo, la conclusione logica dell’annebbiamento e della consunzione dell’influenza mazziniana, una volta cessate le condizioni obiettive che l’avevano dapprima favorita. Viene in luce, in quegli stessi anni, un elemento politico nuovo per il movimento dei lavoratori: l’importanza della conquista del suffragio politico nella storia dell’evoluzione del movimento operaio. È un dato non solo italiano, ma universale.
Ne dovette prendere atto lo stesso Engels, il quale nella sua introduzione a Le lotte di classe in Francia – opportunamente e tempestivamente pubblicata in Italia da “Critica Sociale” – così scriveva: “Quando Bismarck si vide costretto ad introdurre questo diritto di voto (il suffragio universale) come unico mezzo per interessare le masse popolari ai suoi piani, i nostri operai immediatamente presero la cosa sul serio. E da quel giorno essi hanno utilizzato il diritto di voto in modo che ha loro recato vantaggi infiniti e che è servito da esempio agli operai di tutti i paesi”.
Gli operai Italiani non furono, in questo, diversi e non si comportarono diversamente. Il Partito operaio aveva colto al volo questa occasione, che non soltanto arrecò notevoli vantaggi alla classe in termini economici e sociali, ma divenne presto un canale di politicizzazione di tutto il movimento dei lavoratori, preparando il passaggio da quella situazione essenzialmente corporativa, in cui s’era collocato agli albori della sua autorganizzazione, a una situazione che preparava l’avvento della forma-partito quale nuovo soggetto della propria autonoma rappresentanza.
Il punto di svolta dell’evoluzione politica del proletariato italiano era segnato, così, da un’altra decisione presa da questo partito: partecipare alle competizioni elettorali, distinguendosi così dalle tesi antilegalitarie degli anarchici e dimostrando una precisa volontà di corrispondere ad un’esigenza di rappresentanza degli interessi dei lavoratori manuali nell’ambito delle istituzioni del nuovo Stato unitario. L’occasione era data al Partito operaio dalla concomitanza della promulgazione della nuova legge elettorale, proprio nel 1882, grazie alla quale il diritto di voto veniva esteso a molti altri cittadini in larga misura lavoratori manuali. Con la legge del 24 settembre di quell’anno, infatti, gli elettori salirono da 621.896 a 2.017.829, vale a dire il 6,9 per cento della popolazione. E mutò anche la qualità del corpo elettorale, perché gli elettori iscritti per censo scesero dall’80 per cento del corpo elettorale, come era prima della nuova legge, al 34,7.
La riforma era dovuta soprattutto ad Agostino Depretis, e fu un’iniziativa che, nel bilancio generale del fenomeno del “trasformismo”, va senz’altro iscritta tra le poche partite attive.
Il Partito operaio aveva saputo cogliere quest’occasione diversificando nettamente la sua posizione da quella degli anarchici, che continuarono a mantenere la loro pregiudiziale negativa nei confronti di qualsiasi impegno elettorale: e questa decisione fu segno di notevole intelligenza politica, perché contribuì non poco a favorire l’evoluzione legalitaria del movimento dei lavoratori in Italia, tanto più che si andavano preparando situazioni di scontro e repressione sociale che avrebbe potuto determinare orientamenti dei lavoratori in senso opposto. Se l’influenza mazziniana andò indebolendosi, non altrettanto però avvenne per il movimento anarchico.
Nonostante la crisi successiva al 1879, dopo il fallimento dei moti di Bologna e di Benevento, l’allontanamento dal movimento di Andrea Costa e le nuove posizioni assunte dallo stesso Cafiero, la predicazione bakuniana, pur perdendo larghe zone di seguaci, aveva mantenuto una sua forza, specie nelle regioni meridionali e nelle aree agrarie dell’Emilia Romagna, della stessa Lombardia e del Veneto.
La crisi cerealicola di quegli anni rendeva più esasperante la condizione di vita dei contadini, provocava scioperi e lotte, che però inducevano i lavoratori delle campagne ad autorganizzarsi e a formare leghe e cooperative: cioè quelle strutture che con il loro comporsi li aiuteranno ad uscire dall’isolamento individuale e a far prevalere le forme di una lotta organizzata su quelle dettate da un comprensibile sentimento di ribellione, individuale o di gruppo.
Il segnale più eloquente di questa evoluzione fu dato, come è noto, da Andrea Costa che, trascorso dall’anarchismo al socialismo, aveva invitato gli anarchici delle sue terre, con la lettera Agli amici di Romagna, a uscire dall’utopia e a entrare nella realtà delle condizioni economiche. Costa fonda nel 1881 il settimanale “Avanti!” per propugnare le sue nuove idee e il Partito socialista rivoluzionario di Romagna, presentandosi alle elezioni in Parlamento, ottenendo nel 1882 il mandato. Era il primo deputato socialista, dieci anni prima della costituzione del partito.
Poiché la nostra indagine ha per oggetto il Partito socialista italiano, non ci soffermiamo ulteriormente sul periodo, che pure è di grande interesse storico, precedente la sua formazione.
Abbiamo ritenuto opportuno richiamare quelle linee e quei fatti che sono essenziali a individuare il processo sociale e politico che conduce alla formazione del partito.
Da tutto ciò che abbiamo innanzi ricapitolato, si possono far emergere i tratti salienti della vicenda, tutt’altro che semplice, della costituzione del partito.
Tre erano le correnti ideali ed organizzative presenti a Genova. Quella anarchica, dalla quale, come abbiamo visto, s’erano distaccati molti dei suoi protagonisti, ma che manteneva ancora una forte influenza nel mondo contadino. Quella operaistica-corporativa, espressione del proletariato delle fabbriche, che pur nel suo rigore classista, aveva avviato la politicizzazione del movimento, comprendendo l’importanza della partecipazione alle battaglie elettorali. Quella, infine, degli intellettuali socialisti, a grande maggioranza di orientamento marxista, la cui punta di diamante era costituita dal gruppo della “Critica Sociale” di Milano, mentre a Roma viveva e insegnava, in una posizione critica, sostanzialmente isolata, Antonio Labriola. Ma né Costa, né Labriola presenziarono al congresso. Il Partito operaio era sorto sul presupposto che “gli operai non solo potevano, ma dovevano fare a meno della collaborazione degli intellettuali, anche se compagni di fede”,(10) per cui la fondazione di questo partito era stata la “rivincita del grosso buonsenso operaio contro quelle che a molti sembravano essere le elucubrazioni di cervelli o sopraffini, o per lo meno sognatori ed utopistici”. (11)
Nel 1882 la costituzione del partito delle “mani callose” era stata determinata tra l’altro dalla “disistima nella quale l’azione dei socialisti intellettuali era caduta, specie dopo il misero fallimento dei tentativi insurrezionali, presso le masse lavoratrici”. Ma dopo la costituzione del Partito operaio, e forse grazie ad essa, era avvenuto che mentre gli anarchici persistevano nelle loro idee sostanzialmente antilegalitarie e ostili a qualsiasi partecipazione elettorale, i “socialisti intellettuali”, invece, abbandonavano ogni sogno insurrezionale, cercavano e in parte riuscivano a radicarsi nel movimento popolare, impegnandosi nelle battaglie sui problemi concreti del mondo del lavoro e partecipando anch’essi, in piena autonomia rispetto agli operaisti, alle competizioni elettorali. Anzi, in alcuni casi, erano stati gli operaisti a perdere il contatto con le masse popolari: come, ad esempio a Milano, avvenne per Antonio Maffi, fonditore “operaista”, il quale una volta eletto aderì in Parlamento al gruppo repubblicano, perdendo il contatto con quel settori operai a cui doveva la sua elezione.
Insomma: socialisti “intellettuali” come il Gnocchi Viani, il Cafiero, il Costa, il Barbanti-Brodano, il Covelli, il Gambuzzi, il Cipriani, il Colajanni stesso, che erano stati candidati alle elezioni, andavano mostrando con la loro azione sociale e politica di non essere quegli intellettuali “acchiappanuvole” che gli operaisti temevano, e non a torto, dovendosi in quelle condizioni operare prima di ogni cosa per tutelare gli interessi elementari delle classi lavoratrici.
Il Michels, scrivendo molti anni dopo, nel 1925, la storia dei socialisti di quel periodo, classifica gli “intellettuali socialisti” in quella categoria ormai classica del suo sistema di sociologia del partito politico dei cosiddetti “intellettuali spostati”. Con questa definizione egli intendeva quegli intellettuali di estrazione borghese (e all’epoca lo erano pressoché tutti, perché difficilmente un individuo di estrazione sociale diversa poteva accedere al mondo degli studi), che spostandosi dalla fascia sociale di origine, si collocavano nell’area degli interessi sociali, culturali e politici della classe operaia e di quella contadina. Tali erano i già citati; come tali erano i Turati, i Treves, i Prampolini, i Bissolati: giornalisti, professori, avvocati, spesso professionisti seri e stimati, anche se assoggettati al controllo di polizia, che attraverso esperienze personali diverse erano pervenuti alla fede socialista e accompagnavano le elaborazioni teoriche all’impegno delle lotte sociali, fianco a fianco con i lavoratori. Non erano più, come aveva scritto Marx quindici anni prima, solo “una combriccola di spostati, il rifiuto della borghesia… avvocati senza clienti, medici senza ammalati e senza cognizioni, studenti assidui al biliardo, commessi viaggiatori di commercio e specialmente giornalisti della piccola stampa di fama più o meno dubbia”. (12) Addirittura quegli intellettuali “spostati” erano divenuti nel frattempo i diffusori del verbo marxista e gli interpreti autorevoli, non solo in Italia ma anche all’estero, del pensiero marxista dell’epoca, ricevendo il viatico, insieme con la collaborazione e il consiglio, direttamente dal compagno di Marx e coautore di molte opere di dottrina e di strategia, quel Friedrich Engels che Turati, appena divenuto direttore della “Critica Sociale”, volle ripresentare ai socialisti Italiani dopo alcuni anni di silenzio.
In un volume pubblicato in esilio, nel 1933, Giuseppe Faravelli, socialista di scuola turatiana, divenuto dopo la seconda guerra mondiale per lunghi anni direttore di “Critica Sociale”, così sintetizza questa funzione degli “intellettuali socialisti”: “L’introduzione del marxismo in Italia, mentre spinge la cultura a un profondo generale rinnovamento, segna l’ingresso della classe lavoratrice nella vita politica nazionale e, quindi, dà impulso ad un profondo rinnovamento di questa vita… Non già che prima dell’apparizione del marxismo non esistesse in Italia un movimento operaio e che le correnti socialiste non vi avessero preso piede. Ma solo il marxismo, trionfando della corrente cosiddetta nazionale del socialismo, ossia del generico rivoluzionarismo democratico e repubblicano filiato dalle lotte del Risorgimento, trionfando dell’utopismo anarchico divulgato dal Bakunin e dai suoi seguaci, soprattutto nell’Italia Meridionale e Centrale, trionfando infine del riformismo umanitario dei maloniani raccolti nel Settentrione intorno alla “Plebe” di Bignami e di Gnocchi-Viani, dette alle classi lavoratrici una direttiva organica e coerente di azione, suscitandone l’organizzazione in partito politico autonomo volto alla conquista dei poteri dello “Stato””.(11) Il marxismo del gruppo della “Critica Sociale” e degli altri “intellettuali socialisti” era evoluzionistico, gradualistico, legalitario, riformistico. Anche se patentato da Engels, sorgono notevoli dubbi se esso potesse considerarsi un’interpretazione autentica del pensiero rivoluzionario di Marx. Era comunque ben lontano dall’indirizzo che quel marxismo internazionale doveva successivamente assumere, volgendosi, tra interpretazioni catastrofiche, o volontaristiche, in direzione del leninismo.
Dal 1892, data della formazione del Partito operaio a Genova, mentre s’accentuò il distacco tra questo e gli anarchici, diminuì rapidamente la distanza con gli “intellettuali socialisti”, e in particolar modo con il gruppo milanese. Scrive Gaetano Arfé che la “presenza costante e via via sempre più attiva del gruppo marxista milanese nella discussione e nell’agitazione dei problemi sociali più pressanti e drammatici stabiliva un legame con le organizzazioni operaie, tra le quali la teorizzazione dell’inconciliabile antagonismo tra le classi dava contenuto alla nascente coscienza della propria autonomia e della propria funzione”. (14) Si determinò in tal modo quella convergenza di interessi e di idealità che convinsero il Partito operaio a superare la pregiudiziale esclusivista e ad accettare la fusione con quegli “intellettuali” che non avevano le “mani callose”, ma già rappresentavano una componente necessaria all’autonomia e alla identificazione politica del partito della classe lavoratrice.
Sociologicamente, dunque, il partito che nasce nell’agosto del 1892 è rappresentativo in modo indiscutibile di due componenti: quella del lavoro manuale, operaio e contadino, e quella “intellettuale”, cioè di lavoratori non manuali già borghesi, ma che hanno rifiutato la loro collocazione di classe originaria. Da questa sintesi deriva un fenomeno politico-sociale del tutto nuovo: quello dell’affacciarsi sulla scena politica nazionale di una porzione di classe dirigente che non coincide con le classi sociali tradizionali, tra cui la borghesia, e che è ad esse alternativa. Questa nuova porzione di classe dirigente nasceva da una frattura della borghesia ed ebbe un effetto a catena in quanto destinata a produrne una successiva, all’interno della stessa borghesia, tra una parte che si pose a combattere pregiudizialmente e intransigentemente questo nuovo soggetto politico; e una parte che tendeva a rendersi conto della necessità storica della nascita di questo nuovo soggetto e che si apprestava, in un modo o nell’altro, a fare i conti con esso, non escludendo neppure la possibilità di convergenze e alleanze sia pur temporanee.
Questo processo a catena rivelava l’affiorare di una reciproca consapevolezza politica: la sostanziale, anche se ancora non del tutto esplicitata, accettazione delle istituzioni dello Stato democratico con la cui formazione s’era compiuto il Risorgimento. Sia da parte della borghesia liberale, sia da parte del nascente movimento politico socialista, cominciava a manifestarsi il convincimento che le istituzioni dello Stato democratico costituivano un terreno irrefutabile di evoluzione politica, e insieme, il terreno sul quale era possibile il reciproco affermarsi e potenziarsi come soggetti determinanti, tanto nel conflitto sociale, quanto nella contesa politica. All’opposto, sia la borghesia conservatrice o decisamente reazionaria, sia l’estremismo insurrezionale e intransigente, scorgono in queste istituzioni un ostacolo ai loro rispettivi disegni strategici. Per entrambi esso diviene un ostacolo da abbattere, in nome di idealità opposte, ma convergenti nel fine comune. Comincia così già a delinearsi, nell’ultimo decennio del XIX secolo, il profilo dello scontro politico fondamentale che si svilupperà nei decenni successivi: tra una destra e una sinistra che si contrasteranno nell’ambito di una concezione sostanzialmente comune di accettazione dell’impianto democratico dello Stato risorgimentale; e una destra e una sinistra che, apertamente o implicitamente, contrasteranno questa adesione, proponendosi di svellere o di modificare in senso autoritario l’organizzazione statuale.

Malfattori, sabotatori, legislatori

Il partito che si costituisce a Genova prende il nome di Partito dei lavoratori Italiani. In esso confluiscono duecento associazioni di lavoratori; i gruppi intellettuali e i Fasci siciliani di Palermo e di Catania. Lo Statuto prevedeva l’adesione per associazione e permetteva con l’articolo 17 l’adesione individuale solo in casi eccezionali. Era sostanzialmente ancora la vecchia struttura corporativa del Partito operaio, appena mitigata da qualche eccezione che permettesse agli intellettuali più prestigiosi di aderire a titolo personale. Il programma poggiava su tre punti-cardine: il riconoscimento dell’antagonismo di classe tra capitalisti e proletari; l’obiettivo di attuare la socializzazione di tutti i mezzi di produzione e di gestirli collettivamente; l’organizzazione di un partito di classe che persegua i miglioramenti economici attraverso la “lotta di mestieri” ma conduca anche una lotta più generale rivolta a conquistare i pubblici poteri (i Comuni, le Amministrazioni Provinciali, lo Stato) per trasformarli da “strumenti di oppressione e di sfruttamento in uno strumento per l’espropriazione economica e politica della classe dominante”. Si ricalcava di fatto il modello della socialdemocrazia tedesca, per cui il partito si presentava come “rivoluzionario nei fini, legalitario nei mezzi”. Rompendo con l’insurrezionalismo, manteneva tuttavia una caratteristica rivoluzionaria, con una ambiguità storica che sarà campo di discussioni e contrasti anche dilanianti. Comunque la scelta della presenza in Parlamento fu concomitante alla nascita della organizzazione politica. L’aveva addirittura preceduta. Oltre alla presenza di Garibaldi nel primo Parlamento unitario – un Garibaldi che può essere considerato socialista a tutti gli effetti, anche se con caratteristiche tutte proprie – abbiamo ricordato quella di Andrea Costa. Il significato di questo impegno parlamentare può ben riassumersi nella epigrafe che Costa detterà qualche tempo dopo: “Da malfattori a legislatori”.
Nell’anno successivo alla fondazione il partito cambia la sua denominazione in quella di Partito socialista dei lavoratori Italiani (PSLI). Vi appare così una qualificazione politica specifica (socialista) accanto alla qualificazione sociale (dei lavoratori). Non basta più essere “lavoratori” per farne parte, ma occorre essere lavoratori “socialisti”.
Questo avviene a Reggio Emilia, dove s’è tenuto il secondo congresso. Ancora, due anni dopo, a Parma, un nuovo congresso fissa l’etichetta definitiva: Partito socialista italiano (PSI), con la quale la qualificazione politica cancella quella sociale o, meglio, s’identifica con essa. Il partito assume, in quanto socialista, la rappresentanza esclusiva del mondo del lavoro. È una decisione basata non su di una presunzione, bensì su un dato di fatto, in quanto in questo triennio l’espansione del partito è stata rapidissima, sia in termini elettorali che organizzativi. Il suo messaggio politico viene raccolto in ogni contrada del paese, dagli operai e dai contadini, dagli artigiani e dai professionisti. Sempre più numerosi affluiscono nelle sue fila intellettuali, giovani e, enorme novità per l’epoca, le donne. È questa affluenza che impone di affermare il principio della piena legittimità della adesione individuale, direttamente al partito, non più attraverso le associazioni. Principio che viene definitivamente sancito, appunto, al congresso di Parma del 1895. E un congresso che si svolge nella clandestinità, in seguito alle leggi eccezionali che Crispi – irritato per l’aperta ostilità dei socialisti all’impresa africana – ha fatto approvare dal Parlamento. In base ad esse le organizzazioni socialiste vengono disciolte e l’assise nazionale deve tenersi in forma illegale. Sono gli anni della adesione di intellettuali di grande prestigio e di grande popolarità, come Cesare Lombroso, Enrico Ferri, Edmondo De Amicis e tanti altri. In quasi tutte le università Italiane si costituiscono gruppi di studenti socialisti. Sono gli anni dell’esplosione delle lotte in Sicilia, dei conflitti cruenti tra gli aderenti ai Fasci siciliani e i “gabellotti” dei latifondisti, sostenuti dalle truppe inviate dal governo centrale, che risponde alle lotte dei lavoratori siciliani, esasperati dalla miseria e dalla fame, con la repressione, lo scioglimento dei Fasci e i processi e le condanne contro i capi del movimento: De Felice, Barbato, Garibaldi Bosco, Bernardino Verro ecc…
Sono gli anni anche del sorgere di un movimento operaio cattolico-sociale, per iniziativa di personaggi come don Albertario, movimento che metterà presto vaste radici, contrastando l’egemonia e la rappresentatività socialista nel mondo del lavoro.
Nonostante la repressione e, probabilmente, proprio a ragione di essa, il PSI raccoglie sempre più vasti consensi nelle competizioni elettorali. In quelle del 1895 i voti salgono a 77.000 e la rappresentanza parlamentare ne risulta pressoché raddoppiata: 12 sono i seggi che spettano ai socialisti. L’anno seguente, in una elezione suppletiva a Milano, viene eletto per la prima volta Filippo Turati. La crescita elettorale conferisce indubbiamente una forza maggiore al partito nella sua azione politica, che si dispiega nella società civile, con le lotte sociali per il progresso economico dei lavoratori, per la difesa della democrazia e della libertà contro le repressioni autoritarie che avevano raggiunto già in quegli anni una fase acuta e cruenta che continuerà con la repressione di cui sarà teatro Milano nel 1898.
Il problema che si poneva concretamente all’intelligenza politica del partito, sia in quest’opera di difesa della legalità, sia nell’attività elettorale, politica e amministrativa, sia nelle battaglie parlamentari, era quello dell’alleanza con le forze della sinistra democratica. Dopo il congresso di Firenze del 1896, dedicato alla elaborazione del programma agrario per rispondere alle esigenze dei contadini espresse dai moti nelle campagne, è nel V congresso del partito che si impone il tema della alleanze. Settori notevoli della democrazia liberale mordevano il freno di fronte alle iniziative autoritarie di marca crispina. Da parte sua la sinistra democratica, repubblicana e radicale, mentre da un lato vedeva con preoccupazione nella crescita socialista il pericolo di una concorrenza soprattutto elettorale, dall’altra parte avvertiva già in essa le possibilità concrete di un sostegno reciproco per battere gli schieramenti moderati, in specie nei comuni e nelle province, oltre che la possibilità di convergenze parlamentari.
I socialisti erano interessati a non perdere l’occasione di possibili intese con entrambe queste due forze. In sei anni di vita del partito, tra il 1892 ed il 1898, l’organizzazione socialista viene soppressa per ben quattro volte. A mano a mano che le condizioni economiche e sociali suscitano un vasto e profondo malcontento nelle masse popolari, che si manifesta con moti che spesso sfiorano il livello insurrezionale, i socialisti ne sono coinvolti e, per forza naturale delle cose, sono destinati a guidare la maggior parte di questi movimenti. Sui socialisti, di conseguenza, si abbattono le repressioni da parte delle forze reazionarie che vedono nei loro capi i “sobillatori” come Turati dirà in un suo scritto.
Lo scontro si fa violento. Si cerca di isolare il partito, per stroncarne la crescita che già si presenta imponente. Gli uomini da colpire, i dirigenti più prestigiosi, pagano di persona. E non si tratta di mestatori, di estremisti infuocati, di rivoluzionari di professione: si tratta di democratici che hanno scelto la via della legalità e che se la vedono precludere. Si tratta allora per il gruppo dirigente socialista di uscire dall’isolamento, di creare punti di contatto con le forze politiche e parlamentari riluttanti ad una politica di repressione quale quella avviata dai governi del tempo, di stringere le alleanze necessarie.

La politica delle alleanze

Del resto lo stesso Engels aveva dato un suggerimento in tal Senso a Turati e alla Kuliscioff che gli avevano chiesto la sua opinione su come dovesse comportarsi il partito di fronte ai movimenti delle masse. Era il 1894, un anno cruciale di conflitti e di repressioni, ed Engels addirittura pronosticava la possibilità della instaurazione di una Repubblica borghese ad opera di radicali e repubblicani Italiani, considerando comunque come positiva l’azione di queste forze che “allargherebbe ancora e di assai la nostra libertà”.(15) Stava ai socialisti, secondo il collaboratore del defunto Marx, assecondare questo movimento, mantenendo la piena indipendenza ideologica e organizzativa. Il PSI doveva essere “alleato pel momento ai radicali e repubblicani, ma interamente distinto da essi”. Più che da un’analisi di tipo ideologico, la linea era imposta al partito da una necessità addirittura esistenziale. Sta di fatto che l’estremizzazione, in quegli anni, della lotta sociale e politica non portò il giovane partito ad estremizzare le sue posizioni in senso, come si dirà in fasi successive, “massimalistico”. All’opposto, ne maturò rapidamente la capacità politica, l’intelligenza tattica e il carattere morale. I suoi dirigenti e i suoi militanti non si tirarono indietro di fronte allo scontro e solidarizzarono con le masse; ma agirono politicamente in modo saggio e concreto per uscire dalla situazione che si era pericolosamente creata, per cercare e consolidare le alleanze possibili, facendo fare un passo innanzi al processo di rafforzamento e di espansione del sistema democratico, ancora recente ed ancora notevolmente fragile. Allo stesso tempo, sia pure in modo del tutto consapevole, il partito tendeva a sciogliere quella contraddizione tra finalità rivoluzionarie e mezzi legalitari che aveva presieduto la sua nascita, e che riapparirà anche in fasi successive. Uno storico del socialismo italiano, Giorgio Galli, definisce il biennio 1894-95 come “il paradigma” di un processo “ripetitivo” in cui “la legalità deve essere utilizzata per accumulare energie rivoluzionarie; ma quando le energie si manifestano, la tensione sociale si accentua, sino a mettere in pericolo la legalità”. (16)
Ci sembra che, almeno in quella fase, il gruppo dirigente socialista non abbia attuato né una strategia ne delle tattiche corrispondenti a questo paradigma. Non era stato un loro obiettivo la crescita della tensione sociale, che era indiscutibilmente un prodotto delle condizioni di arretratezza sociale di molte zone del paese, di ritardo nel riconoscimento dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, condizioni inasprite dalla crisi economica di quel periodo che aveva condotto (con il rincaro del Prezzo del pane) alla esasperazione larghi strati popolari che vivevano in condizioni di precarietà e di indigenza.
Lo scopo prioritario del PSI era quello di costituire una struttura rappresentativa organica delle esigenze popolari e di garantirne il rafforzamento e l’espansione: questo scopo coincideva con il rafforzamento delle istituzioni, l’allargamento della vita democratica, attraverso, ad esempio, l’allargamento del suffragio, l’introduzione nella vita politica di zone della società civile che ne erano state escluse fino ad allora.
Per tali ragioni, il gruppo dirigente socialista – almeno nella sua grande maggioranza – non si fece travolgere dagli avvenimenti, non tentò di “cavalcare la tigre” rivoluzionaria (anche se non mancavano alcune sirene che li sollecitavano in questa direzione) e riuscì ad uscire con successo dalla prova di quegli anni.
La coscienza dell’importanza della vita parlamentare, come sede elevata della lotta politica democratica, fece dei socialisti i più intransigenti difensori del Parlamento e delle sue prerogative. Nel Parlamento i socialisti condussero tutte le battaglie per la libertà di associazione dei lavoratori, per il diritto di sciopero, per la giustizia sociale attraverso la legislazione del lavoro. E condussero anche una lotta intransigente contro la repressione autoritaria di Crispi, Di Rudinì e Pelloux, che intendevano colpire i lavoratori e, con essi, tutti i democratici.

La crescita del partito

A Bologna, dove si riunisce il V congresso (18-20 settembre 1897) c’è una grande novità: da molti mesi, dal Natale dell’anno precedente, i socialisti vantano un loro quotidiano, l'”Avanti!”, diretto da Bissolati, che già s’è distinto come bandiera di libertà e di emancipazione sociale e ha già conquistato molti elettori, anche tra il pubblico non socialista.
Inoltre, nelle elezioni politiche del marzo dello stesso 1897, il partito è stato premiato per la sua opposizione condotta contro la politica antipopolare del Di Rudinì, raddoppiando quasi i suoi suffragi: ha ottenuto 130.000 voti, sono stati eletti 15 deputati.
Anche la sua organizzazione è più forte. Dai dati offerti al congresso dalla relazione Dell’Avalle, risultava che gli iscritti erano passati da 19.121 a 27.281, mentre le sezioni erano salite a 623.
Di pari passo con la crescita del partito e del suo elettorato si irrobustisce la tendenza democratica nell’ambito del socialismo di contro a quelle estremistiche, la cui consistenza è dovuta alla presenza della repressione del governo nelle campagne e specie nel Mezzogiorno. La posizione “transigente”dell’ala che si chiamerà “riformista” tende a farsi luce nel gruppo parlamentare e nel partito. La caduta di Crispi diede conferma e forza all’azione dei socialisti che vi si richiamavano.
Al congresso di Firenze (26 maggio-4 giugno 1896) si appalesò il contrasto tra l’ala “intransigente” capeggiata dal Lazzari, che rigettava le tesi democratiche e quindi la politica delle alleanze, e l’ala turatiana. Il contrasto non s’acuì e prevalse un ordine del giorno di centro presentato da Enrico Ferri che ottenne 147 voti favorevoli, 71 contrari ed una astensione.
Sul piano delle alleanze sociali, il VI congresso discusse il problema dell’azione socialista nelle campagne, dove il PSI dimostrava una notevole capacità di espansione, e in particolar modo il problema della “piccola proprietà lavoratrice”. Fu accolta la tesi di Bissolati che, innovando lo schema teorico marxista, individuava nella creazione delle cooperative agricole un fertile terreno d’intesa tra il movimento contadino con i piccoli proprietari agricoli.
Per il gruppo parlamentare socialista, che fu sempre ispirato alle concezioni riformiste, “la democrazia è il punto di partenza, il socialismo il punto di arrivo”.
Respingendo le suggestioni rivoluzionarie degli estremisti, il gruppo parlamentare fece del Parlamento la sede più feconda dell’evoluzione sociale, civile e politica del paese, operando per la crescita e l’affermazione di tutto il mondo del lavoro.
Tra il V e il VI congresso, molti avvenimenti scossero la società italiana ed impegnarono i socialisti in una dura difesa della libertà e delle prime conquiste sociali.
Nel Parlamento e nel paese essi dovettero condurre una lotta intransigente contro le repressioni autoritarie dei Crispi dei Di Rudini. e Pelloux, che erano rivolte a colpire le organizzazioni socialiste, e con esse tutte le forze democratiche e le stesse organizzazioni sociali dei cattolici. I parlamentari socialisti pagarono un duro prezzo per la difesa della libertà.
Oltre al Costa – che nel 1889 era stato incriminato, dichiarato decaduto dal seggio e condannato – anche altri deputati socialisti conobbero in quegli anni il carcere e vennero processati e condannati. Il 9 maggio 1898, insieme ai provvedimenti che decretavano lo stato di assedio e la sospensione della libertà di stampa, il generale Bava Beccaris fece arrestare i deputati socialisti Turati, Bissolati e il repubblicano De Andreis. Con loro finirono in carcere altri dirigenti del PSI, tra cui Anna Kuliscioff. Turati e De Andreis furono condannati ciascuno a 12 anni di carcere; a pesanti pene detentive anche gli altri. Verranno liberati a seguito dell’amnistia politica, reclamata dalle petizioni popolari. Nel novembre 1898, contro le misure repressive delle libertà di associazione, di sciopero, di stampa presentate dal primo ministro, il generale Pelloux, insorsero i parlamentari socialisti, radicali e democratici, con alla testa Bissolati, Prampolini e Ferri. Per la difesa delle prerogative democratiche del Parlamento contro la decretazione d’urgenza – che troverà la sanzione anche della Corte di Cassazione – essi adottano la tattica dell’ostruzionismo. La battaglia dura parecchi mesi. Il 30 giugno 1898, avendo il presidente della Camera tolto la parola a Prampolini, che ne aveva diritto, lo stesso Prampolini, Bissolati ed altri deputati rovesciarono le urne in cui si deponevano le schede per la votazione. Si andavano creando, su questo terreno di lotta, le condizioni per un rapporto politico positivo tra i socialisti e le altre forze costituzionali, che mostravano una crescente ostilità alla linea reazionaria.
Sciolta la Camera, nella consultazione che si tenne nella prima domenica di giugno, i socialisti videro premiata la loro coerente iniziativa in difesa della democrazia e dei lavoratori: i consensi più che raddoppiati portarono in Parlamento 32 deputati socialisti, al posto di 15 uscenti. Per la prima volta sono eletti due operai: il biellese Rinaldo Rigola e il genovese Pietro Chiesa.
Un successo elettorale ottenne anche l’opposizione costituzionale di Giolitti e di Zanardelli. Ciò permise di prefigurare una nuova situazione parlamentare favorevole a un’intesa tra i socialisti e queste forze, isolando in Parlamento i conservatori e i reazionari.

Il programma minimo e il compromesso con Giolitti

Nel VI congresso socialista svoltosi a Roma dall’8 all’11 settembre 1900 si delinea una frattura tra l’ala riformista favorevole alla collaborazione con le altre forze democratiche e l’ala estremista, guidata da Arturo Labriola, che invece vuole una opposizione intransigente e il virtuale isolamento del PSI.
Turati, appena uscito dal carcere, dichiarava che l’intesa con i settori democratici doveva ormai essere considerata come “il principio di una nuova fase dell’esistenza del partito socialista”. I fondamenti della nuova politica socialista sono: democratizzazione; fabianesimo economico; libertà politica.
Questa linea si concretizza nella presentazione di un documento, con le firme di Turati, Treves e Sambucco, approvato pressoché all’unanimità, che contiene il “programma minimo” del partito, il programma cioè che servirà da guida per il PSI in tutta la sua azione politica e parlamentare.
Il “programma minimo” era un programma di “governo” dei socialisti; esso doveva indicare la larga corrente di trasformazioni che debbono avvenire nello Stato moderno perché il proletariato divenga sempre più capace di far valere la sua forza economica e politica nella marcia verso il socialismo. Le richieste più importanti contenute nel “programma minimo” erano le seguenti:
il suffragio universale; la proporzionale; la libertà piena per le organizzazioni sindacali; l’abbandono della politica coloniale; il decentramento politico e amministrativo; la municipalizzazione dei servizi pubblici; la riduzione a 36 ore della settimana lavorativa; la tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli; la riforma tributaria; l’attuazione del sistema assistenziale e previdenziale; l’istruzione elementare obbligatoria e laica; l’autonomia della università ecc…
Si trattava di numerose e fondamentali questioni, che costituiranno gli obiettivi della lotta sociale e politica del PSI e della sua azione parlamentare. La sua approvazione fu un grande successo dell’impostazione riformistica data al partito soprattutto da Filippo Turati. Con l’astensione decisa dai socialisti al governo Zanardelli e successivamente con il voto favorevole al governo Giolitti si avviava e si sviluppava la fattiva e feconda collaborazione che permise all’Italia alcuni anni di progresso civile, sociale e politico, anche se inframmezzati da sanguinosi episodi di repressione delle lotte operaie e contadine, specie nel Mezzogiorno. È proprio in quegli anni che, accanto alla grande espansione del movimento sindacale a larga base operaia, sotto la guida socialista di Gnocchi Viani, di Cabrini, di Rigola, si estende e si rafforza, anche attraverso dure lotte, il movimento contadino per la conquista dei diritti, per la modernizzazione delle campagne, per il superamento dell’arcaica struttura padronale ancora basata in larga misura sul feudo.
Nel 1901, in una grande assise congressuale tenuta a Bologna, fu costituita la Federazione nazionale dei lavoratori della terra, che votava la sua adesione alle idee e ai programmi del partito socialista. Spiccavano, tra i dirigenti del movimento, Carlo Vezzani e Argentina Altobelli; mentre grande prestigio e popolarità conquistava per la sua costruttiva opera di costituzione delle cooperative contadine Nullo Baldini. Questo movimento si scontrava con la resistenza miope degli agrari e delle strutture parassitarie di sfruttamento del lavoro agricolo, specie nel Mezzogiorno. In Puglia, in Sicilia, in Calabria, in Campania ogni manifestazione contadina si risolveva in episodi cruenti, in cui perdevano la vita numerosi lavoratori.
Nonostante ciò, la collaborazione parlamentare con le forze costituzionali risultò positiva, perché condusse ad una maggiore imparzialità del governo nei conflitti di lavoro, e all’attuazione di importanti norme della nuova legislazione sociale, come quelle sulla tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli. Questa legge veniva perfezionata accogliendo alcune proposte di Turati e di Cabrini. In base ad essa veniva vietato il lavoro dei fanciulli sotto i 12 anni, mentre veniva proibito per i minori di 14 anni e per le donne quello nelle attività minerarie; si fissava l’orario massimo per i minorenni a 11 ore giornaliere e a 12 per le lavoratrici, a cui venivano riconosciuti anche i diritti di protezione della gravidanza.
Fu istituito l’Ufficio del lavoro presso il ministero dell’Agricoltura e della Industria, a dirigere il quale fu chiamato il socialista Giovanni Montemastini. Fu insediato il Consiglio superiore del lavoro, con una larga rappresentanza operaia, e con alcuni deputati socialisti nella delegazione scelta dal Parlamento. Vengono autorizzati i Comuni ad istituire la gestione municipale di servizi pubblici e se ne fissano le regole amministrative. Vengono favorite le cooperative di lavoratori nell’appalto dei lavori pubblici.

Lo scontro delle tendenze

Intanto sorgevano nel PSI due opposte tendenze “revisionistiche”: quella che faceva capo al tedesco Bernstein che promuoveva una revisione del marxismo e sosteneva la tesi che la democrazia politica è la condizione necessaria per lo sviluppo e l’affermazione del mondo del lavoro; l’altra, che aveva come suo principale autore il Sorel, contrapponeva all’organizzazione del partito di classe l’azione rivoluzionaria del sindacato, e, come strumento di lotta decisivo per abbattere la società capitalistica, lo sciopero generale.
Al VII congresso di Imola (6-9 settembre 1902) nasceva la corrente “sindacalista rivoluzionaria” che si richiamava alle tesi del Sorel. Essa faceva capo ad Arturo Labriola e a Enrico Ferri, e aveva la sua maggiore forza tra i socialisti delle regioni meridionali.
Di fronte ai successi realizzati dal partito con la linea politica democratica, successi che vennero riepilogati nella relazione Canepa-Cabrini, l’opposizione, che esprimeva essenzialmente la protesta meridionale, non solo dei contadini ma anche della borghesia intellettuale insofferente ai metodi dei prefetti governativi, restò in netta minoranza. Essa però ebbe modo di chiarire la sua volontà di far leva sulla persistenza di strutture “precapitalistiche” in larga parte della società e dell’economia italiana, per propagandare la sua linea “rivoluzionaria” e per condizionare il PSI con la propria presenza agguerrita.
Un primo effetto della azione delle correnti antiriformiste è la sostituzione di Bissolati nella direzione dell'”Avanti!”con Enrico Ferri nel corso nel 1903. Al primo, conseguente riformista, e per questo accusato di parzialità dalla corrente di opposizione, viene preferito Ferri perché collocatosi su una posizione media dava maggiori garanzie alla minoranza, con la quale ben presto si allineerà.
Il pensiero riformista si sviluppa, però – incessantemente, arricchendosi con l’opera di uno dei maggiori esponenti di questa corrente politica ed ideale, Ivanoe Bonomi, del quale nel 1903 viene pubblicato Le vie nuove del socialismo.
È uno scritto che opera una audace revisione del pensiero storico del socialismo non solo italiano, proponendo un organico modello di moderna democrazia sociale, nel quale, tuttavia, il ruolo del partito appare fortemente ridimensionato rispetto a quello delle organizzazioni economiche e sociali della classe lavoratrice (cooperative, sindacati, circoli). Per tale ragione l’opera di Bonomi, generalmente apprezzata, suscita l’aspra polemica dei dottrinari, ma anche qualche dissenso tra gli stessi riformisti. Nell’ottobre del 1903, Giolitti, incaricato di formare il nuovo governo, offre un dicastero a Turati, che lo rifiuta. Egli, come la maggioranza dei riformisti, è convinto che sia indispensabile e positiva la collaborazione parlamentare, ma non matura la partecipazione ministeriale.
L’VIII congresso (Bologna 8-11 aprile 1904) si svolge in un clima di notevole tensione. Esso viene tra l’altro anticipato di sei mesi, ed è preceduto da serrate polemiche tra le varie correnti in cui il partito è ormai suddiviso. I “rivoluzionari” accusano i riformisti di praticare un parlamentarismo “bottegaio”, mentre i riformisti denunciano con forza l’ingresso di concezioni estranee alla tradizione ideale del socialismo democratico nell’ambito del PSI. Un conflitto permanente contrappone il gruppo parlamentare, a stragrante maggioranza riformista, alla direzione del partito, nella quale essi sono ormai in minoranza. Pur conservando la maggioranza relativa dei consensi congressuali, la corrente che fa capo a Turati viene posta in minoranza da una eterogenea coalizzazione tra i “sindacalisti rivoluzionari” di Arturo Labriola e la corrente cosiddetta “integralista” di Ferri. Nonostante questa ibrida alleanza, lo scarto dei voti è lieve: 16.304 voti contro 14.882. Ma esso è sufficiente per spostare su posizioni estremistiche l’asse politico del PSI.
Nello stesso 1904, come prova di “ginnastica rivoluzionaria”, la nuova direzione promuove il primo sciopero generale.
Lo sciopero generale dal 16 al 20 settembre 1904 fu un fallimento. Le elezioni successive segnarono una flessione dei socialisti e dei radicali. I “rivoluzionari” ebbero delle cocenti delusioni, tant’è che alcuni dei loro esponenti non furono eletti (Arturo Labriola e Ciccotti). I sindacalisti estremisti avevano perso larga parte del loro seguito ed Enrico Ferri s’andava avvicinando alle posizioni riformiste. I risultati davano ragione a Turati e a Bissolati, che cercavano di riprendere l’iniziativa, riconducendo il partito al centro del gioco politico parlamentare.

L’accordo con Giolitti

Giolitti, per prendere tempo e far maturare gli avvenimenti, “passò la mano” al suo luogotenente Fortis, il cui governo realizzò la statizzazione delle Ferrovie: e questo fu un avvenimento che favorì il reinserimento dei socialisti nel dialogo con le forze democratico-liberali. Paradossalmente questa operazione non si realizzò con Giolitti, né a favore di Giolitti. Bensì in occasione della costituzione del governo presieduto da Sidney Sonnino, un uomo politico molto più conservatore di Giolitti, contro il quale c’era stata un’improvvisa rivolta di una parte della sua stessa maggioranza.
Tornato Giolitti al potere nel giugno del 1906, s’inaugura quel suo lungo ministero che durerà sino alla fine del 1909, che permise di conseguire utili risultati all’azione dei socialisti, specie sul terreno dei diritti di libertà e della legislazione sociale. Due avvenimenti contrassegnarono la vita del movimento socialista in quel biennio: la nascita della Confederazione generale del lavoro, guidata da Rinaldo Rigola, e alleata del partito, cui sarà legata con un patto formale nel 1917; si opera un riavvicinamento all’interno del PSI tra i riformisti e gli “integralisti” di Ferri. Quest’ultima corrente prevale nel IX congresso che si svolge a Roma, dal 7 al 10 ottobre 1906 grazie all’appoggio che alla mozione degli “integralisti” dettero i riformisti. Furono 26.947 i voti a questa mozione, contro i 5278 dei “sindacalisti rivoluzionari” e i 1101 voti ad una mozione di “rivoluzionari intransigenti” di Lerda. Una notevole quota fu raggiunta dagli astenuti (757).
Un anno dopo, nel luglio del 1907, l’ala “sindacalista rivoluzionaria”, sempre più minoritaria nel sindacato e nel partito, decide la scissione e inizia un avventuroso percorso politico che condurrà molti esponenti e militanti nelle fila del movimento fascista.
Turati riconquista il partito nel successivo congresso, il X, che si tiene a Firenze dal 19 al 22 settembre 1908. E una concentrazione di riformisti e di ex integralisti, con l’appoggio della Confederazione generale del lavoro, che riporta la maggioranza dei voti. L’ordine del giorno “concordato”, sottoscritto da Modigliani, contro i 6520 di Morgari e i 6001 degli “intransigenti”.
Tra l’altro, il documento della maggioranza conteneva, oltre alla richiesta di ampliamento della legislazione sociale, quella di abolizione del dazio del grano e l’opposizione ad ogni aumento delle spese militari.
Il congresso approvava all’unanimità un ordine del giorno di Gaetano Salvemini per l’introduzione del suffragio universale, esteso anche ai lavoratori analfabeti che nel Mezzogiorno erano la maggioranza. Questa misura, insieme con la richiesta di abolizione del dazio sul grano (con la quale i socialisti si allineavano alle posizioni antiprotezionisfiche della cultura liberale) rappresentavano due provvedimenti ritenuti indilazionabili per la modernizzazione delle regioni meridionali, e per dare, con l’estensione del suffragio, una rappresentanza politica alle masse contadine che non avevano diritto al voto.
Intanto, però, s’approfondisce la divergenza tra una parte ‘dei riformisti che fanno riferimento a Bissolati e a Bonomi, che, richiamandosi a Bernstein, spingono alle estreme conseguenze la posizione revisionistica, fino a contestare la stessa legittimità del partito a rappresentare gli interessi della classe lavoratrice, e la parte della corrente che con Turati e Modigliani ha assunto la guida del PSI e del gruppo parlamentare, sostenuta dai socialisti della CGL. A Modigliani si riconduce anche Salvemini che insiste sulla esigenza di abbandonare la visione protettiva delle fasce operaie più forti e organizzate del Nord, per rivolgere l’azione socialista maggiormente a favore dei “cafoni” delle regioni meridionali.
Nell’XI congresso, che si svolge a Milano dal 21 al 25 ottobre 1910, è Turati che tiene la relazione generale, nella quale traccia un quadro approfondito dell’azione riformista del primo decennio del secolo e della sua ispirazione culturale e ideale.
Egli sostiene in modo lucidissimo che l’evoluzione della società aveva condotto al superamento del concetto marxista Stato per cui la “vera azione socialista” nasceva da “questa revisione del marxismo primitivo”. “Il proletariato si riconosce – egli aggiungeva – come uno dei massimi fattori del progresso economico”. Il socialismo “mescolandosi al presente” con l’azione riformatrice non poteva tralignare nel radicalismo o nel laburismo, se non si perdevano di vista le finalità generali. In questo modo, concludeva Turati, “ogni passo in avanti, e se pur breve, sulle presegnate direttive, varrà sempre meglio delle iperboliche promesse, scritte nel presagi. La riforma, così intesa, è la rivoluzione senza il bluff. È la rivoluzione in cammino”. (17)
In questo congresso fa il suo esordio oratorio Mussolini, che critica tutto e tutti, liquidando come contrastanti col fine della rivoluzione riforme, azione parlamentare, suffragio universale. Curiosità storica: Mussolini dedica il finale del suo discorso al “cliché” della patria, “nel nome del quale si pompa il sangue alla miseria del proletariato”.(18) Turati prevale con 13.000 voti contro i 5928 voti che vanno alla mozione “rivoluzionaria” di Lazzari. Il documento della “sinistra riformista” di Modigliani raccoglie però 4547 voti.
In questo congresso si verificava la suddivisione della componente riformista in tre tronconi: a quello guidato da Turati, che riesce a vincere nelle votazioni finali riuscendo ad assorbire, momentaneamente, la dissidenza del secondo troncone di Bonomi, Bissolati e Cabrini (i quali nei loro interventi giungono a prospettare la formazione di un “partito del lavoro” che sostituisca il PSI) si contrappone il terzo troncone costituito dalla “sinistra riformista”, nata dalla separazione del gruppo che fa capo a Modigliani, Morgari e Salvemini.
Era il germe di una futura separazione, che porterà fuori del PSI uomini come Bissolati e Bonomi, i quali avevano fortemente contribuito, tanto nel piano politico e organizzativo, quanto nel piano teorico, alla crescita del partito.
Alle elezioni del marzo 1909 i socialisti salgono a 42 deputati. Costa viene eletto alla vicepresidenza della Camera. Nella nuova Assemblea, emerge il problema delle spese militari. I socialisti dicono di no alla richiesta di uno stanziamento aggiuntivo di mezzo miliardo, trovandosi da soli all’opposizione, con una linea dettata dagli ideali pacifisti.
Dimessosi Giolitti nel dicembre 1909 – a seguito del rifiuto della Camera al suo progetto di riforma fiscale giudicato insufficiente dai socialisti ma, in realtà, per sottrarsi alla scelta dei gruppi da favorire con le Convenzioni marittime da parte dello Stato – dopo un altro breve governo di stampo conservatore presieduto dal Sonnino, era Luigi Luzzati che formava il nuovo ministero, includendovi i radicali Sacchi e Credano, ottenendo il voto favorevole dei socialisti.
Il voto socialista fu motivato dalla promessa del nuovo governo di allargare il suffragio, di finanziare le cooperative agricole in gravi difficoltà economiche, di ampliare la legislazione sociale con l’istituzione, tra l’altro, della Cassa di maternità per le lavoratrici (marzo 1910). Ma il consenso socialista fu ritirato alla fine dell’anno, a ragione del comportamento del governo sulla questione delle cooperative agricole, che fu di ostilità nei confronti delle cooperative socialiste della Romagna.
All’atto della costituzione del suo nuovo governo nel marzo 1911, Giolitti aveva offerto un ministero a Bissolati, che si fece ricevere dal re, ma poi rifiutò. “Partecipazione al potere? – commentò Turati -. Si dovrebbe forse; non si può certamente”. I socialisti votarono tuttavia la fiducia mentre i conservatori la rifiutarono. Il governo presentava ben presto il progetto per il monopolio statale dell’assicurazione sulla vita, con la creazione dell’Istituto nazionale delle assicurazioni.
Di fronte all’opposizione conservatrice la forza parlamentare socialista fu decisiva. Veniva votata la legge sulla ispezione del lavoro e veniva inoltre riconosciuta al sindacato ferrovieri la rappresentanza legale del personale di fronte alla direzione dell’azienda.
Nel giugno 1912, sempre con il voto socialista, veniva approvata la più importante legge dell’epoca giolittiana: la legge elettorale che estendeva il diritto di voto agli alfabetizzati con 21 anni compiuti; agli analfabeti con 30 anni compiuti e a tutti coloro di qualsivoglia età che avessero assolto il servizio militare. Essa concedeva altresì quella indennità ai deputati che i socialisti avevano chiesto fin dal loro ingresso alla Camera. I socialisti avanzavano questa richiesta perché rappresentavano ceti sociali meno abbienti: i loro eletti si trovavano in difficoltà ad esercitare un mandato parlamentare che era stato fino allora del tutto gratuito. Tanto è vero che già al IV congresso nazionale nel 1896 avevano preso la decisione di stabilire un fondo di L. 350 mensili per ciascun deputato, che doveva rilasciare un riconoscimento annuale delle spese sostenute.
Il XII congresso (Modena, 15-18 ottobre 1911), tenutosi a solo un anno di distanza dal precedente, è certamente uno dei più drammatici di quegli anni. Esso si svolge sotto il segno dell’impresa libica avviata da Giolitti, alla quale s’era opposta la maggioranza dei socialisti, e con essi la Confederazione generale del lavoro, che promuove lo sciopero generale del mese di settembre, un mese prima del congresso.
L’impresa libica divide però i socialisti e fa precipitare la crisi del riformismo, di cui s’erano manifestati già i prodromi a Milano.

La crisi del rapporto con Giolitti

Contro l’avventura libica di Giolitti si schierò la stragrande maggioranza dei socialisti, anche se un nugolo di deputati si dissociò dal partito e assunse una posizione favorevole all’intervento (Bissolati, Ferri, Bonomi, Podrecca e Arturo Labriola).
Un grande sciopero generale venne indetto dalla Confederazione del lavoro nel settembre del 1911.
L’impresa libica, radicalizzando i sentimenti popolari, ridava fiato all’ala rivoluzionaria che al XIII congresso, che si svolge a Reggio Emilia dal 7 al 10 luglio 1912, conquista la maggioranza del PSI. Per bocca di Mussolini, si chiede l’espulsione dell’ala bissolatiana. La mozione riceve 12.556 voti; mentre una mozione riformista di semplice biasimo ne ottiene 5633. Altri 3250 voti confluiscono su una mozione presentata da Modigliani che dichiara Bissolati, Bonomi e gli altri “essersi posti fuori del partito”.
Il rovesciamento della linea politica del partito portò Lazzari alla segreteria e Mussolini alla direzione dell'”Avanti!”. Gli espulsi formarono un partito riformista autonomo, che però se raccoglierà consensi elettorali, non sarà in grado di darsi una struttura organica e permanente. Alle elezioni del 1913, le prime che si svolgono con il suffragio allargato, secondo la nuova legge, essi avranno 26 deputati, mentre il PSI ne eleggerà 53.
La legge elettorale realizzava, seppure non ancora compiutamente, l’obiettivo socialista dell’universalità del voto, almeno di quello maschile, estendendo la platea elettorale a circa 8 milioni e mezzo di elettori. Il successo socialista nasceva tuttavia da una concomitanza con gli interessi del gruppo giolittiano, e, con esso, di una forte frazione della borghesia italiana. Infatti Giolitti si riprometteva, con la riforma e l’apertura verso il PSI, di bilanciare le reazioni all’impresa libica, con la quale aveva senza alcun dubbio accontentato interessi capitalistici e l’opinione pubblica di destra.
Inoltre, Giolitti si adoperava per indurre un’altra grande forza sociale, quella cattolica, a entrare nel gioco politico, fronteggiando la costante ascesa socialista e sostenendo il suo potere. Si trattò di un passaggio cruciale, che determinò insieme l’apogeo e l’inizio della fine della potenza politica giolittiana.
Con la regia di Giolitti, si riuscì ad istituire una fitta rete di accordi locali tra candidati liberali, quasi tutti a lui fedeli, e gruppi di elettori cattolici che li sostenevano, in cambio dell’impegno che i candidati assumevano di rispettare, una volta eletti, i punti indicati in una circolare diramata dal conte Gentiloni, presidente dell’Unione elettorale cattolica. I candidati s’impegnavano, specificamente, a opporsi ad ogni proposta di legge diretta a “turbare la pace religiosa della nazione”; a garantire l’insegnamento privato; ad opporsi al divorzio; a realizzare il principio dell’istruzione religiosa nelle scuole comunali. A seguito di quest’accordo – enfaticamente definito “Patto Gentiloni” – le autorità ecclesiastiche sospesero il “non expedit” in 330 dei 508 collegi in cui era suddiviso il corpo elettorale. Il sostegno del voto cattolico fu determinante per la elezione della maggior parte dei 304 liberali che entrarono alla Camera.
Il sostegno determinante del voto cattolico, che fu influente specialmente nel Mezzogiorno, finì alla lunga per sottrarre gran parte di quei deputati, che ne avevano usufruito, al controllo di Giolitti: essi finirono per rispondere più alle associazioni cattoliche che li avevano aiutati ad essere eletti che al prestigioso capo liberale.
L’allargamento del suffragio di per se stesso conferiva un potere maggiore alle strutture organizzate dalle associazioni, capaci di influire su larghi strati della cittadinanza. Giolitti aveva intuito questo fenomeno ed aveva operato per l’estensione del suffragio per mettere in campo i cattolici contro i socialisti. Ma finì per perdere il controllo dei gruppi parlamentari che per quindici anni erano stati alla base della sua personale egemonia nel Parlamento e nel governo.
D’altronde egli era perfettamente cosciente che l’impresa libica, che segnava l’inizio di un nuovo periodo coloniale dell’Italia, avrebbe determinato necessariamente una crisi nei suoi rapporti con i socialisti. Allo stesso tempo egli si rendeva conto che l’intesa elettorale con i cattolici (che tra l’altro elessero 30 loro rappresentanti) si prestava facilmente all’accusa di snaturare il carattere liberale e laico dello schieramento parlamentare a lui amico, prestando così il fianco alle reazioni dell’opinione pubblica democratica. Tant’è che nelle sue Memorie egli fa le veci di chi non era neppure a conoscenza dell’accordo, quando scrive poche parole a proposito di quell’avvenimento: “Gli elementi che facevano capo al partito clericale esercitarono una maggiore influenza in numerosi collegi”. (19)
Lo scontro, nel Parlamento e nel paese, sulla guerra di Libia e le vicende connesse al cosiddetto “Patto Gentiloni” scavarono rapidamente un fossato tra Giolitti e i socialisti, tanto più che, avendo perduto i riformisti la guida del partito, all’uomo di Dronero erano venuti a mancare gli interlocutori. Questi non poterono essere i riformisti che erano usciti dal PSI, che avevano ben presto dimostrato di avere scarsa influenza e poco seguito tra le masse.
Come i riformisti avevano perso il partito, in breve tempo Giolitti, da parte sua, fu costretto a lasciare in altre mani la direzione del paese.
La crisi provocata dalle polemiche sul Patto Gentiloni, se fa perdere a Giolitti la guida del governo, accentuò l’estremizzazione del PSI, ormai ipnotizzato dalla campagna di stampa di Mussolini dalle colonne dell'”Avanti!”.
Ad Ancona, nel XIV congresso che ivi si tiene dal 26 al 29 aprile 1914, i “rivoluzionari” ottengono una schiacciante vittoria. Il loro documento risultò vincente con 22.591 voti, di contro gli 8584 dell’ordine del giorno presentato da Mazzoni per i riformisti, e i 3214 di quello di Modigliani. Il congresso decretò, inoltre, l’espulsione degli aderenti alla Massoneria.
Per una singolare concomitanza sono alcuni di questi avvenimenti – l’opposizione socialista alla guerra di Libia e l’espulsione di Bissolati e degli altri riformisti a Reggio Emilia – ad attirare l’attenzione di Lenin. Lenin era stato in Italia nel 1908 e nel 1910, a Capri, per incontrarvi Gorkij. Ma soltanto in questa fase comincia ad interessarsi organicamente ai problemi Italiani, scrivendo note di commento ad essi e seguendo attentamente l'”Avanti!” mussoliniano.
Lenin annetteva grande importanza al fatto che “gli opportunisti, con Bissolati alla testa, erano stati allontanati dal partito” e che mentre “gli operai della maggior parte dei paesi europei sono stati ingannati dall’unità fittizia degli opportunisti e dei rivoluzionari, l’Italia è una felice eccezione, un paese dove, in questo momento, non c’è un simile inganno”.(20)
L’interesse di Lenin si manifesterà ancor di più in seguito, alle soglie del conflitto mondiale. Ma va detto che Lenin non era del tutto sconosciuto in Italia, essendo stato citato, già dal 1902, in uno scritto di Achille Loria, l’economista socialista che aveva goduto di grande prestigio, e non poche volte dall'”Avanti!” e da altre pubblicazioni del PSI, mentre la “Critica Sociale” aveva pubblicato un scritto di Rosa Luxemburg, polemico nei suoi confronti.
Gli interventi di Lenin sulla situazione italiana si intensificheranno negli anni successivi, negli anni cioè della prima i guerra mondiale e del dopoguerra, sviluppando quei temi che caratterizzavano il suo pensiero già nel primo decennio del secolo, e di cui qualche eco era giunta anche in Italia.

Gli effetti del “compromesso riformista”

Con il congresso di Ancona del 1914 poteva dirsi conclusa quella fase, di grande importanza storica, nella quale l’ala riformista socialista aveva guidato, sia pure con alterne vicende, il partito, riuscendo a realizzare alcuni obiettivi fondamentali tra quelli indicati dal programma “minimo” varato da Imola all’inizio del secolo. Questa fase aveva coinciso con una forte espansione organizzativa ed elettorale del PSI.
Momenti fondamentali di questa politica erano stati quelli in cui, pur tra tante contraddizioni, il PSI era riuscito a trovare punti di congiunzione con quelle forze della democrazia liberale, guidate da Giolitti, da cui erano sortiti effetti benefici e positivi per tutto il sistema sociale e politico nazionale. Quello che potrebbe essere definito il “compromesso riformista” si sviluppa praticamente lungo l’arco di un quindicennio e in gran parte coincide con la guida del governo da parte di Giolitti. Basti pensare all’attuazione, nel 1902, della legge sul lavoro dei fanciulli e delle donne, che costituisce una pietra miliare nella storia dell’evoluzione sociale in Italia. Essa fu, in un certo senso, il segnale d’avvio di un ciclo politico che, pur nelle sue intermittenze, presentò uno sviluppo unitario e sostanzialmente organico. Già prima di quella legge il movimento dei lavoratori Italiani aveva tratto notevoli vantaggi dal dialogo e dalle convergenze tra dirigenza riformista socialista e democrazia liberale. Fin dall’epoca dei Fasci siciliani apparve evidente la differenza tra la politica giolittiana e quella repressiva di Crispi, Di Rudinì, Pelloux e Saracco.
L’atteggiamento di Giolitti nei confronti delle controversie del lavoro fu democratico e fattivo. Egli affermò il principio della neutralità tra padroni e lavoratori nei conflitti di lavoro, anche i più aspri, da parte dello Stato, che non doveva intervenire a sostegno di una delle parti in conflitto. Principio che sfatava la veridicità del dogma marxista, per cui lo Stato costituiva comunque la protezione giuridica degli interessi della borghesia. E ciò favoriva il revisionismo teorico dei riformisti, e, di conseguenza, il loro positivo pragmatismo politico. Non sempre questo principio fu applicato: e molte violazioni ad esso si registrarono nelle campagne e nel Mezzogiorno, dando voce alla protesta di esponenti politici e di intellettuali come Salvemini. In effetti, la politica giolittiana trovava più facili condizioni di attuazione nelle aree più evolute economicamente e socialmente del paese, che non in quelle più sfortunate e nelle quali la borghesia era più debole e insieme più miope politicamente. Al di là di questa contraddizione, non di poco conto, l’effetto determinante che il “compromesso riformista” ebbe sulle possibilità di espansione della forza organizzata dei lavoratori e di garanzia dei loro diritti individuali e collettivi, si evidenzia proprio negli anni dell’accantonamento di Giolitti, dopo lo scandalo della Banca Romana: gli anni della repressione autoritaria, fino ai fatti del 1898 e gli inizi del secolo.
Il governo Zanardelli con Giolitti agli Interni segnò il vero punto di svolta. La differenza nello stile di comportamento con i governi precedenti risultò subito in maniera trasparente. “Gli scioperi del 1901 e del 1902 furono il banco di prova della politica democratica che il ministero si era impegnato ad adottare. La prova fu superata in maniera brillante: veramente l’Italia aveva voltato pagina e la politica repressiva dell’ultimo scorcio dell’Ottocento era solo un brutto ricordo”. (21) Questa volta trovò riscontro sul piano legislativo: i socialisti ottennero importanti concessioni: oltre alla legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli, l’aumento degli stipendi ai ferrovieri, il riconoscimento legale delle associazioni operaie e delle leghe contadine, le provvidenze per i poveri colpiti da pellagra e da malaria ecc… Il “pacchetto” di provvedimenti realizzati in quel biennio servì a Turati, Bissolati e compagni per tenere a bada le correnti di “sinistra” nel partito, fino al congresso di Imola, dove tra le due “anime” socialiste si addivenne ad una unità del tutto fittizia, ma che permise il varo di quel programma “minimo” che rappresentò il punto di riferimento del PSI in tutto il periodo successivo, fino al 1914.
Sull’onda di questa positiva collaborazione – che non si concretizzava tuttavia nell’appoggio al governo – Giolitti aveva assunto l’iniziativa delle dimissioni da ministro degli Interni, per varare una coalizione governativa da lui presieduta, con la partecipazione dei socialisti, o con il loro sostegno. Non ottenne né l’una, ne l’altra, perché i riformisti non potevano assumersi la responsabilità di una rottura clamorosa con le altre tendenze del partito, che avrebbe potuto condurre ad una lacerazione probabilmente insanabile.
Non per questo il dialogo e la collaborazione ebbero a cessare. I socialisti assecondarono in Parlamento tutte quelle iniziative legislative di stampo riformistico che il gabinetto presieduto da Giolitti propose, dalla sanità alla giustizia, all’istruzione e per favorire un’evoluzione delle regioni meridionali, fino a che l’ala sindacalista rivoluzionaria alleata con quella massimalista non prevalse nel congresso di Bologna del 1904, ed impose lo sciopero generale nel settembre dello stesso anno. Lo sciopero si rivelò un fallimento e preluse a nuove elezioni, dalle quali i socialisti uscirono indeboliti, come i radicali: non fu Giolitti a beneficiarne, la situazione gli era sfuggita dalle mani, e paradossalmente i deputati socialisti concessero a Sonnino quell’appoggio al governo che non avevano mai concesso a Giolitti.
Successivi momenti di incontro si realizzarono dopo il congresso di Roma del 1906, con l’inserimento nel programma di governo da parte di Giolitti di provvedimenti richiesti dai socialisti (miglioramenti salariali, provvidenze per le regioni meridionali, conversione della rendita, oltre al riconoscimento della giustezza delle critiche dei socialisti per lo scandalo delle commesse alla Società Terni), e, nel 1912, in occasione del varo della legge elettorale che estendeva ampiamente il suffragio, con il riconoscimento dell’indennità a parlamentari e con il monopolio delle assicurazioni sulla vita.
Nel frattempo s’era inserito nel dialogo un nuovo interlocutore: la Confederazione generale del lavoro che, legata da un patto di solidarietà e d’azione comune con il PSI, e in particolare con la sua ala riformisa, sapeva farsi valere dal governo, e ottenere oltre a riforme normative essenziali, anche benefici concreti come ad esempio cospicue sovvenzioni alle cooperative.
Compromesso, dunque: perché mai si trattò di alleanza, e soprattutto di una alleanza organica, quale sarebbe stata suggellata da una partecipazione socialista al governo. Giolitti, com’è noto, l’aveva proposta ripetutamente, ma non sappiamo quanto realmente auspicata, sia dai leader riformisti sia, successivamente, da Bissolati dopo la divisione dell’ala riformista.
Compromesso anche, però, perché entrambe le parti, pur coincidendo nella valutazione di una svolta democratica dopo il 1900, e sulla necessità di avviare un processo di modernizzazione del paese, conservarono obiettivi e ispirazioni diversi o addirittura opposti tra di loro, come diversi erano i referenti sociali, spesso in conflitto tra di loro, seppero scrivere insieme un capitolo di civiltà e di tolleranza, dal quale furono favorite entrambe, e con loro tutta l’Italia.

Capitolo 2
DALLA CRISI DEL RIFORMISMO ALLA CADUTA DELLA DEMOCRAZIA

Dalla crisi del riformismo alla prima guerra mondiale

Nella crisi del riformismo, che ha il suo punto di svolta nella politica coloniale avviata da Giolitti, la quale poneva ai socialisti questioni nuove e problemi al momento insuperabili, c’è un dato da considerare, nei suoi aspetti positivi e nelle sue conseguenze alla lunga dirompenti. È quello della estensione del suffragio, giustamente reclamato dai socialisti, fin dai tempi del “programma minimo” e ottenuto con oltre dieci anni di lotte e di abili alleanze parlamentari.
L’estensione del, suffragio ha nell’immediato, con le elezioni del 1913, conseguenze solo in parte prevedibili. D’un lato essa immette nel circuito della vita politica masse molto più ampie di cittadini, e in particolare di contadini e operai; d’altro lato questa immissione, allargando potenzialmente la rappresentanza politica socialista, fa ricomparire tutte quelle fobie e quelle paure che avevano alimentato i comportamenti dei ceti conservatori nell’ultimo decennio del secolo precedente. A inasprire un contrasto che da virtuale tende a farsi rapidamente reale, è la vertenza libica, che non è altro che l’anticamera di una nuova politica internazionale dell’Italia quale potenza europea e mediterranea, pronta a caricarsi anche dei rischi di un conflitto bellico che è sempre più presente nell’orizzonte europeo.
La spedizione coloniale in Libia provoca la reazione popolare alla testa della quale si collocano sindacati e PSI. Questo scontro accentua la frattura con i settori traenti dell’industria, della borghesia e con l’esercito, un potere nient’affatto trascurabile, direttamente collegato alla monarchia sabauda. Sullo sfondo appare, già nel 1911, un atteggiamento di ostilità dei socialisti nei confronti di un sempre più possibile intervento dell’Italia in un eventuale conflitto europeo. E un Parlamento, nel quale la rappresentanza politica degli interessi popolari va smisuratamente ampliandosi, diventa un’istituzione di difficile controllo da parte della classe dirigente del paese.
Giolitti, come abbiamo visto, concede alle sfere della borghesia industriale e nazionalista quell’iniziativa coloniale, avversata dai socialisti, che e comunque priva di rischi, mentre e refrattario all’ipotesi di una politica di intervento in un eventuale conflitto, e non perde occasione per proclamare o far intendere nei fatti, in quegli anni, la sua convinzione neutralista. E, come pur abbiamo rilevato, abbraccia una strategia insieme di estensione della rappresentanza parlamentare con ampliamento del suffragio, probabilmente anche perché ritiene che una più lunga presenza di socialisti e di parlamentari condizionati dal voto cattolico possa rappresentare un sostegno alla sua linea di neutralità. Ma intanto molte cose erano cambiate, e di esse lo stesso Giolitti sembra non avvedersi; oppure, avvedendosene, ritiene di essere in grado di continuare a esercitare la sua funzione di controllo e di mediazione politica.
Era cambiato l’atteggiamento della monarchia, come rilevava anche per molti segni il comportamento del re e dell’esercito, influenzato dalla Casa Reale. Questa non era più quella che un brillante scrittore di cose politiche, che dovrà sopravvivere a molte epoche, Mario Missiroli, aveva definito come “La monarchia socialista”, che con Vittorio Emanuele III aveva mutato l’atteggiamento assunto dal suo predecessore e aveva accettato, e nella misura del possibile assecondato, l’opera di Giolitti, sia pure interpretandola in termini di paternalismo e, per dirla con il Missiroli, di “riformismo statale”, volto cioè a soddisfare esigenze sociali ed economiche dei lavoratori, ma, insieme, a rafforzare l’apparato amministrativo e burocratico ad essa fedele.(1)
Era cambiato l’atteggiamento della borghesia imprenditiva e di quella culturale, sempre più proclive a dar ascolto alla risorgenza della “questione nazionale”, vuoi per cointeressenza economica del ceto imprenditoriale, vuoi per l’affermarsi di una cultura irrazionalistica ed antimaterialistica, che univa nella sua critica spiritualistica tanto le filosofie positivistiche che quella marxista.
Era rapidamente cambiato il PSI, e non soltanto nella sua dirigenza. Il congresso di Reggio Emilia infatti aveva visto i riformisti in minoranza. L’espulsione dei revisionisti di Bissolati e Bonomi, che aveva preso a motivo l’atto di deferenza di questo gruppo alla monarchia in occasione di un tentativo di attentato al re, rendeva praticamente impossibile un ritorno a breve tempo dei riformisti alla guida del partito. Così nel successivo congresso la dichiarazione di incompatibilità tra appartenenza alla massoneria e militanza socialista significava trasparentemente un attacco ai settori giolittiani che erano in stragrande maggioranza massoni, e alla stessa monarchia, essendo conosciuta, inconfutabilmente, l’appartenenza all’organizzazione massonica dello stesso Vittorio Emanuele III. Il leader di questo processo di cambiamento, in forme addirittura iconoclastiche, del socialismo italiano, era quel Benito Mussolini balzato alla ribalta nazionale al congresso di Reggio Emilia, e che era stato addirittura il protagonista di quello di Ancona del 19 14 e aveva assunto la direzione dell'”Avanti!”, dopo che l’intransigente Lerda aveva dovuto abbandonarla essendo uno dei socialisti massoni incappati nella scomunica congressuale.
Sono fin troppo conosciute la personalità e la storia di Mussolini perché ci si debba soffermare a lungo su di lui. Oltre tutto, Renzo De Felice ha dedicato la sua fondamentale opera storica al mussolinismo, ed in particolar modo quel volume, Mussolini il rivoluzionario, al quale per tutto ciò che concerne Mussolini di questa fase, si può tranquillamente rinviare il lettore.(2)
Ci sembra utile, tuttavia, citare questa notazione sul Mussolini di quei congressi, dovuta alla penna di Pietro Nenni, che il Mussolini conobbe in quel tempo forse meglio di ogni altro.
Scriveva Nenni, in quel volume ancora oggi di interessante lettura che è La lotta di classe in Italia, pubblicato in francese nel 1930 e solo di recente tradotto in Italia: “Molto giovane, sconosciuto, appena uscito di prigione dove aveva scontato una pena di cinque mesi, aggressivo e mordace, l’uomo che dieci anni dopo si sarebbe impadronito del potere con la reazione più sanguinosa, proveniva dalla Romagna. Nato in una famiglia socialista, ribelle per istinto, il suo socialismo aveva più di Blanqui che di Marx. Come Blanqui e i rivoluzionari classici aveva una nozione molto vaga dell’idea di classe, per contro professava una specie di mistica del partito; come Blanqui egli concepiva il socialismo come la rivolta dei poveri sotto la direzione di uno stato maggiore rivoluzionario. Del marxismo non comprendeva che i motivi antiliberali: la concezione dell’egemonia e la dittatura del proletariato, la visione drammatica della vita e della società… Il nuovo capo era naturalmente un intransigente, un fanatico e un intollerante. Da quando divenne direttore dell'”Avanti!” ne fece un organo di quotidiani stimoli all’azione diretta e alla violenza. Nella sua propaganda il proletariato appariva – come Edoardo Berth ha detto di Sorel – come l’eroe di un dramma la cui felice riuscita dipende interamente dalla sua energia, dalla sua devozione e dalla sua capacità di sacrificio”.(3)
Lo scenario del dramma era, in quel momento, lo scontro sociale e politico che si faceva ogni giorno più aspro, e che non permetteva più alcuna iniziativa di mediazione. In questo scontro, che riporta il movimento socialista, o la maggioranza di esso, a un culto della violenza che era stato diffuso precedentemente alla costituzione del partito, e che era stato rifiutato per vent’anni, il partito tuttavia accrebbe la sua forza.
Divenuto improvvisamente combattivo, in modo addirittura esagerato, aggressivo e anche violento, in verità non soltanto per effetto della propaganda mussoliniana, il PSI vide non solo rafforzarsi nel 1913 la sua rappresentanza elettorale (i rivoluzionari non rinunciavano affatto al mandato parlamentare, anche se dell’istituzione dicevano peste e corna) ma vide anche ingrossarsi le sue fila, fino a raggiungere quasi i 50.000 iscritti. Turati, forse esagerando nella polemica, disse che questo avveniva perché ai lavoratori si aggiungeva la teppa. Certo è che la svolta politica coincise con questa rinnovata potenza del partito. Tutto questo esaltò la nuova dirigenza che, inebriata dai successi interni ed esterni, si buttò senza discernimento sulla strada dell’azione diretta, andando incontro a una grossa sconfitta, che segnò l’inizio di un momento critico per tutto il movimento.
Nelle elezioni amministrative che seguirono il congresso di Ancona, il PSI, che rifiutava ogni alleanza con altre forze progressiste, conquistò 400 comuni, tra cui Bologna, Milano e Alessandria.
Esaltati da questo risultato i “rivoluzionari” non ebbero più alcun freno, e con Mussolini in testa si buttarono a corpo morto nelle agitazioni che erano seguite anche dalla violenza fisica, senza accorgersi che il partito, pur crescendo di forza e di combattività, andava isolandosi e provocando reazioni psicologiche negative in tutta l’opinione pubblica.
Lo scontro politico raggiunse il punto culminante nella cosiddetta “settimana rossa” tra il 7 ed il 14 giugno, e fu determinato dall’esito di una manifestazione antimilitarista, proprio ad Ancona, dove la polizia sparò sulla folla per disperdere un corteo operaio, uccidendo due persone. Nenni, che ne fu partecipe, così racconta quella vicenda: “L’indignazione popolare prese allora la forma di una vera insurrezione. Lo sciopero generale fu proclamato da un estremo all’altro dell’Italia. I ferrovieri si aggregarono allo sciopero che durò sette giorni e prese il nome di “settimana rossa”. A Napoli, a Firenze e in altre città scorse il sangue. Nelle Romagne, nelle Marche e in Umbria i manifestanti occuparono i comuni ponendo in scacco le forze di polizia e proclamarono perfino la Repubblica. A Ravenna gli scioperanti arrestarono un generale. Ad Ancona il governo, sopraffatto, ricorse alle navi da guerra. A Roma, un corteo di operai tentò di protestare davanti al palazzo reale. Gli insorti incendiarono qualche Chiesa e gli uffici del dazio”.(4)
Anche in questo caso, come in tanti altri, la violenza, sia pure scatenandosi a ragione di un eccidio brutale, non portò fortuna al movimento dei lavoratori. L’insurrezione non poteva avere, né forse voleva avere, uno sbocco rivoluzionario. Ne mancavano le condizioni, i rapporti di forza erano a favore del potere statale, degli apparati di polizia e dell’esercito, la direzione del partito socialista, pur proclamandosi “rivoluzionaria”, di rivoluzionario non aveva un disegno, né una strategia, né una organizzazione e neppure il nerbo.
L’agitazione fine a se stessa si risolse, come non poteva essere altrimenti, in una dura sconfitta. Dopo cinque giorni, la Confederazione generale del lavoro, sia pur tardivamente, revocò lo sciopero: certo in seguito alla pressione dei “riformisti” giustamente preoccupati delle conseguenze tragiche di questa avventura. L’ordine dovette attendere due giorni prima di essere completamente eseguito. La repressione fu durissima. (Non si aspettava altro!) Migliaia di militanti, non solo socialisti, ma anche anarchici, repubblicani ed altri, furono imprigionati e processati. Si concludeva così uno degli episodi più nefasti del movimento socialista italiano: un episodio che per decenni è stato esaltato dalla retorica socialista e additato ad esempio di combattività popolare e di spirito di abnegazione. Con tutta la deferenza e il rispetto che si deve continuare ad avere per chi perse la vita o scontò con il carcere quell’insurrezione inconsulta, ci sembra di dover dire, a tanto tempo di distanza, che si trattò di un’iniziativa avventurosa e irresponsabile. E ancora più irresponsabile ci appare l’esaltazione che ne è stata fatta per molti anni. Alla luce di un’analisi storica serena, il mito della settimana rossa si dissolve. Lo stesso Nenni fu arrestato, insieme con molti altri capi dell’agitazione, mentre altri, tra cui l’anarchico Enrico Malatesta, riuscirono a riparare all’estero. Dopo sette mesi di carcere, con l’intervenuta amnistia dell’1 gennaio del 1915, uscirono dal carcere, alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia.
Il colpo di pistola di Sarajevo, che virtualmente apriva il sipario della prima guerra mondiale, colse il PSI già nel turbine della crisi susseguente alla dura sconfitta della “settimana rossa” e delle polemiche tra “riformisti” e “rivoluzionari” (in particolare con un duro scambio di accuse tra Claudio Treves e Mussolini) che ovviamente ne seguirono.
La questione dell’intervento eventuale dell’Italia in guerra (in realtà si trattava della “questione nazionale” che tornava dopo il compimento del Risorgimento) trovò i socialisti non soltanto esausti per la cocente disfatta del tentativo insurrezionale, ma del tutto impreparati ad affrontarla.

La questione nazionale

Già la guerra di Libia avrebbe dovuto metterli sull’avviso. La risposta che era stata data dal sindacato e dal partito aveva ricalcato fedelmente i canoni dell’ideologia pacifica e internazionalista che aveva accompagnato il PSI dalla sua nascita.
La “questione nazionale” non aveva occupato l’attenzione di nessuno dei teorici “riformisti” o “rivoluzionari” perché nei vent’anni precedenti essa era stata sostituita dalla “questione sociale”, che era indubbiamente la più pertinente alla vita e allo sviluppo del movimento socialista. Qualcuno, come Antonio Labriola, aveva manifestato il suo assenso per l’espansione coloniale del capitalismo italiano: ma era stato il risultato di un’analisi “marxista”, che aveva destato, più che altro, curiosità e stupore.
Certo dalla tradizione risorgimentale che in una qualche misura i socialisti avevano ereditato da Garibaldi, da Pisacane e da altri socialisti dell’Ottocento, il tema della “questione nazionale” aveva in qualche modo continuato a vivere nell’animo di alcuni intellettuali socialisti, soprattutto come sentimento di solidarietà per i popoli oppressi. Ora essa tornava in campo, con la prepotenza degli eventi che si susseguivano con la rapidità del vento.
La propaganda nazionalistica, essenzialmente antidemocratica e conservatrice, tranne che per alcune eccezioni, non aiutava affatto alla comprensione del problema: anche se alcuni scrittori nazionalisti, come Corradini e Sighele,(5) avevano avvertito l’esigenza di collegare il discorso nazionale al discorso sociale, tentando una difficile, e forse impossibile, sintesi tra le esigenze del movimento operaio e quelle nazionali.
Cos’è che divideva il nazionalismo e la sua cultura dal socialismo e anche dalla democrazia?
“In questo quadro – commenta Giorgio Galli nella sua disamina storica – si appalesa in tutta la sua evidenza… di fronte a tutte le forze: da quelle economiche, ben note, a quelle psicologiche, trascurate, che si scatenano nell’estate 1914”.(6)
La stragrande maggioranza dei socialisti scelse in realtà la strada più tradizionale, mitigandola proprio per tener conto delle “forze psicologiche” che emergevano nell’opinione pubblica e degli orientamenti dei poteri reali, dalla monarchia all’esercito e alla grande industria, che buttavano alle ortiche la vecchia politica triplicista e si apprestavano a schierarsi a fianco della Francia e dei suoi alleati.
La posizione sostanzialmente neutralista dei socialisti corrispondeva, per onore della verità, al sentimento più diffuso tra i militanti, che erano pacifisti e in larga parte antimilitaristi (non si dimentichi che appena qualche mese prima la “settimana rossa” era nata da una manifestazione antimilitarista).
La formula coniata dal segretario del partito, Costantino Lazzari, “né aderire né sabotare”, all’atto dell’entrata in guerra, era, allo stato delle cose, la più corrispondente ai sentimenti delle masse. Né, come è noto, il neutralismo era solo dei socialisti: era anche la posizione dei cattolici, quella d Giolitti e dei giolittiani. Ecco la ragione per cui l’interventismo democratico di Bissolati (già fuori del partito) e l’interventismo rivoluzionario di Mussolini (che ne venne espulso finirono per avere una scarsa incidenza sulla base socialista.
A distanza di tempo si può fare un’opera di revisione critica dell’atteggiamento neutralista, ma occorre serenamente ri conoscere che esso corrispondeva al modo di pensare della stragrande maggioranza dei socialisti in quel momento. Altre ipotesi come quella dell’interventismo nel suo duplice aspetto, o quella leninista, che fu appena conosciuta in Italia, furono in realtà ipotesi che almeno all’inizio del conflitto appartennero a ristrette minoranze, sempre se si fa riferimento al mondo popolare e all’area del socialismo.
Per quanto riguarda Mussolini, il suo mutamento di posizione fu senza dubbio troppo rapido e troppo brusco: in pochi mesi, dal giugno all’ottobre, egli passò da una posizione antimilitarista, pacifista e sovversiva, di cui al momento della “settimana rossa” era stato il fautore e il propagandista più scalmanato, a quella di interventista attivo, cioè di interventista “prima” che la patria fosse in guerra.
Lungi da noi ogni indulgenza a forme di dietrologia, che tra l’altro spiegano poco o addirittura nulla. Interessa soltanto il pettegolezzo e l’aneddotica storica il discorso sui veri o presunti finanziamenti stranieri. Quello che importa rilevare per un corretto giudizio sui fatti del tempo, è che Mussolini non fu in grado allora, né mai, di spiegare in modo convincente questo brusco passaggio da una posizione estrema a un’altra, altrettanto estrema anche se opposta a quella precedente. Sarebbe stato più comprensibile un suo trascorrere a una posizione interventista se ciò fosse avvenuto nel maggio del 1915, “dopo” l’entrata in guerra dell’Italia. Resta difficilmente spiegabile come un uomo che nel giugno del 1914 si atteggiava ostentatamente a leader del sovversivismo e dell’odio antimilitarista, nel volgere di un’estate – sia pur carica di eventi drammatici – si trasformi in un acceso sostenitore dell’intervento militare italiano. Da questo punto di vista appare scarsamente attendibile anche il paragone con Guesde e con i socialisti francesi, i quali si risolsero a schierarsi per la difesa della Francia quando il loro paese era già sotto la minaccia degli Imperi Centrali. Forse l’atteggiamento di Mussolini può paragonarsi a quello che, sulla sponda opposta avevano assunto i socialdemocratici tedeschi, i quali avevano votato i crediti di guerra. Ma i socialdemocratici tedeschi non erano stati, come lui, su posizioni rivoluzionarie e antimilitariste fino a pochi mesi prima, quando dalle colonne dell'”Avanti!” incitava all’odio di classe, all’attacco fisico anche contro l’esercito, oltre che contro il capitalismo e la monarchia.
Dalle colonne dello stesso “Avanti!” il 18 ottobre 1914 Mussolini confermava le voci che già circolavano da qualche settimana circa un suo sorprendente mutamento di opinione rispetto alla posizione neutralistica assunta dal partito.
Per la verità, come scrive Leo Valiani, “alcuni socialisti indipendenti, come Battisti, Salvemini, Giuseppe Lombardo Radice, e dei libertari come Massimo Rocca, premettero pubblicamente su di lui” (7) perché assumesse questa posizione. Valga per tutte la lettera che gli indirizzò Gaetano Salvemini.
Mussolini rimase del tutto isolato nella riunione della direzione del partito che confermò la linea neutralista, e dovette dimettersi dal posto di direttore dell'”Avanti!” che, per la verità storica, aveva riportato a tirature allora vertiginose. Sfruttò subito la sua indubbiamente eccezionale capacità giornalistica fondando “Il Popolo d’Italia”, dalle colonne del quale iniziò immediatamente una incandescente campagna a favore dell’intervento, definendo la guerra, tanto per non smentirsi del tutto, come “intrinsecamente rivoluzionaria”.
I fedeli che lo seguirono, dopo la sua espulsione dal PSI, furono in numero limitato, anche se combattivi. L’espulsione fu un atto di intolleranza politica, fu probabilmente inutile, perché Mussolini era isolato. Era stato però Mussolini stesso ad inaugurare la politica delle espulsioni, con i revisionisti bissolatiani prima, con i massoni dopo. Si potrebbe dire “chi di spada ferisce…”. In ogni caso Turati fu contrario.
Subito dopo la conversione di Mussolini all’interventismo, Giovanni Zibordi scriveva sulla “Critica Sociale” che l’originario neutralismo di Mussolini non aveva significato affatto deprecazione della guerra. Al contrario, allo scoppio del conflitto egli non celava affatto la sua gioia “per la smentita che l’immane catastrofe prorompente infliggeva a quei marmottoni di riformisti positivisti che – a suo dire – avevano esiliato le catastrofi dalla storia”. Egli vedeva nel conflitto “il. mito che s’adempie; l’imprevisto che scoppia; il destino che matura”, tant’è che nella riunione della direzione del partito, a Bologna nell’ottobre del ’14 Mussolini esclamava: “O gettiamoci nella guerra, o con il nostro consenso; o gettiamoci contro la guerra o con la rivolta!”. Tra le due anime rivoluzionarie, quella interventista e quella leninista, Mussolini sceglieva la prima, anche se tutto il suo passato avrebbe dovuto far presumere che egli avrebbe scelto la seconda.

La mancata nazionalizzazione delle masse

La verità è che Mussolini, quale uno dei capi rivoluzionari del socialismo italiano, aveva contribuito per la sua parte a impedire o a ritardare, opponendovisi, quel processo di “nazionalizzazione” delle masse che era avvenuto in tutta Europa, con l’eccezione dell’Italia. Cosicché quando, assunte le vesti di interventista rivoluzionario, intese chiamare a se le masse lavoratrici, raccolse in fondo quello che insieme ad altri aveva seminato: ben poco. I lavoratori rivoluzionari che lo avevano addirittura adorato negli anni in cui era direttore dell'”Avanti!” lo ritennero un traditore della rivoluzione. Gli altri non si posero neppure il problema, perché non erano maturi per porselo e, per ironia della sorte, egli stesso aveva fatto di tutto negli anni precedenti perché questa maturazione non avvenisse. Quando alcuni scrittori (fra i quali Accame) ricordano, a raffronto con la posizione neutralista del PSI, quella della maggioranza delle socialdemocrazie europee, da quella tedesca a quella francese, che assunsero posizioni di altra natura, dovrebbero anche rilevare come tali posizioni fossero allora il frutto di un processo di “nazionalizzazione” delle masse dovuto all’affermarsi in quei paesi di una linea socialdemocratica e riformista, nettamente prevalente rispetto alle strategie rivoluzionarie.
Osserva con molta acutezza a questo proposito l’Hobsbawn: “Comunque le elezioni, nelle quali i socialisti si impegnavano a fondo… non potevano se non dare alla classe lavoratrice un’unica dimensione nazionale, per quanto i lavoratori fossero divisi sotto altri aspetti”.(8) Ed è sempre l’Hobsbawn a rappresentare realisticamente questa situazione, rendendosi conto che la classe lavoratrice, perseguendo obiettivi di riforme graduali, era costretta ad “esercitare una pressione sul governo nazionale, a favore o contro la legislazione e l’amministrazione di leggi nazionali”. L’ambito in cui l’azione del proletariato si concentrava veniva, dunque, a identificarsi con il territorio della nazione. E gli interessi dei lavoratori a coincidere con quelli nazionali, se la legislazione e l’amministrazione delle leggi risultavano essere positivi per essi. In tal modo “la forza dell’unificazione della classe lavoratrice all’interno di ciascuna nazione prevalse sulle speranze e sulle affermazioni teoriche dell’internazionalismo operaio… Come dimostrò quasi ovunque il comportamento delle classi lavoratrici nell’agosto del 1914, quadro effettivo della loro coscienza di classe erano lo Stato e la nazione politicamente definitiva”?(9)
Mussolini si trovò così di fronte ad una clamorosa smentita del suo cursus politico. Nel momento in cui sceglieva l’interventismo rivoluzionario era costretto a constatare che la conversione delle masse al credo interventista era stata resa possibile laddove il processo di nazionalizzazione di esse era stato attuato attraverso il gradualismo riformista. In Italia, tutto questo non era avvenuto perché tale processo non s’era potuto sviluppare e dispiegare in tutta la sua potenzialità, anche a causa della opposizione strenuamente condotta nei confronti di esso da Mussolini stesso e dai suoi compagni di tendenza. Insomma: egli, e gli altri, avevano lottato per anni – a volte vittoriosamente – per impedire l’acquisizione di quella coscienza nazionale delle masse, che poteva realizzarsi soltanto attraverso l’integrazione riformistica nello Stato democratico. Quando egli e i suoi correligionari fecero la scelta interventista si trovarono forzatamente in nettissima minoranza – tra la classe operaia – e non poteva essere altrimenti. Il dilemma che egli pose alla direzione del PSI (o in rivolta contro la guerra, o con essa) suonò subito astratto.
Con la guerra e contro la guerra si schierarono solo delle minoranze attive; le grandi masse socialiste non scelsero né l’una né l’altra. Ciò non impedì che facessero la loro parte, la più dura, la più dolorosa, la più sanguinosa, in un conflitto di fronte al quale avevano avuto ben poca possibilità di scegliere.
A giudizio di alcuni storici, fra i quali il Tasca, il sentimento interventista avrebbe, se non coinvolto, almeno sfiorato altri dirigenti socialisti. Uno di essi, non molto conosciuto a quel tempo, anche per la sua giovane età, fu Gramsci.
Uno studioso di problemi della storia della sinistra italiana, Antonio Pellicani, è stato forse il più attento e documentato commentatore di questo “caso”. In un suo saggio, La polemica tra socialisti alla vigilia della prima guerra mondiale, egli ricorda l’articolo pubblicato da Gramsci sul “Grido del Popolo” il 31 ottobre 1914, che riprendeva il famoso articolo di Mussolini, intitolando il proprio, significativamente, Neutralità attiva ed operante. Antonio Pellicani ricorda che secondo Gramsci la maturazione dello Stato proletario avviene su un piano nazionale, ed esso è “autonomo, non dipendendo dall’Internazionale se non per il fine supremo da raggiungere e per il carattere che questa lotta deve sempre presentare di lotta di classe”. Questa affermazione di autonomia ha però in questo momento un significato soprattutto tattico: Gramsci infatti, sostenendo che solo il PSI deve essere giudice del modo come condurre la lotta e del momento in cui essa dovrà culminare nella rivoluzione, può respingere sia gli attacchi di Herve, sia gli approcci dei socialisti tedeschi, fondati gli uni e gli altri sulla pretesa di parlare a nome dell’Internazionale. L’autonomia ha dunque, in questo momento, un valore contingente e difensivo: è il solo modo possibile di reagire alla crisi del movimento socialista europeo.
E un significato di reazione difensiva ha avuto per Gramsci anche la formula della neutralità assoluta. Essa, egli scrive, “fu utilissima nel primo momento della crisi, quando gli avvenimenti ci colsero all’improvviso, relativamente impreparati alla loro grandiosità, perché solo l’affermazione dogmaticamente intransigente, tagliente, poteva farci opporre un baluardo compatto, inespugnabile al primo dilagare delle passioni, degli interessi particolari”. Ma ora, a parere di Gramsci, quella formula rischia di lasciare il proletariato nell’inazione, mentre i suoi avversari si preparano “la piattaforma per la lotta di classe”. In realtà la proposta di Gramsci è ancora assai confusa e la sua concezione della rivoluzione non e certo marxista. La storia per i rivoluzionari è “creazione del proprio spirito, fatta di una serie ininterrotta di strappi operanti sulle altre forze attive e passive della società”, che “preparano il massimo di condizioni favorevoli Per lo strappo definitivo (la rivoluzione)” ed è opera di élite, soprattutto in Italia, “ridare alla vita della Nazione il suo genuino e schietto carattere di lotta di classe obbligandola a portare fino all’assoluto le premesse da cui trae la sua ragione di esistere, a subire l’esame della preparazione con cui ha cercato di arrivare al fine che diceva esserle proprio, la obbliga (nel caso nostro, in Italia) a riconoscere che essa ha completamente fallito il suo scopo, poiché ha condotto la Nazione, di cui si proclama unica rappresentante, in un vicolo cieco, da cui essa Nazione non potrà uscire se non abbandonando al proprio destino tutti quegli istituti che del presente suo tristissimo stato sono direttamente responsabili”.
In questa prospettiva vi è una sostanziale rinunzia alla lotta per tutto il periodo della guerra, la stessa che è nelle posizioni della direzione (e anche di Bordiga); e vi è rinuncia allo scontro immediato anche nella interpretazione che Gramsci dà dell’atteggiamento di Mussolini. In essa la tesi Gramsciana di uno Stato proletario che si sviluppa autonomamente e in concorrenza con lo Stato borghese viene portata alle estreme conseguenze. Gramsci respinge il sabotaggio della guerra perché ritiene inutile, in questo momento, uno scontro diretto tra la borghesia e il proletariato: quella conduca pure la sua guerra, questo, intanto, svilupperà e rafforzerà le sue posizioni, nell’attesa del momento rivoluzionario.
“Non un abbracciamento generale vuole quindi il Mussolini – scriveva Gramsci -, non una fusione di tutti i partiti in un’unanimità nazionale, che allora la sua posizione sarebbe antisocialista. Egli vorrebbe che il proletariato, avendo acquistato una chiara coscienza della sua forza di classe, e della sua potenzialità rivoluzionaria, e riconoscendo per il momento la propria immaturità ad assumere il timone dello Stato… permettesse che nella storia fossero lasciate operare quelle forze che il proletariato, non sentendosi di sostituire, ritiene più forti. E il sabotare una macchina (ché ad un vero sabotaggio si riduce la neutralità assoluta, sabotaggio accettato del resto entusiasticamente dalla classe dirigente) non vuole certo dire che quella macchina non sia perfetta e non sia utile a qualche cosa”.
Come si vede, Gramsci forza le tesi di Mussolini in un senso socialista che in realtà esse non hanno, ed ancora maggiore è la forzatura che ne fa nel passo seguente, in cui attribuisce a Mussolini una volontà rivoluzionaria (ma si tratta di una rivoluzione che si potrà fare solo quando si sarà constatata l’impotenza e il fallimento della classe dirigente). Gramsci infatti scrive che la posizione mussoliniana non esclude e anzi presuppone “che il proletariato rinunzi al suo atteggiamento antagonistico, e possa, dopo un fallimento o una dimostrata impotenza della classe dirigente, sbarazzarsi di questa e impadronirsi delle cose pubbliche”; vero è che Gramsci aggiunge che non sa se ha bene interpretato le dichiarazioni “un po’ disorganiche” di Mussolini e se le ha sviluppate “secondo quella stessa linea come egli avrebbe fatto”. Queste ultime riserve di Gramsci non lo salvano, qualche tempo dopo, dall’accusa di interventismo, accusa indubbiamente infondata, anche se nel 1914-1915 egli ha attraversato una crisi. Merita un cenno l’acuta e interessante osservazione che, sulla scelta neutralista dei socialisti, fece il saggista e filosofo Adriano Tilgher, contenuta in un suo articolo del 1915. Secondo Tilgher, la scelta neutralista fu determinata essenzialmente da motivi di politica interna: nel senso che essa rifletteva il legame che dall’inizio del secolo si era stabilito tra il PSI e l’ala democratica della borghesia italiana, mentre rifletteva il contrasto politico tra i socialisti e la borghesia conservatrice che guidava la campagna antineutralista. Scriveva infatti il Tilgher: “È probabile che se a fare la guerra italiana fosse stato nel maggio 1915 l’on. Giolitti, e non l’on. Salandra, che la guerra volle per edificarvi su le fortune del partito conservatore e rovinare politicamente l’on. Giolitti neutralista, il partito socialista non dico si sarebbe rallié alla guerra; ma forse non le sarebbe stato così aspramente ed irriducibilmente nemico”. (10)
A lume di logica, questa interpretazione non appare del tutto convincente, perché, a prima vista, la motivazione di “politica interna” addotta dal Tilgher potrebbe valere per i socialisti riformisti, sicuramente convergenti con le posizioni giolittiane, ma non per quei socialisti intransigenti e massimalisti che avevano combattuto tutta una vita il “compromesso riformistico” di Turati, Treves, Modigliani. Può però darsi che il filogiolittismo fosse più diffuso di quanto si pensi nelle fila socialiste, anche oltre i confini che demarcavano la corrente riformistica dalle altre. Questa simpatia, inoltre, era stata ravvivata e ampliata, tra i socialisti, proprio per la presa di posizione neutralista di Giolitti, e, comunque, rafforzò il convincimento neutralistico dei riformisti, facendoli allineare unitariamente alle altre ali del PSI.
Rilevava ancora il Tilgher: “II Partito socialista si buttò apertamente e risolutamente al neutralismo quando apparve chiaro che la guerra non sarebbe stata la guerra dei tre mesi e due miliardi”, profetizzata dall’on. Bonomi, ma, soprattutto, per reazione alla speculazione conservatrice sulla guerra, per protesta al regime soffocante di oppressione in cui era tenuto il paese, col pretesto della guerra, e al colpo di mano delle “radiose” giornate di maggio, nelle quali parve che una piccola minoranza di faziosi e di sopraffattori si impadronisse dell’Italia e la spingesse riluttante nel grande conflitto, giornate che nessun partito colsero così impreparato come quello socialista”.
Così Tilgher: e la sua analisi appare coincidente con quella di un altro scrittore non certo di parte socialista, Giovanni Prezzolini, che sessant’anni dopo questo articolo di Tilgher sostenne, nel corso di un’intervista raccolta da Zavoli, che la guerra era stata imposta da un “vero e proprio colpo di Stato” e che le garanzie dello stesso Statuto albertino, e con esso il regime costituzionale cessarono praticamente di esistere. Collocava, il Prezzolini, a quella data, non a quella della “marcia su Roma” o al 1925, l’inizio del processo di modificazione dell’assetto statuale in senso totalitario. Se questa valutazione di Tilgher e di Prezzolini fosse esatta, benché espressa dai due studiosi in momenti così lontani e così diversi, come non ritenere che nella valutazione che i socialisti dettero dell’intervento in guerra non pesasse, effettivamente, anche una motivazione di “politica interna”?
Cosicché, concludeva il Tilgher, “solo poco alla volta il Partito socialista andò abbandonando il sentimentalismo astrattamente umanitario e vagamente evangelico e il neutralismo per ragioni di politica interna per ascendere al punto di vista schiettamente socialista della guerra mondiale concepita come conflitto di imperialismi rivali, di cui l’uno valeva quanto l’altro”. (11)

Durante il conflitto

Se il caso Mussolini fu così liquidato dal PSI “nello stesso Partito socialista, Turati, che era legato al patriottismo risorgimentale, ebbe un momento di esitazione”, scriveva sempre Valiani. “Anna Kuliscioff, il sindaco di Milano Emilio Caldara, i professori Ettore Ciccotti ed Alessandro Levi, collaboratori fra i più colti di “Critica Sociale”, qualche dirigente della Confederazione del lavoro, come Rigola e la Altobelli, non nascondevano le loro simpatie per le nazioni democratiche dell’Intesa. Altri, come Claudio Treves, G. E. Modigliani, il giovane Giacomo Matteotti agirono invece sul Turati in senso pacifista e internazionalista, e l’ebbero con loro”.
Il maggior grado di ostilità fu manifestato dalla maggioranza intransigente, con a capo Giacinto Menotti Serrati, che aveva sostituito Mussolini alla direzione del quotidiano del PSI. Tra la fine dell’ottobre e il maggio 1915 ci furono numerose manifestazioni, tra cui quella di Milano del 15 aprile. Con il passare del tempo, il PSI dovette constatare, però, che la piazza veniva dominata dagli interventisti, sia quelli democratici che quelli rivoluzionari, e dai nazionalisti. Il PSI non si limitò ad affermare il proprio neutralismo e a mobilitare ove possibile le masse dei suoi aderenti. Svolse anche un’intensa azione a livello politico, che appare più flessibile, o che, comunque, rivela l’esistenza di una divisione nel suo gruppo dirigente, al di là dell’apparente monolitismo. L’ha rilevato (anche se da una angolazione critica che non è possibile condividere) uno storico attento e intelligente del movimento socialista, Luigi Cortesi, quando ha scritto: “Il PSI – al di là del rigorismo formale di facciata – agì invece sul governo per evitare un possibile intervento a fianco degli Imperi Centrali e fin dall’inizio – implicitamente o esplicitamente – lasciò aperta la possibilità di un orientamento filointesista, differenziando in ogni caso subito le due parti belligeranti. Parallelamente, voci che provenivamo sia da Mussolini, sia da altri, assicuravano la disponibilità di una difesa del suolo nazionale contro l’Austria. Su queste posizioni si stabilì una confluenza attiva tra i riformisti di sinistra, la CGL e i bissolatiani. La proposta fatta dal Bissolati al Rigola il 2 agosto, che non si ostacolasse una preparazione militare a salvaguardia della neutralità contro possibili minacce austriache, diventò parte della linea del PSI. Anche l’altra leggenda, del severo astensionismo del PSI rotto unicamente ed improvvisamente dalle enunciazioni difensiviste del Turati e del Treves nell’ottobre 1917 e nel giugno 1918, risulta così vanificata”.1(2)
Lo stesso Cortesi parla di un “ingresso graduale dei destri del PSI in una tacita e dignitosa union sacrée che andò realizzandosi nell’anno successivo al di là della condotta ufficiale dei deputati del PSI alla Camera e delle dichiarazioni di intransigenza della stampa riformista”.(13)
Il diffuso sentimento pacifista e neutralista della base socialista non impedì che i soldati politicamente socialisti facessero il loro dovere, una volta richiamati alle armi, e una volta impegnati sulle linee del fuoco. Lo ha ampiamente dimostrato lo storico Piero Melograni nella sua Storia politica della Grande Guerra con una lunghissima serie di testimonianze con cui dimostra come “i soldati socialisti stupirono tutti, anche i più prevenuti, per l’impegno con il quale parteciparono ai combattimenti”. I socialisti dettero così il loro contributo al tragico olocausto di vite umane che quella, come ogni guerra, comportò per difendere, al di là delle divisioni ideologiche e politiche, l’integrità della patria.
Nel discorso pronunciato alla storica tornata parlamentare del 20 maggio 1915, Turati assumeva l’impegno, per sé e per i suoi, a guerra dichiarata, della cooperazione: “Nell’opera della Croce Rossa, nel senso più vasto del vocabolo, sul fronte e in tutto 9 paese, gruppi, amministratori e individui socialisti si troveranno, ne ho fede, nelle prime linee”.
E nel commemorare Cesare Battisti, al Consiglio comunale di Milano, pochi giorni dopo la sua impiccagione, pronunciava le seguenti, inequivocabili, nobilissime parole: “La coerenza della sua vita, la rispondenza perfetta dell’azione al pensiero, lo splendore di carattere insomma di cui fu esempio, fanno di lui uno dei simboli più significativi di altissima umanità; non un eroe fra i molti, ma l’eroe, il Prode sopra i prodi. A lui noi inchiniamo tutti i nostri vessilli”. I vessilli che Turati simbolicamente inchinava al sacrificio di Battisti erano le bandiere rosse. Bastano queste parole a fugare ogni calunnia, ogni ingiusto sospetto sulla lealtà e il senso della patria di Turati e di tutti i suoi seguaci.
Il PSI partecipò al convegno internazionale di Zimmerwald, in Svizzera, che si tenne il 5 e il 6 settembre del 1915. Al convegno, presieduto ad Angelica Balabanoff, si recarono, per il PSI, il segretario Lazzari e il direttore dell'”Avanti!”, Serrati: con due rappresentanti del gruppo parlamentare, Modigliani e Morgari.
La linea internazionalista e pacifista espressa a Zimmerwald dalle forze socialiste ivi presenti fu fatta propria formalmente dal PSI, in quanto coincideva con la linea da esso seguita ufficialmente.
Tutto questo suscitò la rinnovata benevolenza di Lenin, che dalla Svizzera, dove risiedeva, aveva intensificato la sua attenzione alle cose Italiane, e che trovava positiva, dal suo punto di vista, la posizione dei socialisti nostrani ai quali dava soprattutto credito per aver espulso dal partito la “destra”riformista di Bissolati e Bonomi. Sono sempre più numerosi nei suoi scritti di quegli anni i riferimenti all'”Avanti!”: ed egli arriva a sostenere che “i socialisti muovevano guerra alla guerra, facevano i preparativi per la guerra civile”. (14)
Non si sa su quale informazione Lenin basasse questo suo giudizio, che lo portava ad attribuire al PSI, o almeno alla sua maggioranza, una sostanziale adesione alla strategia che egli aveva formulato della trasformazione della guerra imperialistica in guerra rivoluzionaria. Questo equivoco, se equivoco c’era stato, durò solo lo spazio d’un mattino. Nel corso della guerra stessa, era costretto a mutare parere, e a scrivere che “in Italia, il Partito socialista si è nettamente riconciliato con la fraseologia pacifista del gruppo parlamentare e del suo principale oratore, Turati”. (15)
A Zimmerwald le posizioni di Lenin non erano state accettate, anche se discusse con attenzione. La cosa si ripeté nella successiva conferenza di Kienthal (24-29 aprile 1916) nella quale tuttavia Serrati e la Balabanoff si avvicinarono alle posizione di Lenin, mentre gli altri delegati manifestarono le loro riserve.
Questo Passaggio è importante e va sottolineato, perché rappresenta il punto d’avvitamento iniziale del rapporto tra il leninismo e un settore del movimento socialista italiano. Lo confermava lo stesso Serrati, in un articolo sull'”Avanti!” del 30 dicembre 1917: “Sì, noi siamo compagni e anche amici di Lenin – scriveva – e di Trotzkj, siamo stati con loro a Zimmerwald e a Kienthal… ma a parte le relazioni personali, noi condividiamo anche le idee e i metodi di Lenin. Al convegno di Kienthal, mentre i nostri compagni deputati Modigliani, Dugoni, Morgari, Musatti e Prampolini facevano le loro riserve circa la portata di alcune dichiarazioni e tesi di principio presentate al convegno da una speciale commissione, noi che di quella commissione facevamo parte, insieme a Lenin, dichiarammo la nostra incondizionata adesione a quelle tesi”. Si trattava delle tesi che intendevano preparare la costituzione della Terza Internazionale, e la traduzione in guerra civile, rivoluzionaria della guerra “capitalistica”.
Alla notizia dello scoppio della rivoluzione in Russia, nel novembre del 1917, questa convinzione di Serrati e dei suoi compagni si fece ovviamente ancor più salda. Qualcuno di essi giunse a vagheggiare l’organizzazione di un moto rivoluzionario in Italia in concomitanza con quello russo: ma dovette rinunciare a questa idea del tutto insana, perché la Confederazione del lavoro vi si oppose con estrema energia.
“La disfatta di Caporetto – secondo quanto scrive Orazio Niceforo in un suo saggio su “MondOperaio” – determinò un ulteriore approfondimento della divisione del partito… Il PSI avrebbe dovuto tenere un congresso a Roma, nei primi giorni di novembre, ma esso fu sospeso il 29 ottobre per m0tivi di pubblica sicurezza dalla prefettura di questa città. È significativo però che quando ancora non si prevedeva la sospensione, la direzione del partito avesse elaborato e fatto pubblicare dall'”Avanti!” una proposta di riforma dello statuto fortemente restrittiva nei confronti dei criteri di scelta e dei margini di libertà d’azione dei gruppi parlamentari. Per il momento non se ne fece nulla, dato che il congresso fu rinviato: ma il tentativo… di ridimensionare l’influenza della corrente gradualista nel gruppo parlamentare fu ripreso e sviluppato nei successivi congressi”.(16)
I riformisti ottennero un successo per le loro impostazioni al convegno di Milano del 8-9 maggio 1917, dove si raccolsero la direzione del partito, il gruppo parlamentare e la CGL. Il convegno si concluse, infatti, con un ordine del giorno intitolato Per la pace e per il dopoguerra, che accoglieva le tesi gradualiste. Il documento si richiamava ai princìpi di Zimmerwald e solidarizzava con la “rivoluzione russa”: ma era la rivoluzione democratica, ancora, non quella bolscevica. Proponeva, per il dopoguerra, “l’abolizione delle barriere doganali”e l’istituzione di rapporti confederali tra tutti gli “Stati civili”. Ancor più eloquente era il documento nella elencazione delle richieste programmatiche per l’Italia: chiedeva l’instaurazione della Repubblica, il suffragio universale, il sistema elettorale proporzionale, lo sviluppo delle autonomie regionali e locali, la difesa dei consumatori, l’adozione dell’imposta diretta progressiva. Insomma: un tipico programma riformista e progressista, ben lontano da astrazioni estremistiche.
Le cose cambieranno quando giungeranno le notizie della rivoluzione d’ottobre, cioè quando i bolscevichi s’impadroniranno con la forza del potere, rovesciando la Repubblica democratica del febbraio, cui avevano espresso solidarietà i socialisti Italiani.
L’impossessamento violento del potere da parte di Lenin e dei suoi scatenò il sopito rivoluzionarismo dei massimalisti. L’effetto non fu immediato, o almeno non si manifestò immediatamente, perché le notizie del “colpo di Stato” leninista si accavallavano con le drammatiche notizie di Caporetto. La situazione e il clima non erano adatti a sparate filobolsceviche, nel momento in cui era in gioco l’integrità territoriale dell’Italia.
Dopo Caporetto, nel dibattito che si svolgeva alla Camera il 23 febbraio del 1918, prese la parola Filippo Turati. Egli dichiarò che, di fronte alla minaccia che gravava sull’Italia, i parlamentari socialisti mettevano da parte le loro divergenze sulla guerra, e trepidavano tutti gli Italiani per la sorte del conflitto. Turati esclamava che anche per i socialisti, come per tutta l’Assemblea, “Grappa è la nostra Patria”. (17)
Con lui molti deputati socialisti tengono comizi nelle piazze Italiane per esortare i lavoratori alla resistenza e auspicare la vittoria. Anzi: i parlamentari socialisti accettano. incarichi nelle Commissioni governative, dimostrando concretamente la loro disponibilità a contribuire al successo italiano. Dall’1 al 5 settembre del 1918 si tiene a Roma il XV congresso, a conclusione di esso i “rivoluzionari” con la definizione di “massimalisti” ottengono 14.015 voti, contro gli appena 2505 dei riformisti e i 2507 di un’ala staccatasi dalla maggioranza, che assume il nome di “intransigenti”. Nel corso della discussione a porte chiuse comincia ad operare il mito della Rivoluzione d’ottobre, dell’URSS “patria del socialismo”.

Il mito della rivoluzione

Gramsci, che il 24 dicembre 1917 aveva scritto sull'”Avanti!” un interessante articolo critico sulla Rivoluzione bolscevica, La Rivoluzione contro il Capitale (nel quale aveva messo in luce il salto storico effettuato da Lenin che contraddiceva le condizioni storiche di quella società nella quale non s’era prodotta la fase di ciclo capitalistico dominato dalla borghesia), appare schierato su una posizione nuova, che corrisponde alla realtà particolare del gruppo torinese che propugna una rivoluzione dei consigli operai, distaccandosi tanto dai riformisti quanto dai massimalisti. Ma anche l’analisi di Gramsci è errata, perché Nitti non è Kerensky, ne il potere statale 2 il potere economico e finanziario in Italia sono, com’egli invece reputava, al collasso e al disfacimento.
In questa fase è Claudio Treves, tra i riformisti, ancor più dello stesso Turati a comprendere che “la vera linea divisoria era lì, tra l’ideologia evoluzionistica del socialismo d’anteguerra, e i princìpi teorici nuovi del leninismo”, come scrive Luigi Cortesi. (18)
Una frattura non più sanabile, e che sarebbe probabilmente meglio portare subito alle estreme conseguenze: la giusta opposizione tra le due strategie, quella della rivoluzione democratica da realizzarsi con l’assemblea costituente e con le riforme, e quella della rivoluzione socialista, mediante l’instaurazione della dittatura del proletariato, non solo si contraddicevano, ma si annullavano a vicenda, causando soltanto confusione e generando una totale impotenza politica del PSI.
Un esempio di questa confusione fu dato dal sindacalista D’Aragona, il quale, delegato dalla CGL alla conferenza internazionale di Southport delle organizzazioni operaie, che decise lo sciopero generale in tutti i paesi a sostegno della rivoluzione russa contro l’intervento militare straniero (al quale la CGL aderì), così illustrava la situazione italiana: “Non ci sorprenderà affatto se un movimento rivoluzionario scoppia da noi. I risultati non potranno essere decisivi, ma l’insurrezione è inevitabile”. E D’Aragona apparteneva alla “destra” del partito, oltre che essere uno dei capi più ascoltati dall’organizzazione sindacale.
I fatti sembravano solo apparentemente dare ragione su questo punto a lui, e a tutti quei dirigenti socialisti che, massimalisti o no, si attendevano l’insurrezione. Lo scontro sociale tendeva a radicalizzarsi e culminava con le manifestazioni contro il carovita, cui aderirono demagogicamente fascisti e nazionalisti. La formazione del governo Nitti aveva scatenato la destra, cui si univano apertamente ambienti militari, in odio all’uomo politico lucano che era considerato eccessivamente riformista e pacifista. Per chiari segni, nonostante il pullulare degli scioperi, l’iniziativa di piazza tendeva a spostarsi in direzione opposta, in direzione delle forze avverse ai socialisti e ai sindacati. Dopo lo sciopero a difesa della Russia sovietica, proclamato per il 20 e il 21 giugno, apparve chiaro che l’offensiva della stampa era tutta incentrata sul motivo del pericolo di una rivoluzione bolscevica in Italia; ed era un’accusa che accomunava, sia pure strumentalmente, tutta la sinistra italiana, senza fare distinzioni tra rivoluzionari e riformisti, e senza tenere conto che la stessa CGL s’era all’ultimo momento ritirata dallo sciopero stesso.
Apparve chiaro che ormai la destra sosteneva apertamente l’azione dei fascisti, dei nazionalisti e dei futuristi. Esaltava l’impresa fiumana di D’Annunzio, sorvolando, con senso tattico, sul fatto che la Repubblica del Carnaro, come D’Annunzio l’aveva fantasiosamente denominata, sfoggiava un programma sociale “di sinistra”, ispirato da ex sindacalisti rivoluzionari come De Ambris. A Nitti, che voleva sfuggire all’abbraccio mortale della destra, e che si proponeva da un lato di restaurare nella legalità l’ordine pubblico e di avviare una politica di giustizia sociale, non resta altro che sciogliere la Camera e indire nuove elezioni: ciò che fece il 29 settembre, ma dopo aver varato la riforma elettorale in senso proporzionale, con l’obiettivo di dare forza ai partiti, contro il movimento incontrollabile. Lenin aveva ragione, dal suo punto di vista, a interessarsi così attentamente alle vicende del socialismo italiano. In breve volgere di tempo, infatti, il leninismo conquistò il gruppo dirigente del PSI.
I massimalisti – come ormai ufficialmente si denominavano – rimasero colpiti dagli avvenimenti che avevano condotto Lenin e i bolscevichi al potere in Russia, sfruttando spregiudicatamente e con l’uso della violenza le conseguenze della rivoluzione democratica del febbraio 1917. Con il mito dell’Unione Sovietica, patria del socialismo, si creava anche il mito della violenza rivoluzionaria “levatrice della storia”.
Del resto la guerra abitua all’idea della violenza. E mai, prima del conflitto del ’15-18, s’era assistito a una guerra così cruenta e di tale violenza. I massimalisti, poi, confondevano il disagio economico delle masse che tornavano esasperate da anni di caserma o di trincea, il malcontento per il caroprezzi, l’insofferenza dei proletari e specialmente quella dei contadini meridionali, con l’esistenza di una volontà rivoluzionaria della classe lavoratrice. Ammesso che essa fosse auspicabile, non c’era nessuna delle condizioni favorevoli alla possibilità di una rivoluzione. Lo Stato sabaudo usciva rinforzato dall’esito positivo del conflitto e, nonostante le polemiche sulla “vittoria mutilata”, rinforzato anche per l’annessione dei territori Italiani che, sottratti all’Austria, completavano l’unità territoriale della nazione.
Il potere militare, al di là degli sbandamenti e dei madornali errori verificatisi nel corso del conflitto (e che avevano finito per aggravare il bilancio di vite umane sacrificate), era anch’esso vittorioso e quindi più forte. I gruppi economici dominanti, specie quelli dell’industria pesante, uscivano baldanzosi da una situazione nella quale avevano realizzato ingenti profitti con le commesse di guerra e con la protezione dello Stato. Si cominciavano di conseguenza già ad avvertire i primi segni di manifestazione di quella tendenza alla simbiosi tra lo Stato e il capitalismo privato, che si svilupperà nei decenni successivi.(19)
Basterebbero già questi pochi cenni per comprendere come fosse del tutto illusoria – a prescindere da ogni giudizio di valore – una prospettiva rivoluzionaria in Italia. Trotzkj aveva salacemente definito l’atto rivoluzionario come “un pugno sferrato contro un paralitico”.
In Italia il potere economico e il potere statale erano tutt’altro che paralitici. Del resto, se non si era potuto (non lo si era neppure tentato) “trasformare la guerra imperialista in guerra rivoluzionaria”, come si sarebbe potuto trasformare la vittoria in rivoluzione? Se la guerra e soprattutto la guerra perduta costituiva, per la strategia leninista, la condizione più favorevole a un attacco al potere e alla sua conquista, come poteva considerarsi altrettanto favorevole la condizione opposta, di una pace che faceva seguito ad una guerra dall’esito favorevole?
Pensare dunque che esistessero le condizioni per una rivoluzione era, insieme, un controsenso e una contraddizione paradossale. Al fondo dei quali c’era un errore di valutazione e di analisi: quello di non comprendere che il malcontento e l’agitazione delle masse erano in realtà un’esigenza e una richiesta di condizioni migliori di vita, di vita economica, di vita sociale, di vita politica. Questa esigenza e questa richiesta non potevano più essere soddisfatte con interventi paternalistici, con elargizioni dall’alto, ma con riforme efficaci che assicurassero un migliore tenore di vita, condizioni – specie nel Mezzogiorno – di esistenza più civile e più dignitosa, una più ampia e salda democrazia politica.
Tale realtà era la linea che l’ala riformista del partito socialista cominciava ad elaborare, sulla scorta dell’esperienza e anche della critica agli errori compiuti nel passato.
Le due linee, quella “rivoluzionaria” e quella “riformista”, che già erano entrate in rotta di collisione nel congresso a porte chiuse di Roma agli inizi del settembre, si fronteggiano apertamente subito dopo la cessazione delle attività belliche.
Nel dicembre del 1918 si svolge una riunione della direzione nazionale, il cui tema di discussione è la scelta tra due parole d’ordine: quella della Costituente per una Repubblica democratica e quella della dittatura del proletariato. Entrambe astratte, e sostanzialmente impraticabili: ma significative di due opposti atteggiamenti politici, di due valutazioni antitetiche della situazione italiana e dei suoi sviluppi. Prevale la seconda, cioè la linea dei “rivoluzionari”. La risoluzione della direzione, infatti, così suonava fin dal suo primo paragrafo: “Il Partito socialista si propone come obiettivo la istituzione della Repubblica socialista e la dittatura del proletariato”.
Osservava acutamente Pietro Nenni, già negli anni Trenta, nel suo volume La lotta di classe in Italia: “Così dunque veniva lanciata, nell’atmosfera febbrile del dopoguerra, questa parola d’ordine misteriosa e terribile della dittatura proletaria. Stimolava naturalmente al massimo le energie delle masse operaie, ma anche quelle delle classi dirigenti. Si prestava a molti malintesi, sia in seno al partito, dove causava una confusione deplorevole… sia tra i suoi avversari, agli occhi dei quali rievocava il fantasma della guerra civile… Ma praticamente, dopo il 1917, chi diceva dittatura del proletariato diceva rivoluzione russa, dove la dittatura proletaria prendeva la forma del dominio assoluto di una burocrazia pseudocomunista sulla nazione e sulla classe proletaria stessa”.(20) Non si sarebbe potuto, ne si saprebbe dire meglio. Tra l’altro la decisione della direzione confliggeva con la linea della Confederazione generale del lavoro, cioè della organizzazione reale degli interessi della classe lavoratrice, che aveva chiesto la convocazione di una Costituente democratica.
Nasceva così una divaricazione profonda, addirittura insanabile, tra la direzione del partito, la CGL e il gruppo parlamentare sempre a maggioranza riformista.
Nel gennaio del 1919, riunitasi in congresso a Bologna, la CGL conferma la sua linea, aggiungendovi l’opzione repubblicana. I sindacati ottenevano, nel febbraio successivo, un successo importante, l’orario di lavoro ad otto ore per molte categorie, cui si accompagnava il primo decreto di amnistia per i reati compiuti in corso di servizio militare. Si marciava, dunque, in due direzioni diverse. Il sindacato reclamava la Repubblica, una nuova Costituzione, il suffragio allargato senza distinzione di sesso, miglioramenti normativi e salariali per i lavoratori. Il partito agitava la bandiera della rivoluzione socialista e della dittatura del proletariato.
La reazione non tardò a farsi sentire. Nazionalisti e futuristi scesero in piazza attaccando la sede dell'”Avanti!”. Ai numerosi scioperi, la polizia rispose con una linea repressiva che provocò vittime e arresti. Mussolini dava vita, proprio in quei giorni, all’organizzazione dei fasci di combattimento. Travolto il governo Orlando, dall’esito negativo per l’Italia della Conferenza per la pace di Parigi, gli succedette il governo presieduto da Francesco Saverio Nitti, salutato sull'”Avanti!” da un articolo di Gramsci che giudicava il nuovo gabinetto come l’inizio del processo di dissoluzione dello Stato italiano, paragonandolo al governo Kerensky che aveva aperto la strada alla rivoluzione bolscevica.
Il “lungo Parlamento” (1913-1919) della guerra sta per concludere la sua attività. Si torna a votare. C’è non solo l’estensione del suffragio, votata nel luglio, a tutti gli elettori maschi: viene anche decisa l’estensione all’elettorato femminile, con una norma che rinvia però l’attuazione di questo principio a una successiva tornata elettorale, e che finirà per essere rinviata al secondo dopoguerra.
Insieme con queste decisioni, si approva l’adozione del sistema proporzionale, accogliendo una richiesta socialista formulata nel convegno di Milano del maggio 1917. L’introduzione della proporzionale non costituisce un semplice mutamento della tecnica elettorale: è un evento di significato squisitamente politico, in quanto contribuisce ad accelerare il processo di disgregazione delle strutture rappresentative tradizionali dello Stato liberale prefascista, e introduce una nuova fase, quella della democrazia dei partiti, inaugurata con la costituzione della prima organizzazione politica moderna di massa, il Partito socialista, cui aveva fatto seguito, circa due decenni dopo, quella del Partito popolare.
Prima delle elezioni generali, si svolge il congresso del partito, su cui è puntata tutta l’attenzione del mondo politico italiano. Al congresso, il XVI (Bologna 5-8 ottobre 1919), che si svolge in un momento così drammatico della vita nazionale, e che è chiamato a scelte decisive, partecipano le tendenze ormai tradizionali del partito, quella riformista e quella rivoluzionaria che fa capo a Serrati. Ad esse s’aggiungono una tendenza centrista “unitaria”, che si raccoglie intorno a Lazzari – il quale pur essendo su posizioni di “sinistra” mostra una crescente preoccupazione per le prospettive politiche del partito e per la sua unità e la nascente tendenza comunista. Quest’ala del partito, di proporzioni ancora limitate, era sorta all’interno del PSI, facendo capo, al sud e al centro, al napoletano Amedeo Bordiga, mentre aveva il suo punto di forza nel nord, a Torino, con i giovani che fanno capo a Gramsci, come a Tasca, Terracini e Togliatti.
Il congresso affrontò il problema della nuova Carta del partito: il progetto che si ispirava esplicitamente alla dottrina leninista fu approvato dalla stragrande maggioranza dei delegati, e con grande entusiasmo. Turati, in un dibattito dominato dall’estremismo degli oratori e delle platee, ammoni il partito a guardarsi dalle “seduzioni facili” della dittatura del proletariato e della violenza, ricordando come su questo terreno la borghesia avesse tutti i mezzi e le possibilità di sopravanzare il proletariato.
Costantino Lazzari contestò con grande coraggio la linea della tendenza estremista: “Io temo – disse – che non appena voi avrete approvato questo programma che voi dovete applicare, abbiate preparato dei cattivi giorni al partito, che non potrà resistere contro le forze militari dello Stato pronte a schiacciarci”. (21)
Le tendenze hanno modo di misurarsi al congresso di Bologna, il XVI, che si riunisce dal 5 all’8 ottobre 1919. Qui prevale la mozione massimalista di Serrati, che propone l’obiettivo della rivoluzione a breve termine, e ottiene, intanto, la maggioranza con 48.411 voti (gli iscritti al PSI sono notevolmente aumentati rispetto ai congressi dell’anteguerra). Una mozione Lazzari, detta “unitaria” in quanto, pur considerando come obiettivo del partito la rivoluzione, difende tuttavia il diritto di tutti gli iscritti a permanere in esso, contro la richiesta di espulsione dei riformisti, riceve 14.995 voti; mentre la mozione “massimalistica astensionistica” (comunista), che al contrario di quella di Serrati si dichiara avversa alla partecipazione alle elezioni, con la firma di Bordiga, raggiunge appena 3417 voti. I riformisti sostennero la mozione Lazzari perché – si era giunti a questo punto – garantiva la loro permanenza nelle fila del partito, nel quale erano ormai in netta minoranza.
Ebbe partita vinta la linea Serrati, secondo la quale, in attesa della rivoluzione, non si disdegnavano i posti in Parlamento, che furono sempre più numerosi. Nelle elezioni di quell’anno il PSI passava infatti da 53 a 156 deputati, mentre il Partito popolare di don Sturzo otteneva 100 seggi.

Il paradosso di Plechanow

Nel clima di violenza instaurato dall’azione fascista, che fa leva anche sulla reazione dei ceti della borghesia all’insurrezionalismo senza sbocchi degli estremisti del PSI, impotenti tra l’altro ad alcuna reale strategia rivoluzionaria, s’avvia la crisi socialista, che si svilupperà rapidamente fino a portare alla scissione.
I riformisti, pur vedendo con lucidità i pericoli della situazione, e avendo coscienza che l’unica via d’uscita è nella ripresa dell’alleanza con le forze democratiche e con i cattolici organizzatisi nel Partito popolare, temono di infrangere quest’unità del partito che sarà ben presto frantumata, prima dai comunisti, poi dai massimalisti.
Fin da quell’epoca, l’atteggiamento di Turati, tanto nel congresso, che nel complesso della vicenda politica nazionale, suscitò non poche polemiche che si sono poi andate ingigantendo in sede storiografica. Critiche rivolte all’atteggiamento tattico del leader di “Critica Sociale” che nelle conclusioni del dibattito congressuale, a Bologna, aveva preferito confluire insieme con Lazzari e con i suoi seguaci, piuttosto che assumere una posizione distinta. Turati fu accusato e viene ancor oggi accusato di essere stato eccessivamente rinunciatario.
Tutte queste critiche e queste accuse ci appaiono superficiali. Esse non tengono conto del fatto che i riformisti erano pressoché isolati, una posizione autonoma, in sede di votazione, avrebbe sottolineato la loro debolezza politica ed organizzativa. Non tengono conto, inoltre, che Lazzari e i suoi s’impegnarono a sostenere la piena legittimità della presenza dei riformisti nel partito, contro la richiesta di espulsione che veniva da tutti gli altri settori del PSI. Non tengono conto, infine, che il congresso si svolgeva a circa un mese di distanza dalle elezioni, che erano state già indette, e che qualora i riformisti fossero stati cacciati dal partito ben difficilmente sarebbero stati in grado in un tempo così breve di organizzarsi per poter partecipare con proprie liste alla competizione elettorale che si svolgeva per la prima volta con il nuovo sistema della proporzionale.
Tutte queste considerazioni indussero Turati e i suoi compagni ad adottare l’unica tattica congressuale possibile in quel momento, che non gli impedì affatto, tra l’altro, di parlar chiaro. Nel suo intervento parlò apertamente contro la violenza rivoluzionaria dicendo: “L’appello alla violenza… è, in fondo, la caratteristica del programma che noi combattiamo. Noi non abbiamo mai creduto alle virtù taumaturgiche della violenza”. E ricorda il “paradosso di Plechanow”: “La gente superficiale è indotta a confondere la violenza con la rivoluzione. Sarebbe come – osservava Plechanow – se, dato che quando piove si aprono le ombrelle, se ne concludesse che basterebbe aprire le ombrelle per ottenere la pioggia”.(22) E aggiunge: “La violenza non e altro che il suicidio del proletariato, è fare l’interesse degli avversari”.
Passando dai princìpi ai fatti, contestava: “Parlare poi continuamente di violenza per rinviarla sempre all’indomani, è – lo notava lo stesso Serrati – la cosa più assurda di questo mondo. Ciò non serve che ad armare, a suscitare, a giustificare anzi la violenza degli avversari, mille volte più forte della nostra… Soprattutto questo vale per voi, che non ammettete possibilità di alcuna intesa, neppure transitoria, con le classi avversarie, che vi atteggiate come un blocco feroce, senza pietà e senza possibilità di compromessi. Di quali armi materiali voi disponete? Chi di voi protestò contro il decreto che imponeva la denunzia e la consegna delle armi? Chi di voi ha preso sul serio la rivoluzione armata di cui tanti si riempiono la bocca?… Quando assalirono l’Avanti! avete confessato che il partito e le masse operaie si guardarono bene di reagire con qualsiasi ritorsione. Protestarono con sottoscrizioni ed ordini del giorno, protestammo noi in Parlamento, ossia nel modo più legalitario che si possa immaginare. E in queste condizioni venite a parlare di violenza vittoriosa immediata!”. (23)
È sufficiente questo squarcio di un discorso, così coraggioso ed antiveggente, a mettere in luce la natura del dibattito che si svolse in quel congresso, il nullismo totale delle posizioni “rivoluzionarie” di Serrati e di Bordiga, e la gravità e pericolosità delle conseguenze che potevano suscitare, come non mancheranno di suscitare.
Tutto ciò conferma l’esigenza per i riformisti di usare, in quell’assise, un linguaggio chiaro, anzi chiarissimo, e, nello stesso tempo, di usare la necessaria prudenza per non farsi isolare e travolgere dal fanatismo degli avversari di partito. I riformisti avevano bisogno, proprio per la loro linea strategica, di essere presenti in Parlamento; e sarebbe stato un autentico suicidio politico, per essi, mettere a repentaglio la loro rappresentanza elettiva, a poche settimane dal voto popolare.
In più, occorre rilevare che la convergenza con Lazzari apriva la strada ad un’interessante evoluzione dell’equilibrio politico interno al partito, che non avrebbe mancato di dare qualche risultato, di lì a poco tempo.
Pochi giorni dopo la conclusione del congresso di Bologna, scende in campo l’antico interlocutore dei riformisti, Giovanni Giofitti. Lo fa assumendo, nel famoso discorso di Dronero del 12 ottobre, una posizione di “apertura a sinistra”. Usa addirittura espressioni insolite al suo linguaggio, che è in genere più concreto e meno colorito: “Le forze reazionarie non potranno più prevalere – annuncia con una certa enfasi – perché le classi privilegiate che condussero l’umanità al disastro non possono più reggere da sole il mondo, i cui destini dovranno passare nelle mani del popolo”. Nello stesso discorso, scendendo a cose più precise, annuncia un programma di riforme (tra cui l’istituzione dell’imposta progressiva sui patrimoni e sui profitti di guerra) che suona come una tutt’altro che nascosta candidatura alla guida di un governo “riformista”.
I risultati delle elezioni del 16 novembre segnano una grande vittoria dei socialisti che da 48 passano a 156 seggi, e dei popolari che ottengono 100 seggi. Mentre i fascisti vengono clamorosamente sconfitti, non riuscendo ad avere nessun eletto, l’arcipelago liberale ne esce fortemente ridimensionato: dei 380 seggi che contava nella precedente Camera, ne risultano confermati un numero di 235.
Il voto offriva, quindi, un’ampia dimostrazione di consenso ai socialisti, nonostante i gravi errori strategici commessi dal partito; ed indicava, ma solo sulla carta, una maggioranza numerica nella somma dei deputati socialisti e popolari. La capacità di manovra politica e parlamentare del PSI era però indebolita dal fatto che numerosi erano stati gli eletti delle correnti “rivoluzionarie” (in attesa del Grande Rivolgimento, erano tutti corsi a candidarsi e a farsi eleggere); i riformisti di conseguenza, pur essendo stati eletti in buon numero, giungevano a perdere per la prima volta il controllo del gruppo parlamentare.
Ciononostante, i parlamentari socialisti hanno presto l’occasione per decidere di non rifiutare la possibilità di un’alleanza con quelle forze che la maggioranza congressuale aveva classificate come “avversarie di classe”.
All’inizio dei lavori della Camera appena eletta, si determina infatti una piena convergenza tra socialisti e popolari su un ordine del giorno, votato il 13 dicembre, che delibera l’assegnazione delle terre incolte alle cooperative dei contadini: un settore dove i popolari raccolgono molte adesioni, e che fino a quel momento era stato teatro della concorrenza tra le due forze politiche che adesso convergono, unite dal medesimo interesse sociale che entrambe rappresentano.
Passano appena otto giorni, e il 21 dello stesso mese i due partiti tornano a separarsi: i popolari votano infatti la fiducia al nuovo governo di Nitti, pressoché senza alcuna contropartita: un governo la cui funzione essenziale sembra essere quella di sbarrare la strada al ritorno al potere di Giolitti, qualificatosi come interlocutore della sinistra con il suo discorso a Dronero.

Il ritorno di Giolitti

Il 1920 è forse l’anno in cui vengono al pettine tutti i nodi cruciali della politica italiana. È l’anno che segna una pausa significativa nel processo di involuzione politica del movimento socialista.
Almeno agli inizi dell’anno sembra esserci qualche novità in casa socialista. Sembra attenuarsi il processo di radicalizzazione della politica della maggioranza, e da ciò deriva una maggiore influenza dei riformisti nelle scelte politiche del partito. Tant’è che Claudio Treves non esitò a parlare di “resipiscenza” della tendenza estremista. Un momento veramente interessante fu quello in cui si manifestò questa “resipiscenza” (purtroppo di natura temporanea): vale a dire in occasione della riunione del Consiglio nazionale del PSI, che ha luogo il 13 e il 14 gennaio. Vi partecipano i rappresentanti di tutte le federazioni, oltre ai parlamentari e alla direzione.
Lo stesso Serrati appare più possibilista, entrando in contrasto aperto con Nicola Bombacci, che vi rappresenta le posizioni dell’ala massimalista-astensionistica. In questo stesso Consiglio, il delegato di Torino Umberto Terracini solleva la questione sulla quale discute da qualche tempo il gruppo che fa capo a Gramsci e all'”Ordine Nuovo”: il problema dei Consigli di fabbrica, che il gruppo considera come i “soviet” dell’Italia, i possibili organismi politici del potere operaio.
Per la verità, c’è una grande confusione in proposito. Perfino Bombacci giunge a negarne il carattere politico, considerandoli solo come organismi di natura economico-sindacale, una sorta di nuova versione delle già esistenti Commissioni interne. Comunque, il Consiglio nazionale decide, con la mozione conclusiva, di assumere una posizione interlocutoria, deliberando di aprire una discussione su questo tema tra le masse operaie e gli organismi di classe. Non appare estraneo a questa sostanziale tregua il cambiamento che si verifica in quel mesi nell’atteggiamento della Terza Internazionale comunista che, nella risoluzione del 4 agosto, riconosceva la legittimità delle istituzioni parlamentari, assumendo una strategia partecipativa (decisione che influirà sull’abbandono dell’astensionismo da parte del gruppo comunista del PSI) e predicava la coesistenza tra società comuniste e borghesi.
Nella primavera, la situazione economica e quella sociale appaiono inasprite per l’aumento dei prezzi e le conseguenti ondate speculative che il governo Nitti non è in grado di controllare, e che portano alla agitazione di numerose categorie sindacali, tra le quali in prima fila quelle dei ferrovieri e quella dei postelegrafonici. Ed è proprio la vertenza di questi ultimi che offre il destro a socialisti e popolari per provocare la caduta del governo, votando insieme alla Camera un ordine del giorno che chiede l’esame di questa vertenza, il 1 maggio. Le gelosie e i risentimenti per i vecchi contrasti impediscono al PSI di sostenere o di mostrare interesse per un tentativo di Ivanoe Bonomi di comporre un ministero che sia espressione di uno schieramento compatto delle sinistre. Cosicché è Nitti che resta ancora a presiedere il governo: ma solo per breve tempo, poiché di nuovo il 4 giugno cade, questa volta perché la Camera considera un’espropriazione delle proprie competenze il provvedimento del governo che abolisce il prezzo politico del pane. Ancora una volta socialisti e popolari, divisi da tante polemiche, si uniscono nel voto per far cadere il governo.
È il momento atteso da Giolitti per tornare alla guida dell’esecutivo. Si è molto discusso e molto si discuterà sulla mancata partecipazione dei socialisti, o comunque dei riformisti e di Turati in particolare, alla iniziativa della costituzione del gabinetto guidato dall’uomo di Dronero. Ma per accedere al potere, egli dovette mettere molta acqua nel vino rosso del discorso dronerese: soprattutto tentò di ammorbidire la destra anche estrema con notevoli concessioni in politica internazionale, che ai nazionalisti e allo stesso Mussolini parvero un passo in avanti rispetto alle posizioni dell’odiato Nitti.
In un certo senso, Giolitti tentò di ripetere l’operazione del 1911, quando cercò di controbilanciare l’adesione alla politica di espansione coloniale della destra col riformismo che l’aveva visto convergere sul piano sociale e istituzionale con i socialisti. Il gioco non gli era riuscito allora, non gli sarebbe riuscito neppure nella situazione ben più difficile e deteriorata seguita al conflitto bellico.
Bisogna tuttavia sfatare la credenza che il PSI, pur in mano ai massimalisti, abbia avuto nei confronti del nuovo governo una posizione di ostilità e di intransigenza. Se da parte sua Turati non accolse l’invito a far parte di esso, nonostante le calorose pressioni dello statista piemontese, pure egli riuscì ad influenzare l’azione parlamentare del partito, che fece numerose volte da sponda alle proposte e alle iniziative giolittiane in materia di politica economica e sociale. Nonostante la dichiarazione di indisponibilità e di sfiducia nei confronti del quinto governo Giolitti, non venne a mancare il voto favorevole dei socialisti che permise l’approvazione della legge sulla nominatività dei titoli; di quella sull’aumento della tassa sugli autoveicoli; sugli aumenti delle tasse di successione e sulle donazioni.
Giolitti, che con il Trattato di Rapallo ha risolto felicemente la questione adriatica, scaccia D’Annunzio da Fiume, senza che nazionalisti e fascisti vadano molto più in la di qualche protesta. È il suo solito gioco politico: un colpo al cerchio, un altro alla botte. Allo stesso modo non interviene per arginare la violenza fascista, con l’esistenza della quale sembra voler controbilanciare la forza del sovversivismo massimalisfico dei socialisti; ma non interviene nemmeno nel corso della questione sociale più scottante dell’anno 1920: l’occupazione delle fabbriche.
Tra il 1918 e il 1920 c’erano stati migliaia di scioperi nell’agricoltura e nell’industria, rivolti ad ottenere incrementi salariali. Il numero degli organizzati nei sindacati s’era enormemente moltiplicato: dai 500.000 iscritti dell’anteguerra. s’era passati a circa 4.000.000. Se le condizioni economiche e sociali erano tali da inasprire i conflitti di lavoro, e tali da rendere infuocato il clima delle agitazioni, tuttavia la tendenza riformista e gradualista, grandemente indebolita nel PSI e nello stesso gruppo parlamentare, manteneva un sostanziale controllo dell’organizzazione sindacale. Il che impediva quell’estrema radicalizzazione della lotta sociale, che pure era ventilata dalle tendenze più estreme della sinistra e della destra.
L’occupazione delle fabbriche rappresentò una cartina di tornasole per la situazione che si era creata. Secondo Nenni, appunto, “la lotta proletaria del dopoguerra ebbe il suo punto culminante in Italia durante l’occupazione delle fabbriche. Questo fu il più grande movimento sindacale non soltanto in Italia, ma nella Europa intera”.(24)
Nell’agosto-settembre del 1919, dopo settanta giorni di sciopero, la FIOM (la Federazione italiana operai metalmeccanici) aveva ottenuto un contratto collettivo di lavoro, che era da considerare il migliore d’Europa. L’applicazione del contratto, però, determinò un nuovo contrasto tra operai ed imprenditori: questi ultimi si rifiutavano di accettare una richiesta di revisione dei salari, avanzata in conformità delle norme contrattuali. Il 21 agosto inizia l’agitazione. Otto giorni dopo, di fronte ad una minaccia di serrata da parte degli industriali, le organizzazioni sindacali danno l’ordine di occupare le fabbriche, un ordine che viene eseguito dagli operai, non dai tecnici e dagli impiegati. Il governo, fallita una mediazione del ministro del Lavoro, che altri non era se non l’ex sindacalista rivoluzionario Arturo Labriola, decide di dichiararsi neutrale nel conflitto, secondo la vecchia linea giolittiana. Al momento dell’occupazione partecipa oltre mezzo milione di operai: la questione diviene di interesse nazionale. E ad essa vengono date diverse interpretazioni politiche.
La tendenza comunista di “Ordine Nuovo” vede in essa l’avvio di un processo di costituzione di un potere rivoluzionario che deve portare alle forme auspicate della democrazia dei Consigli operai. Torino rappresenta per essa il laboratorio in cui si verificano le possibilità di questo corso rivoluzionario. Per i riformisti – e per la maggioranza della CGL – la lotta riveste un carattere squisitamente economico e sindacale, ed in tali ambiti deve restare. Per i massimalisti, essa non è altro che l’episodio più importante di un movimento agitatorio che fa crescere la tensione rivoluzionaria, anche se nessuno di essi sa e dice come, e in che cosa, dovrebbe sfociare questo movimento.
Per la borghesia, per l’estrema destra essa e un gravissimo segnale d’allarme: una specie di prova generale della rivoluzione bolscevica, espropriatrice dei diritti di proprietà. “Ogni fabbrica – scrive l'”Avanti!” – e un fortilizio rivoluzionario. Sono distribuite le armi, una severa disciplina di guerra regna, generalmente, negli stabilimenti, gli incidenti ed i casi di violenza sono pochi e sporadici. La tensione nel Paese cresce di ora in ora. L’ora della rivoluzione sembra che stia per scoccare”. Così Arfé puntualizza la situazione.(25)
La direzione del PSI ritiene che il movimento ha ormai un carattere politico, e pertanto ne rivendica la guida, probabilmente per trasformarlo in un momento insurrezionale. Di fronte all’opposizione della Confederazione del lavoro, in realtà non insiste, forse perché consapevole della insensatezza della richiesta, avanzata, ci sembra di capire più per fare onore alla propria identità “rivoluzionaria” che per convinzione politica.
La questione delle fabbriche si conclude con l’istituzione di una commissione mista di sindacalisti, industriali ed esperti governativi incaricata di formulare un progetto di legge per il controllo operaio della produzione. Ciò dopo che Giolitti, in una riunione delle rappresentanze delle due parti, convocata a Torino il 15 settembre, di fronte all’intransigenza padronale, minacciò, nel caso in cui la Confederazione degli industriali avesse perseverato nel rifiutare l’accordo, di imporre il controllo operaio con una legge che lui stesso avrebbe presentato in Parlamento. La soluzione concordata risultò soddisfacente per gli operai metallurgici, che la ratificarono con un referendum. Risultò soddisfacente anche per i riformisti che con Prampolini non mancarono di rimarcare l’importanza del principio limitativo della proprietà privata industriale, che costituiva il fatto nuovo della conclusione concordata. Fu accolta con soddisfazione, come un successo, anche da Gramsci e dall'”Ordine Nuovo”. Fece invece storcere il naso a Serrati e ai suoi, che vedevano nell’accordo il pericolo di un rilassamento della tensione “rivoluzionaria” e dello spirito classista degli operai.
Concludendo il suo saggio Il governo Giolitti e l’occupazione delle fabbriche, Carlo Vallauri osserva: “Il comportamento del governo in quelle circostanze è l’ultima occasione che si presenta allo Stato liberale di dimostrare la capacità di sviluppare e assorbire il movimento democratico, e questa funzione Giolitti e i suoi collaboratori svolgono con senso preciso delle loro responsabilità, nella convinzione appunto che lo Stato lìberale si salvi in quanto sappia interpretare le esigenze delle masse popolari”, aggiungendo che “sono i gruppi politici che si contendono la direzione della società a intendere la necessità di salvaguardare le condizioni di sviluppo e preferiscono lottare direttamente rifiutando l’intermediazione dello Stato: si lanciano sulla strada della radicalizzazione della lotta politica”. (26)
La questione politica era anche un’altra. La vera questione politica che si evidenziava (e che Serrati probabilmente intravedeva, temendone le possibili conseguenze) era che Giolitti si era esposto in questa vertenza in modo addirittura audace, e superando ogni limite rispetto ai propri comportamenti politici precedenti. Egli non solo aveva assicurato la neutralità del governo nel conflitto, respingendo tra l’altro le ripetute richieste di far intervenire l’esercito a tutela dei diritti di proprietà degli industriali, rompendo la sua tradizionale linea di neutralità, egli si era addirittura spostato dalla parte dei lavoratori, sostenendo la validità di un principio che andava bene anche ai comunisti di “Ordine Nuovo”, e minacciando di imporlo di propria iniziativa agli industriali riluttanti.
Nella riunione del 15 settembre, a Torino, quando s’era scontrato con gli industriali, aveva abbandonato la posizione super partes che aveva tenuto per un quarto di secolo. S’era esposto, e non soltanto con frasi retoriche, come nel discorso di Dronero, su un problema che investiva non questioni rivendicative, ma questioni di principio riguardanti l’esercizio pieno del diritto di proprietà, proponendone la limitazione a fini sociali. Giolitti era giunto a dichiarare: “Bisogna concedere ai lavoratori il diritto di sapere, di apprendere, di elevarsi in modo da essere in grado di assumere la loro parte di responsabilità nella direzione delle fabbriche”. E su questa base aveva redatto il decreto che reintegrava gli operai nel loro posto di lavoro e formulava la proposta per la formazione della Commissione paritetica, con 6 rappresentanti per ciascuna delle parti. Che la posizione di Giolitti, oltre che del tutto nuova sul piano sociale, fosse mirata in senso politico a gettare un ponte verso i socialisti, è dimostrato anche dal fatto che egli in ogni fase della vertenza sull’occupazione delle fabbriche escluse deliberatamente dalle trattative la rappresentanza del sindacato cattolico, la CIL. Era un’occasione favorevolissima, addirittura inaspettata, per un tentativo rivolto ad allacciare un rapporto positivo con il presidente del Consiglio, che tra l’altro stava per raccogliere un buon successo in politica estera, con il Trattato di Rapallo che verrà stipulato il 12 novembre; e sul piano della politica economica e finanziaria con la riduzione del disavanzo del bilancio dello Stato.
I socialisti non seppero coglierla, quest’occasione. Anzi, la maggioranza del PSI era del tutto lontana dal porsi questo problema. Turati e i riformisti (che si riuniscono in convegno a Reggio Emilia, nell’ottobre) non sono in grado di influire sulle scelte del partito, pur avendo dalla loro i sindacati.
Ancor oggi, esaminando la possibilità concreta di un’alleanza con Giolitti, ci si domanda se non sarebbe stato meglio per essi rompere gli indugi ed uscire dal partito. Ponendosi un quesito di tal genere, occorre però fare i conti con la particolare personalità del leader dei riformisti. Pur tormentato da mille dubbi, Turati non ebbe mai la tentazione di abbandonare il partito, dove ormai era in nettissima minoranza. “Questo uomo – ebbe a dire un suo discepolo, Nino Mazzoni – è stato sempre fanciullescamente innamorato del suo partito”.
Scriveva già nel 1924 Alessandro Levi, in un suo “medaglione” del capo riformista: “Turati è rimasto fedele al partito – capitano in difficili ore, in certe altre adattandosi, con singolare abnegazione, a rientrare nei ranghi di semplice soldato – per non abbandonare la colonna in marcia, per salvare dai precipizi gli illusi, per segnare agli sbandati la strada. Egli aveva additato ai bissolatiani, nel 1912, i pericoli di certe scorciatoie, che avrebbero loro fatto perdere il contatto con la carovana ascendente a fatica. “Forse non è questa la via; certo, questa non è l’ora!” aveva detto nel triste commiato, e, contro le cercate solidarietà dei dissidenti, contro le punzecchiature degli estremisti, aveva affermato, per sé e per i suoi, il diritto, “il dovere” di rimanere nel partito. Vi rimaneva anche in quell’agitato periodo – dal 1919 al 1922, quando i massimalisti imposero la scissione degli unitari -nel quale il proletariato, ubriacato dalll’alcol della violenza, che tanti, dai bakuninisti a Mussolini, gli avevano propinato anche davanti alla guerra… minacciava assai più a parole che a fatti di sconvolgere la società. E vi rimaneva appunto per questo: perché soltanto restando nelle sue fila, esposto ai colpi dei comuni nemici, egli poteva acquistarsi il diritto di compiere intero il suo dovere di socialista, di difendere dall’assalto della gente nuova l’antico patrimonio ideale, per tenerne alto il vessillo”. (27)
Non solo non si riuscì in questo modo a sfruttare sul piano politico il successo (che indubbiamente tale era, e tale appare alla luce dell’analisi storica) dell’occupazione delle fabbriche. Si determinò addirittura una situazione paradossale: difatti, l’incertezza e il senso di impotenza politica che emersero con chiarezza in quell’autunno del 1920, provocò un moto di riflusso. “La classe operaia si fece prendere dallo scoramento: calarono gli iscritti ai sindacati e gli scioperi, diminuì l’impegno politico, mentre il fronte padronale incominciava ad attrezzarsi per la rivincita”.(28)
Addirittura i parlamentari socialisti si guardarono bene dall’insistere alla Camera perché fosse posto in discussione, per essere approvato, lo stesso progetto di legge sul controllo operaio che, sulla scorta delle indicazioni fornite dalla Commissione paritetica, Giolitti aveva presentato.
Mentre il PSI si arrovellava nella sua impotenza, incapace di scegliere tra una politica di avventura rivoluzionaria, della quale – ammesso che fosse stata auspicabile – non c’era nessuna premessa e nessuna possibilità, aumentavano dappertutto le avversioni nei suoi confronti. In tutte le classi sociali, ormai, non solo nelle fila della borghesia industriale ed agraria, ma nello stesso popolo minuto, nella piccola borghesia, tra i commercianti, tra i reduci, tra i disoccupati, tra gli intellettuali frustrati. E, dopo il campanello d’allarme dell’occupazione delle fabbriche, i nemici dei socialisti s’andavano organizzando sempre di più sul terreno della violenza e dello scontro fisico, pronti ad impedire che l’occasione creatasi nell’agosto-settembre del 1920 potesse ripresentarsi. I fascisti di Mussolini trovarono in quelle settimane, in quei mesi sempre più concrete solidarietà, e si apprestavano a giocare un ruolo decisivo, consapevoli che il PSI non era riuscito a sfruttare il successo di quella occasione irripetibile, e che ormai stavano per trovarsi in un vicolo cieco.
C’è una regola ricorrente nel gioco del calcio, che sembra valere anche in politica. Quando si spreca l’occasione favorevole per segnare, è sempre la squadra avversaria, subito dopo, a capovolgere la situazione e a riuscire ad andare a rete.

Verso la scissione

Per dissipare ogni equivoco storiografico, va sottolineato come a Livorno si sia consumata la scissione di una minoranza.
Infatti, la successione degli eventi non può lasciare alcun dubbio. L’11 ottobre del 1920 era stato reso noto a Milano il Manifesto Programmatico della frazione comunista del PSI. Ciò accadeva poco dopo la fine dell’occupazione delle fabbriche, nella quale i comunisti avevano visto una specie di prova generale della rivoluzione dei consigli operai. Da questo punto di vista l’occupazione aveva avuto un esito che era da considerarsi fallimentare; mentre doveva essere considerato positivo per le posizioni riformistiche.
Il Manifesto Programmatico, con il quale la frazione comunista rilanciava la sua iniziativa, era firmato dagli esponenti dei vari gruppi che in essa confluivano: Bordiga, esponente del Mezzogiorno, ed ormai riconosciuto leader della frazione; Terracini, Gramsci ed altri per il gruppo dell’Ordine Nuovo di Torino; Bombacci, esponente del partito nell’Italia Centrale. Il Manifesto trovò un’approvazione formale al convegno di Imola della corrente, che si tenne il 28 ed il 29 novembre successivi.
Com’è più noto, il fattore determinante della formazione della frazione (e poi della scissione) fu il rifiuto da parte degli altri settori rivoluzionari del PSI di accettare in blocco tutte le condizioni poste dal II congresso dall’Internazionale comunista (terza internazionale) per l’adesione ad essa dei singoli partiti operai nazionali: le famose 21 condizioni.
Racconta un testimone di quegli eventi, Umberto Terracini, nella sua “Intervista” raccolta da Arturo Gismondi, che in una riunione della direzione socialista, appositamente convocata, i delegati partecipanti al congresso dell’Internazionale comunista riferirono sull’argomento. Secondo Terracini: “Pronto ad accettare 20 delle 21 condizioni, Serrati (che era uno dei delegati) chiese che il PSI riconfermasse la propria adesione all’Internazionale, chiedendo a quest’ultima di sollevarlo dall’obbligo di espellere i riformisti”. (Obbligo nel quale consisteva la ventunesima condizione.)
Si contrapposero due ordini del giorno: uno, firmato da Adelchi Baratono, che formalizzava la posizione di Serrati; l’altro, di Terracini, che chiedeva la piena accettazione delle 21 condizioni. Questo secondo documento ottenne la maggioranza dei voti, compreso quello del segretario del partito, Gennari.
La decisione maggioritaria del vertice del partito fu rovesciata dalla base nel corso del dibattito nelle istanze congressuali: e ciò, nonostante che alla frazione comunista si associassero la corrente Graziadei-Narabini, e quella detta dei “terzinternazionalisti” di Maffi e Riboldi. Pertanto dalla maggioranza ottenuta in direzione, la posizione comunista uscì largamente sconfitta dal voto di base.
Cosicché l’esito del congresso (che dovette tenersi a Livorno, anziché a Firenze, per timore delle possibili violenze da parte dei fascisti) smentì categoricamente e clamorosamente la previsione fatta il 20 novembre 1920 da Zinoviev all’esecutivo dell’Internazionale comunista. Zinoviev aveva infatti dichiarato che “i comunisti di Bordiga e Terracini affermano di avere con loro dal 75 al 90 per cento del partito” e che, di conseguenza, “in questa situazione qualsiasi compromesso con Serrati sarebbe dannoso”.
La controversia con Serrati non era puramente nominalistica, o di natura esclusivamente tattica. Investiva una questione storica di importanza tutt’altro che secondaria. Infatti la motivazione per la quale l’Internazionale comunista dichiarava incompatibile la presenza dei riformisti nel seno dei partiti ad essa aderenti era che i riformisti non avevano sabotato la guerra schierandosi nei rispettivi paesi contro di essa. Questa, agli occhi dell’Internazionale comunista, era la prova che i riformisti non erano internazionalisti, perché avevano anteposto, al momento decisivo, gli interessi nazionali a quelli internazionali della classe operaia.
A questa argomentazione Serrati non opponeva un rifiuto di principio, bensì una contestazione di merito. Egli faceva presente che i riformisti Italiani, a differenza di quelli di altri paesi, non avevano affatto aderito alla guerra, anche se non l’avevano sabotata. Su tale problema, il loro atteggiamento non s’era discostato da quello del partito nel suo complesso: eccezion fatta per Bordiga. La stessa posizione di Gramsci era stata oscillante tra l’interventismo e la neutralità attiva. Se l’argomentazione dell’Internazionale doveva essere presa alla lettera, si sarebbe dovuto espellere quasi tutto il partito.
Abbandonata la strada del compromesso con lo stesso Serrati e con i massimalisti che si rifiutavano di mettere fuori dal partito Turati ed i suoi, alla frazione comunista non rimase che la strada della scissione: che risultò essere una strada minoritaria, e che tale doveva restare anche dopo la costituzione del Partito comunista d’Italia, e per molto tempo ancora, se si pone mente al fatto che ancora nel 1946 i socialisti erano elettoralmente più forti dei comunisti. (Perché questi divengano il primo partito della sinistra italiana ci vorranno gi errori dei socialisti nel secondo dopoguerra, e la conseguente scissione di Palazzo Barberini.)
Già nella vicenda della scissione di Livorno risaltano alcune caratteristiche permanenti e denotanti della storia comunista successiva. Tra di esse, principalmente, il rifiuto della regola democratica della maggioranza e l’antiriformismo. (La scissione venne compiuta perché la maggioranza si oppose alle condizioni ultimative dei comunisti, e perché si riteneva incompatibile la coesistenza con i riformisti nello stesso partito.) Inoltre, la totale consonanza del gruppo dirigente comunista con le indicazioni politiche provenienti da Mosca: ci vorranno circa sessant’anni prima che questo vincolo cominci ad attenuarsi e a dissolversi.
In ogni modo, Livorno segnò un momento altamente drammatico della storia del movimento socialista e della sinistra italiana nel suo complesso. Condusse ad una crisi di orientamento politico, di spirito di iniziativa e di azione, di forza organizzativa per l’intero movimento dei lavoratori. Apri l’epoca delle dissociazioni e delle dispersioni, alimentò, ben presto, lo scoraggiamento dei quadri, dei militanti, degli elettori. E questo avveniva proprio nel momento in cui il movimento dei lavoratori, grazie anche alla conquista del suffragio universale, aveva tutte le possibilità di assumere un ruolo decisivo nella vita nazionale e nello sviluppo della democrazia italiana.
La sua crisi fu la crisi del paese e del sistema politico che era sorto dal Risorgimento.

Il congresso di Livorno

Ormai Giolitti, non riuscendo a concretizzare un’intesa con i riformisti, dopo essersi esposto sul piano sociale come mai in passato, e dopo aver rotto i ponti con l’altro partito di massa, quello popolare, vedeva restringersi le basi politiche della sua maggioranza, nonostante gli obiettivi realizzati in politica estera, in politica finanziaria e sul piano parlamentare.
Un po’ per questa ragione, un po’ perché sentiva accrescersi il disagio socialista, dal quale pensava di poter trarre un vantaggio elettorale, e un po’ per sfruttare appunto il bilancio positivo del suo governo, decise di sciogliere la Camera. Il suo obiettivo era sempre quello di poter giungere ad associare i riformisti nella maggioranza, e di liberarsi dai popolari, con i quali era entrato in rotta di collisione.
I socialisti andavano a congresso il 21 gennaio del 1921. Dopo quello della costituzione del partito, doveva essere questo il più famoso dei loro congressi: vi si consumava infatti, a Livorno, la scissione dell’ala comunista, ormai organizzatasi come un partito nel partito. La corrente comunista chiedeva l’accettazione da parte del PSI delle condizioni poste dalla Terza Internazionale per aderire ad essa e l’espulsione dei riformisti dal partito. I massimalisti erano d’accordo sulla prima questione, ma non sulla seconda, rifiutando di rompere l’unità del partito. I riformisti non erano d’accordo con la proposta di aderire all’Internazionale leninista e rifiutavano di lasciare il partito.
La mozione che prevalse fu quella massimalista con 98.020 voti, mentre ai comunisti andavano 58.783 voti e ai riformisti 14.695. Il risultato fu che i comunisti, non potendo ottenere l’allontanamento dei riformisti, presero l’iniziativa di scindersi e di fondare, riunendosi in un’altra sala di Livorno, il loro partito, il Partito comunista d’Italia.
Il fenomeno del diciannovismo, con tutta la sua coda di massimalismo intransigente e di rivoluzionarismo, costituì, ormai senza alcun dubbio, un fattore deleterio. Su di esso ricade la maggiore, anche se non esclusiva, responsabilità della sconfitta del movimento socialista, e della fine del regime democratico in Italia. Molti altri fattori concorsero a ciò. Nessuno di essi, tuttavia, fu altrettanto decisivo.
Il congresso di Livorno fu l’ultimo atto di quest’opera negativa, il risultato di una marea montante di errori che ebbero un esito catastrofico. Il Partito socialista che, nonostante tutto, era riuscito trionfalmente vincitore dalle elezioni del 1919, subiva una secessione, che al di là dei suoi dati numerici gettava Isorientamento tra i militanti e gli elettori; lo indeboliva di fronte all’azione dei fascisti; apriva la strada per nuove ulteriori divisioni.
Non si condannerà mai abbastanza lo spettacolo di miopia politica, di confusione mentale, di diserzione dinnanzi alle responsabilità dei propri doveri politici e morali da parte di molti dirigenti del socialismo d’allora, in specie delle frazioni comuniste e massimaliste, che si offrì a Livorno.
L’agiografia dei decenni successivi, la storiografia di corte (è Gramsci, con la sua concezione del partito come “moderno principe”, a suggerire questo termine) coltivata nei dintorni delle segreterie di partito, negli istituti e nelle case editrici compiacenti, idealizzeranno i momenti subito successivi a quel congresso, con l’iconografia della nascita del nuovo partito rivoluzionario, il Partito comunista d’Italia.
Nulla può però giustificare il colpo scientificamente inferto al PSI e con esso al movimento dei lavoratori con l’atto secessionistico, le cui conseguenze negative si prolungheranno negli anni, per durare fino ai nostri tempi.
Il più importante strumento di lotta, di organizzazione di cultura dell’Italia moderna e civile, che aveva dato coscienza sociale ed educazione politica alle masse, che aveva conquistato per esse fondamentali diritti di libertà, tra cui il suffragio universale, veniva mandato in frantumi con un atto politico privo di ogni ragione realmente valida. In nome, cioè, di una confusa ideologia statalizzatrice e pseudorivoluzionaria; in nome dell’odio contro i valori della democrazia e della libertà individuale, che erano e saranno sempre valori perenni del socialismo; in nome di una palingenesi sociale che avrebbe dovuto costituirsi azzerando catastroficamente le conquiste rilevanti di un ventennio di lotte del mondo del lavoro.
Un passo avanti, diceva Lenin, due passi indietro. La scissione di Livorno rappresentò non uno o due passi, ma cento, mille, forse più passi indietro.
Come giustificò l’ala comunista l’iniziativa della scissione? Si disse, da parte di chi illustrò la posizione secessionista, che “la creazione del Partito comunista non è che la risoluzione del problema della creazione del partito di classe del proletariato che ha come sua meta la conquista del potere”, mentre a giudizio comunista il PSI si era formato per una lotta che non era quella medesima, cioè la lotta per conquistare il potere.
Gli stessi comunisti erano costretti a porsi la domanda: “Orbene, ci sono le condizioni materiali rivoluzionarie in Italia?”. E, ad essa, rispondevano affermativamente.
“Perché – così sosteneva la frazione comunista – lo Stato borghese è in una impossibilità di funzionamento, perché la società borghese si spezza”. Questa situazione rivoluzionaria, secondo la loro opinione, sarebbe stata determinata dalla guerra che avrebbe “esasperato l’organismo di produzione”, con “le fabbriche allargate e i contadini strappati alla terra”, per cui dopo la guerra il proletariato si è trovato d’improvviso di fronte al problema assoluto e concreto della “presa di possesso del potere”. Nel frattempo “la rivoluzione mondiale ha avuto in Russia la sua prima manifestazione” con un “concetto di universalità della rivoluzione per cui nel 1917 non si è sviluppata la Rivoluzione russa, ma nel 1917 in Russia ha acquistato la sua prima forma concreta la rivoluzione mondiale”. In Italia, addirittura, “la rivoluzione già c’è”, bisogna affrettarsi a creare il partito rivoluzionario che corra a raccogliere i frutti maturi della conquista del potere che stanno per cadere dagli alberi. Il primo atto rivoluzionario era costituito dunque dalla scissione del Partito socialista che chiediamo in questo momento”.(29)
Bordiga va pure più in là, quando nel suo discorso dichiara esplicitamente che oltre al partito bisogna liquidare anche tutti gli strumenti economici e sociali creati dal PSI: il movimento cooperativistico, le organizzazioni sindacali, le istituzioni previdenziali e assistenziali. “Questi che a volte sembrano fortilizi, sono invece proprio le catene, le più sottili, ma le più tenaci, che il proletariato deve spezzare per andare alla conquista del mondo”. A spezzarle, quelle “catene”, ci penseranno altri ed in tempi molto ravvicinati.
Comunque è Bordiga che a nome della frazione comunista pone come condizione pregiudiziale l’adesione alle tesi di Mosca, ed in particolare all’articolo 21, secondo il quale dell’Internazionale comunista non possono far parte partiti socialdemocratici o che hanno nel loro seno gruppi e correnti socialdemocratiche. E per socialdemocrazia Bordiga intendeva non soltanto alcuni settori del partito, ma anche tutte quelle strutture ed organizzazioni degli interessi di classe che si erano autorganizzati nella società civile negli anni dell’esperienza riformista.
Il miraggio della rivoluzione “già in atto”; il delirio distruttivo di ogni positiva esperienza del riformismo; l’obbedienza al diktat di Mosca, furono le tre componenti di questo atteggiamento politico della frazione comunista, che condusse alla scissione e alla crisi generale del movimento dei lavoratori, nel momento più cruciale della sua storia nazionale.
I riformisti non abbandonarono invece il PSI, nel quale rimasero in nettissima minoranza, senza più alcuna reale influenza politica, costretti a subire la linea di una maggioranza “rivoluzionaria” a parole, ma priva di una qualsiasi prospettiva politica.
“A Livorno – ha scritto Nenni – cominciò la tragedia del proletariato italiano” e, con amarezza, ricorda: “Già a Trieste i fascisti avevano attaccato, incendiato, svaligiato le organizzazioni operaie. Da Bologna il 21 novembre si era scatenata l’ondata di assalto in tutta la valle del Po. Ma il congresso aveva altre gatte da pelare. Si parlava solo delle 21 condizioni di Mosca, dell’espulsione di Turati, del cambiamento del nome del partito… Due tesi venivano trattate: unità o scissione, socialisti o comunisti. Si evitò la scissione a destra, ma non si evitò la scissione a sinistra…”.(30)
Si giunse così ad una situazione paradossale: i rivoluzionari socialisti restavano fianco a fianco con i riformisti. C’è da concordare con Nenni quando sottolinea l’errore dei massimalisti “che fecero dell’unità una questione sentimentale, invece di farne una questione politica, che si attaccarono alle porte di Mosca e che, per non sembrare meno rivoluzionari del nuovo Partito comunista, si ostinarono in una intransigenza accanita, anche quando avrebbero dovuto accettare la realtà: e cioè che in Italia la controrivoluzione precedeva la rivoluzione”. L’andamento del congresso di Livorno ha dato occasione agli storici della sinistra italiana per un’approfondita riflessione sul ruolo e la funzione storica del massimalismo. Gli studiosi d’ogni parte e d’ogni scuola convengono nell’esprimere un giudizio negativo. Da Arfé a Galli, da Nenni al Benzoni e a molti altri, si sottolinea concordemente la vacuità della strategia massimalista, seppur ve ne fosse una degna di questo nome.
Tali considerazioni non pongono certamente in questione l’onestà personale, la dedizione alla causa socialista, il coraggio personale, anche fisico degli esponenti e dei militanti in genere di tale tendenza. Molti di essi pagarono a duro prezzo la fedeltà alle loro idee politiche, con l’esilio o con il carcere.
Né pone in questione l’analisi, che pur dev’essere richiamata, delle condizioni obiettive, economiche, sociali e culturali della società italiana, specie di quella meridionale, che sole possono spiegare il sorgere di un sentimento massimalistico, il mito di una intransigenza rivoluzionaria, addirittura onirica, e, con essa, la popolarità dei capi massimalistici nella base del partito e nel suo stesso elettorato.
Su questa popolarità dei massimalisti del “diciannovesimo”, come ebbe a battezzare la loro tendenza Nenni, fa leva, enfatizzandola, uno dei rari storici che è portato dalla sua analisi ad assolvere il massimalismo dal suoi gravi peccati di impostazione ideologica e politica. È il Giobbio, che la contrappone a quella che definisce la “profonda impopolarità della socialdemocrazia” rappresentata da Turati. Per Giobbio il massimalismo rispondeva all’ipotesi di “un partito che accetta di farsi portavoce delle masse per non perdere il contatto con esse pur sapendo di non essere in grado – perché disarmato, perché privo di organizzazione paramilitare che non si improvvisa… – di guidarle fino al termine logico delle loro rivendicazioni”.31
Queste riflessioni, pur se non prive di una base di verità, si fondano su un assioma non dimostrato: quello della impopolarità nel paese della linea riformista. In realtà si scambia la minoranza dei consensi che nell’organizzazione del PSI e nei suoi congressi andava a Turati e ai suoi, di contro alla maggioranza che andava ai massimalisti e ai comunisti, prima della scissione. Il rapporto però si rovescia, quando dall’organizzazione territoriale del partito si va a considerare la presenza della tendenza riformistica nelle organizzazioni sociali ed economiche del movimento: qui, nei sindacati, nelle cooperative, in tutte le altre strutture la presenza riformista è saldamente maggioritaria. Nel movimento “reale”, dove i lavoratori dell’industria e dell’agricoltura vengono direttamente organizzati, il riformismo, cioè la socialdemocrazia, come la definisce Giobbio, non è affatto impopolare. Lo è, in quegli anni cruciali, nel partito. E però bisogna tener presente che il PSI, nella fase di massima espansione, ha raggiunto meno di 200.000 iscritti; mentre la Confederazione generale del lavoro era salita a circa 4 milioni di aderenti. Certo, non tutti erano socialisti, ma i due terzi, almeno, lo erano, e di questi la più larga maggioranza seguiva le indicazioni dei riformisti. Va inoltre considerato (come vedremo in altra parte di questo volume) che mentre le organizzazioni sociali – sindacati in testa – erano associazioni di lavoratori dipendenti, occupati e no, l’organizzazione del partito accoglieva di tutto. Forse Turati aveva esagerato, quando già nel 1912 aveva parlato di “teppisti”, ma, sicuramente, specie nel dopoguerra erano entrati nel partito, in cerca sovente di avventura, molti piccoli borghesi frustrati, ambiziosi e spregiudicati, che cercavano una personale legittimazione o anche di far carriera politica assumendo posizioni barricadiere e ostentando una psicologia e, soprattutto, una fraseologia rivoluzionaria.
Probabilmente, l’errore dei riformisti fu quello di non far valere la forza di questo retroterra sociale, ponendo il partito di fronte ad una precisa alternativa: furono nel partito, forse, eccessivamente legalitari, cioè fin troppo rispettosi di quelle decisioni congressuali alle quali erano costretti a soccombere, nella marea di demagogia e di impotente rivoluzionarismo che li travolgeva, cancellando ogni razionalità politica. Della forza di questo retroterra sociale tendenzialmente riformista, si preoccuparono, con maggiore concretezza degli stessi massimalisti, i comunisti, particolarmente dopo la scissione di Livorno.
Se l’uscita dal PSI ottenne un qualche successo di adesioni (non si dimentichi che la frazione comunista s’era andata organizzando nel partito con una forte disciplina e con un embrione di apparato da cui dovrà scaturire l’ossatura dell’apparato comunista del futuro) essa aveva avuto scarso seguito nelle organizzazioni economiche dei lavoratori, a cominciare da quella sindacale.
In questo senso va interpretata l’iniziativa con cui essi s’inserirono nell’episodio che riguardò il mondo dei lavoratori, e che fu costituito dal tentativo di giungere alla formazione della Alleanza del lavoro, dopo il febbraio del 1922.

Le ultime resistenze

Nonostante la crisi che travaglia il Partito socialista, e la scissione dei comunisti, nelle elezioni del maggio successivo si registra ancora un forte consenso popolare intorno al PSI: vengono eletti 122 deputati, mentre il P.C. d’I. ne ottiene 16.
Dopo la firma del “patto di pacificazione” tra i socialisti e Mussolini, rapidamente caduto nel nulla, la situazione politica precipita verso la crisi del regime democratico, mentre i fascisti si preparano alla conquista del potere.
In un momento simile, il PSI continua a dilaniarsi, pur dopo la scissione comunista, sul problema dell’adesione alla Terza Internazionale. Prima di qualsiasi strategia politica, la direzione massimalistica continua estenuanti e inutili trattative con Mosca per ottenere il riconoscimento di partito e membro dell’Internazionale, pur persistendo nel rifiutare l’espulsione dei riformisti.
Al XVIII congresso (Milano, 10-15 ottobre 1921), confermando la loro posizione, i massimalisti presentano una mozione firmata da Serrati e Baratono, che riporta 47.628 voti; quella di Turati e Baldesi, 19.916; una mozione centrista di Alessandri, 8080; la mozione di Lazzari e Maffi, nella quale venivano accolte le richieste della Terza Internazionale, raccoglie appena 3765 voti.
Di fronte alle decisioni del congresso di Milano, Mosca decide di riconoscere come membro dell’Internazionale per l’Italia solo il Partito comunista.
Nella situazione che si fa sempre più grave, nella quale viene minacciata la democrazia e con essa le libertà conquistate dai lavoratori in decenni di lotte, l’incapacità del PSI (ma anche dei cattolici e dei liberali) di avere una strategia democratica, in grado di contrastare l’ascesa dei fascisti, e di assumersi le responsabilità, anche di governo, che ne conseguivano, favorisce il gioco delle forze eversive che ormai puntano con decisione ad impadronirsi dello Stato.
In pieno 1922 serve a ben poco anche la costituzione dell’Alleanza del lavoro che unisce le varie centrali sindacali; e così a ben poco aiuta lo sciopero legalitario promosso dai riformisti. Questi avvertono sempre di più il pericolo della trappola in cui s’è posto il movimento dei lavoratori Italiani. La separazione, ormai matura e necessaria, avviene al XIX congresso, svoltosi a Roma, dall’1 al 4 ottobre del 1922.
I massimalisti, sotto la pressione dell’Internazionale, decidono di proporre l’espulsione dei riformisti. Essi prevalgono, sia pure di poco: la mozione massimalistica ottiene infatti 32.100 voti, contro 29.119 voti andati alla mozione unitaria presentata dai riformisti. Questi, usciti dal partito, danno vita a una nuova formazione politica, il Partito socialista unitario (PSU), dove accanto ai vecchi capi, come Turati, assumono una posizione di rilievo giovani dirigenti, combattivi e coraggiosi come Giacomo Matteotti. I riformisti, che hanno ripreso così la loro libertà d’azione, non riescono a sviluppare la loro iniziativa di azione di difesa democratica: ormai è troppo tardi, gli eventi precipitano. Poche settimane dopo, la “marcia su Roma” porta Mussolini al potere.
Nel congresso di Milano, portavoce della maggioranza e Baratono: nel suo discorso ha preminenza il problema della difesa “fisica” delle organizzazioni operaie e del partito contro l’ondata violenta del fascismo. Dal canto suo Treves, per i riformisti, afferma che “il partito non può negarsi a priori la partecipazione al potere soprattutto nel momento in cui abbandonava il sogno di una rivoluzione integrale”; ma non si pone, secondo Turati, il problema della partecipazione al governo, che egli continua a giudicare inattuale, “praticamente inesistente”, aggiunge Modigliani.
Il congresso, a giudizio di Nenni, “condannava il partito all’inazione, perché ripudiava contemporaneamente l’azione di piazza e l’azione parlamentare, la violenza e la legalità”.32 Se ne accorgeva, da vecchia volpe, Mussolini, che commentando le conclusioni dell’assise socialista, osservava: “I governi non potranno contare che sull’astensione socialista, mai sul loro voto favorevole. Ne consegue una valorizzazione numerica e morale della destra nazionale, dunque dei fascisti che ne sono la maggioranza”. 33
Si apriva così, praticamente, la strada alla conquista del potere per il fascismo, in quelle forme legali che esso aveva dimostrato di disprezzare con l’esercizio della violenza, ma capace di servirsene al momento opportuno, per realizzare il suo disegno. Da quel momento la tattica dei fascisti mutò. Mussolini puntò ad inserirsi nel gioco parlamentare fiutando la possibilità di ascendere alla guida del governo. I fascisti votarono a favore del governo Facta. Cosicché, mentre i socialisti rifiutavano di percorrere fino in fondo la via legalitaria e di farsi trascinare sul terreno della violenza rivoluzionaria, i fascisti, all’opposto, facevano l’uno e l’altro. Agivano con la violenza sulla piazza, e agivano in Parlamento come partito di maggioranza. Ciò non impedì loro di votare contro il governo Facta, insieme con le opposizioni, determinandone la caduta.
Nella crisi che seguì, i vari tentativi degli Orlando, De Nicola, Bonomi, Meda ecc… non sortirono effetto alcuno. (Nitti non ebbe l’incarico, perché contro di lui c’era il veto fascista; Giolitti l’attese vanamente.)
C’è da dire che, in questo momento, i riformisti sciolgono il dilemma che da lungo tempo li assillava, e decidono di seguire la via legalitaria, reclamando lo scioglimento della Camera e la convocazione degli elettori sulla base di un sistema elettorale modificato: cioè il ritorno al sistema uninominale che veniva richiesto per ragioni che rimangono, ancor oggi, imperscrutabili. Ma essi fanno ulteriori passi innanzi.
Il 21 luglio 1922 il gruppo parlamentare, a maggioranza, votava un ordine del giorno di Modigliani che dichiarava la disponibilità socialista a partecipare a un governo che fosse in grado di “assicurare il rispetto della volontà dell’Assemblea nazionale per la libertà e il diritto di organizzazione”.
Turati salì le scale del Quirinale, nel corso delle consultazioni. In realtà l’ala progressista della borghesia non offrì ai socialisti la possibilità di concretizzare questa loro scelta. Nessuno degli uomini politici interpellati, da De Nicola a Orlando, se la sentì di assumere un’iniziativa di questa natura: tutto quello che si offrì alla dichiarata disponibilità dei parlamentari socialisti fu un secondo gabinetto di quel Facta contro il quale essi avevano già assunto un atteggiamento di opposizione; e al quale, quindi, era difficile, se non del tutto impossibile, concedere fiducia.
A rendere inestricabile la situazione intervenne anche lo sciopero generale dell’agosto proclamato dall’Alleanza del lavoro. Era, come lo definì Turati, “uno sciopero legalitario”, destinato ad esercitare una pressione a favore di un’apertura a sinistra in Parlamento. Ma esso finì per ridare fuoco agli scontri tra scioperanti da un lato e forze dell’ordine dall’altro, a cui si aggiungevano i fascisti, che rinfocolavano tutta la loro aggressiva violenza.
Cosicché l’iniziativa parlamentare di Turati e dei suoi non trovò nessuna delle condizioni necessarie ad essere concretizzata. Anche se tardiva, era giusta. Ma sfumò nel nulla. E le conseguenze di tutto ciò non mancarono di manifestarsi ben presto con l’ascesa di Mussolini al governo e la “marcia su Roma”.
È l’ultimo tentativo possibile per la salvezza del partito, del movimento dei lavoratori, delle libertà democratiche. Gli episodi che si susseguono da allora in poi appartengono, più che al movimento socialista e alla vita del partito, alla storia generale dell’Italia. Quelli che più strettamente riguardano il PSI, non sono altro che 9 residuale di un contenzioso interno al partito, che si era aperto da molto tempo, e che per lungo tempo ancora non troverà alcuna effettiva soluzione: è il contenzioso tra riformisti e massimalisti, tra gradualisti e rivoluzionari, tra due anime del socialismo che hanno un solo vero punto di contatto nell’appartenenza storica allo stesso movimento, e nella comune, indiscutibile dedizione agli interessi del mondo del lavoro.
Avveratasi la separazione dei socialisti riformisti, il PSI massimalista ottiene l’accettazione nell’Internazionale comunista, sia pure contro il parere del Partito comunista d’Italia.
L’Internazionale, tuttavia, delibera la fusione tra i due partiti. Pur essendo i massimalisti favorevoli all’adesione all’Internazionale leninista, non tutti risultano d’accordo sulla fusione con il P.C. d’I. Pietro Nenni, che dopo la sua milizia repubblicana ed interventista ha scelto di entrare nel PSI, scrive sull'”Avanti!”, di cui e redattore capo, un articolo in cui protesta contro quella che egli definisce una “liquidazione sottocosto” voluta dalla direzione che ha ratificato l’accettazione dei 14 punti di Mosca. Egli assume la guida di un “Comitato di difesa socialista” che, rafforzato dalla reazione del partito al settarismo dei comunisti che chiedono al PSI una resa senza condizioni, riporta la maggioranza al XX congresso di Milano (15-17 aprile 1923) con 5361 voti contro i 3968 voti dei massimalisti che prendono il nome di “terzini” (per significare la loro fedeltà ai deliberati della Terza Internazionale) e che si organizzano in frazione, pubblicando il giornale “Pagine Rosse”.
Mussolini intanto fa uscire dal governo i cattolici, iniziando la persecuzione di don Sturzo, presto abbandonato anche dalle autorità ecclesiastiche, che sono attratte dalla prospettiva dell’accordo concordatario che si realizzerà alcuni anni dopo. Egli riesce a far passare (con l’astensione dei deputati del Partito popolate) la nuova legge elettorale; la “legge Acerbo”, che attribuisce i due terzi dei deputati alla lista che ottiene più voti.
Alle elezioni del 6 aprite 1924, il “listone” costituito dai fascisti con i nazionalisti, i liberali e gli indipendenti, ottiene il 64%. Fallito un tentativo nenniano di realizzare una lista unica con i comunisti e i riformisti, il PSI elegge 22 deputati, il PSU 24, il P.C. d’I. (nelle cui liste si presentano i “terzini”, che vengono espulsi dal Partito socialista) 19. Sono 39 i seggi che vanno ai cattolici.
Di fronte alla tragedia della crisi dello Stato democratico liberale uscito dal Risorgimento, della fondazione dello Stato fascista, del compromesso tra fascismo e monarchia appaiono certamente irrilevanti quegli episodi di vita del PSI, di nuove polemiche e di nuove scissioni che si susseguono fino al momento in cui la dittatura di Mussolini mette tutti d’accordo nel seguire la via dell’esilio o della rinuncia, quando non si aprono le porte del carcere.
Alla riapertura della Camera, il 4 giugno 1924, Giacomo Matteotti, segretario del PSU, documenta brogli e violenze avvenuti nel corso della consultazione elettorale: il 10 giugno viene rapito ed ucciso. Le opposizioni per protesta abbandonano il Parlamento: nasce l’Aventino, nella speranza di un intervento della monarchia per ristabilire la legalità costituzionale sancita dallo Statuto, speranza ben presto delusa. Mussolini, superata la crisi che lo aveva isolato, opera la svolta totalitaria, con la censura sulla stampa, e dopo il discorso del 3 gennaio del 1925 fa sciogliere oltre 100 associazioni profittando delle divisioni e delle incertezze delle opposizioni.
Il fallito attentato dell’ex deputato socialista Zaniboni, gli offre il destro per far sciogliere il PSU.
Nenni si fa promotore di una fusione tra il PSI e i socialisti del disciolto PSU, e dell’adesione all’Internazionale socialista, ricostituitasi nel 1923. Non riesce nel suo intento, ma inizia così la sua azione politica per ricostruire l’unità tra i socialisti.
L’anno successivo, il 1926, le leggi eccezionali sciolgono i sindacati non fascisti e aboliscono i partiti, ad eccezione del PNF. I 120 deputati dell’Aventino vengono dichiarati decaduti, ed in buona parte arrestati.
Sciolto il Partito socialista, molti suoi dirigenti e molti riformisti sono costretti a prendere la via dell’esilio. In Francia, nel paese che ha dato ospitalità a Turati, a Treves, a Modigliani, a Buozzi, segretario del sindacato dei metalmeccanici, a Nenni, ai fratelli Rosselli, il PSI e i riformisti ricompongono le loro fila e, nel 1927, danno vita alla Concentrazione antifascista, insieme alle altre formazioni democratiche. Ad essa aderirà il movimento di Giustizia e Libertà, fondato dai Rosselli ispirandosi al revisionismo del liberalsocialismo da essi propugnato. Si ricostituisce anche la Confederazione generale del lavoro, alla cui guida c’è Bruno Buozzi.

Capitolo 3

RIFORMISMO E REVISIONISMO

Turati

Nella storia dei primi decenni di vita del PSI, la figura, il pensiero, l’opera di Filippo Turati furono, senza alcun dubbio, dominanti. Dalla fondazione della “Critica Sociale” all’accorta ed abile guida delle battaglie parlamentari, alla leadership indiscussa di capo dell’ala riformista, alla gestione dei difficili ma fecondi rapporti con Giolitti, Turati risulta sempre protagonista di ogni battaglia socialista, sia di quelle da cui esce vincitore, sia di quelle in cui risulta soccombente.
Il riformismo di Turati si sviluppò sulla base di una interpretazione gradualistica ed evoluzionistica del marxismo, o di quello che egli riteneva tale. Si distinse, anche nei momenti di più intenso scontro con le altre tendenze del partito, dal revisionismo teorico e da quello politico non solo di Bissolati e di Bonomi, ma anche da quello del Michels. Se sul piano politico la linea di Turati può essere definita di “sinistra riformista”, insieme con quella di Modigliani e Treves, differenziandosi da quella della “destra riformista” di Bissolati, Bonomi e Cabrini, sul piano teorico il suo riformismo “è ben dentro il solco marxista”, come ebbe a qualificarlo uno dei suoi discepoli, Giuseppe Faravelli, il quale ricorda appunto come la “Critica Sociale”, fondata e diretta da Turati, fu il centro dal quale s’irradiò il marxismo. Il socialismo scientifico di stampo marxista fu l'”arma ideologica” del nascente partito. Da allora, fino ai suoi ultimi anni, Turati ne sostenne, ne divulgò, ne difese i principi basilari – dalla lotta di classe all’obiettivo della socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio – impegnando anche dure polemiche con le tesi revisionistiche elaborate da Bonomi, da Michels e anche da Graziadei.(1)
La “Critica Sociale” curò inoltre la traduzione e la pubblicazione di numerosi scritti di Marx, di Engels e di altri teorici loro seguaci, e in particolare quella del “Manifesto dei comunisti”, per il quale lo stesso Engels – che, con Turati, intrattenne una lunga e copiosa corrispondenza – scrisse la prefazione.
Al di là di questi fatti, del resto non contestabili, v’e da dire che il “marxismo” di Mirati (e con lui della Kuliscioff, dal contributo della quale la sua elaborazione teorica e la sua azione politica sono inseparabili) ebbe connotazioni del tutto particolari, che condussero a ripetute contestazioni sul suo carattere realmente “marxista” da parte dei dottrinari ortodossi, o che si ritenevano tali, già nella sua epoca. Gli fu imputato di aver avuto una formazione filosofica positivistica ed anche una derivazione lombrosiana, che gli avrebbero impedito di comprendere in modo esatto e approfondito le premesse filosofiche del marxismo e, in particolare, il suo spirito dialettico.
In realtà Turati non era un filosofo (anche se aveva una indubbia cultura filosofica), né, quel che più importa, un dogmatico. Non fu, certamente, un ortodosso, anche se restò fedele, o presunse di restarlo, ai canoni fondamentali della dottrina di Marx. La sua interpretazione ideologica si discostava dal revisionismo di Bernstein, contro il quale egli si schierò al fianco di Kautsky. Si mosse, su questo terreno, nella stessa direzione in cui si muoveva il leader socialista francese Jaurès “nel senso che riconobbe la giustezza di certe esigenze poste dal revisionista tedesco, pur negando che il marxismo mancasse della capacità di soddisfarle, onde occorresse deviare dalla sua linea maestra”.(2)
Soprattutto Turati, da acuto politico, si preoccupò di adattare e integrare la dottrina marxista alla luce dei cambiamenti avvenuti nella compagine sociale e delle nuove esperienze proletarie, tenendo presenti – ben più di quanto non si sia a volte ritenuto – le specifiche condizioni Italiane, m specie per quel che riguardava una vasta presenza delle masse rurali e l’arretratezza delle regioni meridionali.
Si preoccupò soprattutto di conservare ed ampliare quelle condizioni di vita democratica che il Risorgimento aveva consegnato alle nuove generazioni, e che egli era convinto costituissero uno scenario favorevole allo sviluppo delle lotte sociali e politiche dei lavoratori. Il suo riformismo socialista consisteva nel concepire le riforme come progressiva attuazione del fine socialista, “non come elargizioni, ma conquiste, come funzione della coscienza proletaria e, ad un tempo, come arricchimento di essa in una sfera di sempre più ampia libertà”.(3 )Il fine del socialismo coincideva, per lui, figlio della sua epoca, nella attuazione di una società socialista, contrassegnata da un’economia socializzata. Coincideva, peraltro, con la realizzazione di un “universo democratico”, nella più ampia forma di democrazia possibile a concepirsi: la fede democratica di Turati, la sua incrollabile negazione della violenza come negatrice della storia, la religione della libertà coincidevano, non contraddicevano la finalità ultima del socialismo. Erano assenti, né poteva essere altrimenti, dalla sua cultura il sospetto delle minacce alla libertà con l’attuazione della società organizzata secondo i moduli dell’economia marxista.
Quando nel 1919 si avvertiranno le prime avvisaglie di queste esperienze, Turati metterà in guardia i socialisti Italiani contro i facili miti della violenza e del socialismo costruito dall’alto. Uno dei più recenti studiosi della personalità di Turati, l’americano Spencer Di Scala, ha ricordato, nel suo volume Dilemmas of Italian Socialism: the Politics of Filippo Turati, come Turati, pur nella sua professione marxista, avesse fin dalla fine del secolo scorso abbandonato la teoria della dittatura del proletariato “in quanto generatrice di un concetto oligarchico all’interno del socialismo”.(4)
La preoccupazione maggiore di Turati, quella che costituì il nucleo essenziale del suo discorso e della sua azione politica, fu quella derivante dai problemi della tattica. Dagli avvenimenti drammatici della fine del secolo XIX – i cui effetti repressivi si abbatteranno anche su di lui e su Anna Kuliscioff, oltre che su tanti compagni di partito – egli trasse l’assoluta convinzione che bisognasse abbandonare la tattica ribellistica e rivoluzionaria, e sostituirla con una tattica riformistica e gradualistica, ricercando quelle alleanze sociali, culturali e politiche che avrebbero permesso al movimento socialista di esprimere tutta la sua potenzialità rinnovatrice. Fedele all’indicazione che già nel 1891 aveva dato la Lega socialista milanese, secondo la quale “il socialismo non si fa con decreti dall’alto e con rivolte dal basso”, egli agì con grande coerenza su questa linea.
Era convinto che, alla stessa stregua con cui il liberalismo aveva superato la società feudale, il socialismo, operando nel quadro della società liberale, non cancellandola, avrebbe finito per sopravanzare e sostituire il liberalismo. Aprì, pertanto, la “Critica Sociale” alla collaborazione di tutti gli intellettuali progressisti, fra i quali l’Einaudi; sostenne con vigore quelle misure liberalizzatrici ed antiprotezionisfiche dell’economia che favorivano l’industrializzazione del paese; appoggiò, con la tattica del “caso per caso”, tutti quei provvedimenti legislativi diretti a migliorare le condizioni di vita degli operai, dei contadini, delle donne e dei giovani, e a rafforzare le strutture del movimento proletario. Puntò ad ampliare gli spazi della vita politica, affinché con un più esteso suffragio, la rappresentanza delle classi più deboli potesse avere una maggiore voce nelle istituzioni.
Le battaglie pi’ dure per affermare questa linea politica dovette, tuttavia, sostenerle all’interno del suo stesso partito, riuscendo a vincerne una serie notevole, uscendo sconfitto da molte altre.
Il riformismo turatiano non fu mai riducibile a quel “ministerialismo” di cui veniva accusato dagli intransigenti. Fu lucida determinazione politica, nascente da una capacita di analisi, che pochi altri riscontri avrebbe avuto nella storia del socialismo italiano. Per rendersene conto basterà rileggere quello scritto di Turati, apparso sulla “Critica Sociale” del 16 luglio 1901, con il titolo R. Partito socialista e l’attuale momento politico. Turati ribadiva, in questo scritto, che il riformismo non significava affatto rinuncia ai fini ultimi del socialismo, ma costruzione di una società nuova secondo una concezione evolutiva e gradualista. La trasformazione della società non poteva avvenire – secondo turati – per decreti dall’alto o rivolte dal basso. Essa doveva essere il risultato di un lavoro di lunga lena, senza ricorrere alla violenza né a “ricette preordinate”, regolandosi a seconda delle “mutabili contingenze di fatto”.
L’azione riformatrice del partito doveva esplicarsi in un duplice modo: con l’attività delle organizzazioni economiche del proletariato, e con l’azione parlamentare e legislativa, che non dovevano essere tra loro disgiunte, così da determinare una “crescente pressione degli interessi proletari sulla politica generale dello Stato”.
Tre erano state le fasi, fino ad allora, della storia del socialismo italiano: nella prima, conclusasi con il congresso di Genova e quello di Reggio Emilia, l’impegno era stato rivolto all’affermazione dell’identità socialista, con la distinzione da altri movimenti e la costituzione del PSI; la seconda, era stata incentrata sulla necessità della difesa dell’esistenza del partito contro la repressione: in questa fase era emerso tutto il valore che le istituzioni liberali avevano per l’esistenza del partito e il suo sviluppo, che era condizionato dalla realizzazione di una piena democrazia; la terza fase, quella che s’apriva con il 1900, era quella “del. consolidamento e del rispetto della legge”, prelusivo alla fase conclusiva, quella della “conquista”. Quindi, in questo terzo periodo, la questione essenziale era quella delle alleanze con quei settori della borghesia né reazionari né forcaioli, cioè con i partiti democratici e la sinistra costituzionale.
Si trattava tuttavia, come Turati precisò in ogni occasione in cui si rese necessario, di un’alleanza di fatto, non organica “caso per caso”. Un’alleanza rivolta a rafforzare la funzione e l’influenza politica del PSI, non a stemperarne l’identità, integrandolo in forma subalterna in un blocco sociale indistinto. come si voleva far credere, da parte degli avversari interni ed esterni del riformismo, con una nuova operazione trasformistica. Di tutto si può accusare Turati, non certamente di questo.
Anzi, per coerenza a questa impostazione, giunse alla rottura con il settore del partito che era il suo più naturale alleato, l’ala riformista di Bonomi, Bissolati e Cabrini. Al congresso di Imola del 1902 la formula che venne adottata non lascia dubbi sul proposito turatiano: “Riformista perché rivoluzionario, rivoluzionario perché riformista”. Una formula che nella sua apparente ambiguità verbale recava il segno della consapevolezza che la politica delle riforme e delle alleanze era vantaggiosa al partito, non rischiava di assoggettarlo al disegno giolittiano con il quale emergevano positive coincidenze, ma nessuna possibilé tendenza alla subalternità da parte del riformismo turatiano. Interpretazioni diverse non hanno retto, su questo punto, ad una serena verifica critica e storica. Turati se peccò, peccò di intransigenza rispetto a sollecitazioni – queste sì -ministerialistiche; e, come s’è ricordato, non esitò a rompere la collaborazione politica con Bissolati e Bonomi, per non accettare posizioni teoricamente più collaborative con i governi giolittiani.
Il più settario ed ingiusto dei giudizi critici su Turati fu senza alcun dubbio quello vergato di suo pugno da Togliatti, in occasione della sua morte, in un articolo apparso su “Stato Operaio” nell’aprile 1932. Scriveva Togliatti, sulla rivista del Partito comunista in esilio: “Turati fu tra i più disonesti dei capi riformisti, perché fu tra i più corrotti dal parlamentarismo e dall’opportunismo. La sua attività fu veicolo continuo di corruzione parlamentare nelle fila del movimento operaio. Tutte le armi del parlamentarismo e dell’opportunismo vennero da lui adoperate per rimanere di fatto a capo del Partito socialista e del movimento operaio italiano anche quando la massa, non solo degli iscritti, ma anche dei lavoratori senza partito, era contro di lui e spingeva il partito in un’altra direzione”.
questo scritto velenoso di Togliatti – da cui traspare tutta l’irritazione per il prestigio e la forza morale e politica di Turati – inaugurò “la moda di accettare acriticamente l’affermazione di Gramsci sull’esistenza di un patto tra Turati e Giolitti, che aveva permesso a quest’ultimo di restare al potere e mettere fuori gioco la classe operaia. Dopo la pubblicazione del libro di Williani A. Salomone su Giolitti, che diede il via alla riabilitazione dello statista piemontese, Togliatti non esitò tuttavia ad unirsi opportunisticamente al coro. Ecco quindi che dal suo Discorso su Giolitti si apprende che la politica dell’uomo di Stato aveva consentito effettivamente alla classe operaia di crescere per quanto era possibile, considerati i tempi. Quanto all'”intesa” che aveva permesso al Giolitti rivisitato quella politica non una parola”.(5)
Ci sembra che cogliesse l’essenza del pensiero e della politica turatiana, il filosofo Rodolfo Mondolfo, che di Turati fu collaboratore e che al Turati successe nella- direzione della “Critica Sociale”, in una pagina della sua introduzione alla raccolta di scritti del fondatore del PSI, laddove egli scriveva: “Il riformismo turatiano è in realtà programma di un effettivo e concreto processo rivoluzionario di trasformazione storica radicale. C’è qui appunto l’idea essenziale di una trasformazione sociale che dev’essere opera diuturna e progressiva creazione di istituti nuovi e creazione di coscienze, cioè trasformazione oggettiva (di cose), e soggettiva (di spiriti ad un tempo), che si compie nell’azione e per l’azione economica e politica. Contro ogni catastrofismo e messianismo c’è qui l’idea di una rivoluzione che è trasformazione creativa che va sostituendo alle strutture esistenti nuove strutture, coordinate in un piano progressivo, che traducono via via in atto l’ideale, in modo che ogni conquista raggiunta sia preparazione e passaggio ad ogni conquista ulteriore: conquiste reali e positive, che si operano nelle cose e nelle coscienze insieme e perciò sono salde e durevoli. Sono le riforme concepite come graduale attuazione di un rinnovamento totale”.(6) Questo riformismo rivoluzionario di Turati dava forza alla sua azione politica, scuoteva la polemica degli intransigenti e degli estremisti. Esso rappresentava una sintesi felice delle esigenze complessive del movimento socialista, e conferiva dinamismo e concretezza ad un’azione sociale e politica quotidiana, finalizzandola a un’idea forza capace di attirare le masse e di mobilitarle. Non isolava il partito, mantenendone intatta l’identità, soddisfacendone l’istinto di crescita e di aggressività. Era la sintesi teorico-politica più adeguata alla sua epoca. Quando lo scenario politico mutò, quando il giolittismo entrò in crisi e Giolitti stesso si trovò ad andare alla ricerca di nuovi equilibri sociali e politici, con la guerra di Libia e l’ingresso dei cattolici nella vita politica effettiva, la sintesi turatiana si logorò, e non fu più l’espressione dinamica della politica di movimento che aveva ispirato e guidato negli anni precedenti.
Si logorò sul piano teorico, perché la sua coerenza ai canoni basilari del marxismo la rese inadeguata alle esigenze sociali nuove che affioravano irresistibilmente e che trovavano una rappresentazione nelle elaborazioni revisionistiche di Bonomi, di Bissolati, di Michels, di Francesco Saverio Merlino. Né la lezione riformista aveva maggior forza nei confronti di quei settori culturali e politici del movimento socialista che sentivano sempre di più l’attrazione delle culture elitistiche, volontaristiche, irrazionalistiche che. si diffondevano nella società italiana e penetravano anche nell’area culturale del Partito socialista.
Si logorò e finì per esaurirsi sul piano politico e parlamentare, quando venne meno l’interlocutore giolittiano e una possibile politica di alleanza avrebbe dovuto passare attraverso rinunce a posizioni ormai tradizionali e consolidate, ed una dura accettazione di condizioni che, se accolte, potevano condurre a quella separazione dalla realtà delle masse popolari cui andò incontro l’ala riformista espulsa dal partito.

L’italomarxismo di Antonio Labriola

Antagonista di Turati, sul piano teorico, meno su quello politico, non essendo stato per suo carattere e per la sua professione un militante della politica, fu il filosofo Antonio Labriola. La contrapposizione durò poco più di un decennio per la morte di Labriola nel 1904.
Labriola è stato considerato per lungo tempo il caposcuola di quello che si potrebbe definire l'”italomarxismo”, una scuola di pensiero che, da lui a Gramsci, ha innervato l’ideologia marxista nella particolare situazione di sviluppo
cultura nazionale e, in specie, della ricerca filosofica.
Filosofo di professione, infatti, Labriola scoprì Marx abbastanza tardi quando era già avanzato nell’età: nel 1890, dopo essere stato un hegeliano ed un herbertiano. Avendo studiato in modo approfondito la dottrina di Marx, si dette a divulgarla dalla cattedra dell’università di Roma e in conferenze sulla “genesi del socialismo moderno”, sulla “storia generale del socialismo” e sulla “interpretazione materialistica della storia”.
La compiuta elaborazione del suo pensiero, interpretazione creativa, non scolastica, della teoria di Marx, è affidata ad opere che divennero famose come In memoria del Manifesto dei comunisti, Del materialismo storico e Discorrendo di socialismo e di filosofia, oltre che negli Scritti vari, raccolti e pubblicati da Benedetto Croce.
Labriola è stato definito contraddittoriamente da alcuni come un “marxista puro”, addirittura più “marxista di Marx”; da altri un “revisionista”. In realtà lo stesso Labriola volle rispondere ai suoi critici del tempo, precisando che “avendo accettato la dottrina del materialismo storico, io l’ho esposta tenendo conto delle condizioni attuali della scienza e della politica e nella forma che conviene al mio carattere”. Un carattere, va detto per inciso, che non fu facile e che lo condusse a polemiche e a giudizi particolarmente aspri e a volte ingiusti nei confronti di molti esponenti del socialismo italiano dei suoi tempi. Specie nel fitto carteggio che egli intrattenne con Engels, rivolse strali pungenti, a volte col disprezzo elitario cui si sentiva autorizzato dalla sua dottrina e dalla sua acuta intelligenza, contro gli esponenti del nascente Partito socialista, primo tra i quali il Turati. Queste polemiche possono essere considerate la parte più caduca della sua opera. Ben altro peso e rilievo conservano invece i saggi suddetti, nei quali “si preoccupò in sostanza di dare un assetto organico al materialismo storico rifacendone la genesi, svolgendololo alla luce di nuove esperienze e depurandolo dalle contaminazioni operate dai seguaci incauti e dai ciarlatani della scienza”.
In questo sforzo esegetico e interpretativo Labriola si mantenne (e tale volle essere) perfettamente ortodosso alla dottrina marxista. E sicuramente, in base a ciò, può considerarsi come l’artefice di quella scuola di “italomarxismo” che tanti epigoni doveva avere in quei tanti “italomarxisti” che egli, almeno per la sua dottrina, la sua intelligenza, e la sua onestà, non meritava di avere. Labriola rimase fino alla sua morte (1903) fuori del Partito socialista, alla cui costituzione si era rifiutato di partecipare, ritenendola immatura alla luce della sua analisi (astratta) delle condizioni storiche della società italiana. Questo suo atteggiamento fece discutere, e fa ancora oggi discutere, seppure ormai in sede storiografica.
Un altro atteggiamento che suscitò infinite polemiche fu quello da lui assunto, in dissonanza con tutta la cultura socialista del tempo, sulle vicende coloniali Italiane di quegli anni. Quest’atteggiamento derivò anch’esso dalla sua analisi storica e socio-economica dell’Italia secondo la quale l’espansione coloniale era indispensabile allo sviluppo del capitalismo italiano e, di conseguenza, del movimento operaio. Probabilmente gli acri giudizi di Labriola su uomini e cose del socialismo di allora furono eccessivi o addirittura errati, come nel caso di Turati o di altri leader socialisti. Certamente ingiusta e non rispondente al vero è la descrizione da lui fatta in una lettera ad Engels della composizione del Partito socialista di allora come un assemblaggio “di studenti fuori corso, di artigiani autodidatti, di viaggiatori di commercio, di giocatori di carte e di biliardo, di avvocati senza clienti”.
In realtà la concezione che del partito ebbe Labriola risentiva della sua impostazione totalizzante della classe e del partito come “altro da sé” della società capitalistica da trasformare mediante la rivoluzione. Non è escluso che in questa concezione si riversassero anche i risultati delle sue ricerche storiche sui movimenti ereticali del Medioevo.
Labriola sapeva anche distinguere tra il movimento reale di classe che era combattivo e prorompente in quella fase storica e le deformazioni e deviazioni presenti nelle strutture di partito che non alteravano però la sostanziale vitalità dell’esperienza politica socialista. Di fronte alla nascita del PSI, Labriola ricavò “una sorta di pessimismo della volontà che lo portava a considerare la sua lotta teorica, i suoi studi di allora sul Manifesto (connessi al suo stesso insegnamento) in alternativa alla lotta politica attiva…”. In quelle circostanze, in cui erano operanti “i fabbricanti di cooperative pagati dai prefetti, tutti i negoziatori di voti socialisti, e tutti i filantropi affamati” il socialismo italiano non gli pareva “il principio di una vita, ma la manifestazione estrema della corruzione politica e intellettuale del paese. Egli continuava, nonostante tutto, a fare il fiancheggiatore attivo del movimento socialista, come appare da una sua lettera del 24 luglio 1892, ma era condizionato da una visione che accentuava i dati dell’arretratezza sociale e della stessa crisi morale post-risorgimentale”.(7)
La sua idea era quella di creare un partito operaio e marxista, piccolo e omogeneo, nettamente distinto dagli anarchici come dai radicali. In fondo il PSI rispondeva a tali requisiti, ma per Labriola era prevalente il suo dissidio con Turati.

Antonio Graziadei

Graziadei occupò un posto a se stante nel dibattito teorico e nell’azione politica socialista. La critica al giolittismo fu una costante della sua azione di parlamentare socialista dal 1910 (quando subentrò nel collegio di Imola ad Andrea Costa, dopo la morte di questi) fino all’uscita dal partito (e, naturalmente, nel periodo in cui fu deputato comunista).
Polemizzando alla Camera nel 1921 con Mussolini, che lo aveva definito “antico riformista”, vorrà puntigliosamente precisare: “Fui sempre e sono ancora un gradualista, non fui mai un riformista”. Egli rimproverava al riformismo turatiano di aver fatto leva, secondo il suo giudizio, sulla via parlamentare come la via più importante, se non prioritaria, per ottenere risultati in campo legislativo non indifferenti e realizzare una più ampia influenza politica del PSI. Rimprovero non giusto, a nostro modo di vedere, perché teneva in scarso conto il supporto all’azione riformistica che il sindacato (che tanto Graziadei apprezzava) aveva ad esso dato, ricevendone, in cambio, tutta una serie di sostegni normativi alla sua azione rivendicativa ed economica. Il vero rimprovero che Graziadei muoveva al riformisti era un altro, e coincideva con il suo deciso dissenso con il giolittismo: “Uno dei più grandi errori del riformismo parlamentare socialista – così ebbe ad esprimersi – è stato quello che troppe volte esso ha coinciso con la linea personale dell’onorevole Giolitti”.
A Turati egli contestava soprattutto, poi, di credere nello Stato, nei suoi meccanismi, nei suoi rituali legalitari, senza tener conto che’esso è pur “sempre strumento al servizio delle classi dominanti”. Per cui, paradossalmente, era il più cinico Giolitti ad uscire favorito dal confronto con Turati su questo terreno, in quanto lo statista piemontese sapeva servirsi più spregiudicatamente della contrattazione parlamentare e dello strumento elettorale che Graziadei considerava una vera “droga politica”. Va detto che questa posizione disincantata di Graziadei di fronte allo Stato gli permise di accertare con maggiore anticipo rispetto ad ogni altro dei pensatori e politici socialisti della sua epoca gli effetti devastanti che l’insorgere della prima guerra mondiale era destinato ad avere sull’Italia d’allora.
Affrontando con grande impegno e lucidità i problemi economici del socialismo, Graziadei e costretto ad investire questioni ideologiche complesse, che vanno anche al di là delle questioni specifiche. Il suo saggio La produzione capitalistica contiene una critica della teoria del valore-lavoro che precede di gran lungo tempo le teorie revisionistiche sull’argomento; ma, soprattutto, ha implicazioni che conducono a mettere in discussione tutto l’impianto teorico dell’ideologia classista.
Su di un punto, poi, Graziadei si ricongiunge a revisionisti di segno politico a lui opposti, come Bonomi e Bissolati: la considerazione che egli ebbe della priorità dell’organizzazione sindacale rispetto al partito, come strumento di emancipazione proletaria. In particolare, la sua revisione critica investiva il concetto che la fonte dello sfruttamento capitalistico risiede non tanto nella sfera della produzione, bensì nella sfera della distribuzione e dello scambio. In ragione di questa sua concezione, il suo pensiero si distanziava da quello di Gramsci, e di tutto il gruppo dell'”Ordine Nuovo”, come da quello di Bordiga. La sua adesione pertanto al Partito comunista, nel 1921, ebbe motivazioni squisitamente politiche. Era un revisionista ma non un riformista. La sua visione politica tendeva a un superamento tanto della strategia riformista quanto dell’intransigentismo rivoluzionario. Non era sicuramente in sintonia con i tempi. E la sua milizia nel PCI non poteva durare a lungo, tant’è che ne venne espulso nel 1926 (solo nel 1945 verrà riammesso).

Gli oppositori del riformismo: intransigenti e sindacalisti rivoluzionari

Oppositori tenaci del riformismo e del revisionismo furono uomini che meritano tutto il rispetto per il loro impegno politico, per la loro cultura, e che furono, quasi sempre, avversari leali nelle contese politiche interne al partito. Essi appartennero a due tendenze, alleate nella lotta a quella che essi consideravano e definivano la “destra” del PSI, ma distinte nelle impostazioni teoriche e nelle proposte di strategia politica.
La prima di queste tendenze è quella che si suol definire dei “rivoluzionari intransigenti”; la seconda quella del “sindacalismo rivoluzionario”.
Esponenti, addirittura capi, della prima tendenza furono Costantino Lazzari ed Enrico Ferri.
Lazzari proveniva dal Partito operaio ed -era stato uno dei fautori e artefici della costituzione del PSI. Teoricamente non sprovveduto, anche se più uomo d’azione che dottrinario, egli si faceva portatore di un marxismo alquanto primitivo, collegandosi all’interpretazione che ne davano i primi epigoni di Marx, da Guesde a Lafargue.
. Enrico Ferri, avvocato e professore, seguitissimo oratore, ma anche spregiudicato manovratore dei congressi, e di non grande coerenza personale (finirà, dopo molte vicissitudini politiche, senatore del Regno nel periodo fascista) tentò una sintesi tra il marxismo e il positivismo spenceriano, notevolmente diffuso nella cultura del tempo.
Questa sintesi – o tentativo di sintesi – formò il nucleo teorico dei rivoluzionari intransigenti, il punto di riferimento costante per la loro polemica antiriformista e per la loro propaganda.
Essa si basava su di una premessa speculativa che assumeva un materialismo metafisico come identità filosofica e una concezione della storia e del suo sviluppo come opera esclusiva di fattori economici e naturalistici. Intendeva fornire una spiegazione della società capitalistica in base ad un’antitesi estrema e polare tra la categoria delle “forze materiali di produzione” e quella dei “rapporti giuridici di proprietà”. Ne deduceva, come strategia della lotta di classe rivoluzionaria, l’obiettivo di organizzare il proletariato e quello dell’agitazione rivoluzionaria di esso, accampato immobilmente entro e contro la cittadella dello Stato borghese, in attesa dell’automatica catastrofe finale del capitalismo. Solo in tal momento, la classe operaia, uscendo dal suo isolamento, poteva muovere alla conquista violenta dello Stato, e stabilire la propria assoluta egemonia con la socializzazione totale dei mezzi di produzione.
In virtù di questa visione teorica, la tendenza intransigente rifiutava categoricamente ogni alleanza sociale e politica, ogni compromesso, ogni riforma: accettava – non sappiamo con quanta coerenza logica – soltanto la partecipazione alle elezioni, per fare delle istituzioni rappresentative esclusivamente la tribuna di una permanente agitazione rivoluzionaria.
Nonostante questa impostazione primitiva anche per l’epoca, i capi di tale tendenza riuscirono a conquistare un notevole ascendente e in alcuni congressi ad avere la prevalenza, anche grazie alle capacità tattiche del Ferri, che però ad un certo punto abbandonò le posizioni più rigide e si trasferì su una posizione di centro che gli valse un ruolo determinante nella vita del PSI, oltre che la direzione dell'”Avanti!” (Bologna 1904).
Un suo libro, Marxismo e scienza politica, ebbe una larga diffusione insieme con altre sue opere perfino negli Stati Uniti.(8) Ferri proponeva una triade Darwin-Spencer-Marx che fece arricciare il naso ad Antonio Labriola, il quale la criticò duramente. Ma fu oggetto di interesse e di discussione in Italia e altrove, attirando l’attenzione ed il consenso di Veblen.
Tuttavia da questa tendenza, ed in particolare dal Ferri che “legherà il proprio nome al primo grosso scontro che si verificherà nell’ambito del Partito socialista” non “partirà alcuna alternativa valida e neanche nessuna critica consistente” all’indirizzo che il gruppo turatiano proponeva di dare al partito.(9)
Maggiore consistenza teorica e politica va riconosciuta alla tendenza del “sindacalismo rivoluzionario” sorta nel PSI subito dopo il 1900. Essa si ispirò particolarmente all’opera di George Sorel, che ebbe, dal punto di vista politico, maggior fortuna da noi che nel suo stesso paese e vide tra i suoi esponenti più prestigiosi Arturo Labriola ed Enrico Leone.
Il “sindacalismo rivoluzionario” può essere considerato una corrente revisionista, in direzione però tutt’opposta a quella dei Bissolati, Bonomi e Michels: una sorta di “revisionismo” di estrema sinistra. Arturo Labriola, studioso geniale e politico incisivo benché volubile (nella sua lunghissima vita politica fece le più diverse esperienze, dall’estrema sinistra socialista a ministro del Lavoro con Giolitti, fino a concludere nel secondo dopoguerra come “indipendente di sinistra” a fianco del PCI), dedicò all’analisi e alla critica della teoria marxista una notevole mole di scritti, per poi ritrovarsi, come egli stesso dichiarerà anni dopo, “con un pugno di mosche in mano”.
Lunga e complessa fatica sarebbe seguirlo nell’evoluzione del suo pensiero, attraverso l’itinerario delle sue opere, da Riforma e rivoluzione sociale a La dittatura della borghesia; da Storia del capitalismo a L’attualità di Marx e al Manuale di economia politica. Interessa qui profilare le linee portanti della posizione teorica e di quella politica del sindacalismo rivoluzionario di cui insieme ad Enrico Leone fu teorico e militante.
Quest’ultimo, anch’egli autore fecondo (si ricordano, tra gli altri, Il sindacalismo e L’economia edonistica), ebbe ugualmente come Arturo Labriola una personalità e un ruolo politico di primo piano nelle vicende socialiste e, particolarmente, nella lotta contro i riformisti. A differenza dei “rivoluzionari intransigenti” di Lazzari e Ferri, il “sindacalismo rivoluzionario” accettava l’esigenza delle riforme, ma come conquista rivoluzionaria, non come risultato di alleanze sociali e politiche. Arturo Labriola ebbe, spiritosamente ma ingiustamente, a definire l’incontro del PSI con le forze democratiche come “l’alleanza tra cavallo e cavaliere”: intendeva, ovviamente, che il cavallo era il PSI, e il cavaliere Giolitti.
Il riformismo socialista doveva, per Labriola e Leone, realizzarsi non “dal” governo borghese, o “con” il governo borghese: doveva, all’opposto, trovare attuazione contro il governo, e contro il sistema borghese. D’altro lato il riformismo borghese era, a loro giudizio, pericoloso perché portava le masse alla falsa convinzione che il sistema esistente potesse sanare i mali della società. Per tali ragioni essi si opponevano alla politica di alleanze proposta dai riformisti, perché destinata a cadere nell’equivoco del riformismo borghese, deviando il processo di presa di coscienza delle masse verso una posizione subalterna al sistema. Sul terreno della critica al riformismo turatiano, i sindacalisti rivoluzionari non si discostavano, dunque, dalle altre posizioni estremiste del PSI.
Da esse però si differenziavano sul piano delle proposte d’azione. Infatti, mentre per Lazzari e Ferri (prima che questi assumesse una posizione “centrista”) si trattava soltanto di criticare e negare pregiudizialmente la società borghese e lo Stato come espressione del dominio di classe, in attesa del crollo catastrofico del capitalismo, per Arturo Labriola e Leone, il proletariato doveva assumere una strategia rivoluzionaria attiva, capace di determinare essa la crisi del potere capitalistico. Essi prospettavano quindi una strategia puramente “volontaristica”.
Dopo una prima fase nella quale Arturo Labriola e Leone avevano tentato di definirsi come interpreti coerenti dell’ortodossia marxista, essi avevano elaborato, successivamente, sulla falsariga del pensiero soreliano una nuova dottrina in base alla quale veniva riconosciuto al sindacato un ruolo primario rispetto al partito. L’organizzazione sindacale, come espressione diretta degli interessi di classe, rappresentava il soggetto attivo dell’azione rivoluzionaria, culminante nello sciopero generale che avrebbe costituito l’occasione propizia alla espropriazione della classe capitalistica.
In base a questa concezione essi si opponevano tanto all’azione politica e parlamentare, quanto ad ogni iniziativa o alleanza diretta a migliorare, sul piano normativo o sul piano salariale, le condizioni di vita dei lavoratori. Cioè, a loro sentire, avrebbe da un lato assecondato lo sviluppo del capitalismo, ritardandone il crollo finale, e, dall’altro, pericolosamente contribuito ad affievolire la coscienza rivoluzionaria delle masse.
Il revisionismo di sinistra del sindacalismo rivoluzionario era in sostanza un’affermazione di volontarismo proletario, che s’accompagnava ad una analisi deterministica delle condizioni economiche che avrebbero, inevitabilmente, condotto il capitalismo alla catastrofe.
Ebbe come ispiratore ideale non solo il Sorel e la sua filosofia sociale, ma anche la teoria del volontarismo contingente del Bergson, e la sociologia di Vilfredo Pareto. Questa miscela di marxismo, di pragmatismo volontaristico ed irrazionalistico, questo misticismo dell’azione rivoluzionaria condussero in Italia alla pratica degli scioperi ad oltranza e dei movimenti di base più esplosivi. Nei brevi anni in cui operò all’interno di esso, esercitò indubbiamente un certo fascino sui gruppi operai più scalpitanti, sui giovani e su una parte non trascurabile dell’intellettualità socialista.
Al pari del revisionismo cosiddetto “di destra”, il sindacalismo rivoluzionario mise in discussione non solo il primato, ma il ruolo stesso del partito quale organizzazione politica rappresentativa del movimento di classe, preferenziando l’organizzazione diretta del proletariato sull’organizzazione partitica.
Fu questo l’unico, anche se non trascurabile, punto di incontro tra le due teorie revisionistiche, che divergevano profondamente, invece, su ogni altra questione, sia di strategia, sia di tattica.

I revisionisti

La debolezza e la contraddizione politica delle due ali revisionistiche si presentò con evidenza nel momento in cui nessuna delle due riuscì ad avere il controllo dell’organizzazione socialista, nonostante che entrambe queste tendenze privilegiassero il sindacato come soggetto delle loro proposte politiche, rispetto al partito.
I riformisti turatiani ebbero, in generale, una più forte influenza sull’organizzazione sindacale, anche se i rapporti tra il sindacato e il partito non furono sempre cordiali e ispirati a comune strategia. Ciò che non aiutò le correnti revisioniste fu il fatto storico che, nella peculiarità della situazione italiana, il sindacato aveva bisogno del partito, per l’azione legislativa diretta a creare le condizioni di ascesa del movimento del lavoro, e il partito aveva bisogno del sindacato come base concreta ed organizzata nella società.
Né si può sottovalutare il fatto, a differenza di altre esperienze nazionali, che il sindacato era stato in Italia preceduto dall’esperienza politica. Il PSI era nato nel 1892, la Confederazione generale del lavoro era nata nel 1906, raccogliendo esperienze complesse che s’erano sviluppate negli anni precedenti, ma prendendo forma organizzata e diffusa nazionalmente solo in quel periodo.
La Confederazione generale del lavoro era un’organizzazione del tutto autonoma dal partito, e giustamente gelosa della sua autonomia. Già nell’ottobre del 1907 veniva a stipularsi un accordo tra partito e sindacato, che ne regolava i rispettivi compiti e funzioni. L’accordo ricalcava, in buona sostanza, una risoluzione del VII congresso della Seconda Internazionale tenutosi a Stoccarda nell’agosto 1906, nella quale venivano definiti appunto i rapporti tra partiti socialisti e organizzazioni sindacali.
Nell’intesa tra PSI e CGL fu stabilito che entrambe dovessero ispirare la loro azione ai princìpi socialisti e a una strategia politica riformista e gradualista. In base al “patto”, la direzione degli scioperi economici spettava alla CGL, mentre quella delle manifestazioni politiche era lasciata al partito. Per gli scioperi politici si stabiliva che le decisioni relative ad essi dovevano concordarsi insieme.
L’accordo tra il PSI e la CGL tagliava l’erba sotto i piedi del sindacalismo rivoluzionario; ma in realtà finiva anche per togliere ogni successiva piattaforma di influenza concreta sulle masse lavoratrici agli stessi teorici dell’economicismo sindacalistico e del ìaburismo, ai revisionisti di Bonomi e Bissolati. Il patto con la CGL rappresentò immediatamente un punto di forza per i turatiani. Infatti il congresso di Roma (ottobre 1906) aveva segnato la sconfitta dei sindacalisti rivoluzionari, caduti in minoranza.
In quel congresso Labriola teorizzò che il partito dovesse essere un “organo subordinato, a volte superfluo ed inutile”. Pertanto “solo al sindacato di mestieri spettava la grande missione liberatrice delle classi lavoratrici”.(10)
Con una certa coerenza, essi avevano deciso di abbandonare il partito nel luglio 1907, dando vita ad una organizzazione autonoma, classista, basata appunto sui mestieri. Essi contavano, per la loro propaganda e per la loro azione, sull’accentuarsi della crisi economica, quale risultava in quei momenti, e sull’inasprimento dello scontro di classe. Presero occasione dallo sciopero di Milano dell’ottobre del 1907 e da quello di Parma, nel]’aprile del 1908, per tentare la proclamazione di uno sciopero generale nazionale: ma la Confederazione generale del lavoro si oppose con energia al loro proposito. E ciò segnò la sconfitta del sindacalismo rivoluzionario, avviando alla conclusione la loro esperienza di corrente organica del movimento socialista. Leader e militanti di questa tendenza prenderanno ben presto le vie più disparate.
La guerra di Libia darà a molti di essi l’occasione per una convergenza con l’agitazione nazionalistica, in particolar modo sospingendoli a guardare con simpatia a quei gruppi e personalità del nazionalismo di sinistra, come Sighele e Corradini, che andavano elaborando l’idea-forza della “nazione proletaria”. Su questa strada molti sindacalisti rivoluzionari s’incontreranno negli anni del primo dopoguerra con quei movimenti che, dal dannunzianesimo al fascismo, esprimeranno, soddisfacentemente per essi, quelle esigenze irrazionalistiche e volontaristiche che ne avevano ispirato la teoria e l’azione già tra le fila del PSI.(11)
Altri cinque anni durerà invece l’esperienza all’interno del Partito socialista della tendenza revisionista di Bonomi e Bissolati. Staccatisi dal gruppo riformista di Turati e Treves, essi andranno assumendo una fisionomia ideologica e politica sempre più netta, distinguendosi dai riformisti soprattutto sul tema della funzione del partito, su quello della partecipazione organica dei socialisti al governo di collaborazione e su quello dei rapporti tra socialismo e nazione. Bissolati ne diviene il teorico più lucido, che più si espone alle polemiche e agli scontri, fino all’espulsione dal PSI del gruppo nel congresso di Reggio Emilia del 1912.
Alcuni studiosi del movimento socialista, tra i quali Giorgio Galli, tendono ad attenuare le differenze teoriche tra il riformismo turafiano e il revisionismo “di destra”. “Il revisionismo di Bonomi è esplicito, quello di Turati implicito”, afferma infatti Galli. (12) Vista la questione con il senno del poi, può essere anche così. Certo è che la loro divisione in quei frangenti finì per indebolire non poco le possibilità politiche del riformismo all’interno del partito e in tutto lo scenario della situazione italiana.

I socialisti e l’economia

Su una sola cosa – osserva il Michels – i capi del socialismo italiano si trovarono d’accordo. Da Turati a Ferri, ad Arturo Labriola “stimavano consistere la loro funzione storica nel preparare in Italia il dominio del capitalismo”. (13)
Non si fraintenda il senso di questa affermazione, sostanzialmente esatta. La dirigenza socialista del tempo riteneva, al di là delle divisioni teoriche e politiche tra le varie tendenze, che un’accelerazione dello sviluppo capitalistico avrebbe fatto maturare più rapidamente le condizioni obiettive favorevoli sul superamento dello stesso capitalismo, per la costruzione di un ordine sociale nuovo. E si comporta, sul piano della politica economica, di conseguenza, cioè in perfetta coerenza con questa sua convinzione. Sempre il Michels conferma che “il socialismo italiano credeva suo dovere rinvigorire soprattutto le attività e dare alimento ai traffici del paese, liberare le forze produttive, industrializzare l’Italia”.
Gli uomini professanti le opinioni più disparate convenivano nel concetto, confermato nella pratica, che la via del socialismo “debba fatalmente passare per un’era di intenso capitalismo”. Questa posizione, che si riassumeva nello slogan “per mezzo del capitalismo al socialismo” venne resa esplicita nel manifesto elettorale ufficiale per le elezioni del 1905 elaborato dalla direzione del partito. In esso veniva detto che i socialisti esigevano dallo Stato “quei subitanei alleviamenti tributari e quelle riforme che, promuovendo lo sviluppo finale di una borghesia modernamente produttiva, favoriscano ed accelerino l’avvento storico di quel regime di giustizia e di pace che è il socialismo”.
A questa valutazione ideologica, se ne aggiungerà un’altra: che la “industrializzazione” comportava una crescita numerica e qualitativa della classe operaia, e, di conseguenza, un rafforzamento ed una espansione dell’unica forza politica operaistica che era il PSI.
Inoltre essi pensavano che l’industrializzazione avrebbe potuto estendersi sempre di più nel Mezzogiorno, infrangendo rapporti economici e sociali ancora di marca feudale; scuotendo lo spirito di rassegnazione delle masse e della piccola borghesia; contrastando l’oscurantismo ed il confessionalismo dominanti; introducendo fattori dinamici in tutta una vasta zona della società italiana che ristagnava e non trovava altri sbocchi che non fossero quelli dell’emigrazione.
Tali considerazioni furono alla radice dell’atteggiamento socialista che assunse una linea d’azione politica e parlamentare di netto stampo liberista, antiprotezionista (di qui la critica di Michels che era diventato già un protezionista convinto quando dava alle stampe la sua Storia critica) ed antifiscalista, contro il peso della burocrazia amministrativa e la sua corruzione, contro lo strapotere delle banche. Anche le stesse battaglie che venivano condotte contro le spese militari erano motivate oltre che da coerenza con le convinzioni pacifiste del partito, con il fatto che si trattava di “spese improduttive”, cioè di erogazione di risorse che venivano sottratte all’impiego nel mondo della produzione.
Questa posizione socialista non soltanto attirava l’attenzione di economisti non marxisti, liberisti e marginalisti, quali Einaudi, De Viti, De Marco, Maffeo Pantaleoni, Ruini, che non mancarono di collaborare alle riviste socialiste, come “Critica Sociale”, ma determinò anche atteggiamenti favorevoli in varie epoche da parte di alcuni settori del ceto industriale, nel centro nord e nello stesso Mezzogiorno.
Nella storia dei socialisti, dunque, non v’è quell’oscurantismo avverso allo sviluppo dell’economia di mercato di cui si vuole artificiosamente colpevolizzarli. Dal “programma minimo” del 1902, fino al 1919 il PSI è stato sempre alleato con i liberisti. Giuseppe Are, esaminando la posizione antiprotezionistica assunta dai socialisti, nella sua opera Economia e politica nell’Italia liberale (1890-1915), la giudica “un’accettazione acritica del modello liberistico come la condizione in ultima istanza più idonea ad un organico sviluppo del capitalismo”. Il che comportava, a suo giudizio, un atteggiamento di “attacco frontale” nei confronti di quei settori industriali che erano sorti e prosperavano “mercé il protezionismo”(14).
La critica investe l’atteggiamento dei socialisti come un atteggiamento che non avrebbe tenuto conto delle esigenze di concentrazioni e di sostegno pubblico allo sviluppo industriale, per attardarsi ad uno schema meccanico che identificava lo sviluppo capitalistico generale con un sistema di concorrenza perfetta.
Come è noto, la campagna liberista, cui i socialisti avevano appassionatamente partecipato, si concluse con un fallimento, ed essi dovettero constatare che il protezionismo non era tanto una forma transitoria, quanto una condizione fattuale che s’andava imponendo in ragione della competizione economica tra gli Stati, che riceverà una sanzione di legittimità nell’assetto bellico e in quello successivo alla prima guerra mondiale.
Sta di fatto, comunque, che la linea di politica economica che guidava l’azione socialista non era affatto ostile allo sviluppo capitalistico, bensì rivolta ad aiutarlo e ad assecondarlo. Né ci pare di cogliere in questa strategia, che fu di larghe tendenze socialiste, quella dicotomia che vi coglie l’Are tra prassi e teoria marxiana: perché la prassi politica nasceva da un’interpretazione del pensiero marxista, non in contraddizione con essa. (Semmai sarebbe da confutare la esattezza di questa interpretazione.) C’era comunque, in questa interpretazione del marxismo, il germe di un revisionismo, divaricatosi in due correnti opposte di destra e di sinistra, che si andrà sviluppando nel tempo, e che farà una notevole strada nei decenni successivi. Un revisionismo al quale daranno un contributo essenziale, dentro e fuori del partito, personalità come quelle di Carlo Rosselli e di molti altri.
Già nel 1906 Graziadei teorizzava la conciliabilità tra lotta di classe e collaborazione di classe. In una conferenza ad Imola – riportata nel libro Socialismo e sindacalismo – egli li considerava “fenomeni che si completano a vicenda… Se degli scioperi si abusa, nasce nell’industria uno stato di incertezza che è dannoso alla produzione e che perciò si risolve anche in un danno per gli operai”. “Socialismo non deriva forse da socialista”, si domandava Graziadei, “e socialista non significa solidarietà?”. Nel suo pensiero, la lotta di classe riguardava la distribuzione del prodotto. “Ogni classe cerca di assicurarsi la maggiore e migliore parte della distribuzione sociale”.
La lotta contro il mercato, l'”odium” contro il capitalismo ed il suo sviluppo furono in verità un prodotto del sovversivismo del primo dopoguerra. Un’importazione, in Italia, dell’ideologia leninista.
Per chiarezza e audacia teorica, il gruppo più coerente e più anticipatore dei tempi fu senz’altro quello dei riformisti cosiddetti di “destra”, facenti capo a Bonomi e a Bissolati, espulsi dal PSI al congresso di Reggio Emilia del 1912.
Il più attento studioso di questa corrente politica e di pensiero, Ettore A. Albertoni (relatore nel Convegno nazionale su “Ivanoe Bonomi, un protagonista del ‘900”, Mantova 16-17 ottobre 1987), ha osservato che il riformismo di Bonomi e Bissolati “costituisce l’autentico e concreto tentativo di interpretazione in casa nostra del miglior fabianesimo e dell’organizzazione tradeunionistica inglese”. Al “fabianesimo”, ricorda Albertoni, Bonomi si richiamò esplicitamente nella sua opera Le nuove vie del socialismo (1907) nella quale “esprime in forma inequivocabile l’orientamento circa il rapporto tra i programmi economici e sindacali socialisti e lo sviluppo della democrazia politica in Italia”. E giustamente Albertoni ritiene che questa posizione, che è “insieme teorica e politica e che rappresenta una compiuta base di azione riformista” deve “ancora essere adeguatamente valutata sia sul piano storiografico che politico”. Il Bonomi, rileva sempre Albertoni, “intimamente convinto dell’autonoma capacità di organizzazione politica espressa dal proletariato di estrazione contadina (con una precisa percezione, quindi, della reale stratificazione di classe in Italia) nutrì il suo riformismo di scelte ideali non retoriche e di contenuti politici pragmatici”. Gettando così insieme con il Bissolati un seme che non fu allora raccolto, ma che frutterà copiosamente nei nostri tempi.

Capitolo 4

STRUTTURA E COMPOSIZIONE SOCIALE DEL PSI PRIMA DEL FASCISMO

Alle origini del partito c’era stata una precisa corrispondenza tra la struttura, organizzatasi pressoché spontaneamente, e l’assunto ideologico marxista, nella versione evoluzionistica offerta dal gruppo della Critica Sociale. Secondo tale assunto, l’emancipazione del proletariato doveva organizzare lo strumento della sua emancipazione, il partito, come emancipazione di se medesimo, cioè come organizzazione specifica dei propri interessi sociali, senza commistioni con altre classi. Il partito doveva nascere (e così nacque) come organizzazione della classe operaia. In linea teorica, il Partito operaio, “esclusivista”, come fu anche definito, rappresentava il modello puro, perfetto del partito di classe. La sua “esclusività” recava in sé, tuttavia, una tendenza di natura corporativa, sostanzialmente isolazionistica e prepolitica che alla lunga non era sostenibile, soprattutto rispetto ai nuovi problemi, ed alle nuove possibilità, insorgenti dallo svilupparsi dalle istituzioni della democrazia rappresentativa. Di conseguenza, il partito fu composto non più esclusivamente dagli operai o, meglio, dalle associazioni sociali della classe lavoratrice, ma, successivamente, anche da quegli intellettuali che, da singoli o in gruppo, avevano preso la decisione di sostenere ideologicamente e politicamente il socialismo. La logica conseguenza di tutto ciò fu la trasformazione del Partito operaio in Partito dei lavoratori (1892) e poi in Partito socialista italiano (1894).
Un impulso decisivo a questo processo era derivato dall’occasione offerta al sorgente partito di classe dalle competizioni elettorali. Il Partito operaio già all’inizio del decennio che va dal 1880 al 1890 aveva colto al balzo questa occasione, decidendo di avvalersi del diritto di voto per rappresentare direttamente i propri interessi e le proprie istanze politiche, senza delegarle ad altre formazioni, rappresentative di altri interessi sociali.
Accadeva così in Italia quanto era già avvenuto in larga misura da altre parti dell’Europa. Lo stesso Engels aveva osservato, nella prefazione all’edizione italiana della sua opera La lotta di classe in Francia, che laddove, come in Germania, s’era offerta questa possibilità di usufruire del diritto di voto, il movimento dei lavoratori non s’era lasciato pregare due volte, ed aveva immediatamente operato una scelta favorevole alla partecipazione alle competizioni elettorali.
Una scelta di questa natura comportava due ordini di conseguenze. Innanzitutto, infatti, determinava necessariamente una separazione netta, in forme più o meno traumatiche, a seconda delle circostanze, con le posizioni anarchiche e rivoluzionarie.
In secondo luogo, determinava, più o meno consapevolmente, una scelta definitiva a favore dell’assunzione di un modello di partito, che era quello del partito di massa: quel tipo di partito che dal punto di vista sociologico e dal punto di vista storico-politico era destinato ad essere il soggetto nuovo dello scenario politico dell’Europa, e non soltanto di essa.
Il modello del partito di massa si contrapponeva a quello del partito elitario ad esso preesistente, formazione politica tipica della classe borghese, e del ceto politico da essa derivante. Il partito elitario, borghese, era sorto in funzione degli interessi elettorali di un ceto ristretto: era circoscritto sostanzialmente a quella minoranza sociale che per censo o per cultura aveva diritto al voto; e si organizzava in strutture dalla vita più o meno effimera ed episodica, cioè circoli, “caucus”, club.
A questi potevano aggiungersi, come strumenti anch’essi di azione politica, oltre che di elaborazione culturale e di propaganda, i giornali e le riviste. Inoltre, avevano acquistato una soggettività politica anche i gruppi parlamentari che raccoglievano o coordinavano gli eletti. Queste strutture politiche erano filiazioni delle istituzioni rappresentative, e nascevano come organizzazioni ristrette, composte generalmente dagli eletti e dai loro elettori, la maggior parte dei quali di ceto borghese. Erano, i partiti elitari, i padri e i figli insieme delle rivoluzioni borghesi del XVII secolo in Gran Bretagna e del XVIII secolo in Francia e in America.
Il partito di massa che sorge, come espressione soprattutto della classe operaia, era figlio invece della Rivoluzione industriale, ed era composto sostanzialmente da chi non aveva diritto al voto e reclamava per ottenerlo; ed avendolo, lo usava per eleggere i propri rappresentanti in quelle istituzioni rappresentative, parlamentari o comunali, dalle quali erano in precedenza esclusi.
Si trattava originariamente di partiti “extraistituzionali”, perché sorti fuori del ceto sociale che egemonizzava le istituzioni rappresentative: in esso si manifestarono due tendenze opposte che dovevano, alla fine, divaricarsi e separarsi traumaticamente. Una tendenza che accettava questa situazione di extraistituzionalità, scegliendo una strada antilegalitaria, e rifiutando di reclamare un allargamento della rappresentanza istituzionale alle classi che ne erano escluse; ed una tendenza che si rivolse a rivendicare il diritto delle masse a partecipare alla vita delle istituzioni, ad usufruire cioè delle armi della legalità per acquisire quelle rappresentanze istituzionali che erano fino allora negate. E a tal fine giunse ad organizzarsi, in modo spontaneo, quale struttura prima sindacale-politica, e successivamente come partito politico di massa, attraverso lo strumento dell’associazionismo spontaneo.
In tal modo fu questa seconda tendenza, legalitaria ed evoluzionista, a dar corpo, concretamente, a quel modello di partito che rinnovò profondamente – sia dal punto di vista sociologico, sia dal punto di vista storico-politico – la tipologia tradizionale del partito politico elitario e borghese, introducendo il modello del moderno partito popolare di massa, con una sua organizzazione permanente, una sua propaganda continua, con suoi militanti e dirigenti organicamente dediti all’azione politica del partito. All’opposto, la tendenza extralegale, anarchica prima, e poi definita rivoluzionaria, finì per ripiegare su un tipo di organizzazione ristretta ed elitaria, modellata secondo criteri cospirativi e militari, o paramilitari, che non si distaccava sostanzialmente da tipi analoghi, conosciuti nel passato, di partiti rivoluzionari, con l’unica innovazione – introdotta successivamente dal leninismo, o, comunque, da questo teorizzata – della figura dei “rivoluzionari di professione”: figura analizzata lucidamente in un suo fondamentale studio da Luciano Pellicani.(1) Si può affermare, dunque, che, sotto il profilo della struttura, sia stata la tendenza legalitaria a produrre nelle società occidentali un modello di organizzazione politica realmente “rivoluzionario” rispetto al passato, cioè rispetto ai soggetti politici tradizionali dei partiti elitari e borghesi.
Mentre, sotto questo profilo, la tendenza “rivoluzionaria” e stata tutt’altro che innovatrice, o, almeno, non lo è stata in misura analoga. Comunque, nel corso di circa centocinquant’anni, il soggetto politico nuovo che ha dominato lo scenario europeo – e che ha finito per imporre la propria specifica struttura organizzativa e funzionale e i propri sistemi di propaganda anche ad altre formazioni e movimenti politici (da quelli cattolici a quelli fascisti) – è stato il modello di partito insorto dalla tendenza legalitaria del movimento operaio, cioè dalla sua ala socialista (o laburista, per ciò che riguarda l’esperienza inglese).(2) In Italia, l’occasione per dare il via a questo processo rinnovatore del sistema politico fu data dalla legge elettorale del 1882, che estendeva in una qualche maggiore misura il suffragio, e permetteva al Partito operaio di tentare la via della competizione elettorale.
Il Partito operaio non solo divenne “elezionista”, ma questa scelta ebbe un riflesso permanente sulla struttura del partito classista. Ce lo dimostra tutta una serie di avvenimenti, Piccoli o grandi, compiuti da quel partito e dalle associazioni che vi aderivano, atti che, oltrettutto, rendono palese la consapevolezza che i militanti e i dirigenti del partito ebbero del rapporto tra scelta elettorale e struttura del loro partito.
Si legge ad esempio nel manifesto che il Circolo Operaio Milanese – apertamente elezionista – indirizzò proprio nel 1882 agli operai di città e di campagna: “L’indipendenza e la diversità dagli altri partiti sta in ciò che in questi ultimi, finita la campagna elettorale, vincitori e vinti assieme si avvolgono nella cappa del silenzio lasciando ovunque il tempo che trovano; il Partito operaio invece resta permanente, perché essendo tutti i giorni sfruttato e umiliato nei suoi singoli individui, giornalmente deve combattere sulla breccia per la rivendicazione completa di tutto ciò che gli spetta. Due sono le azioni del Partito operaio in un solo programma: Azione contro lo Stato; Azione contro il capitale”.(3)
In queste frasi emerge: a) il concetto di organizzazione permanente, caratteristica del partito di massa che si viene formando; b) la distinzione tra Stato e capitale, come obiettivi dell’azione politica del partito, ma separati tra di loro. Ciò evidenzia il distacco dalla concezione marxista ortodossa, che identificava Stato e capitale: distacco inevitabile e necessario per un partito “elezionista” che s’avviava alla “lunga marcia attraverso le istituzioni”.
L’ingresso degli intellettuali “fuoriusciti dalla borghesia” agì però sulla struttura associativa operaia – ereditata dal Partito operaio esclusivista – come una sorta di grimaldello.
Una volta introdotte alcune fondamentali innovazioni strutturali, come quella della facoltà di adesione individuale, e come quella della creazione della rete territoriale di sezioni e circoli, veniva necessariamente attenuandosi la possibilità di vagliare se coloro che chiedevano la iscrizione al partito, e la ottenevano, erano effettivamente “intellettuali” ed erano effettivamente “fuoriusciti dalla borghesia”. Come distinguerli? E chi aveva la facoltà e la possibilità di farlo? Tra l’altro, in un paese in cui l’analfabetismo era largamente diffuso, nel quale gli studenti, i laureati, i professori erano poco più di una élite, chi poteva dirsi o essere detto intellettuale? Lo era più Enrico Ferri, professore, avvocato, giornalista, scrittore ed oratore di larga fama, di origine borghese, o lo era di più Costantino Lazzari, di famiglia operaia, che aveva studiato fino al ginnasio, di professione commesso viaggiatore, dirigente del Partito operaio, e poi del Partito socialista? Lo era di più lo studente innamorato degli ideali del socialismo, o il medico ed il maestro elementare che accompagnavano la milizia politica con l’azione professionale dagli indubbi risvolti sociali? E come sceverare il buono dal cattivo, il facinoroso dal generoso, l’opportunista che s’infilava nel partito per farvi carriera, pensando di soverchiare con la sua cultura operai e contadini semianalfabeti, dall’idealista che assumendo qualifica di “socialista” veniva ad essere danneggiato nella sua professione e nelle sue relazioni sociali? La distinzione tra i due momenti era resa ancora più esplicita nei passi successivi del manifesto, laddove veniva affermato che indipendenza e diversità del partito non deve significare affatto isolamento. “Nella prima azione – così si dichiarava – può coalizzarsi con altri partiti per un’azione comune, giacché le riforme che allora propugna assumono un’importanza nazionale ed umanitaria e perciò non possono ritenersi esclusive di una sola classe di cittadini”. Per l’azione di fronte allo Stato, il Partito operaio aveva formulato e approvato un programma che vale la pena di ricordare, per la modernità delle sue rivendicazioni: libertà di sciopero; suffragio universale; libertà d’insegnamento; completa autonomia comunale; istituzione di una tassa unica e progressiva sui capitali e sulle rendite; abolizione del fondo per i culti; fratellanza ed indipendenza di tutti i popoli.
Gran parte di questo programma sarà ripreso nel programma minimo che il PSI assunse all’inizio di questo secolo come parametro per la sua azione politica e parlamentare. Sul piano strutturale e sul piano programmatico c’era nel Partito operaio tutto il fondamento del Partito dei lavoratori e del Partito socialista che da esso filieranno.
L’innovazione che differenzierà questi partiti dal loro ceppo d’origine, il Partito operaio, fu quella che permise l’inserimento organico degli intellettuali “socialisti”, inserimento che doveva portare rapidamente ad altre due innovazioni consequenziali: la facoltà di iscrizione individuale, al posto dell’iscrizione attraverso le associazioni; il diffondersi delle organizzazioni territoriali – “orizzontali” – basate sulla “sezione” di partito.
Il punto di passaggio cruciale, nel rapporto tra organizzazione operaia ed intellettuali, si ebbe nel 1886, in occasione delle elezioni che si tennero in quell’anno. La candidatura operaia fu affidata ad un capostazione dei tram, Giuseppe Berretta; ma, nel medesimo tempo, gli operai decisero di votare anche per un altro candidato, che operaio non era, ma intellettuale, Gnocchi Viani. Così veniva meno la discriminante “esclusivista” e si prefigurava la congiunzione tra struttura operaia (di città e di campagna) con il ceto politico degli intellettuali. “Si sentì il bisogno di buoni candidati, di buoni propagandisti, gli operai non potevano più bastare all’uopo”, commenta il Michels, aggiungendo: “Le elezioni segnarono una tappa importante nella storia del partito, dimostrando che l’idea operaia come tale alla lunga non basta, politicamente parlando, a dar corpo ed anima a un partito politico di aspirazioni non solo effimere: l’esclusivismo operaio s’infranse”.(4) Con questi ed altri consimili episodi si preparava, dunque, quell’innesto degli intellettuali nelle strutture dell’associazionismo operaio da cui nasceva la struttura del nuovo partito, che si definiva come socialista. È fuori di dubbio che, fin dalla costituzione del PSI, numerosi studenti, professori, professionisti accorsero nelle sue fila. Tuttavia le statistiche non ci soccorrono a quantificare l’entità della loro presenza. L’unica rilevazione che offre una certa completezza risale al 1903. Si tratta delle cifre relative alle risposte date a un questionario distribuito tra le sezioni del PSI, e riportate dal Michels.(5)
Da esse risultano le risposte di 803 sezioni, raccolte alla data del 31 dicembre 1903. Gli iscritti risultavano essere 33.686, dei quali 32.169 uomini e 547 donne (alle quali dovevano aggiungersi circa altre 600 donne organizzate nei circoli femminili socialisti).
Per quel che riguarda la composizione sociale degli aderenti, risultavano i seguenti dati:

42,27% Operai
14,92% Artigiani
21,00% Contadini
3,3 % Impiegati
4,89% Possidenti
2,72% Professionisti
1,08% Studenti
9,65% Di professione non dichiarata

Da questi dati risultava, in sostanza, che circa un quarto degli iscritti, a quella data, era costituito da persone non appartenenti alle categorie dei lavori non dipendenti, o alla categoria degli artigiani.
Si tratta di una percentuale elevata per quel tempo, se si tiene conto che le categorie “terziarie” risultavano all’epoca notevolmente ridotte nella composizione della società italiana. E si era appena al 1903, quando il numero degli iscritti era inferiore ai 40.000.
Nei due decenni successivi, le adesioni crebbero, fino a che il numero degli aderenti raggiunse i circa 100.000 del dopoguerra; ed è probabile che la composizione sociale si sia sempre di più qualificata con la presenza di fasce più consistenti di iscritti non appartenenti alla classe lavoratrice. Iscritti non qualificabili in gran parte neppure come intellettuali o professionisti.
Se si paragona questo tipo di composizione sociale presente nella struttura territoriale con quella ovviamente molto più omogenea delle strutture sindacali, si può giungere a individuare in tale composizione la ragione della notevole “mobilità” politica che si registra nella storia dei vari congressi PSI, di fronte alla sostanziale “stabilità” dell’orientamento politico riformistico della Confederazione del lavoro. Infatti, mentre nei congressi avvenivano continue oscillazioni di linea politica, quando non addirittura clamorosi cambiamenti di rotta, l’orientamento riformista della Confederazione del lavoro – le cui strutture erano più direttamente rappresentative della classe lavoratrice – restò sostanzialmente immutato nel corso delle varie fasi politiche che si andavano succedendo.
C’è, infine, da annotare la diversa composizione, rispetto alle istanze politiche e sindacali, del gruppo parlamentare. Esso fu sempre, in larga maggioranza, di estrazione sociale non operaia, o contadina, o artigiana, bensì borghese e in genere formata da professionisti e da intellettuali. Vi furono anche prestigiosi parlamentari socialisti di origine operaia (come Rigola, Lazzari ecc.) ma furono sempre in minoranza. Lo stesso può dirsi del gruppo dirigente del partito, nel quale furono sempre decisamente prevalenti i leader intellettuali su quelli di origine operaia e contadina.
Se si paragona la struttura della organizzazione socialista ad una piramide, abbiamo alla base la struttura sindacale composta da lavoratori dipendenti operai, contadini e impiegati; nella fascia intermedia una struttura territoriale (sezioni, circoli ecc.) in cui gli aderenti di origine borghese costituiscono una forte minoranza; e un vertice (direzione del partito, gruppo parlamentare) nel quale l’elemento intellettuale, o comunque professionale – professori, giornalisti, avvocati, medici, è nettamente prevalente.
Per seguire il modello di Michels, si può affermare che non solo gli intellettuali “spostati” trovano piena accoglienza nel partito dei lavoratori, ma ne formano in permanenza la maggioranza del gruppo dirigente.
Il partito a struttura cosiddetta “diretta”, basato sul tesseramento individuale, era ufficialmente nato al congresso di Parma, tenutosi il 13 gennaio 1895, nonostante che in quel momento esso fosse stato disciolto dalle autorità. La ragione di questa scelta, di natura più contingente, fu appunto quella di distinguere l’organizzazione politica dalle organizzazioni economiche (camere del lavoro, leghe, mutue, cooperative), per sottrarre queste ultime alle conseguenze della repressione politica; distinguendo l’adesione alle associazioni economiche dall’adesione al partito.
La ragione, più profonda, stava nel fatto che, superato l’esclusivismo operaio, non c’era più motivo per ammettere le adesioni individuali. Tant’è vero che, passato il momento della repressione, rimase la struttura basata sull’iscrizione individuale.
La mozione del congresso di Parma affermava: “I socialisti Italiani, raccolti nel Partito socialista italiano, per lo svolgimento del proprio programma, deliberano di esplicare la propria azione politica mediante gruppi locali a base di adesioni personali col pagamento di L. 1,20 annue”. La struttura “diretta” è però più apparente che reale, perché il PSI mantiene uno stretto collegamento con le organizzazioni economiche nelle quali sono raccolti in numero molto più vasto i lavoratori delle varie categorie. Quindi il PSI, fin dai suoi albori, si configura come un partito che più correttamente si può definire a struttura “mista”, che vede a fianco della struttura territoriale e diretta una costellazione di organizzazioni di classe, ramificate in un numero amplissimo di categorie sociali, e a seconda delle varie funzioni esplicate, da quella sindacale a quella cooperativa.
Il passaggio dal sistema di adesioni per associazioni a quello delle adesioni individuali conduce a un calo degli iscritti: dai dati forniti da Michels nel suo studio Proletariato e borghesia nel movimento socialista italiano del 1908 egli indica in 131.000 il numero degli iscritti nel 1892, e in 107.000 quello del 1893. Mentre nel 1896 erano scesi a 21.000. Lo scarto era dovuto al fatto che fino al 1895, data del congresso di Parma, si conteggiavano le adesioni attraverso le associazioni, che contavano per gli iscritti a ciascuna di esse, per cui la somma complessiva comprendeva anche chi aderendo alle singole associazioni risultava iscritto al partito, anche se in realtà non avrebbe dato ad esso la propria adesione personale.(6)
Nel 1897 gli iscritti salgono a 27.281, mentre il numero delle sezioni cresce da 450 a 623. Nel 1900, all’indomani della repressione, l’organizzazione socialista mostra una flessione: gli aderenti sono calati a 19.194 e le sezioni sono diminuite a 546.
Ma pronta è la ripresa, nel nuovo clima politico dell’inizio del secolo: un anno dopo, nel 1902, salgono a 37.718 per 1070 sezioni; nel 1903 ne risultano 42.451 con 1236 sezioni; nel 1905 gli aderenti crescono ancora, fino a raggiungere la quota di 45.000 mentre discende il numero delle sezioni, che sono 1150. Già a quel momento, nonostante la rapida crescita del numero degli iscritti, più che raddoppiato rispetto a quello iniziale, e nonostante l’espansione della rete territoriale delle sezioni, la forza organizzata del PSI costituiva una minoranza dei lavoratori socialisti nel loro complesso. Osservava il Michels, nello studio suddetto, che “una gran parte degli operai di città, o per avversione alla politica quotidiana, o per questione di tattica e di principio, o per motivi individuali, non si iscrive al partito”, pur essendo socialisti, e votando, quando erano ammessi al voto per esso.
Inoltre, aggiunge il Michels, “quasi senza eccezione sono socialisti di cuore gli iscritti alle leghe dei braccianti o di piccoli affittaiuoli, sebbene solo alcuni di questi uomini siano politicamente organizzati in piena regola”.
Basti pensare che al primo grande congresso dei contadini che si tenne a Bologna nel novembre del 1901, vi convennero i rappresentanti di 320.000 soci paganti, che votarono una mozione conclusiva che si richiamava apertamente al socialismo. Si può calcolare che ai primi anni del secolo XX fossero oltre un milione i lavoratori socialisti organizzati nelle strutture economiche, di cui solo una piccola percentuale aderiva al partito. Una ragione di questo divario si può riscontrare anche nel fatto che per un gran numero di essi rappresentava un’autentica difficoltà economica sommare il costo della quota associativa pagata all’organizzazione di categoria con il costo della tessera del partito, che era, per quell’epoca, di peso non trascurabile. Ma va detto che, grazie alle quote corrisposte dai suoi iscritti, il PSI si autofinanziava, senza dover ricorrere all’aiuto di nessuno, e avendo quindi piena indipendenza economica, oltre che politica.
Tutte queste considerazioni, con il supporto dei dati forniti dal Michels, confermano che il PSI era un partito a struttura “mista” che vedeva affiancarsi alla organizzazione territoriale degli iscritti quelle organizzazioni di categoria cui erano affiliati in un numero ben maggiore lavoratori di fede e di impegno politico esplicitamente socialista. E da un gruppo parlamentare, rappresentativo del suo corpo elettorale, che manteneva una sua piena autonomia anche nei confronti della direzione del partito.
Nel 1906 gli iscritti risultarono in numero inferiore a quello dell’anno precedente: dalle votazioni congressuali nell’assise di Roma, essi risultarono meno di 35.000, mentre quelli che avevano risposto al questionario citato erano stati circa 36.000.
Dai dati riportati nei resoconti stenografici dei vari congressi fino a quello di Livorno contenuti nell’opera di Luigi Cortesi Il socialismo italiano tra riforme e rivoluzione 1892-1921, si ricava la seguente serie statistica degli iscritti: nel 1908, a Firenze, erano rappresentati in congresso 31.274; a Milano, nel 1910, i rappresentanti furono 24.413; a Modena, nel 1911, gli iscritti rappresentanti risultarono 24.413; a Reggio Emilia, nel 1912, erano 23.467; ad Ancona, nel 1914, erano 34.389; a Roma, nel 1918, 19.027; a Bologna, nel 1919, 66.160; a Livorno, gli iscritti rappresentanti furono 172.587.
I dati riportati sono gli unici realmente attendibili, perché risultanti dai resoconti stenografici dei congressi e sottoposti a controllo delle tendenze presenti in essi. Non danno un quadro esatto del numero complessivo degli iscritti, bensì degli iscritti rappresentati, cioè tesserati che avevano partecipato al voto congressuale. Da tali dati, tuttavia, si possono trarre delle indicazioni abbastanza significative: il numero degli iscritti che era andato scemando dal 1906 al 1912, risale molto sensibilmente tra il congresso di Reggio Emilia e quello di Ancona, in concomitanza con la conquista del partito da parte dei massimalisti e dei rivoluzionari, che imprimono un’azione “esterna” ovviamente più eclatante e spettacolare, che attira, come denuncerà Turati, anche molti “teppisti”, richiamati dall’invito alla azione di piazza e alla violenza; tra il 1914 ed il 1918, c’è una flessione notevole, dovuta al dato naturale della guerra, e della partenza per il fronte di larghe fasce di cittadini-lavoratori, dalla cessazione della propaganda di partito; la curva iscritti risale nel “biennio rosso”, in concomitanza con la massima espansione elettorale del PSI.
In conclusione, si deve sottolineare la caratteristica strutturale dell’organizzazione socialista: un modello a “forma di tridente”, costituito dall’organizzazione territoriale, che raccoglieva in una rete di entità sezionali a livello nazionale la militanza dei tesserati, e si faceva carico della propaganda, della mobilitazione politica ed elettorale; dalle strutture associative sindacali e di categoria, che avevano il compito di organizzare i lavoratori in stragrande maggioranza socialisti con le federazioni di categoria, le leghe, le cooperative, in ogni settore del mondo del lavoro, dall’industria alle campagne, alle ferrovie, alla scuola, al pubblico impiego; dal gruppo parlamentare, e accanto ad esso dallo stuolo degli amministratori socialisti, rappresentanza diretta dell’elettorato socialista, militante e non militante.
Con questa organizzazione “a tridente”, perfezionatasi con la costituzione della Confederazione Generale del Lavoro nel 1906, con la quale il PSI stabilì un patto organico di alleanza; e con la costituzione nel 1909 della Associazione nazionale degli amministratori socialisti, il PSI si creava una struttura corrispondente in modo flessibile alle varie e disparate esigenze che era chiamato a rappresentare in difesa del mondo del lavoro e come soggetto fondamentale della vita politica e parlamentare nazionale.
È il primo partito moderno, di massa, democratico del sistema politico italiano. La sua formazione e la struttura che riesce a darsi nel corso degli anni sono destinati a trasformare profondamente il sistema politico e ad avviare la moderna democrazia dei partiti in Italia.
Si deve inoltre tener presente che un limite alla crescita numerica del partito era posto anche dalla sua forte e marcata ideologizzazione. Il PSI era una formazione politica che si caratterizzava come assertrice dell’ideologia marxista, sia pure differenziandosi per le varie interpretazioni che le sue diverse tendenze davano del pensiero di Marx. Aderire al partito significava anche adesione al marxismo, fosse quello gradualista ed evoluzionista della “Critica Sociale”, fosse quello degli intransigenti, ortodosso e meccanicisticamente “rivoluzionario”, fosse quello dei sindacalisti rivoluzionari, che provarono a sposare Marx con Sorel.
Il carattere marxista del PSI veniva confermato da due eventi significativi: tanto quella tendenza che aveva spinto alle sue estreme conseguenze il suo revisionismo di stampo bernsteiniano (quella che faceva capo a Bissolati e a Bonomi); quanto l’opposta tendenza di Arturo Labriola ed Enrico Leone, che aveva sviluppato il proprio pensiero in senso revisionistico, ma in una direzione di “sinistra” rivoluzionaria e poi nazionalistica: entrambe queste tendenze furono necessitate ad abbandonare il PSI, sia pure in fasi diverse e successive. Il PSI, con tutta la sua indubbia democrazia interna, e il suo elevato spirito libertario, non tollerava tuttavia quelle forme di revisionismo radicale, che ponessero le tendenze che le professavano in antitesi con il proprio credo marxista. Da questo punto di vista, il partito si differenziava nettamente dall’esperienza, ad esempio, del Labour Party il quale nel 1908 approvava una risoluzione che escludeva la necessità, per aderire al partito, del requisito della purezza ideologica e politica, ammettendo invece la presenza in esso di fedi ideologiche e religiose diverse. Il PSI mantenne invece una forte caratterizzazione ideologica, e manifestò la tendenza ad escludere quelle correnti che si ponessero al di fuori dell’alveo marxista.
A circa un quarto di secolo dalla sua fondazione, esso troverà nel mondo cattolico il primo soggetto politico che ne imiterà il modello strutturale, funzionale e rappresentativo: quello del Partito popolare italiano. Come iniziatore della democrazia dei partiti, e come primo fra i partiti moderni del nostro paese, la nascita, lo sviluppo e il consolidamento del PSI costituì di per sé un processo rivoluzionario. Quella rivoluzione che tanti socialisti, inseguendo un’utopia ed una chimera ideologica, cercavano in un sovvertimento totale della società e dello Stato, senza escludere la violenza, essi l’avevano in realtà già compiuta insieme con i loro compagni che avevano scelto la strada del riformismo e del gradualismo: era la rivoluzione derivante da una modificazione profonda delle strutture politiche, attuata mercé la nascita e la formazione di un partito che con la sua organizzazione e la sua azione politica portava sulla ribalta della vita nazionale, nel cuore delle istituzioni, una classe sociale che ne era stata esclusa, e che acquistava in questo modo dignità e forza di un soggetto sociale e politico protagonista della storia dell’Italia moderna.

Parte II

LE BATTAGLIE DELL’ESILIO

Capitolo 5

IL REVISIONISMO DI ROSSELLI E L’UNITÀ CON I COMUNISTI

Il socialismo liberale

Rosselli, che già nel 1924 era apparso sulla ribalta del dibattito socialista, fondando con Nenni la rivista “Quarto Stato”, sviluppa la sua critica revisionistica nel confino di Lipari, in cui soggiorna negli anni ’28 e ’29, dopo la condanna subita per l’organizzazione dell’espatrio di Filippo Turati.
L’opera in cui raccolse le sue riflessioni, il Socialismo liberale, uscì in francese a Parigi nel 1930, e subito suscitò interesse e polemiche. Essa rappresentava uno dei testi fondamentali del revisionismo, la cui importanza nella elaborazione del socialismo moderno è incontestata. Rosselli si poneva il problema del rinnovamento del pensiero socialista, che doveva passare per un processo di radicale revisione del marxismo, e per una netta separazione tra socialismo e ideologia marxiana.
La critica pregiudiziale che egli avanza e al determinismo che contrassegna questa ideologia, di cui avrebbe anche bloccato ogni possibilità di aggiornamento e di modernizzazione. Egli attacca in radice il determinismo marxiano in quanto non solo considera i rapporti di produzione e le forze produttive come determinanti del processo storico; ma anche in quanto sono indipendenti dalla volontà umana. Per cui il senso del marxismo risiederebbe nel concetto “della necessità storica dell’avvento della società socialista in virtù di un processo fatale e obiettivo di trasformazione di cose”.
Mentre ritiene che con questa concezione Marx si era sottratto all’esigenza di “assegnare alla volontà umana un’influenza autonoma nello svolgersi del processo storico”, all’opposto “tutto il revisionismo, di destra e di sinistra, può riassumersi nello sforzo di far posto, nel sistema marxista, alla volontà e all’ottimismo del moto operaio”. Questo, a giudizio di Rosselli, si riscontrava tanto nel riformismo come nelle tendenze rivoluzionarie e persino in quella leninista.
I contenuti stimolanti del revisionismo rosselliano non vennero recepiti all’epoca dalla sinistra italiana e dai dirigenti del PSI. Ci vorrà molto tempo perché al pensiero di Rosselli e alle tesi di Socialismo liberale venga riconosciuto il valore che essi avevano già allora.
Eppure era esplicita la conclusione della sua analisi. “Coloro che han la vita all’interno del movimento – avverte Rosselli – non si rendono conto della gravità della crisi che stiamo attraversando… Coscienti della penetrazione profonda del socialismo in Italia, dei vasti residui di sentimentalismo che dormono in seno alle masse, non vedono soluzioni di continuità…
“Ma la nuova generazione non la pensa così… Sente chiaramente che il fascismo lo si combatterà o lo si vincerà meglio, nella misura in cui lo si sarà compreso. Comprendere e vincere. Il fascismo è quasi interamente privo di valore costruttivo. Ma ha un valore di esperienza, di rivelazione degli Italiani a se stessi che non è possibile trascurare… Il problema dei rapporti tra socialismo e nazione, il problema del governo in regime democratico, il problema dell’autonomia politica si porranno con un’intensità e in uno stile interamente nuovo, e ciò immediatamente con la caduta del fascismo.
“Ma più ancora che per l’esperienza fascista – terribilmente negativa, ma sempre penetrante – il rinnovamento decisivo si imporrà al movimento socialista per il fatto dell’esistenza delle nuove generazioni con cui bisogna prepararsi a fare i conti. Il solo fatto dell’esperienza fascista vieta in qualsiasi forma un ritorno al passato; d’altra parte, le esperienze fondamentali della guerra e del dopoguerra hanno creato tra i giovani una mentalità nuova e un distacco doloroso con gli elementi della vecchia generazione. Basta riflettere al grado veramente impressionante in cui il nazionalismo resiste alle necessità economiche. In tempo di bonaccia, il danno di questi errori di calcolo è relativo, ma in tempo di crisi o di rivoluzione le conseguenze politiche possono esserne decisive. In questi momenti, la vita politica si trova in uno stato incandescente e può essere modellata nei sensi più contraddittori, a causa della parte enorme che vi rappresentano gli elementi irrazionali…
“Ciò può essere constatato in maniera tipica agli inizi del movimento fascista. Non si può dire che i primi nuclei fascisti siano stati animati dal solo interesse di classe, come non erano composti solo di borghesi. Erano gruppi di spostati, di criminali, di allucinati, anche di idealisti in preda a delirio patriottardico e romantico; solo più tardi dovevano diventare lo strumento della reazione agraria e plutocratica. I nostri veri o sedicenti materialisti storici… non si resero conto della forza autonoma e potentissima che la passione, poco conta se bella o brutta, suscitava nell’anima dei loro avversari. Avvenne così che da un lato la forza esplosiva del movimento fascista si rinforzava fino all’inverosimile, mentre l’azione dei dirigenti socialisti era animata da pure considerazioni di ordine critico. Tra i lottatori e gli storici, la partita non poteva esser dubbia…”.(1)
L’incomprensione della democrazia politica fu un altro elemento della debolezza organica: “Molti socialisti non hanno ancora compreso che le riserve da essi abitualmente fatte seguire alla loro adesione al metodo democratico – riserve che consistono nel dichiarare che di quel metodo ci si servirà fino a che conviene, salvo a negarlo poi – hanno per solo effetto di autorizzare i gruppi reazionari a ricorrere subito a mezzi illegali per spezzare brutalmente un movimento operaio minaccioso.
“In verità il socialismo italiano, negli ultimi anni precedenti la guerra, era dal punto di vista intellettuale cosa morta. Se un ultimo stimolo sembrava animarlo, era certo quello di un’autodistruzione, tanto arrivò a coalizzare contro di sé tutte le correnti di giovani. Tanto che la reazione intellettuale anti-marxista finì per incontrarsi con la reazione antidemocratica, antiparlamentare, che in Italia prendeva forma concreta nella lotta antigiolittiana… Convergendo nel giorno della dichiarazione di guerra, esse diedero in potenza la luce al fascismo”.(2)
Più crudele ancora è il quadro che Rosselli traccia dell’atteggiamento intellettuale e pratico dei “materialisti storici” dinanzi al fenomeno fascista. E anche questo un quadro satirico schizzato sul vivo, la reazione di un giovane di fronte a una mentalità impenetrabile:
“Il punto di vista di troppi socialisti eminenti dinanzi al problema del fascismo nascente doveva essere buddistico o stoico. Levarono le braccia desolati e si prepararono al martirio, persuasi che poco o nulla ci fosse da opporre alla marcia del destino, da essi analizzata in tutti i suoi elementi costitutivi. Avevano già razionalmente giustificato la loro disfatta in un momento in cui il loro avversario neppure accarezzava l’illusione di vincere…”.(3)
Il limite del revisionismo fino ad allora era stato, sempre per Rosselli, di non esprimere una sua base ideologica realmente autonoma, per non aver portato sino in fondo la critica al marxismo.
Rappresentando in Ugo Guido Mondolfo il pensatore che aveva sintetizzato all’epoca la critica revisionista, in un modo limpido e organico, Rosselli constatava che questi aveva accantonato sì la teoria del valore e il catastrofismo di Marx, ma “per estrarre dal marxismo una filosofia del socialismo che si concili pienamente con una visione attivistica del processo storico”, accogliendo del marxismo la concezione materialistica della storia e quella del rovesciamento della prassi.
Rosselli coglie, nella storia del socialismo italiano, una antitesi tra prassi sociale e politica e convincimento ideologico, fondato su un’accettazione “posticcia” del marxismo. Di questa considerazione si serve per stabilire che è tempo di portare fino in fondo questa contraddizione, per separare nettamente marxismo da socialismo; e per dichiarare illusorio l’atteggiamento di coloro che ancora pensano che il marxismo possa essere un’efficace guida all’azione.
Da questo punto di vista, anche la posizione di Mondolfo finisce per ricadere in una impostazione deterministica, e non serve a liberare il socialismo dalla sovrastruttura marxista che si era data in Italia.
Egli postula invece un socialismo che sia filosofia di libertà, “liberalismo in azione, libertà che si fa per la povera gente”. Un modo di emancipazione storica delle classi lavoratrici che si fonda su di un volontarismo non parolaio, alimentato da una forte carica etica, su di una “fede nella capacità costruttrice della volontà”.
Socialismo liberale contiene quindi un’analisi appassionata delle ragioni della crisi democratica in Italia, e degli errori delle forze che avrebbero dovuto contrastare il fascismo, in primo luogo del PSI.

L’espiazione socialista

Nella crisi del socialismo della seconda metà degli anni Venti, e prima delle stesse peripezie dei fuoriusciti alla ricerca di una riscossa unitaria, era stato pubblicato in Italia il lavoro di un giovane socialista milanese – che sarà autorevole dirigente del partito nel postfascismo -, Guido Mazzali, dal titolo più che significativo: L’espiazione socialista.
Questo libro di Mazzali, di cui non si può non fare menzione, e che è preceduto da una prefazione di Adriano Tilgher, è una testimonianza ancora oggi viva del disorientamento provocato nelle coscienze più avvertite dalle catastrofiche vicende che avevano condotto alla disfatta del movimento e alla vittoria di Mussolini. Una testimonianza in questo senso preziosa, anche perché pervasa da uno spirito di fiducia nella possibile risorgenza e nelle rinnovabili fortune del partito, una volta individuati gli errori compiuti, ed emendate le responsabilità che ne erano derivate. Come osservava Tilgher nella sua prefazione, l’opera di Mazzali costituiva “un pregevole contributo a quel processo di autorevisione e di autocritica della vecchia mentalità socialista italiana, che, da poco iniziato, giova augurarsi sia sempre più radicalmente approfondito”.
La tesi centrale del libro di Mazzali si fonda sulla critica al fatto che nel movimento socialista italiano si era andata perdendo fin la traccia del vero spirito socialistico e marxistico, il quale nella sua essenza ultima ed elementare era da ravvisare nella parola: libertà. Il proletariato doveva essere l’incarnazione concreta di questo spirito di libertà; e doveva rappresentarsi come la classe che da sola doveva liberare se stessa.
La critica al socialismo, che investiva in particolar modo la fase successiva al conflitto mondiale, centrava appunto questa questione fondamentale: l’attenuarsi ed il dissolversi, alla fine, di questa idea-forza della libertà. Si vide nella lotta di classe – rilevava Mazzali – soltanto qualcosa che ha valore in sé e per sé, e non come mezzo per giungere alla meta (sia pur mitica) della liberazione finale. Allo stesso tempo, l’estremismo socialista aveva visto e postulato la dittatura del proletariato come il fine ultimo, il “nec plus ultra” della storia. Cosicché si era finito con il perdere il valore universalmente umano del marxismo, con il risultato di isolare la stessa classe operaia, che era apparsa agli occhi delle altre come un nemico pericoloso, in quanto non portatrice di libertà, ma di una ipotesi di dittatura.
La sconfitta del movimento socialista, cocente e terribile, appariva a Mazzali anche salutare, dato che liberava il socialismo stesso dalla presenza dei profittatori, degli speculatori, degli avventurieri. Sarebbe stata questa la premessa per l’espiazione e per la purificazione: sotto le forme della memoria del passato, il socialismo tornava a rivivere come speranza per l’avvenire.

Le vicende dell’esilio

Dopo il 1926, costretti a trasferire all’estero le loro sedi e i loro gruppi dirigenti, due furono i partiti socialisti che si trovarono ad operare in esilio, e specificamente in Francia: il Partito socialista italiano, qual era rimasto dopo la scissione comunista, e dopo l’espulsione dei riformisti, avvenuta al congresso di Roma all’inizio dell’ottobre 1922 (si era andati oltre la stessa volontà di Lenin che aveva chiesto “nominativamente” la sola espulsione di Turati); e il Partito socialista unitario dei lavoratori Italiani (PSULI), costituito dai riformisti all’atto della esclusione dal vecchio tronco del partito che Turati aveva contribuito a fondare.
I militanti e i dirigenti emigrati del primo erano conosciuti correntemente come “massimalisti”; quelli del secondo come “unitari”. Ovviamente si trovarono tutti alle prese con enormi problemi personali, ai quali si aggiungevano quelli politici e organizzativi. Avevano affrontato con coraggio la via dell’esilio, e si trovavano a dover fare i conti anche con l’esigenza di valutare con spregiudicatezza e severità gli errori compiuti, che avevano condotto alla sconfitta tutto il movimento socialista.
Ci si accorse che il primo e fondamentale di questi errori era stata la divisione e poi la frattura del partito. Entrambi aderirono alla Concentrazione antifascista, insieme con il Partito repubblicano, la Lega dei diritti dell’uomo e, più tardi, con Giustizia e Libertà, il movimento fondato dai fratelli Rosselli. Essa collegava i vari settori nell’antifascismo militante escluso quello comunista, che manteneva un atteggiamento settario e pregiudizialmente contrario a quella che considerava una collaborazione con forze della borghesia.
Nell’unità antifascista, maturò anche l’esigenza dell’unità socialista, che conquistò rapidamente tutto lo schieramento socialista, con l’esclusione di un piccolo irriducibile settore massimalistico, capeggiato da Angelica Balabanoff, una rivoluzionaria russa, che era stata nemica di Lenin, e che da tempo operava nel partito.
I “massimalisti” e gli “unitari” tennero due convegni aperti ad entrambi: il primo a Parigi, il 18 e il 19 dicembre 1927; il secondo a Marsiglia, l’8 e il 9 gennaio 1928. In entrambi, il desiderio, di natura sentimentale e politica insieme, di ricongiungersi in una sola organizzazione si manifestò con grande forza.
Ma il convegno decisivo fu quello del partito massimalista che si svolse a Grenoble il 16 e 17 marzo del 1930. Esso si divise, ancor prima di aprirsi, in due distinte riunioni: quella della maggioranza, guidata da Nenni, che si dichiarava favorevole a ricostruire l’unità con il PSULI; e quella, appunto, in cui era presente il gruppo della Balabanoff avverso alla riunificazione. Questa minoranza, avvalendosi di cavilli personali, riuscì a conservare per qualche tempo la sigla del partito, ma visse solo della polemica contro gli altri socialisti, andando gradualmente esaurendo la propria funzione e la propria attività politica.
Il congresso che decise formalmente la ricostruzione del partito, superando il precedente, fatale dissidio, si svolse a Parigi il 20 e il 21 luglio 1930, presso la casa del Partito socialista francese. Era da considerarsi come il XXI, essendosi l’ultimo, il XX, tenuto a Milano nell’aprile del 1923, con la separazione dal partito dei “fusionisti” di Serrato, divenuti in seguito in massima parte militanti comunisti.
Pietro Nenni tenne la relazione politica, delineando una linea che guardando al futuro, disegnava un processo di superamento del contrasto tra le due “anime” socialiste,
Protagonista dell’assise fu anche Giuseppe Saragat, che nel suo discorso fece propri i princìpi dell’austro-marxismo, e con un notevole e felice sforzo teorico dimostrò la possibilità e necessità di coniugare la pratica della lotta di classe con una convinta difesa della democrazia politica e della libertà.
I contenuti dei due discorsi furono recepiti nella Carta dell’Unità, approvata all’unanimità dai 96 delegati in rappresentanza dei 146 gruppi e sezioni, presenti al congresso. Insieme ad essa venne votata la deliberazione di aderire alla Internazionale Operaia Socialista (IOS), la Seconda Internazionale che si contrapponeva alla Terza Internazionale leninista.
Il più significativo passo della Carta dell’Unità era indubbiamente costituito dal punto terzo, che testualmente recitava:
“Il PSI lotta per organizzare un regime di democrazia in cui il libero sviluppo di ciascuno sia la condizione del libero sviluppo di tutti. Democratico nel fine, esso lo è anche nei mezzi”.
Questa dichiarazione rappresentava una sostanziale accettazione delle posizioni riformistiche. In questo quadro, il “rivoluzionarismo”, propugnato nel periodo 1919-26 in Italia dai “massimalisti” assumeva anch’esso un diverso significato; veniva a qualificarsi come ipotesi di lotta contro la dittatura, a salvaguardia di quelle libertà che in precedenza erano state considerate spregiativamente “borghesi”.
Infatti, proseguiva il testo del punto terzo, “il PSI considerava l’insurrezione come l’esercizio del diritto inalienabile del proletariato di respingere le violenze delle classi dominanti contro l’autonomia della classe lavoratrice e contro le comuni libertà”.
La riunificazione socialista non teneva però conto di un elemento nuovo cui pure Nenni aveva direttamente contribuito con la sua partecipazione all’esperienza del “Quarto Stato”.
L’elemento, appunto, introdotto dai Rosselli di una critica ideologica e politica complessiva dal socialismo al primo conflitto mondiale. Il revisionismo rosselliano risultava infatti del tutto assente dal processo di riunificazione socialista del 1930. Il discorso ideologico del ricostituito partito unitario era tutto incardinato sulla visione marxista, sia pure successivamente alla interpretazione democratica che ne aveva fornito, in modo del resto magistrale, Giuseppe Saragat.
Inoltre, la rifondata unità socialista ebbe come effetto di indebolire i rapporti tra le forze della concentrazione antifascista. Da un lato, i socialisti unificati assumevano una forza rispetto alla quale quella degli altri partecipanti appariva più sproporzionata. D’altro verso, s’accentuava la distanza con le posizioni revisionistiche di “Giustizia e Libertà”. Infine, andava sorgendo una crescente sollecitazione al gruppo dirigente socialista, di dare una risposta affermativa al problema di un rapporto unitario, sia pure non organico, con i “compagni separati” del Partito comunista.
Il secondo congresso all’estero (il XXII, il 16 e 17 aprile 1933, a Marsiglia nella sala St. Ferréol) confermò l’adesione alla Concentrazione antifascista, ma fu centrato sul problema dell’unità politica con i comunisti.
Poco più d’un anno dopo, il 14 luglio 1934, il Consiglio generale del Partito socialista si pronunciò, sia pure a determinate condizioni, per la stipulazione di un patto d’unità d’azione con il Partito comunista. Nenni propose un incontro tra le due Internazionali per esaminare la questione tedesca.
Ma la misura delle sconfitte non era ancora colma. Ci volle l’avvento di Hitler nel gennaio 1933, ci vollero nel 1934 il putsch reazionario a Parigi, la sconfitta della Comune di Vienna, la sanguinosa repressione delle Asturie in Spagna, perché si avvertisse, almeno nei paesi più impegnati nella lotto contro il fascismo, la necessità della politica unitaria.
Il primo accordo in questo senso intervenne tra socialisti e comunisti francesi. Il primo organico patto d’unità d’azione fu quello dei socialisti e dei comunisti Italiani. Esso porta la data del 17 agosto 1934. Precedentemente i due partiti sottoscrissero un appello comune contro il rischio di un intervento di Mussolini in Austria, suscettibile, nelle condizioni dell’Europa di allora, di provocare la guerra.
Significativa la lettura dei testi dell’appello e del patto.
AI LAVORATORI ITALIANI, A TUTTI GLI ANTIFASCISTI!
Il Partito socialista italiano e il Partito comunista d’Italia, nell’atto di iniziare la discussione sui problemi dell’unità d’azione proletaria nella lotta contro il fascismo e contro la guerra, sentono il dovere di denunciare senza indugio alle classi lavoratrici Italiane la minaccia di guerra che scaturisce dalla situazione politica internazionale attuale, dall’urto dei vari imperialismi e dalle misure di provocazione alla guerra prese dal fascismo italiano.
Venti anni dopo la carneficina che ebbe inizio nel 1914, si ripetono, anche formalmente, situazioni che pongono l’Europa sull’orlo della guerra.
L’uccisione del boia del proletariato austriaco ha dato pretesto al governo italiano di ammassare imponenti forze militari alla frontiera austriaca, dimostrando così, in modo palese, che a causa dei contrasti imperialisti e, in particolare, delle rivalità fra il fascismo hitleriano e quello mussoliniano, una scintilla può far divampare l’incendio della guerra.
Noi denunciamo l’ipocrisia con cui si tenta di ingannare le masse sui moventi e gli scopi della mobilitazione italiana. Non si tratta, come ipocritamente dice la stampa fascista, di un atto di difesa dell’indipendenza dell’Austria, ma di un atto di guerra per la dominazione dell’Austria e per l’oppressione dei lavoratori austriaci che lottano contro le bande di Hitler, di Stahrenberg e di Schuschnigg in difesa della loro libertà. È Mussolini che coi milioni sottratti ai lavoratori Italiani affamati ha appoggiato, assieme al Vaticano, la politica antioperaia ed antisocialista di Dollfuss conclusasi nei massacri di febbraio e nella impiccagione degli eroi proletari. Mussolini, Hitler, Stahrenberg, tutti quanti, sono i campioni della oppressione dei lavoratori. La sola lotta per l’indipendenza dell’Austria è quella del proletariato, alla testa di tutto il popolo lavoratore, contro le bande del fascismo mussoliniano, hitleriano e cattolico. Perciò la nostra parole d’ordine è:
Contro l’intervento in Austria!
Contro l’invio di armi e di truppe alla frontiera!
Per il ritiro delle truppe dalla frontiera!
Per la libertà della popolazione austriaca a disporre delle proprie sorti e a darsi il governo che corrisponde alle sue aspirazioni!
LAVORATORI, ANTIFASCISTI
Il pericolo di guerra investe oggi tutto il mondo, non soltanto perché la società capitalistica è una società di rapina e di sangue, non soltanto perché i trattati del 1919 hanno creato nuovi irredentismi e nuovi conflitti imperialistici, ma soprattutto perché la politica economica degli Stati capitalistici conduce inesorabilmente alla guerra.
Per sfuggire alla morsa della crisi economica che dal 1929 accumula stragi e rovine, tutti i paesi capitalistici si sono lanciati follemente verso il nazionalismo economico, elevando i dazi doganali ad altezze proibitive, ricorrendo a misure rigorose di contingentamento, a dumping, a guerre monetarie ecc.
Fra le conseguenze più tragiche di questa politica c’è l’immiserimento delle masse popolari, l’abbassamento del tenore di vita, l’impoverimento conseguente del mercato interno, la creazione e lo sviluppo di una industria e di una agricoltura di guerra, la subordinazione infine di tutta l’economia alle esigenze della guerra. Per imporre questa politica al proletariato e alle masse popolari, le classi dirigenti hanno fatto ricorso al sistema di Governo fascista distruggendo gli ultimi residui della democrazia. Reazione all’interno, guerra all’estero, sono i due aspetti sanguinosi dell’attuale politica capitalistica.
COMPAGNI, LAVORATORI, ANTIFASCISTI!
Nel ventesimo anniversario della guerra mondiale, che ha distrutto milioni di vite umane e ricchezze immense, che ha gettato l’umanità in una situazione di disoccupazione permanente, di miseria e di fame,, si impone da parte vostra una vigilanza di ogni momento e una lotta sistematica per sventare le provocazioni imperialistiche e fasciste nei punti nevralgici, dove da un momento all’altro può divampare l’incendio. Tali sono, oltre al problema austriaco, il conflitto del Pacifico, con la minaccia che l’imperialismo giapponese fa pesare sull’Unione Sovietica e sulla Cina; la politica di Hitler e di Pilsudski per l’espansione verso le terre slave dell’Est, cioè per l’occupazione e l’asservimento dell’Ucraina sovietica; i Balcani, campo di manovra dei vari imperialismi; i conflitti coloniali.
In questa situazione la guerra non può essere sventata che dall’azione compatta, in tutti i paesi, del proletariato e delle masse popolari. Contro la demagogia fascista che si sforza di fare accettare alle masse l’idea mostruosa della guerra come una evasione dalla insopportabile situazione di miseria e di oppressione in cui il capitalismo le tiene, i lavoratori si rifiutano di puntare sui dadi insanguinati della guerra. Essi sono decisi a sostenere una politica di pace come l’Unione Sovietica ne offre l’esempio e considerano fra i loro più impellenti doveri la difesa dell’URSS e la rivendicazione per tutti i popoli oppressi al diritto dell’autodecisione.
LAVORATORI, ANTIFASCISTI!
Tutti i fattori economici, politici, psicologici di guerra sono in Italia portati al parossismo. Mussolini, nel suo discorso del 26 maggio, ha indicato nella guerra il fine della sua politica di affamamento e di abbruttimento di tutti gli strati della popolazione lavoratrice. All’ecatombe dei migliori combattenti antifascisti, il fascismo vuol far seguire l’ecatombe di milioni di giovani vite umane. Il Partito comunista d’Italia e il Partito socialista italiano si opporranno con tutti i mezzi a questo crimine, e mentre nembi di guerra si addensano all’orizzonte italiano ed europeo, essi dicono ai lavoratori che c’è una sola guerra giusta: quella degli oppressi contro gli oppressori, quella degli sfruttati contro gli sfruttatori, quella che al disopra delle frontiere affratella tutti i lavoratori che vogliono abbattere la ignominiosa dittatura fascista e capitalista.
La nostra parola d’ordine è: Né un uomo, né un soldo per la guerra. Distribuzione ai disoccupati, agli invalidi, ai contadini poveri delle somme dei bilanci militari, della milizia fascista e della polizia. E ai soldati che il fascismo mandasse oltre i confini per opprimere altri popoli, i due partiti dicono: Fraternizzate con i lavoratoti austriaci, appoggiate la loro lotta contro le bande fasciste, fraternizzate con i soldati di tutte le nazionalità; siate fedeli a una sola bandiera: la bandiera rossa della Rivoluzione socialista.
31 luglio 1934
Il Partito socialista italiano
(Sezione dell’IOS)
Il Partito comunista d’Italia
(Sezione dell’IC)
Ed ecco il testo del patto:
I – Le delegazioni del P.C. d’Italia e del P.S.I. riunite per discutere i problemi dell’unità d’azione proletaria, hanno constatato che nel piano generale dei principi e nel giudizio sulla situazione internazionale, sussistono tra di loro divergenze fondamentali di dottrina, di metodo, di tattica che si oppongono ad un fronte politico generale, a maggior ragione ad una fusione organica. Ma queste divergenze non tolgono che esista una confluenza dei due partiti su punti precisi, concreti, attuali della lotta proletaria contro il fascismo e contro la guerra.
Ubbidendo quindi alla esigenza di sviluppare al massimo la tensione e la concentrazione delle forze popolari a cui essi si indirizzano e di assicurare al proletariato, interprete degli interessi generali della società la direzione della lotta politica, i due partiti stabiliscono tra di loro un patto di accordo in vista degli obiettivi seguenti:
a) contro l’intervento in Austria e in genere contro la minaccia di guerra che scaturisce dagli antagonismi degli interessi imperialisti e dalla politica fascista di provocazione alla guerra. Le direttive di questa azione sono state precisate nel manifesto comune del 31 luglio cui devono ispirarsi, nella loro azione locale, i gruppi e i militanti dei due partiti;
b) per strappare alle prigioni e alle isole di deportazione le vittime del tribunale speciale e della repressione ed imporre l’amnistia totale ed incondizionata; per la partecipazione attiva alla campagna internazionale per Thaelmann e Seltz e per tutte le vittime del fascismo;
c) per la difesa e il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori; contro ogni riduzione dei salari e degli stipendi, per il sussidio a tutti i disoccupati, contro i sequestri, per l’annullamento dei debiti e delle imposte ai contadini poveri, per tutte le rivendicazioni immediate delle masse lavoratrici;
d) contro il sistema corporativo, per la libertà sindacale, per la rappresentanza dei lavoratori nelle aziende, per la libertà di organizzazione di stampa e di sciopero, per la elezione libera di tutte le cariche sindacali, per la rivendicazione di tutte le libertà popolari.
II – I due partiti, tenendo presenti le possibilità locali, si impegnano a dare alle rispettive organizzazioni di base, ai gruppi e a tutti i militanti le istruzioni necessarie per promuovere e coordinare, nelle forme che risultassero più adatte alle particolari situazioni, delle azioni comuni per gli obiettivi fissati nel presente patto.
III – I due partiti si impegnano a dare istruzioni alle rispettive organizzazioni dei paesi di emigrazione italiana perché associno le loro forze all’azione per sostenere le lotte all’interno del proletariato italiano e contro la penetrazione del fascismo tra le masse emigrate e perché, attraverso le organizzazioni sindacali e politiche indigene, assicurino la difesa degli emigrati.
IV – I due partiti, nei limiti della disciplina verso le rispettive Internazionali, useranno della loro influenza per spianare la via in ogni paese a una politica di unità d’azione.
V – I due partiti conservano la loro piena e intera autonomia funzionale e dottrinaria. Ognuno di essi continua la specifica propaganda e azione, impegnandosi a valersi dell’incontrastato diritto di esprimersi con piena franchezza sui dissensi dottrinali e tattici che tuttora si oppongono a un fronte politico generale ed alla fusione organica, in modo tale da non urtare ed ostacolare lo svolgimento delle azioni comuni già concordate.
VI – 1 due partiti conservano piena libertà di sviluppare il proprio reclutamento. Essi convengono che nel corso dell’azione comune si asterranno da ogni intervento nel seno dell’altro partito per disgregare le organizzazioni e romperne la disciplina.
VII – Le delegazioni dei due partiti si manterranno in collegamento e si potranno convocare a richiesta di una delle due, per esaminare e concretizzare nuove eventuali proposte interessanti la realizzazione del presente accordo, ogni eventuale punto di contrasto che sorgesse.
Parigi, 17 agosto 1934.

Il Partito socialista italiano
(Sezione dell’IOS)
Il Partito comunista d’Italia
(Sezione dell’IC)
La svolta rappresentata dal patto era stata preceduta e fu seguita da una revisione delle condizioni in cui la lotta contro il fascismo era stata fino allora imposta.
La conseguenza fu che il patto mise in crisi e portò allo scioglimento della Concentrazione antifascista che era sorta a Parigi nel 1927, continuando spiritualmente la battaglia dell’Aventino e alla fine del patto di alleanza con Giustizia e Libertà. La nuova impostazione fu portata a compimento dal Consiglio generale del partito che si riunì a Parigi nel luglio 1934. La mozione conclusiva del Consiglio cominciava col constatare che “lo scioglimento della Concentrazione e la cessazione del patto di alleanza con Giustizia e Libertà non significano né attenuazione della lotta antifascista, né rinuncia alla possibilità di azione comune”. Essa liquidava quella che fu l’illusione aventiniana e in parte l’illusione concentrazionista, l’illusione cioè che “contro il fascismo potesse avere un massimo di efficacia una lotta che rivendicasse genericamente l’esercizio delle pubbliche libertà e si limitasse a proporsi la restaurazione dello Stato liberale e costituzionale”. E precisava: “Una simile impostazione della lotta non ha più alcuna presa sulla realtà e sarebbe ormai impotente a mobilitare i lavoratori, le masse popolari, dalla cui offensiva soltanto il regime fascista può essere travolto. L’antifascismo non può vincere che come anticapitalismo”. Vale a dire che la lotta antifascista non può essere vittoriosa “che come lotta di classe del proletariato e sotto la guida del suo partito politico, il Partito socialista”.
Il dissenso con G.L. era nato attorno al problema “lavorare con le masse”. Alla domanda che la tattica delle lotte parziali comporti un pericolo di compromesso, la mozione rispondeva nettamente no “perché la sua logica interna, il suo sviluppo inevitabile porterà il partito e il proletariato a cozzare contro l’insieme del regime. Socialismo e fascismo si negano l’un l’altro totalitariamente: uno non può essere se l’altro sparisce. Per avere dimenticato questa antitesi fondamentale ed assoluta, il gruppo Rigola, sulla cui traccia si muove Caldare, si è posto fuori del socialismo, diventando uno strumento dell’orchestra fascista, che il concertatore Mussolini utilizza per le necessarie dissonanze”.
Né si dica, precisava la mozione, che l’antitesi socialismo-fascismo è ideale ed astratta. “Essa investe tutti gli aspetti della vita italiana, s’apre come un bivio ad ognuna delle sue svolte, si fa sentire nella soluzione di tutti i suoi problemi politici, economici, sociali, culturali. Quest’antitesi deve diventare così concreta e sensibile ch’essa si trovi in fondo a ciascuno di questi problemi e di queste soluzioni. I socialisti negano il fascismo attraverso il loro programma concreto, che è il programma socialista italiano e che vuole assicurare allo Stato socialista, attraverso l’espropriazione del capitale monopolistico e la distruzione di ogni feudalità rurale, i posti di comando della economia nazionale”.
Per dare ai lavoratori fiducia in se medesimi la prima condizione – e la più necessaria – era di realizzare “una tensione ed una concentrazione massima di tutte le forze vive della classe operaia”. Si poneva così il problema dell’unità d’azione coi comunisti.
Il problema fu risolto col patto del 17 agosto 1934. L’evento fu celebrato in un memorabile comizio alla sala Bullier il 21 agosto 1934 in cui parlarono Nenni e Nicoletti (Di Vittorio), Leon Blum e Marcel Cachin. Alla fine della manifestazione fu votato il seguente ordine del giorno: “I lavoratori parigini e gli immigrati Italiani fraternamente riuniti al comizio della sala Bullier, salutano l’unità d’azione proletaria realizzata nei due paesi e che in Italia spezzerà la dittatura di fame e di sangue del fascismo, mentre in Francia sventerà i piani di fascistizzazione della borghesia; riaffermano la solidarietà del proletariato italiano e francese nella lotta contro la guerra, contro gli appetiti dei due imperialismi, per la difesa dell’URSS e della sua politica di pace, contro le provocazioni antisovietiche del Giappone che sollevano l’indignazione e la collera delle masse popolari; protestano contro la xenofobia degli elementi più reazionari della borghesia, che fornisce pretesti alla demagogia dei fascisti Italiani per scatenare una campagna di odio nazionale ai fini della guerra; si associano all’iniziativa dei patronati delle vittime del fascismo per l’invio in Italia di una commissione internazionale d’inchiesta sulla sorte dei prigionieri e dei deportati antifascisti; e acclamando i nomi dei valorosi compagni Gramsci, Terracini, Pertini e Lucetti esigono l’amnistia totale e incondizionata di tutte le vittime del terrore fascista italiano”.
“Siamo all’inizio di grandi cose”, commentarono Tasca e Saragat che dovevano l’uno dopo pochi anni e l’altro nel 1947 rifiutare l’unità d’azione. In effetti essa sortì il risultato che si era assegnato di rinvigorire l’azione politica contro il fascismo e la guerra. Il momento culminante dell’ascesa proletaria nell’Europa occidentale fu il 1936 con la vittoria elettorale del fronte popolare in Francia e in Spagna. La crisi cominciò nel 1937, con la politica del non intervento delle democrazie occidentali nella guerra di Spagna, si accentuò nel 1938 con la polemica sulla capitolazione di Monaco, raggiunse il suo punto estremo di rottura nel 1939 con il patto di non aggressione hitlero-sovietico. L’unità d’azione non determinò un accordo tra le due internazionali, l’Internazionale operaia socialista e l’Internazionale comunista. La questione fu discussa a fondo dall’esecutivo della IOS nella sessione dal 13 al 16 novembre 1934 a Parigi.
Le posizioni furono le seguenti (riportiamo il verbale della riunione):
Leon Blum attestò che l’unità d’azione aveva inizialmente provocato un certo disorientamento in Francia ma che il fronte comune si era consolidato e guadagnava terreno ogni giorno. Egli si rendeva conto che l’unità d’azione era per il momento inapplicabile come regola generale dell’Internazionale ma esortava l’esecutivo a non creare dissonanze troppo accentuate.
Otto Bauer (Austria) considerava assurdo giudicare il problema dal punto di vista elettorale. Il proletariato si trovava di fronte al duplice pericolo della fascistizzazione dell’Europa occidentale e della guerra. Bisognava discutere con Mosca dove molte cose erano cambiate. L’URSS si sentiva minacciata e i socialisti non potevano ignorare che forse il socialismo sarebbe indietreggiato di una generazione in tutto il mondo. La democrazia è vinta in Germania e in Austria e con essa il proletariato. Dobbiamo chiederci se non sarebbe stato lo stesso in Russia ove la democrazia fosse stata mantenuta nel 1917 e non ci fosse stata la Rivoluzione bolscevica d’Ottobre. La democrazia ci è cara ma per un certo numero di paesi è ormai chiaro che non si andrà al socialismo attraverso la democrazia ma alla democrazia attraverso il socialismo. Se l’Internazionale non può agire in questo senso, lasci liberi i partiti di farlo nazionalmente.
Dan (nel 1917 presidente del Soviet di Mosca e attualmente leader della socialdemocrazia russa “menscevichi” in esilio). Le condizioni di un riavvicinamento con la Russia esistono e bisogna marciare in questo senso. È necessario discutere coi comunisti senza porre condizioni inaccettabili come sarebbe quella di chiedere ai bolscevichi di ristabilire in Russia la libertà quale è concepita in Occidente. L’accordo potrà realizzarsi se i negoziati saranno posti sotto il segno della lealtà rivoluzionaria.
Albarda (Olanda), Soukup (Cecoslovacchia), Andersen (Danimarca) si dichiaravano pregiudizialmente contrari a ogni collaborazione coi comunisti.
Gillies (Labour Party): il solo punto che interessa il Labour Party non è di sapere se gli Italiani e i francesi hanno fatto bene o male ma se si deve internazionalizzare il patto. Il Labour Party è fermamente contrario. Esso ha fatto un’esperienza conclusiva col comitato anglo-russo del 1925. D’altra parte al Labour Party ripugna la manovra e non vuole dichiararsi pronto a discutere con Mosca per poi porre delle condizioni tali da far naufragare l’intesa. Italiani e francesi hanno fatto un matrimonio sperimentale. Aspettiamo i risultati.
Vandervelde (presidente della IOS) considerava sempre valida l’offerta d’azione comune del 1929. Si trattava di realizzarla secondo le condizioni locali.
Adler (segretario della IOS). Per evitare le manovre occorre porre il problema sul piano internazionale. Noi dobbiamo dire che l’IOS è pronta a discutere con l’IC il problema nel suo insieme. Si è parlato di condizioni. Non dobbiamo porne che concernano il regime interno della Russia. L’Internazionale mancherebbe alla sua funzione se si dimostrasse tiepida o incerta quando è in causa l’unità della classe operaia.
Circa nello stesso senso si pronunciavano De Brouckere (Belgio), Buchinger (Ungheria), Grimm (Svizzera).
Nenni ravvisava nel modo con cui inglesi e scandinavi ponevano il problema il sintomo della loro incapacità a capire gli avvenimenti. Sono sicuri gli olandesi, i belgi, gli scandinavi e gli inglesi di avere ancora molto tempo per accudire alle elezioni? Si rendono conto o no che l’Europa è entrata in una danza rivoluzionaria che non si arresterà alle frontiere dei loro paesi? Si rendono conto che siamo entrati concretamente in una fase in cui la guerra diviene inevitabile se non si forma a tempo un fronte unico contro il nazi-fascismo?
Il problema è essenzialmente internazionale. Se ci si estranea dalla tragica situazione presente dell’Europa e del proletariato si può considerare che taluni partiti comunisti, come l’inglese, l’olandese, il belga sono numericamente trascurabili. Ma chi dirà che l’Unione Sovietica è una forza trascurabile? Il grande problema del momento è trarre l’Unione Sovietica dal suo isolamento. Per questo una conferenza comune delle due Internazionali avrebbe un valore immenso e decisivo. Soltanto chi ignora la minaccia del fascismo e della guerra può dire che il problema dell’unità d’azione non è attuale. Ma chi ignora la minaccia del fascismo e della guerra rischia di svegliarsi un giorno con la guerra in casa.
La sessione dell’esecutivo si concluse praticamente con un niente di fatto. La minoranza espresse il suo pensiero nel documento seguente:
“I sottoscritti delegati della IOS affermano il loro convincimento che nelle attuali circostanze, davanti allo sviluppo del fascismo e all’aggravarsi dei pericoli di guerra in Europa, in presenza di movimenti che si sono spontaneamente prodotti nel seno della classe operaia in favore della unità d’azione l’IOS doveva rinnovare con insistenza la sua proposta del febbraio 1933 chiedendo alla IC se essa è pronta a ricercare, in piena eguaglianza di diritti fra tutti i partiti affiliati, le condizioni di una azione comune sul piano internazionale, contro la guerra, per la difesa delle libertà democratiche là dove esistono, per la battaglia rivoluzionaria nei paesi dove il fascismo le ha soppresse. I sottoscritti esprimono in ogni modo la loro soddisfazione per il voto col quale l’esecutivo riconosce a ciascuna delle sue sezioni nazionali la libertà di organizzare la lotta contro il fascismo e la guerra secondo le condizioni proprie a ciascun paese. Essi formulano il voto ardente e fiducioso che i risultati dell’azione comune nei paesi dove essa è fin d’ora impegnata determinino, a breve scadenza, l’IOS a realizzare l’unità che impongono al proletariato mondiale i pericoli della situazione attuale e l’interesse della sua lotta internazionale”.
Firmato: Blum, Bracke, Longuet (Francia); Grimm (Svizzera); Del Vayo (Spagna); Nenni, Modigliani (Italia); Erlich (Bund polacco); Dan (menscevichi russi); Otto Bauer, Polak (Austria).
Un secondo tentativo per provocare una riunione comune delle due Internazionali fu fatto durante la guerra di Spagna, nel 1937, da Bauer, Ziromsky e Nenni; anch’esso senza risultati. Finché i due tremendi equivoci e i due tremendi errori di Monaco (1938) e del patto di non-aggressione hitlero-sovietico (1939) portarono l’Europa e il mondo alla guerra fascista, nelle peggiori condizioni in cui mai il proletariato si fosse trovato.(4)

Capitolo 6

IL FRONTISMO

L’unità a sinistra

La sinistra italiana è indubbiamente quella che più a lungo ha vissuto l’esperienza del Fronte popolare nella sua tormentata storia.
Questa esperienza occupa un arco di tempo di oltre un quarto di secolo, dall’inizio degli anni Trenta fino alla fine degli anni Cinquanta. Quindi essa costituisce una parte importante, essenziale della storia del Partito socialista e del Partito comunista, e può essere giudicata compiutamente soltanto tenendo presente l’intreccio dei rapporti costanti dei due partiti, sia sul piano della polemica teorica, sia su quello dell’azione politica.
Occorre distinguere due fasi. La fase dell’esilio, in cui le decisioni politiche dei due partiti, organizzazioni esclusivamente di vertici all’estero, soprattutto in Francia, hanno scarsa eco sulla realtà sociale all’interno dell’Italia, dov’era possibile solo una difficilissima azione clandestina. E questa situazione di per se stessa predisponeva i due partiti sia alle polemiche aspre, tipiche della minoranza in esilio, sia alla ricerca di una qualche unità, per meglio salvaguardare ciò che c’era da difendere.
Una seconda fase, dopo la caduta del fascismo, in cui la politica del Fronte popolare ha una diretta rispondenza con la realtà italiana. Protagonista della politica del Fronte popolare fu certamente, per l’Italia, Pietro Nenni.
Il ruolo svolto in questa politica, dalla fine degli anni Venti fino alla metà degli anni Cinquanta, dall’esilio alla Liberazione, dalla istituzione della Repubblica alla crisi dello stalinismo, da questo leader socialista è stato oggetto di una meticolosa ed approfondita ricostruzione storica, basata su originali fonti documentali, da parte di Giuseppe Tamburrano.(1)
Da tali ricerche è stato messo in luce, in modo inconfutabile, come Nenni fu iniziatore di questa politica ancor quando i rapporti tra socialisti e comunisti erano rapporti di violenta polemica. Pesavano su di essi i retaggi della scissione del 1921 e gli aspri contrasti che li avevano divisi, favorendo la vittoria del fascismo, e che si erano protratti anche negli anni dell’esilio.
In Francia, come s’è visto, dopo la riunificazione socialista, il PSI aveva aderito alla Concentrazione antifascista, costituita sulla base di un’alleanza con le forze liberal-democratiche e con quella liberalsocialista di Giustizia e Libertà; mentre il P.C. d’I. (Partito comunista d’Italia, come era allora la denominazione di questo partito) non solo era rimasto estraneo alla Concentrazione, ma aveva condotto contro la Concentrazione, e contro i socialisti in particolare, una campagna settaria e denigratoria, che aveva ripetutamente colpito lo stesso Nenni di persona.
Tuttavia la posizione di Nenni, nella Concentrazione e nello stesso partito, si contraddistingueva sempre per il suo dichiarato intendimento di perseguire l’obiettivo dell’unità di tutta la sinistra, dopo aver realizzato quello dell’unità dei socialisti – superando la divisione che tra di essi si era determinata in Italia prima dell’esilio – e l’unità con le forze democratiche antifasciste.
Perché Nenni insisteva in questo proposito? Per due ragioni: la prima, di ordine teorico, in quanto egli rifiutava il revisionismo liberal-socialista di Rosselli, ritenendo valido il marxismo come piattaforma ideologica della sinistra, e riteneva superato il riformismo, perché, a suo giudizio, rinunciava a una trasformazione rivoluzionaria della società, sia pure in termini democratici; la seconda ragione, più squisitamente politica, risiedeva nel fatto che la sua riflessione sull’esperienza della sconfitta della sinistra e della democrazia in Italia portava a ritenere indispensabile la convergenza di tutte le forze antifasciste Italiane ed europee.
Da parte comunista la risposta era però negativa. Soprattutto essa si fece incredibilmente faziosa quando la direzione del P.C.d’I. era stata letteralmente costretta dall’Internazionale comunista ad allinearsi alle tesi staliniane.
L’Internazionale comunista, presupponendo una crisi generale imminente del capitalismo, lanciava la parola d’ordine della rivoluzione in Europa e della conseguente lotta al socialfascismo, il quale, a detta dell’IC, operava per cancellare e annullare lo spirito rivoluzionario delle masse.
Questo allineamento repentino aveva provocato una crisi politica nel partito italiano, perché lo portava a smentire le tesi approvate al congresso di Lione del 1927, dove esso aveva trovato una unità di fondo sulla linea gramsciana, gestita in maniera centrista da Palmiro Togliatti, e sulla quale erano confluite le posizioni della destra di Tasca e della sinistra di Longo.
Togliatti era in quel periodo su posizioni sostanzialmente convergenti con quelle di Bucharin, sia per quanto riguardava l’analisi della società sovietica e le linee di costruzione dello Stato socialista; sia per quanto concerneva le valutazioni tutt’altro che catastrofiche della fase che il capitalismo internazionale stava attraversando, e la conseguente necessità di un’azione non settaria dei partiti comunisti occidentali, affinché essa si rivolgesse a creare alleanze più vaste, riallacciando migliori relazioni con i partiti socialisti dell’Europa.
In realtà, la posizione centrista di Togliatti (Gramsci era ormai fuori giro) e di Ruggero Grieco era più vicina a quella della destra di Tasca che non a quella della sinistra comunista.
Negli ambienti socialisti, e specie in Nenni, questa situazione politica determinatasi nel P.C.d’I., dopo il congresso di Lione, aveva indotto a bene sperare sulla possibilità di una ripresa della politica unitaria delle sinistre.
In questa prospettiva, dunque, essi ritenevano necessario respingere ogni seduzione revisionista, tipo quella proposta dai Rosselli, che giudicavano superato il marxismo in quanto incompatibile con la democrazia; sia le posizioni riformiste di Turati, di Modigliani, di Faravelli.
Queste impostazioni – così ragionavano Nenni e i suoi seguaci – non solo erano erronee, ma, se fossero state accolte, avrebbero ostacolato, o addirittura impedito, l’attuazione di una politica unitaria delle sinistre, una volta riconosciuta la sostanziale validità delle posizioni socialiste da parte di tutta la sinistra. Notevole fu quindi la loro delusione quando dovettero assistere a una svolta inusitata e repentina nella linea del P.C.d’I., una svolta che creava, tra l’altro, una condizione di rigida dipendenza dei comunisti Italiani dall’Unione Sovietica, in termini che fino ad allora non s’erano ancora verificati, e segnerà per lunghissimi tempi la vita e la strategia politica del comunismo italiano.
Questa svolta avviene con l’estromissione di Angelo Tasca che, rappresentante nell’esecutivo dell’Internazionale comunista, s’era rifiutato di avallare la scomunica nei confronti della cosiddetta “destra” del PC bolscevico, e degli altri partiti comunisti, a cominciare da quello tedesco. Tasca aveva ribadito, anche nelle successive riunioni del P.C.d’I. le sue tesi critiche sugli sviluppi dell’industrializzazione forzata in URSS, e del catastrofismo dell’Internazionale. Difese fino in fondo il diritto alla libertà di opinione e l’esigenza di garantire il dibattito politico nell’Internazionale e nei singoli partiti comunisti.
Erano le stesse posizioni assunte dal suo partito al congresso di Lione, due anni prima.
Togliatti e gli altri dirigenti accettarono la nuova linea che l’Internazionale, cioè l’URSS, imponeva in modo drastico. Tasca rifiutò invece di fare l’autocritica, e pertanto venne espulso alla fine del 1929.
Dopo la svolta di Togliatti e del gruppo dirigente del P.C.d’I., i rapporti tra comunisti e socialisti divennero rapporti tra nemici. Osserva Tamburrano che “i comunisti guardavano ai socialisti come al peggior nemico, e questo rendeva difficile, impossibile ai socialisti un dialogo”. Per oltre tre anni è un susseguirsi di attacchi, di polemiche, di ingiurie.
Fu solo dopo la vittoria elettorale di Hitler in Germania che Adler nell’agosto del 1932 propose l’intesa tra l’Internazionale socialista e quella comunista contro il fascismo e il nazismo trionfanti. Nenni, concordando sull’iniziativa, propose a sua volta nella relazione al XXII congresso del partito un’iniziativa analoga, di “unità proletaria”, ricevendone però una risposta negativa dai comunisti Italiani.
Ancora più evasiva è la posizione dei comunisti Italiani quando, nei primi mesi del 1933, il Comintern non sa dare una risposta precisa all’invito formulato dall’Internazionale operaia socialista (IOS) il 19 febbraio “per l’unità d’azione contro il fascismo e la guerra”. Anzi ancora di più si inaspriscono gli attacchi contro i socialisti e contro Nenni in particolar modo. Il gruppo dirigente comunista avverte che la possibilità di un’azione comune con i socialisti contro il fascismo comincia ad attirare l’interesse dei militanti dei due partiti, e giunge a calunniare in modo pesante il leader socialista, perché ne teme la capacità di influenzare la loro base in questa direzione. Perciò cercano di screditarlo e non esitano a ricorrere ad ogni mezzo.
Nenni non desiste dalle sue proposte e dalle sue motivazioni. Scrive: “L’angoscia degli operai, davanti alle nostre divisioni, viene dal sentimento che essi hanno del tragico sbocco reazionario di tutte le lotte intestine del proletariato”. Sono superate anche le resistenze che si erano manifestate all’interno dello stesso PSI. E al congresso di Marsiglia (17-18 aprile 1933) viene approvato un ordine del giorno in cui si afferma, come obiettivo, “l’unità organica della classe operaia, lavorando alla sua unità di pensiero e di azione”.
È il pieno successo della linea nenniana, all’interno del Partito socialista, che non viene confortato per il momento da un’adeguata accoglienza da parte comunista.
Si può a ragione affermare che la politica unitaria fu voluta innanzitutto e soprattutto dai socialisti, e da Nenni in particolar modo.
Questa iniziativa unitaria ha come suo riflesso una crisi nei rapporti tra il PSI e gli altri partiti democratici della Concentrazione antifascista, in special modo con il gruppo di Giustizia e Libertà che fa capo a Rosselli, il quale nel 1932 aveva pubblicato a Parigi il suo volume Socialisme Libéral che contiene una critica radicale del marxismo e del “vecchio socialismo” che ad esso si ispirava. Su tali presupposti, i Rosselli, Lussu ed altri avevano dato vita a un movimento per un “nuovo socialismo”, di cui avevano pubblicato il programma sul numero 1 dei “Quaderni di Giustizia e Libertà” nel gennaio del 1932.
Il netto revisionismo rosselliano, il prestigio culturale e politico dei capi di questo movimento, rafforzato dall’intransigenza e dal coraggio da essi dimostrato nella lotta antifascista, in patria e all’estero, facevano di questa formazione un agguerrito concorrente politico del Partito socialista. D’altro lato, il PSI non ne poteva accettare l’ardito revisionismo ideologico, che sarebbe risultato in contrasto con la sua iniziativa unitaria verso sinistra, perché avrebbe aggiunto altri motivi alla già cruda polemica con il PCI.
Alla politica unitaria il PSI sacrifica intanto almeno un tentativo di aggiornamento dottrinario e di rinnovamento culturale, respingendo le sollecitazioni che provenivano in tal senso dal movimento del “nuovo socialismo”. Legato ai moduli di una stretta ortodossia rivoluzionaria collettivista; debole nei suoi raccordi con la realtà italiana e con la lotta antifascista interna al paese, nonostante il coraggio e il valore dei suoi militanti del Centro interno, il Partito socialista sembra giocare tutte le sue carte sulla iniziativa unitaria, che coglie nel segno quando mette in evidenza il persistente settarismo comunista e con esso la tragica astrattezza di una strategia politica basata sulla totale irrealtà di una possibile crisi catastrofica del capitalismo, e sulla conseguente possibilità di una rivoluzione a breve scadenza.
Per intanto il rifiuto di un qualsiasi discorso revisionista da parte del PSI conduce ad una crisi dei rapporti con Giustizia e Libertà e alla dissoluzione della Concentrazione antifascista.
Qui il piano nenniano riceve una parziale smentita dai fatti: invece di riuscire ad attrarre i comunisti nell’ambito di una più ampia concentrazione di forze democratiche nella lotta contro il fascismo, il PSI è costretto a mettere in crisi i rapporti di alleanza esistenti. In più esso deve rinunciare a un confronto con i comunisti sul terreno del superamento di quelle pregiudiziali ideologiche rigorosamente collettivistiche e rivoluzionarie che la storia aveva già in quegli anni mostrate discutibili e pericolose.
L’incapacità di rendersi conto delle sostanziali ragioni che spingevano Rosselli e i suoi a impegnarsi in uno sforzo di revisione teorica e di ammodernamento, appare nelle stesse affermazioni di Nenni, con cui egli motivava la rottura della Concentrazione antifascista, avvenuta il 5 maggio del 1934.
Nenni parlava di “pruriti antisocialisti del mondo piccolo borghese, i quali assumono generalmente la forma dell’antimarxismo”, e sosteneva che “col socialismo di Giustizia e Libertà il partito non ha comunità né di mezzi né di fini” per riaffermare, con toni marcatamente propagandistici, che “il socialismo marxista è classista, marxista, proletario, esso ha la sua base indistruttibile nella lotta di classe”.
Come si vede, non c’era stato alcuno sforzo serio di dare risposte ai problemi che venivano posti dal movimento revisionista. La polemica nenniana era volta a dimostrare che la responsabilità della rottura dell’alleanza ricadeva esclusivamente su Giustizia e Libertà, scrivendo: “La tendenza di Giustizia e Libertà alla egemonia, il suo sforzo ad individuarsi minavano fatalmente le basi della Concentrazione ed esigevano una chiarificazione. Questa è avvenuta e si è concretizzata nella rottura”.
In realtà era Nenni a volere questa rottura definitiva. È difficile infatti dargli ragione sulla sua contestazione del diritto di Giustizia e Libertà di darsi una propria identità politica, quando tutte le forze della Concentrazione, a cominciare dal PSI, ne avevano una propria e ben marcata. Quanto alla egemonia presunta di Giustizia e Libertà, egli ne dovrà presto conoscere ben altre, e fare i conti con queste in modo ben più duro.
La ragione per cui Nenni vuole la rottura con Giustizia e Libertà stava proprio nella sua convinta iniziativa unitaria verso il Partito comunista. Egli riteneva di assumere maggiore efficacia, presentandosi slacciato da ogni esigenza di rivedere criticamente il patrimonio ideologico che era stato alla base del fallimento della sinistra italiana di fronte al fascismo. Forse i tempi non permettevano di guardare tanto per il sottile. Ma così facendo si perseguiva, forse con maggiore successo, la politica unitaria; ma su un terreno, quello della resa ideologica al dogmatismo leninista, che avrebbe alla lunga indebolito anche i caratteri positivi di questa politica.
È in tale quadro che tre mesi e dodici giorni dopo lo scioglimento della Concentrazione, il 17 agosto 1934, viene sottoscritto il I Patto d’Unità d’Azione. Come mai il P.C.d’I. ha cambiato la sua posizione?
Sull’atteggiamento dei comunisti hanno influito alcuni fattori di rilevante importanza.
Il primo era dato dallo choc dell’avvento al potere di Hitler e dalla disfatta del Partito comunista tedesco, sotto la guida settaria di Thalmann.
Lo spettro del nazifascismo diventa un pericolo prossimo e incombente. I suoi successi imbaldanziscono le forze reazionarie in ogni paese europeo e i lavoratori si sentono in pericolo sia nella loro condizione economica e sociale, sia nei loro diritti di libertà: per loro la democrazia ormai non è più soltanto un complesso di istituzioni rappresentative, ma anche di istituzioni sociali (libertà di organizzazione, diritto di sciopero, sicurezza sociale) da difendere e da potenziare e contro le quali si muove l’attacco delle destre.
In questo scenario prende forza l’intuizione nenniana dell’efficacia della parola d’ordine dell’unità tra i lavoratori nella lotta contro il pericolo fascista. Questa nuova realtà è tanto più viva ed accettata in Francia, dove un mese prima, in luglio, la SFIO e il PCF hanno stipulato il loro patto unitario.

La tattica comunista

Lo scopo che i comunisti perseguono è eminentemente tattico. Lo rivela in quelle settimane un articolo dell’Internationale comunista, secondo il quale lo scopo di questa tattica è immutato: “Facilitare (dice testualmente) alle masse socialdemocratiche il loro passaggio al comunismo in vista della conquista del potere sovietico”. E conclude: “Dobbiamo denunciare i socialisti che si oppongono al fronte unico; ma ancora di più quelli che cercano di sostituire a questa parola d’ordine quella dell’unità organica che tende a cancellare la differenza tra il comunismo e la socialdemocrazia”.
All’unità organica tende, all’opposto, la politica di Nenni, per cui l’intesa tra i due partiti dev’essere non tattica, ma strategica, anche se deve procedere con la dovuta gradualità.
“Per i comunisti, inoltre, nonostante l’unità d’azione, la lotta sul terreno ideologico continua; anzi deve essere intensificata”: così scrive Ruggero Grieco, prestigioso dirigente comunista. Nenni, come abbiamo visto, difendendo l’ortodossia statalista e rivoluzionaria contro il revisionismo di Giustizia e Libertà ha di fatto abdicato a ogni confronto ideologico con il comunismo, per far valere le ragioni giuste del socialismo anche sul piano teorico, oltre che su quello strettamente politico e contingente.
Questo atteggiamento suscita le critiche dei suoi oppositori interni, come Treves e Modigliani, i quali, pur accettando la linea di unità, segnalano quelli che ritengono i limiti e i pericoli per il modo in cui viene ad essere realizzata.
Il testo del patto unitario sottoscritto il 17 agosto mostra che in esso prevale la linea comunista, e vi prevale in modo netto, inequivoco. “Le delegazioni riunitesi – inizia il documento (v. Cap. V) – per discutere i problemi dell’unità d’azione proletaria hanno constatato che sul piano generale dei princìpi e sul giudizio sulla situazione internazionale sussistono tra di loro divergenze fondamentali di dottrina, di metodo, di tattica che si oppongono a un fronte politico generale, e a maggior ragione ad una fusione organica. Ma queste divergenze non tolgono che esista una confluenza dei due partiti su punti precisi, concreti, attuali della lotta proletaria contro il fascismo e contro la guerra”.
E prosegue: “I due partiti stabiliscono tra loro un patto d’accordo, in vista degli obiettivi seguenti:
a) contro l’intervento in Austria ed in genere contro la minaccia di guerra che scaturisce dagli antagonismi degli interessi imperialistici e dalla politica fascista di provocazione alla guerra;
b) per strappare alle prigioni e alle isole di deportazione le vittime del Tribunale Speciale e della repressione, e imporre l’amnistia totale e incondizionata;
c) per la difesa e il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori;
d) contro il sistema corporativo, per la libertà sindacale, per la rappresentanza dei lavoratori nelle aziende, per la libertà di organizzazione, di stampa, e di sciopero, per l’elezione libera di tutte le cariche sindacali, per la rivendicazione di tutte le libertà popolari”.
Infine “i due partiti conservano la loro piena ed intera autonomia funzionale e dottrinaria. Ognuno di essi continua la sua specifica propaganda ed azione, impegnandosi di valersi dell’incontrastato diritto di esprimersi con piena franchezza sui dissensi dottrinari e tattici, che tuttora si oppongono a un fronte politico generale e alla fusione organica, in modo tale da non urtare e ostacolare lo svolgimento delle azioni comuni già concordate”.
C’è da dire, ad onor del vero, che la linea comunista che prevale, nel senso di restringere il patto di unità ad azioni e obiettivi specifici, appare più realistica e formalmente rispettosa della identità delle due forze politiche di quanto lo sia quella dell’unità organica propugnata da Pietro Nenni.
Il quale si ostina invece nel rilanciarla con un’insistenza che Tamburrano giudica “strana”. Nenni ritiene forse superata la scissione del 1921? Non abbiamo elementi per sostanziare questa opinione. Ma se così fosse stato, si sarebbe trattato di un grossolano abbaglio, essendo più che mai valide le differenze tra i due partiti, come gli eventi di allora e quelli successivi confermeranno in abbondanza.
Si illudeva Nenni che, una volta costituitosi un partito unico, ne avrebbe potuto assumere la leadership, grazie alla sua abilità politica, alle sue indiscusse capacità di politico, di giornalista e di oratore?
Se così fosse stato, avrebbe commesso un errore di sottovalutazione della capacità organizzativa e della forza dell’apparato comunista. E inoltre l’unità organica era ben lungi dal realizzarsi.
L’ipotesi più valida, a detta di vari studiosi, resta quella che Nenni, con il suo fiuto politico, avesse intuito la crescente popolarità della parola d’ordine dell’unità generale tra i lavoratori e i militanti della sinistra, e intendesse cavalcare questa tigre, anche per mettere in difficoltà il gruppo dirigente comunista.
La tesi di Nenni trova simpatie soltanto in un’ala del P.C.d’I.: nell’ala di Ravazzoli e Tresso che si richiama a Trotskij, ma che sarà ben presto espulsa anch’essa dal partito, dopo Tasca e poi Silone.
In questa fase la posizione della segreteria socialista appare più “a sinistra” di quella ufficiale del PCI.
Dopo il rapporto Dimitrov, accolto dal VII congresso dell’Internazionale comunista, che lancia la parola d’ordine della costituzione dei fronti popolari con i partiti socialdemocratici, la dirigenza comunista italiana interpreta in modo ancor più flessibile questa nuova tattica. ponendosi dichiaratamente l’obiettivo di “combattere il fascismo per conquistare le libertà borghesi”. I socialisti precisano invece che la lotta deve avere sì come obiettivo la libertà, ma anche la costituzione di un non meglio precisato “nuovo ordine socialista” e che “la lotta socialista non può essere vittoriosa se non come lotta di classe del proletariato”.
I socialisti, scrive Nenni in quel momento, sono passati “dalla Concentrazione all’Unità d’azione; dall’alleanza con partiti e gruppi borghesi, piccolo-borghesi o a-classisti, all’alleanza socialcomunista”. E si domanda: “Si deve tornare indietro?”.
In verità, dietro questo singolare balletto di scavalcamenti reciproci, c’è una seria ragione: i socialisti temono che per i comunisti la politica del Fronte popolare costituisca solo una fase tattica e transitoria: accolta da essi per ispirazione di Mosca, potrebbe essere abbandonata a seguito di un nuovo, non imprevedibile voltafaccia della dirigenza staliniana. I comunisti, a loro volta, vogliono dar prova di duttilità politica per assumere la guida del fronte, e gestire direttamente i rapporti con le formazioni democratiche non marxiste. Sono due timori che non hanno, in quella fase, alcuna ragion d’essere, perché la politica unitaria antifascista s’impone nei paesi democratici europei, innanzitutto in Francia e in Spagna. L’unità della sinistra italiana si inserisce nel contesto di queste esperienze, con il supporto dato alla vittoria del fronte nei due paesi, e con la partecipazione alla guerra civile spagnola in cui gli antifascisti Italiani scrivono pagine memorabili e nella quale Nenni assume meritatamente la funzione più elevata, quella di commissario politico delle Brigate Internazionali.
Nel vivo dell’esperienza unitaria e sotto l’imperio della necessità della lotta al fascismo, si stemperano anche le fondamentali divergenze sui rapporti tra movimento operaio e Unione Sovietica. Nel suo rapporto al VII congresso dell’Internazionale comunista, Ercoli (Togliatti) aveva affermato a chiare note: “La nostra tattica, in caso di guerra, dev’essere determinata dall’esistenza dell’Unione Sovietica”.
Nenni, a sua volta, specificava che il fine ultimo e principale resta l’interesse della causa rivoluzionaria del proletariato, quindi anche la sopravvivenza dell’Unione Sovietica, “la cui esistenza – afferma – importa essenzialmente all’avvenire della Rivoluzione proletaria mondiale”. Di qui la necessità della difesa dello Stato sovietico. Vi è, in tale affermazione, una accettazione della identità tra Unione Sovietica e rivoluzione proletaria, che rappresenta per la segreteria socialista un passo indietro rispetto alle polemiche e alle analisi critiche nei confronti dell’involuzione staliniana che il PSI aveva formulato negli anni precedenti.
In realtà il PSI, e per esso il suo segretario, sacrifica sull’altare dell’unità proletaria e antifascista una notevole parte delle acquisizioni critiche elaborate autonomamente già negli anni Venti e finisce per accettare almeno su questo punto l’egemonia ideologica del PCI. Nelle file socialiste restano però vive le critiche a queste impostazioni, non solo da parte dei vecchi riformisti ancora viventi, come Treves e Modigliani, ma anche quelle di Angelo Tasca che ha aderito al PSI, ne è membro della direzione, e non rinuncia a esprimere le idee che sul tema della natura dello Stato sovietico lo avevano condotto alla rottura con il movimento comunista. Aspre critiche vengono anche da Giuseppe Faravelli, un giovane allievo di Turati, e dirigente dell’attività clandestina del Centro Interno.
La posizione più interessante che emerge è però quella espressa da Giuseppe Saragat che, pur condividendo la politica unitaria, inizia una originale elaborazione teorica sulla natura totalitaria della società sovietica, che gli permette di respingere dalle radici ogni assoggettamento alla ideologia stalinista. Egli tiene conto infatti delle idee e delle ricerche critiche condotte da studiosi indipendenti sull’evoluzione della società e dello Stato in Russia, e ne individua alcune caratteristiche, proprie di ogni Stato totalitario.
Non siamo in grado di verificare se – come sostiene Giorgio Galli nella sua Storia del socialismo italiano – Saragat sia stato allora influenzato dalla critica di Bruno Rizzi alle società dominate dalla burocrazia: certo egli non doveva ignorare le analoghe polemiche del Trotskij in La Rivoluzione tradita.
Queste polemiche, tuttavia, impallidiscono in una fase in cui i successi dei Fronti popolari dimostrano che laddove la sinistra si unisce essa vince, alleandosi con i settori politici più progressisti della borghesia. Il ruolo che l’Unione Sovietica assume nello scontro contro il fascismo (soprattutto nel corso della guerra civile in Spagna) porta di fatto ad attenuare i “distinguo” sulla vera natura sociale e politica di questo paese.
Il Fronte popolare italiano, in quegli anni, fu contrassegnato dunque da una sostanziale unità tra i due partiti, che determinò peraltro l’accettazione di fatto di una predominanza dei comunisti, spiegabile anche con la ragione che a favore di essi giocava la solidarietà dell’Unione Sovietica e del Movimento comunista internazionale, solidarietà che divenne di fondamentale importanza nella guerra in Spagna, proprio nel momento in cui si era affievolita quella delle democrazie occidentali per la politica del “non intervento”. Tutto questo consolidava l’immagine dell’URSS come baluardo e sostegno degli antifascisti e rafforzava di conseguenza l’influenza politica dei comunisti. Nonostante ciò, vi furono dei momenti di frizione tra socialisti e comunisti, abbastanza significativi delle diverse ispirazioni ideali.

Il dissenso con Togliatti

Il più importante di questi dissensi si era verificato quando, subito dopo la guerra d’Africa e l’annessione dell’Abissinia, nell’estate del 1936, il gruppo dirigente comunista, con un articolo di Ercoli (Togliatti), sulla rivista del partito “Stato Operaio”, aveva lanciato un appello ai “fratelli in camicia nera” per una pacificazione del paese, cui era seguita una direttiva ai militanti comunisti che agivano in Italia ad entrare nelle organizzazioni fasciste per operare dall’interno di esse. Il PCI aveva fatto una sua analisi secondo la quale nella situazione italiana doveva registrarsi un indubbio rafforzamento di consensi al fascismo, di cui occorreva tener conto; e, soprattutto, avevano visto nell’avventura africana di Mussolini il segno di uno scontro tra il sorgente nazional-imperialismo di un paese più povero alla ricerca di spazi vitali, e le ormai consolidate posizioni colonialistiche dei paesi europei non fascisti. Da ciò essi traevano l’esigenza di una tattica politica più flessibile e, a loro giudizio, più realistica.
I socialisti (che non erano stati neppure avvertiti) reagirono, prendendo posizione con il “Nuovo Avanti”, in difesa di una posizione più intransigente. La questione suscitò un certo rumore, sembrava preludere a un incrinamento della politica unitaria. Ma il dissidio ben presto si appianò da solo, perché incalzavano gli avvenimenti che condussero alla guerra in Spagna, dove socialisti e comunisti, e tutti i democratici Italiani, si trovarono a fronteggiare i “fratelli in camicia nera”, in un drammatico scontro fratricida.
E nel corso di questa guerra, nel giugno del 1937, a pochi giorni di distanza dall’assassinio dei fratelli Rosselli, e la morte in carcere di Antonio Gramsci, due avvenimenti che rinsaldano i sentimenti antifascisti e lo spirito unitario dei militanti in esilio, si tiene il nuovo congresso del PSI, che riconferma la politica di unità, e con essa la leadership di Nenni, giunto dalla Spagna, cui farà presto ritorno.
Nenni deve fare una qualche fatica a fare accettare ai socialisti senza riserve questa linea (solo Modigliani risulta ad essa contrario, alla fine) perché il sospetto destato dall’appello ai fascisti non era ancora del tutto cancellato. Comunque il PSI accetta di entrare nell’organizzazione Unione Popolare creata ad iniziativa dei comunisti.
Il 26 luglio 1937 viene sottoscritto dai due partiti un nuovo Patto di Unità d’Azione.
Nell’anno successivo, due avvenimenti turbano la politica unitaria: il declino del Fronte popolare in Francia, il cui successo aveva impresso una forte sollecitazione all’unità tra gli Italiani; e la ripresa da parte dell’Internazionale comunista di una dura polemica contro le presunte responsabilità della socialdemocrazia. La ripresa di questa polemica era avvenuta con un articolo di Georgi Dimitrov alla fine del 1937, al quale Nenni replica con molta fermezza. Tuttavia i dissensi alla politica unitaria nel PSI vengono crescendo: accanto a Modigliani si schiera apertamente Tasca; mentre a fianco di Nenni prende posizione Saragat, il quale nei suoi scritti invita il partito a subordinare ogni giudizio critico alla necessità della lotta contro il fascismo.
L’occasione perché i dissensi tra socialisti e comunisti (e all’interno del Partito socialista) tornino ad avvampare venne data dai processi di Mosca, con i quali Stalin si sbarazzava ferocemente delle opposizioni e non solo di quelle.
Tutti i socialisti protestano e affidano il loro netto dissenso a una serie di articoli sul loro giornale apparsi dal marzo fino al settembre e conclusi l’1 ottobre con questo inconfutabile giudizio: “Il bolscevismo dalla concezione di un ruolo egemonico del partito è giunto alla intolleranza più assoluta… E chi non è nella linea, è un uomo da squalificare, da disonorare, da schiacciare”.
I comunisti fanno rispondere da Giuseppe Berti, con una durezza “staliniana” che mal s’addice al dibattito tra due partiti uniti dai vincoli di un patto unitario: tanto più che gli scritti socialisti polemizzavano con la direzione staliniana dell’Unione Sovietica, e non direttamente con il P.C.d’I., al quale ponevano solo dei quesiti sul suo atteggiamento di condiscendenza.
È all’interno del PSI, tuttavia, che gli effetti della polemica si fanno maggiormente sentire: mentre Modigliani, Tasca e Faravelli ne traggono l’opinione che il patto con il Partito comunista non possa proseguire, Nenni lancia uno dei suoi famosi slogan: “Viva l’Unità d’azione. I processi ci dividono, la lotta antifascista ci unisce”.
È una linea che risponde a una duplice esigenza: quella di mantenere ferme le posizioni ideali del socialismo anche nei momenti di maggiore difficoltà; e quella di preservare la forza unitaria della sinistra italiana in una fase dove l’unità appare la condizione essenziale per salvaguardare la stessa sopravvivenza dei due partiti di fronte all’incalzante offensiva delle destre e del nazifascismo.
Il Fronte popolare italiano risente di una situazione comune a tutti i Fronti popolari europei: dalla fase offensiva che si era avviata nel 1934, e che aveva portato ai successi in Francia e in Spagna, si era passati a una fase difensiva, dopo il ritorno della destra, culminato con la prova di forza bellica in Spagna. Il Fronte italiano, che aveva trovato ragione e forza in quei successi, cerca di resistere in questa fase difensiva. Ma anch’esso scricchiola e tende ad entrare in crisi sotto l’incalzare degli avvenimenti che scuotono la scena europea.
L’espandersi del nazifascismo in Austria, in Albania, in Spagna e in parte della Cecoslovacchia, rende sempre più precaria questa situazione.
Il Fronte popolare conosce la sua crisi definitiva con il Patto russo-tedesco. Da un lato l’allineamento del P.C.d’I. provoca una crisi in molte coscienze: da quella di Umberto Terracini, che scontava la sua condanna in Italia, a quella di Leo Valiani e Altiero Spinelli, che si dimisero dal partito.
Nenni tentò invano di distinguere tra un giudizio di condanna dell’URSS per quello che egli definì un vero e proprio voltafaccia e l’unità della classe lavoratrice, che tentò di salvare. Ma l’allineamento totale e compatto del Partito comunista alla svolta sovietica, rese illusorio e vano il suo tentativo.
Bisogna ricordare che il P.C.d’I. raggiunge in questa fase punte parossistiche di settarismo politico. Rimasto nelle mani dei dirigenti più filosovietici, esso va affermando, contro l’evidenza dei fatti, e contro le sue stesse recenti posizioni, l’equivalenza fra tutte le varie forme di capitalismo, sia quelle dei paesi democratici, sia quelle dei paesi autoritari. È un’aberrazione che lo stesso Terracini, pur privo della libertà in Italia, combatte, difendendo le tesi gramsciane del III congresso del partito, cioè le tesi che il regime politico e istituzionale non può essere indifferente al proletariato, e che il regime democratico è diverso da quello autoritario, ed è anche il più favorevole per lo sviluppo della lotta dei lavoratori.
Chi pagò il prezzo più alto alla crisi della politica unitaria, tra i dirigenti della sinistra italiana, fu lo stesso Nenni che fu costretto a dimettersi dagli organi dirigenti sostituito da un triunivirato formato da Morgari, Saragat, Tasca.
Il PSI dichiarò cessata ogni collaborazione con i comunisti e “inammissibile” l’appartenenza al partito di quei compagni che non accettassero tale direttiva. All’unità si sostituiscono le polemiche più furibonde: ma tutto ben presto si dissolse nel turbine della guerra, nel disperato calvario degli esiliati, i quali nella Francia occupata debbono sfuggire all’arresto o condurre comunque una vita di stenti. Quale giudizio dare su queste fasi del Fronte popolare italiano?
Si può dire che su di esso ebbero influenza notevole gli eventi esterni, sia in senso positivo che negativo: ad assecondare l’iniziativa unitaria – dovuta particolarmente a Pietro Nenni – servirono l’ascesa delle sinistre in Europa, la politica intelligente dell’Internazionale socialista, la svolta favorevole dell’Internazionale comunista; così come contribuirono a porre in crisi questa politica le situazioni di generale arretramento delle sinistre europee, i successi del nazifascismo, e, in modo clamoroso, la svolta del Patto russo-tedesco, e l’allineamento automatico dei comunisti alle giravolte moscovite.
Si può anche dire che la politica del Fronte fu politica di unità democratica ed antifascista, nonostante le conclamate aspirazioni rivoluzionarie: e ciò perché le ragioni per cui il Fronte era sorto erano di natura ben diversa da quelle che avrebbero dovuto preparare una rivoluzione. Erano ragioni di difesa della libertà e della restaurazione della vita democratica in Italia, che facevano premio su quelle – pur continuamente affermate – della costruzione della società socialista. Le ragioni che fecero sorgere il Fronte sono le medesime che, sostanzialmente, condussero a superare l’antica distinzione tra i mezzi e i fini dell’azione proletaria.
Si continuava ad affermare, tanto da parte socialista quanto da parte comunista, che la lotta democratica è il mezzo per realizzare l’obiettivo della società socialista (obiettivo che in quell’epoca coincide, in un modo o nell’altro, con il modello dell’URSS, sia pure, per i socialisti, corretto dalle deformazioni dello stalinismo). Ma si tratta di un’affermazione sempre più ritualistica: in realtà il mezzo diviene, gradualmente ma in modo inarrestabile, lo stesso obiettivo finale, cioè la costruzione di una società democratica e libera. Questa traslazione della democrazia da mezzo a fine getterà quel germe che darà i suoi frutti più copiosi nella lotta di Resistenza in Italia, e, dopo la Liberazione, sfocerà nell’atteggiamento con cui insieme socialisti e comunisti respingeranno ogni ipotesi di avventura eversiva, per dedicarsi interamente alla costruzione di uno Stato democratico. Hanno quindi radice in queste esperienze le culture politiche che connotano i due partiti della sinistra italiana, in modo differente dai partiti socialisti e comunisti del resto d’Europa e, forse, del mondo.
Un altro aspetto da sottolineare, che pesò e peserà sui rapporti di collaborazione tra socialisti e comunisti Italiani, è il problema dei rapporti con l’Unione Sovietica.
I comunisti dopo il 1929, cioè dopo l’estromissione di Tasca, mostrarono una ferrea identificazione con la politica dell’URSS; ciò che non fecero i socialisti i quali sacrificarono anche molti dei loro giudizi critici alle esigenze dell’unità, ma nei momenti decisivi mostrarono uno spirito di indipendenza che entrò obiettivamente in conflitto con la possibilità di proseguire la collaborazione: e ciò quando gli interessi dell’URSS non coincidevano almeno con quelli della lotta contro il fascismo.
Così avviene nel 1941, quando il 22 giugno l’aggressione tedesca al territorio russo manda in frantumi il patto sottoscritto da Ribbentrop e Molotov.
Infatti, nell’ottobre del 1941, a Tolosa, viene firmato un nuovo patto d’Unità d’Azione. Questa volta accanto a comunisti e socialisti, a firmare sono anche i rappresentanti di Giustizia e Libertà: Silvio Trentin e Fausto Nitti. Sereni e Dozza firmano per i comunisti (Togliatti era in Russia). Per i socialisti, con Saragat e Nenni, tornato alla testa del partito.(2)
La presenza della formazione politica che si ispirava al liberal-socialismo dei Rosselli dimostra appunto che ormai il fine della costruzione della democrazia tende a prevalere su ogni altro, anche se la fraseologia dei socialisti e dei comunisti è, ovviamente, ancora vetero marxista e la bandiera della rivoluzione verbalmente non è mai ammainata.

Il ruolo di Pietro Nenni

La vita di Nenni, nei suoi aspetti soprattutto pubblici (e vita pubblica è per antonomasia quella dei politici, ma lo è anche perché ben poco spazio resta per quella privata), ben poco concede alla monotonia, tant’essa è fitta di eventi, di colpi di scena, di svolte repentine, di apparenti e reali contraddizioni, da far pensare, alle volte, che quest’uomo nutrisse uno spirito del paradosso ben poco usuale nel mondo della politica.
A ripercorrerla, la vita di Nenni appare come una autentica “boite à surprise”. Da repubblicano solidarista a socialista classista; da interventista a internazionalista, da antirevisionista a revisionista; da frontista ad autonomista; da anticlericale e laico ad assertore e tessitore dell’incontro tra socialisti e cattolici. Un capogiro di posizioni ideali e politiche sovente antitetiche, mai assunte con banalità o per motivazioni opportunistiche (ché anzi Nenni pagò sempre un prezzo altissimo per le sue scelte), e sempre sorrette, al fondo, da una linea di coerenza e di sincerità.
Parafrasando la definizione che Isaac Babel volle dare di Lenin, si potrebbe dire che la coerenza di Nenni fu come “una linea retta tracciata con una spirale”. Mentre la linea di Lenin era ossessivamente proiettata verso l’obiettivo della Rivoluzione, quella di Nenni era più umanamente rivolta a rappresentare e a difendere quelli che egli riteneva, per sensazione o per analisi, gli interessi popolari, i sentimenti legittimi degli uomini e delle classi più deboli. E la frase con cui Tamburrano conclude il suo libro, rievocando la morte di Nenni, “I lavoratori quel giorno hanno pensato e detto, come tu speravi: è morto uno che non ci ha abbandonato mai”, non è affatto un’affermazione retorica, come potrebbe apparire a prima vista, ma risponde in modo calzante all’identità politica e umana di questo leader del socialismo italiano.
È in nome di questa fedeltà che Nenni trovò – come ben appare sfogliando il bel libro di Tamburrano – la voglia, il coraggio e anche il gusto delle sue scelte. Quando egli si convinceva della necessità di compiere un determinato passo, non aveva esitazioni, non si tirava mai indietro, costasse quel che doveva costare. Anche, come sovente accadde, a costo dell’impopolarità, di crudeli attacchi personali (come quelli mossigli dai comunisti nell’emigrazione), o dell’accusa di incoerenza.
Nella storia di Nenni traspare, a ben guardare, una sorta di “esistenzialismo” del personaggio politico autentico, che deve avere il coraggio di rispondere a se stesso, per verificare la propria coerenza, prima che agli altri. E proprio Nenni fa ricordare, nel senso che abbiamo detto, quello splendido saggio di Baudelaire, troppo spesso dimenticato, che s’intitola L’eroismo nella vita moderna. In questo saggio, il grande poeta francese sostiene che i veri eroi della vita moderna sono gli uomini politici quand’hanno da compiere scelte che possono condurli anche a rinnegare altre scelte, ma dalle quali non possono ritrarsi.
E Nenni era in tal senso un “eroe politico” che non indietreggiava, che “si sporcava le mani”, scendendo in polemiche senza esclusione di colpi, quando lo riteneva necessario, o intessendo compromessi diplomatici, quando li considerava opportuni o indispensabili. Sfiorò persino, nella confusione del primo dopoguerra, spiega Tamburrano, il rapporto con il fascismo, come conseguenza della linea di interventismo democratico e di sinistra che aveva assunto nel 1914-15, ma entrò immediatamente in rotta con l’avventurismo mussoliniano e riuscì a smascherarne il carattere di sudditanza alla logica del capitale, specialmente agrario.
Un dato che doveva restare costante in Nenni, e contrassegnarne tutta l’esperienza, fu l’importanza che egli intuì avere il socialismo nella storia d’Italia. Anche quand’era repubblicano, e anteponeva ad ogni altra la questione istituzionale, i socialisti furono sempre i suoi interlocutori principali. Fu senza dubbio tale intuizione a guidarlo quando decise di aderire al Partito socialista nel momento in cui questo (non lo si dimentichi) versava nella crisi tremenda che seguiva alla duplice scissione, e a guidarlo nell’azione di difesa contro il tentativo di obbligarne la fusione con il Partito comunista secondo gli ordini di Mosca. Liquidazione sotto costo fu il titolo dell’editoriale con cui dall'”Avanti!” lanciò il rifiuto della fusione, apprestandosi ad assumere quella direzione del PSI che, salvo per brevi tratti, doveva mantenere per oltre quarant’anni. Siamo nei primi mesi del 1923. Tamburrano scrive: “Il 15 aprile si riunisce a Milano il Congresso del PSI per decidere in ordine alla fusione. Ma la decisione è scontata: Nenni ha vinto la sua battaglia. L’autonomia socialista è salva sulle macerie del socialismo italiano; gli iscritti sono poco più di 10.000 e si prepara una nuova scissione”. Serrati e i fusionisti vengono espulsi, ma il PSI è un partito di massimalisti, con i quali Nenni non va d’accordo se non sulla comune difesa dell’autonomia.(3)
Questo è un punto nevralgico della storia nenniana. Perché è in questa fase che Nenni tende a definire una sua visione del socialismo diversa da quella del massimalismo, ma anche diversa da quella riformista. Egli pensa, e opera di conseguenza, al superamento tanto del massimalismo come del riformismo. C’è in lui una preoccupazione tattica: volendo riunificare (come riuscirà a fare nell’esilio) i due tronconi in cui si è suddiviso il socialismo italiano, pensa che l’unità socialista non può attuarsi con una prevalenza di una delle due ali sull’altra. Ma la sua non è solo una preoccupazione tattica. Egli in realtà è convinto che tanto la linea massimalistica che quella riformista siano insufficienti alla soluzione dei nuovi problemi posti dalla vittoria del fascismo, e che anzi abbiano rappresentato due modi antitetici, ma altrettanto fallimentari, con cui il socialismo italiano ha affrontato e perduto la battaglia contro la reazione politica che ha condotto al fascismo.
Prende corpo in tal modo quell’impostazione che doveva caratterizzare per lungo tempo il pensiero nenniano: la ricerca di una sintesi tra massimalismo e riformismo, una sintesi piuttosto oscura e indefinita. Come tale essa era destinata a creare, nel prosieguo, non poche difficoltà allo stesso Nenni, e, con lui, al Partito socialista. In che modo sarebbe dovuta compiersi questa sintesi, questo superamento dell’antitesi che aveva lacerato e condotto alla scissione il socialismo?
Tamburrano ci offre alcuni elementi interessanti a questo proposito. Egli ricorda giustamente la lettera che Nenni scrive alla direzione del partito, due mesi dopo la decisione che il PSI ha preso di abbandonare l’Aventino, lettera nella quale egli “pone con forza il problema di superare la scissione” con i riformisti. Ma in quale chiave? Osserva Tamburrano: “Quella lettera aprirà una nuova prospettiva, farà nascere una nuova collaborazione con una delle menti più luminose dell’antifascismo, Carlo Rosselli”. E riporta il racconto che Nenni stesso fa della visita di Rosselli a casa sua, dell’incontro cioè dal quale nasce l’idea della rivista “Quarto Stato”, che vede la luce ad opera dei due il 26 marzo del 1926. La collaborazione dà vita a quello che Tamburrano definisce “un tentativo di unire i socialisti su una linea capace di superare i limiti del riformismo e del massimalismo”. Seppure a ridosso delle leggi eccezionali che arriveranno di lì a qualche mese, e che lo costringeranno all’esilio appena trentacinquenne, l’esperienza di “Quarto Stato” ha per Nenni un notevole significato, perché rappresenta il tentativo, che sarà ripreso da lui stesso solo trent’anni dopo, di sviluppare la linea del superamento dell’antitesi riformismo-massimalismo in termini “revisionistici”. (Questa linea fu da lui abbandonata nell’esilio e nell’immediato secondo dopoguerra, e ciò che lo condurrà invece agli errori del frontismo.)
Ad illuminare questa fase particolarmente felice della maturazione ideale e politica nenniana, ma anche in generale la personalità del leader romagnolo, vale la pena di riportare quanto efficacemente scrive in proposito Tamburrano: “Quando parte per l’esilio ha 35 anni. Pochi, e pure ha già fatto tante e diverse battaglie. Giovanissimo vuole la rivoluzione attraverso la rivolta violenta, qui e subito; a trent’anni difende la rivoluzione attraverso la democrazia e il gradualismo. È stato interventista acceso e poi è alla testa di un partito, il PSI, neutralista e pacifista per definizione. Dalla milizia repubblicana è passato a quella socialista. Nello Spettro del comunismo è quasi leninista, ma le sue polemiche più roventi sono con i leninisti Italiani”. Prosegue Tamburrano: “Ha rifiutato, in termini addirittura sprezzanti, il riformismo turatiano (e giolittiano). Ma ora è fermamente deciso a realizzare l’unificazione col partito di Turati. A seguirlo vi è da essere frastornati: sembra di andare sulle montagne russe. Ma la sua risposta a chi gli rimproverava – e gli rimprovera – tutte quelle giravolte, era ed è che la politica è una scena mutevole, e che l’attore deve adeguarsi. In politica la coerenza può diventare incoerenza: l’incoerenza di chi persegue un fine con mezzi che il mutare delle circostanze rende inadatti. Ciò che deve restare fermo è il fine, non il mezzo”.
Questo è il profilo, intelligente ed acuto che l’autore traccia del personaggio Nenni. Un profilo tutt’altro che agiografico, e che ci rende le caratteristiche proprie di un grande protagonista della storia della sinistra italiana. Quel che importa, in quel drammatico 1925, è che “di fronte al fascismo che sta vincendo, non si può proporre la rivoluzione proletaria, e nemmeno quella democratica: occorre unire le forze interessate alla salvaguardia delle libertà democratiche, a cominciare da quelle socialiste”. Riunificare i socialisti comporta grosse difficoltà. Nenni ha pensato di risolvere il problema con la proposta di una sintesi diretta a superare “politicamente” l’antitesi ideologica tra riformismo e massimalismo, che ha portato alla scissione e alla liquefazione del partito. Ma, nella sua collaborazione con Rosselli a “Quarto Stato”, si è posto anche il problema di una revisione ideologica, e se lo è posto con grande lucidità. Egli scriveva, nella prefazione alla prima edizione della Storia di quattro anni, alla fine del 1925: “C’è motivo di temere che anche dall’eroica lotta con cui i socialisti si oppongono e resistono al fascismo e che prima o poi darà i suoi frutti e maturerà situazioni nuove, il proletariato non abbia nulla di positivo da attendere. Il movimento socialista si attarda su posizioni ideologiche superatissime, si dà la funzione di restare a guardia dell’ortodossia dottrinale, evita con scrupolo di darsi un programma concreto, intonato alle esigenze del momento”.
Tamburrano sottolinea come, tuttavia, negli anni dell’esilio Nenni, che pur realizza l’obiettivo dell’unità socialista, metta invece nel cassetto i propositi revisionistici annunciati negli ultimi tempi della sua permanenza in Italia, e che avevano motivato la sua partecipazione all’esperienza di “Quarto Stato”. L’enigma di questo abbandono dell’intuizione revisionista (che sarà ripresa da Nenni solo moltissimo tempo dopo, nella seconda meta degli anni Cinquanta, quando capeggerà la svolta autonomistica del partito, dopo il rapporto Kruscev e i fatti di Ungheria) sta nell’avvenimento nuovo che si produce alla fine degli anni Venti, e che segnerà per il quarto di secolo successivo la storia politica di Nenni: il sovrapporsi della posizione frontista alla linea di difesa dell’indipendenza del PSI nei confronti dei comunisti, che aveva permesso di impedirne la fusione.
La sinistra italiana è quella che indubbiamente ha vissuto più a lungo l’esperienza del Fronte popolare. Nella sua tormentata vicenda, questa esperienza occupa un periodo lunghissimo, che coincide, salvo rare pause, con la guida nenniana del partito. Occorre distinguere nell’esperienza frontista italiana due grandi fasi. La fase dell’esilio, in cui le scelte politiche del Partito socialista e del Partito comunista – organizzazioni pressoché esclusivamente di quadri ristretti residenti soprattutto in Francia – ebbero una scarsa eco sulla realtà sociale dell’Italia, in cui era possibile solo una difficilissima azione clandestina. La seconda fase, quella successiva alla caduta del fascismo, in cui la politica del Fronte si esplica all’interno del paese, e che ha effetti fortemente incisivi sulla realtà italiana, rivelandosi responsabile, dal 1948 in poi, della seconda sconfitta storica della sinistra italiana, dopo quella subita contro il fascismo.
Pietro Nenni fu certamente il protagonista di questa politica, in entrambe le sue fasi. Il ruolo da lui svolto, dalla fine degli anni Venti fino alla metà circa degli anni Cinquanta, dall’esilio alla Liberazione, dall’istituzione della Repubblica alla crisi dello stalinismo, è dettagliatamente rievocato dalla ricerca di Tamburrano.
Da essa viene messo in luce come Nenni fu l’ideatore di questa politica, ancor nel fuoco delle roventi polemiche che fin dall’inizio avevano contrassegnato i rapporti fra i due partiti in esilio. Il Partito socialista, riunificato per merito soprattutto di Nenni, aveva aderito alla Concentrazione antifascista, costituita sulla base di un’alleanza con le forze liberaldemocratiche e repubblicane e con il movimento liberal-socialista di Giustizia e Libertà ispirato dai Rosselli; mentre il Partito comunista d’Italia non solo era rimasto estraneo alla Concentrazione, ma aveva condotto contro la Concentrazione, e contro i socialisti in particolare, una campagna settaria e denigratoria, che aveva ripetutamente colpito Nenni di persona. Questi, dopo essere stato artefice dell’unità socialista, si contraddistinse, nell’ambito della Concentrazione, per la sua posizione personale, rivolta a perseguire il raggiungimento dell’unità di tutta la sinistra. È a questo obiettivo che egli sacrifica l’intuizione revisionistica che lo aveva affiancato a Rosselli, negli ultimi tempi della presenza in Italia.
Non solo egli rinuncia a sviluppare quell’intuizione, ma si adopera per apparire un rigido guardiano dell’ortodossia marxista contro il revisionismo liberal-socialista di “Giustizia e Libertà”. In effetti, questa posizione nenniana, più che ad una ragione ideologica, si ispirava a una duplice ragione pratica: la prima stava nel fatto che una revisione ideologica avrebbe accentuato le divergenze con i comunisti, e reso quindi più difficile per lui realizzare l’obiettivo che si era proposto della politica unitaria; la seconda ragione sta nel fatto che egli, dopo il sorgere del movimento di Giustizia e Libertà, ne temeva la concorrenza, che rischiava di essere sempre più insidiosa, a misura che il PSI, sposando posizioni frontiste, lasciava spazio alla polemica revisionista. Certo è che Nenni, sposando la politica unitaria in modo impetuoso e convinto, contraddiceva innanzitutto se stesso, il Nenni di “Quarto Stato”, per intendersi. Ma anche qui, per lui contava soprattutto il fine, e per questo era disposto a modificare il mezzo.
Questa è la chiave per comprendere – a prescindere da ogni giudizio di valore – i comportamenti politici nenniani nelle due fasi del frontismo, quella in esilio e quella successiva in Italia; per comprendere anche il suo atteggiamento verso lo stalinismo, di cui mostrò, già alla fine degli anni Trenta, di conoscere la terrificante realtà, all’epoca dei processi di Mosca, e tutte le nefandezze.
Secondo Tamburrano, egli avrebbe pronunciato questa frase: “Ho sbagliato tutto”, riferendosi alla sua vita politica. Questa frase fa indubbiamente onore all’onestà intellettuale di Nenni, ma induce a pensare che il suo pessimismo autocritico sia stato eccessivo. Nenni sbagliò molto (anche perché il suo ruolo fu sempre importante e si trovò a coprire un arco di storia politica lunghissimo); diede tuttavia molto, e il suo contributo risultò sovente determinante in modo positivo.
Anche il suo errore frontista non oscurerà, ad esempio, la sua presenza attiva e fondamentale nella ricostruzione politica del paese e nella battaglia istituzionale, che lo portò ad essere uno degli artefici, se non il maggiore, della formazione repubblicana dello Stato e della Costituzione repubblicana. Allo stesso modo, egli non derogò mai dal suo impegno per la distensione internazionale e per la costruzione della pace: il che fu alla base della grande popolarità di cui in ogni momento poté godere nell’opinione pubblica e fra le classi dirigenti di ogni parte del mondo.
La storia del PSI, negli anni della dittatura fascista, fu anche storia delle battaglie condotte dai socialisti che in Italia prepararono e condussero la lotta all’interno del paese. Fin dalla metà degli anni Venti, l’azione di resistenza al regime aveva assunto quelle forme clandestine che diverranno sempre più quelle solo possibili. Uno stuolo di militanti e di dirigenti vi presero parte con grave rischio della vita e della loro libertà personale.
Un’ampia documentazione, e una puntuale interpretazione di questi aspetti, è stata raccolta e pubblicata nel 1963 da Stefano Merli per incarico dell’Istituto Giangiacomo Feltrinelli (Stefano Merli: La rinascita del socialismo italiano e la lotta contro il fascismo dal 1934 al 1939, Documenti inediti dell’Archivio Angelo Tasca, Feltrinelli, Milano 1963). Da tali documenti, come da numerosi altri, risulta grande l’attività clandestina dei socialisti organizzati nel Centro Interno. Tra di essi vanno ricordati Giuseppe Faravelli, Rodolfo Morandi, giovani come Lelio Basso e, con loro, numerosi socialisti, di estrazione sociale umile, o intellettuali.
Un posto a sé merita Eugenio Colorni, uomo di cultura, organizzatore e animatore della resistenza socialista, caduto a Roma nel maggio 1944. Al suo nome è legata infatti, insieme con quello di Ernesto Rossi e di Altiero Spinelli, la elaborazione e la stesura del Manifesto Federalista, avvenute al confino di Ventotene.
Colorni può essere considerato il fondatore della tendenza federalista del socialismo italiano. Di lui, della sua azione politica, ha scritto Leo Solari, in un’opera esauriente.(4)
Protagonista della Resistenza, in tutti i suoi momenti, è stato, come è noto, Sandro Pertini, la cui figura di socialista e di democratico ha avuto il suo più alto riconoscimento con l’elezione a presidente della Repubblica, nel 1978. Essa è la testimonianza del contributo politico, ideale e morale determinante dato alla lotta antifascista e alla Resistenza dal Partito socialista italiano.

Parte IIII

IL PSI DALLA RICOSTITUZIONE AGLI ANNI SETTANTA

Capitolo 7
DALLA RICOSTITUZIONE DEL PARTITO SOCIALISTA ITALIANO ALLA CRISI DEL 1947

La ricostituzione del Partito socialista nel dopoguerra
(1944-1946)

La nascita del PSIUP

La prima sigla dell’organizzazione socialista nel dopoguerra fu quella del PSIUP (Partito socialista italiano di unità proletaria) che era sorto dalla fusione del Partito socialista italiano, sotto la direzione degli esuli rientrati in patria e dei socialisti rimasti in Italia durante il fascismo, e del Movimento di unità proletaria costituito dai due gruppi di Milano e di Roma (Fabbri, Basso, Bonfantini a Milano; Zagari, Vassalli, Corona a Roma).
I due gruppi di Milano e di Roma si erano organizzati unitariamente nel Movimento di unità proletaria nel novembre del 1942. La fusione tra il PSI e il MUP nel PSIUP avvenne al convegno dell’agosto del 1943 a Roma, subito dopo la caduta del fascismo.(1)
Nel Partito socialista confluirono dunque vari gruppi politici, di diversa formazione ideologica ed umana. Un primo gruppo era formato dagli esuli antifascisti, che erano accorsi in Italia subito dopo il 25 luglio, o che erano rientrati in patria durante la guerra di Resistenza e dopo la Liberazione.
Tra essi sono i nomi più significativi del vecchio riformismo, come Modigliani, Faravelli, e del massimalismo. Un altro gruppo era costituito dalla generazione politica emersa nel primo dopoguerra e formatasi nelle polemiche e nelle lotte dell’esilio, i cui esponenti più qualificati ed indiscussi sono Nenni, Saragat e Pertini. Accanto ad essi sono alcuni ex dirigenti comunisti, tra i quali il nome più significativo è quello di Silone.
L’esperienza degli uomini di due generazioni del socialismo, per circa vent’anni lontani dalla patria, viene a integrarsi con quella degli antichi militanti socialisti che erano restati in Italia durante il ventennio, subendo l’oppressione del regime, affrontando la galera ed il confino, oppure espatriando per brevi periodi di tempo, e tornando sul territorio nazionale ad organizzarvi la lotta clandestina al fascismo. Sono i Morandi, i Basso, i Lizzadri, i Mondolfo, che rappresentano la continuità del socialismo nel periodo clandestino, per emergere alla luce piena della lotta politica libera dopo il crollo della tirannia.(2)
A questi gruppi si affiancano gli uomini delle nuove generazioni, portati alla ribalta dalla lotta di Liberazione. Alcuni di essi come Bonfantini ed Andreoni hanno aderito all’antifascismo fin dal primo insorgere dei loro interessi politici e hanno conosciuto il carcere e la persecuzione. Altri, come Vecchietti, Zagari, Vassalli, Grimaldi hanno invece compiuto la loro prima esperienza politica e culturale nelle organizzazioni giovanili fasciste, per distaccarsi, negli ultimi anni del regime, dalla mitologia e dai falsi ideali rivoluzionari del fascismo, in una crisi individuale che si inquadra anche nel contesto di una crisi della loro generazione. Dalla fusione di questi gruppi nasce la classe dirigente del Partito socialista di unità proletaria. Essi rappresentavano l’esperienza di due diverse generazioni politiche: l’esperienza della lotta antifascista degli anni Trenta e della Resistenza; e l’esperienza corporativa delle giovani generazioni che dal fascismo erano passate nelle fila dell’antifascismo prima della guerra, o che, addirittura, nel fascismo avevano compiuto tutto il ciclo della loro esperienza sindacale e politica, per inserirsi solo a liberazione avvenuta nelle fila dei partiti di sinistra e nella rinata organizzazione sindacale unitaria.
Alle generazioni maturate politicamente nel ventennio, il fascismo aveva senza alcun dubbio lasciato una pesante eredità di conformismo, di carrierismo, di tatticismo, di cinismo politico, con quella predisposizione, insieme, alla accettazione acritica degli slogan, delle parole d’ordine, delle prospettive prefabbricate, che è predisposizione alla cultura politica intesa come mistica; al linguaggio politico inteso come fraseologia inconsistente e puramente strumentale; e alla riduzione della stessa ideologia a una somma di princìpi indiscutibili e immutabili. La predisposizione alla mitologia e alla liturgia politica.
In questa esperienza concreta dovette innervarsi la presenza politica di una classe dirigente antifascista, vissuta per oltre due decenni in esilio, in un clima culturale e politico profondamente diverso, caratterizzato da una esperienza aperta alle correnti europee ed internazionali della cultura politica, ma che di questa stessa cultura aveva dovuto assimilare anche gli aspetti più fallimentari e usuranti della crisi della coscienza europea di quegli anni; e che inoltre aveva dovuto subire i contraccolpi della evoluzione stalinista della Rivoluzione d’Ottobre che avevano appesantito con gli aspetti del bonapartismo, dell’internazionalismo a senso unico, della crisi della verità rivoluzionaria di fronte ai grandi processi di Mosca, la coscienza socialista dei dirigenti esiliati del movimento proletario italiano.
La stessa assenza ventennale dalla patria aveva finito, fatalmente, per oscurare in questi uomini, in questi gruppi, la visione dei problemi reali della nostra società; per creare incomprensioni e diffidenze tra essi e i rappresentanti delle nuove generazioni, la cui formazione era avvenuta in un clima totalmente diverso, non solo da quello dell’esilio, ma anche da quello dell’Italia prefascista, nella quale si era svolta la più intensa ed attiva esperienza politica della vecchia generazione socialista. L’esaltazione della vittoria antifascista fece passare in secondo piano questi problemi, di fronte ai quali poco valeva la fiducia nella forza risanatrice della riacquistata libertà, laddove sarebbe stata necessaria la più approfondita riflessione sulle questioni che nascevano dall’innesto di così divergenti esperienze umane e politiche per creare tra di esse un clima di più efficace coesione.
Ci si illuse, forse, che la vittoria della democrazia sulla dittatura, la ripresa della vita libera, delle discussioni e della lotta avrebbero operato il miracolo di una soluzione automatica di tutti i problemi.
Ci si illuse che nel crogiuolo della rifiorente attività pubblica, del rinato confronto fra le formazioni politiche antagoniste, ma tutte accomunate dall’impegno unitario della lotta antifascista, si sarebbero fuse, seppur gradualmente, tutte le contrastanti esigenze delle due generazioni, dei gruppi dirigenti di diversa provenienza, delle varie stratificazioni popolari.
La realtà era tutt’altra. I partiti che si costituivano erano forgiati sul modello dei partiti del prefascismo. L’unico tra di essi che si era strutturato fin dal suo sorgere quale partito di massa e non d’élite, come i partiti della borghesia risorgimentale, era il Partito socialista. Insieme ad esso il partito cattolico, risorgente sotto il nome della Democrazia cristiana, era stato, nella breve esperienza del Partito popolare degli anni dal ’19 al ’25, fondato con criteri e strutture sue proprie, condizionate dall’esperienza organizzativa delle formazioni confessionali. Per tali caratteristiche, la struttura del Partito socialista si presentava già nel prefascismo con caratteri tipici profondamente divergenti da quella del Partito comunista, il cui modello di sviluppo negli anni successivi alla Liberazione costituirà un inevitabile punto di raffronto per l’evoluzione di tutte le strutture organizzative del movimento operaio.

Unità d’azione e fusione fra PSIUP e PCI

Il Partito socialista si ricostruì sulla base di un complesso di norme sancite da uno statuto provvisorio formulato all’atto della sua organizzazione, insieme con una “dichiarazione politica del Partito socialista di unità proletaria” voluta a Roma il 25 agosto 1943, nella quale veniva dichiarato che “il PSI intende realizzare la fusione dei comunisti e dei socialisti in un unico partito sulla base di una chiara coscienza delle finalità rivoluzionarie del movimento proletario”.(3)
A questo scopo, “per avviare l’unità verso la sua realizzazione e per coordinare le direttive e l’attività dei due partiti proletari e marxisti nel campo politico ed in quello sindacale, il Partito socialista italiano ha concluso con il Partito comunista italiano un trattato di Unità d’Azione”.(4)
Il Partito socialista risorge dunque come un partito di professione “marxista” e con una struttura politica provvisoria, in attesa cioè della fusione con il Partito comunista in un partito unico della classe lavoratrice. Il patto d’unità d’azione assume dunque il significato di un avvio alla fusione tra i due partiti. Occorre peraltro inquadrare tale impostazione nella situazione politico-militare del tempo.
L’armistizio dell’8 settembre 1943 e la divisione in due del paese costrinsero i socialisti a seguire obiettivi diversi al nord e al sud: mentre erano totalmente impegnati sul piano militare nella lotta di liberazione al nord, partecipavano nelle zone sotto amministrazione alleata alla ripresa della vita civile e politica.
Fu nell’azione clandestina che i socialisti, mettendo in moto una propria macchina organizzativa e militare, con la costituzione delle Brigate Matteotti, distinte e in molte zone contrapposte alle Brigate Garibaldi egemonizzate dai comunisti, e creando una rete di squadre composte di operai, popolani e borghesi antifascisti nelle città, nelle campagne, nelle fabbriche, con numerosi fogli clandestini, assunsero una autonoma fisionomia di partito. Il prestigio di capi militari, come Pertini e Bonfantini; il numero elevato di vittime – come Bruno Buozzi, leader del sindacalismo socialista; il vecchio deputato Recalcati, i dirigenti sindacali Fabbri, Bentivogli e Ogliano, i “veterani” della cospirazione antifascista Bertellini e Colorni, i dirigenti universitari Barbera, Fiorentini e Fogagnolo -concorsero alla formazione di una coscienza e di un patrimonio di valori etici e politici profondamente legati alla tradizione di lotta socialista e democratica del partito.
Sul piano politico, il PSIUP considerò necessaria una partecipazione delle masse popolari alla guerra di Liberazione, anche in accordo con le truppe alleate, in vista della conquista del potere politico da parte dei partiti che ne fossero emanazione. Dapprincipio la politica del partito si svolse in piena solidarietà con la politica del Partito comunista e del Partito d’Azione, e fu concordemente indirizzata a sostenere la costituzione del governo Badoglio con un governo che non fosse più emanazione della monarchia, ma diretta espressione dei partiti del CLN. Sicché, quando il maresciallo Badoglio, all’indomani della dichiarazione di guerra alla Germania, il 10 ottobre 1943, sollecitò la collaborazione di tutti i partiti antifascisti in nome della unità nazionale contro l’invasore tedesco, il PSIUP oppose un netto rifiuto, dichiarando che la monarchia che era stata complice del fascismo rappresentava un fattore di divisione e non di unità, e che, di conseguenza, non poteva intorno ad essa costituirsi nessuno schieramento unitario della nazione. Un governo che traesse autorità dall’istituto monarchico sarebbe stato – secondo il PSIUP – incapace di condurre una guerra antifascista con un largo consenso popolare.
Insieme con il Partito d’Azione, il PSIUP chiese invece che al Comitato di Liberazione Nazionale fosse affidato tutto il potere nell’ambito dell’amministrazione alleata, in quanto il CLN era espressione del paese in lotta contro il nazifascismo. Chiedeva che al governo del CLN fossero dati poteri eccezionali di salute pubblica, che la questione istituzionale venisse accantonata fino alla Costituente da indirsi subito dopo la liberazione di tutto il territorio nazionale.
In questa fase, dunque, il PSIUP svolge sul piano politico una funzione di guida politica delle sinistre e del CLN. Ma le sue tesi politiche si scontrano con la realtà del potere costituito dall’amministrazione militare alleata, e con la logica della politica di potenza sul piano internazionale, derivante dalla alleanza tra Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica. Questa logica presiede, invece, all’iniziativa assunta dal PCI nota come la svolta di Salerno e promossa da Palmiro Togliatti (Ercole Ercoli) che, con l’investitura dell’URSS, era rientrato in Italia ed aveva assunto la guida del Partito comunista. Egli si fece promotore di un compromesso tra le forze antifasciste e la monarchia, proponendo un indirizzo partecipazionista, basato, da un lato, sulla rinuncia dei partiti del CLN alla loro pregiudiziale contro il re e contro Badoglio; e, dall’altro, sull’accoglimento, da parte del re, della richiesta di una luogotenenza nella persona del figlio Umberto, differita, quanto all’esecuzione, a dopo la liberazione di Roma.
Questa proposta coincideva “realisticamente” con la logica della politica dei blocchi, che si renderà palese con la conclusione del conflitto, ma già operante allora, dopo gli incontri di Yalta.

La direzione socialista meridionale (5)

Dopo l’armistizio e l’invasione tedesca, nell’Italia del Sud era riemerso, nello scenario della travagliata ripresa della vita democratica, il movimento socialista, che ritornava alla luce dopo l’eclissi ventennale. In Puglia, in Calabria, in Campania, come in altre zone non occupate dalle truppe tedesche, si ricostruirono i gruppi, circoli, sezioni socialiste, uscivano giornali, si tennero manifestazioni di partito. La più importante fu senza alcun dubbio la Conferenza o Consiglio nazionale del Partito socialista che si tenne a Napoli il 20 dicembre del 1943, e di cui c’è cronaca in un numero dell'”Avanti!” del gennaio successivo (edizione per Napoli), e di cui ha riferito Nicola Salerno nel volume Dalla Liberazione alla Costituente, pubblicato molti anni dopo nel 1973. Relatori all’assise socialista furono Porzio, che trattò dell’esame della situazione politica; Laricchiuta sul sindacato; Sansone sull’organizzazione del partito; Giannati sull’organizzazione giovanile; Ardegno sulle questioni della stampa e della propaganda; Cacciatore sui problemi economici. Il nucleo della discussione era in realtà costituito dal problema istituzionale.
Nell’assise napoletana fu approvato a maggioranza un ordine del giorno firmato da Nino Gaeta e Francesco Cacciatore, il cui dispositivo era il seguente: “Il Consiglio nazionale del Partito socialista, riaffermando che la questione istituzionale è rivolta per i socialisti fin dalla fondazione in senso repubblicano, ritenuto che al popolo lavoratore preme avere un governo che riorganizzi il paese in senso socialista, delega alla direzione del partito di stabilire il programma di azione governativa e le modalità di una realizzazione d’intesa con gli altri partiti di massa”. Fin dal dicembre 1943, nella sua prima assise, il Partito socialista manifestava il suo interessamento prioritario alla presenza nel governo, rispetto alla questione istituzionale che, pur nella riaffermazione di principio della scelta repubblicana, veniva di fatto rinviata. I socialisti nella maggioranza del Consiglio nazionale (i cui membri erano per la verità stati designati in varie forme, a seconda del grado di forza delle singole organizzazioni locali da esse rappresentate) accantonavano la pregiudiziale di intransigenza repubblicana e si dichiaravano disposti alla collaborazione di governo, tuttavia di intesa “con gli altri partiti di massa”, cioè il Partito comunista. Il quale, però, era schierato su una posizione di intransigenza, dato che al momento non era ancora arrivato in Italia Ercoli (Togliatti), né s’era verificata la “svolta di Salerno”. In un certo senso i socialisti meridionali anticipavano questa svolta, come sosterrà Francesco Cacciatore, che di quell’ordine del giorno del CN era stato uno degli artefici. A realizzare la decisione del CN (che sarà successivamente oggetto di critica da parte del centro del PSI a Roma e dell'”Avanti!”) fu eletta una direzione composta dal segretario Lelio Porzio, da Zamboni, Numis, Laricchiuta, Gaeta, Cacciatore, Pietro Mancini, Sansone, Ardengo e Giannati. Poche settimane dopo, al congresso di Bari del CLN (28-29 gennaio 1944) giungeva Oreste Lizzadri, inviato dal CLN, da Roma con un messaggio, ma anche latore di una lettera di Nenni che puntualizzava le posizioni generali dei socialisti, decisamente intransigente sulla questione istituzionale. Nel messaggio di Nenni, che fu pubblicato nel febbraio dall’edizione napoletana dell'”Avanti!”, si poneva l’obiettivo della convocazione dell’Assemblea costituente per chiedere la decadenza della monarchia e la proclamazione della Repubblica. La linea espressa dal messaggio era chiaramente ostile alla eventuale collaborazione di governo con i badogliani e con le forze politiche che non condividevano una così netta pregiudiziale antimonarchica.
Lizzadri (con lo pseudonimo di Longobardi) ribadiva questa posizione in un suo articolo apparso sull'”Avanti!” a commento del congresso antifascista barese, nel quale affermava la necessita di un’azione politica che dovrà portare all’accantonamento della monarchia ed alla formazione di un governo straordinario formato da tutti antifascisti: “un governo che dovrà assommare in sé i poteri del Parlamento e della Corona e preporre la convocazione della Costituente”. C’era di fronte una divergenza ancora latente, che non riguardava la posizione istituzionale dei socialisti sul piano dei princìpi (essendo tutti, movimentati, di convincimenti repubblicani), ma la tattica da seguire in ordine alla partecipazione al governo. Su questo punto c’era una sostanziale difformità da registrare tra la posizione contenuta nel messaggio di Nenni e ribadita da Lizzadri, di rifiuto ad ogni possibilità di collaborazione con la monarchia, e la posizione dei socialisti meridionali, espressa dal CN del dicembre 1943.
Il dissenso apparve evidente nella riunione della direzione meridionale, convocata dallo stesso Lizzadri, e che si tenne a Napoli il 21 marzo del 1944. Secondo il ricordo del Lizzadri.(6). Francesco Cacciatore aprendo il dibattito nel corso della riunione disse senza mezzi termini che “qui a Napoli abbiamo sempre ritenuto che la via giusta fosse quella di un compromesso con la monarchia al fine di arrivare al più presto alla formazione di un governo rappresentativo che guidi il paese alla lotta di liberazione e lo incammini sulla via della ricostruzione”. Lizzadri, rendendosi conto che la direzione era orientata a favore di questa impostazione, rinviò ogni decisione ad una successiva riunione del Consiglio nazionale del partito. Un telegramma di Nenni ribadiva però la posizione intransigente: “Direzione non ravvisa motivo svolta stop intensificazione lotta et mobilitazione masse difficile con attuale governo stop comunicato nostro giudizio cugini Roma mantenere posizioni”. I cugini comunisti però non dovevano “mantenere posizioni” come telegrafava Nenni. Tre giorni dopo la direzione a Napoli, il 24 marzo, Togliatti sbarcava a Salerno, ed iniziava l’opera politica che doveva condurre il PCI a modificare il proprio orientamento. Il 2 aprile “l’Unità” pubblicava il messaggio del leader comunista, ed un articolo in cui lo stesso dichiarava di auspicare l’unità di tutti quelli che sono disposti, “qualunque sia la loro fede e la loro tendenza politica, a battersi contro l’invasore”. La modificazione dell’atteggiamento del PCI, che ne consegue, rafforza la posizione dei socialisti meridionali nei confronti del centro del partito. Lo stesso Lizzadri si schiera con la direzione meridionale.
Nella riunione del Consiglio nazionale che si tenne a Napoli il 15 aprile – presente lo stesso Togliatti – Lizzadri e il primo firmatario, insieme a Pietro Mancini, Albenga, Di Napoli e Laricchiuta di un ordine del giorno, approvato all’unanimità, che delibera la partecipazione socialista al governo, e rinvia la questione istituzionale a dopo la liberazione del paese. Nella discussione tutti gli intervenuti, tra i quali Lizzadri, Faeta, Furzio e Stampacchia, ponevano l’esigenza della unità di tutte le forze antifasciste nel governo, e dell’unità d’azione tra socialisti e comunisti. Da parte sua, Pietro Mancini sottolineava che un “partito marxista” doveva avere la capacità di un’analisi corretta delle questioni politiche reali, e far discendere da essa una linea d’azione conseguenziale. In un clima così “unitario”, Togliatti non mancò di recare il saluto del suo partito, sostenendo che “oggi noi facciamo una politica di unità nazionale perché il diritto di governare spetta alla classe operaia […] per fare una politica anti fascista noi accettiamo di andare al governo”. Ed aggiungeva, significativamente, a proposito dei rapporti tra i due partiti: “Il punto d’unità d’azione non è provvedimento politico di carattere contingente […] bensì un provvedimento di vasta portata”.(7)
Lizzadri, a sua volta, coglieva l’occasione per imprimere all’avvenimento il soggetto di un incancellabile “fanatismo”, affermando: “Comunità di origini, di fini, di pensiero, spingeranno socialisti e comunisti sempre più vicini”. Il patto d’unità d’azione andava considerato, a suo dire, “come la prima tappa di un lungo cammino che dobbiamo percorrere insieme sulla via che porta al partito unico della classe operaia”.(8)
La linea politica veniva a saldarsi su due punti comuni a socialisti ed a comunisti: partecipazione al governo con i badogliani, rinviando la questione istituzionale alla fine del conflitto; unita d’azione stretta tra i due partiti, nell’ambito dell’unità nazionale, come tappa del processo che avrebbe dovuto condurre all’unità organica. Sul piano degli organigrammi, la conseguenza fu che Lizzadri assunse la leadership del partito nel Mezzogiorno, con la elezione della nuova direzione, e la sua ascesa alla segreteria, affiancato da due vicesegretari che furono Pozzi e Cacciatore. Il 21 aprile è costituito il nuovo governo, che s’insedia a Salerno. L’atteggiamento del partito a Roma è molto prudente, se non ostile alle decisioni assunte a Napoli. L’esecutivo nazionale in un documento pubblicato dall'”Avanti!” il 15 maggio 1944, a circa due settimane dalla liberazione di Roma, giudica criticamente ciò che è accaduto. “La presidenza Badoglio – vi si legge – e l’investitura regia fanno pesare sul nuovo governo influenze reazionarie che la democrazia italiana deve eliminare”. Ancor più duro è il giudizio sui comunisti: “La ginnastica delle svolte non conviene all’igiene dell’unità d’azione e i socialisti non possono accettare il metodo che consiste nel sostituire gli ordini dall’alto alle esperienze dal basso”. Il riferimento all’ispirazione nascosta della “svolta” togliattiana è talmente trasparente da non aver bisogno di commenti.
Intanto s’avvicina rapidamente il momento dell’arrivo degli alleati a Roma. Il 2 giugno si tenne l’ultima riunione della direzione del PSI del Mezzogiorno, a Napoli. Lizzadri, che doveva rientrare a Roma, lasciava la segreteria, che veniva affidata ad un comitato composto da Cacciatore, da Faeta e da Porzio. Il governo di Salerno ebbe quindi vita breve. Il 9 giugno Badoglio veniva sostituito da Ivanoe Bonomi, espressione dei sei partiti del CLN, che rimetteva il suo giuramento nelle mani del popolo, non più del luogotenente Umberto di Savoia. Dei socialisti meridionali veniva riconfermato Pietro Mancini come ministro dei Lavori Pubblici. Della decisione che aveva condotto alla partecipazione al governo Badoglio – che fu di vita brevissima – Cacciatore fornì la giustificazione più appassionata,(9) anche se non convincente. Egli si mostrava persuaso della sostanziale continuità tra la scelta del terzo Consiglio nazionale che aveva condotto il PSI meridionale ad entrare nel governo Badoglio, e le successive scelte del partito. È difficile, a posteriori, condividere questa sua affermazione. C’era però un fondo di verità – da non trascurare – nell’osservazione che egli faceva che “la decisione di Napoli costituiva il riconoscimento della nuova realtà storica determinata dalla caduta ignominiosa del fascismo. Il PSI, per la prima volta nella sua storia, ripudiava la tattica della semplice critica e dell’agitazione e si assegnava il compito di una politica costruttiva a favore delle masse lavoratrici”. Si può convenire infatti sull’esigenza, fatta propria già in quella fase dal socialismo meridionale, di non ripetere gli errori dell’età prefascista e di prospettare una funzione di governo del movimento socialista e di un suo ruolo attivo e concreto come classe dirigente nazionale.
Il contrasto tra le due posizioni trovò una soluzione unanimistica nel corso del IV Consiglio nazionale che si tenne a Napoli ancora una volta all’inizio del settembre. Nenni (che già il 2 luglio era intervenuto all’assemblea della sezione napoletana) con la sua relazione ripropose energicamente la questione istituzionale in senso repubblicano. Occorreva – per il segretario socialista – creare “una democrazia italiana e cioè una repubblica italiana”. E proseguiva: “Cause contingenti ci hanno obbligati ad un compromesso che pesa sulle nostre coscienze, ma abbiamo ottenuto la Costituente”. Riconosceva le differenze che dividevano i socialisti dai comunisti affidando tuttavia ai comitati d’unita d’azione il compito di smussare queste differenze. Con il IV Consiglio nazionale si concludeva la fase che per un anno aveva visto il PSI del Mezzogiorno protagonista della vita politica dell’Italia non invasa, i primi passi di un regime che ancora non poteva definirsi pienamente democratico o nel quale le influenze del vecchio sistema monarchico erano ancora pressanti. Con la costituzione del governo Bonomi e con il ricongiungimento con il centro romano del partito, l’esperienza di quella fase delicata ed importante del socialismo meridionale andò naturalmente incanalarsi nell’azione politica e nella realtà organizzativa generale del Partito socialista, che si accingeva a svolgere il suo ruolo a dimensione nazionale nell’Italia avviata alla completa liberazione.
La liberazione di Roma (4 giugno 1944) segnò una ripresa dell’iniziativa socialista: infatti con la nomina di Umberto di Savoia a luogotenente generale del regno, il governo Bonomi si dimise. In quell’occasione i socialisti, insieme con gli azionisti, rifiutarono la partecipazione, perché Bonomi, considerando decadute le precedenti decisioni politiche dei partiti, accettò l’investitura luogotenenziale. I socialisti, invece, continuavano a sostenere che il governo era emanazione del CLN e che dovesse ricevere solo da questo organismo, in quanto espressione esclusiva della volontà popolare, l’investitura ed il crisma di legittimità. Fu giocoforza – tuttavia – che l’iniziativa si fermasse a metà strada: nel paese dilaniato dalla guerra ai socialisti era difficile porsi in opposizione al governo di solidarietà nazionale, al quale partecipavano i comunisti. Il PSIUP assunse un atteggiamento di astensione di fronte al governo, continuando la collaborazione con gli altri partiti in seno al CLN.
Anche questo episodio dimostra gli scarsi margini esistenti per un’azione socialista autonoma di fronte al compromesso internazionale che trovava la sua proiezione nella situazione, italiana. Tutti questi elementi relativi alla struttura, alla ideologia, ai rapporti con l’altro partito del proletariato italiano sono fra di loro interdipendenti poiché, infatti, il Partito socialista si presenta come un partito marxista del proletariato, e anche il Partito comunista è un partito del proletariato, ed è ideologicamente marxista, la fusione allora è ritenuta inevitabile. Di qui, nell’attesa della unità di tutti i lavoratori in unico partito marxista, l’unità d’azione è considerata come strumento che è destinato a preparare la fusione.
Il rinato Partito socialista si presenta quindi alle masse lavoratrici come un partito a carattere ideologico, pronto alla fusione. Di fronte ai problemi dell’unità popolare del PCI, i problemi di struttura passano in secondo piano. Vi sono dirigenti, come Nenni, per i quali l’unità tra i comunisti e i socialisti appare possibile e necessaria perché sono superati, con la lotta antifascista e l’alleanza internazionale fra l’URSS e le democrazie occidentali, i motivi della scissione comunista di Livorno. L’unità è per Nenni, in quel momento, un obiettivo politico, non una conseguenza necessaria della omogeneità ideologica (l’accettazione del marxismo) tra i due partiti della classe lavoratrice, come vogliono invece altri dirigenti politici del PSIUP, quali Basso, e soprattutto Lizzadri e Cacciatore. Morandi, invece, vede l’unità tra i due partiti nei termini di un rinnovamento generale delle strutture del movimento operaio come il prodotto delle nuove esperienze popolari sorte con il CLN nella lotta di Resistenza, e il cui maturarsi conduce al sistema dei consigli di gestione.
Queste tre posizioni confluiscono su una unica piattaforma politica nella prima assise del PSIUP, il Consiglio nazionale del luglio 1945, nel quale prevale la mozione Cacciatore-Morandi-Basso, sulla mozione autonomista Saragat-Bonfantini-Silone. La mozione di maggioranza affermava che “il partito unico della classe lavoratrice è una costante aspirazione dei socialisti” per cui esso “deve sorgere al più presto possibile”. Infatti la mozione approvata demandava esplicitamente al primo congresso nazionale del partito il compito di realizzare l’unità organica con il PCI.(10)
La mozione di minoranza poneva l’accento sulla irrinunciabilità della dipendenza e autonomia organizzativa del partito, pur riconoscendo la necessità di conservare e rafforzare il patto di unità d’azione con il PCI. La maggioranza del gruppo dirigente poneva pertanto il problema dell’unità organica come un obiettivo di immediata realizzazione; mentre la minoranza, pur accettando il principio della unità dei due partiti ne spostava i termini dal terreno della fusione a quello dell’unità di azione.
Il risultato del Consiglio nazionale del luglio 1945 non poteva però assumere il significato di una adesione del partito alla politica della fusione a breve scadenza, quanto il significato della volontà della maggioranza del gruppo dirigente di condurre il movimento socialista all’unità organica con i comunisti, ritenendo superati i motivi della scissione del 1921.
Il Consiglio nazionale infatti era stato designato per larga parte da quel gruppo dirigente che guidava il partito fin dalla sua costituzione, e che appunto nella dichiarazione politica del 25 agosto 1943, con la quale si asseriva la necessità di realizzare la fusione, lasciava intendere che la ricostituzione del partito era un fatto soltanto temporaneo, in attesa della realizzazione dell’unità organica.
Le stesse minoranze “autonomistiche” del gruppo dirigente del PSIUP, divise tra di loro, sul piano politico, fra un’ala che si ricollegava alla tradizione turatiana della “Critica Sociale” e un’ala che aveva acceso una polemica da “sinistra” con la direzione del partito, non sapevano opporsi con la necessaria fermezza alle manovre fusioniste, accettando nella sostanza la prospettiva dell’unità organica, sia pur rinviandola nel tempo.
Se l’unità organica era possibile e auspicabile, come riteneva il gruppo dirigente del partito, maggioranza e minoranza, nessuna argomentazione valida poteva allora essere adottata perché essa venisse dilazionata nel tempo. Le condizioni politiche internazionali ed interne sembravano infatti le più favorevoli, non ad ostacolare, ma a stimolare la costituzione del partito unico dei lavoratori. Del resto, PCI e PSIUP, perseguivano dal 1943 la stessa politica: quella dell’unità nazionale antifascista, della collaborazione con i partiti democratici nei CLN, con la luogotenenza, e con le forze alleate di occupazione.
La divergenza di fondo tra i comunisti e i socialisti era nella prospettiva politica degli anni futuri, non nella posizione politica di allora. E quando le minoranze autonomistiche del gruppo dirigente accettavano appunto la prospettiva della fusione con i comunisti, esse finivano per annullare ogni elemento reale di divergenza tra il PCI e il PSIUP, rinunciando quindi nella sostanza ad esercitare con efficacia la loro funzione autonomistica. Peraltro, la politica dell’unità d’azione come preludio all’unità organica doveva ancora trovare il crisma della base socialista. L’occasione per porre alla prova di fronte alla base di validità della politica perseguita dal gruppo dirigente fu appunto data dal Consiglio nazionale del luglio, che permetteva ai militanti e ai quadri del ricostituito partito di prendere coscienza degli obiettivi verso i quali si indirizzava l’azione della direzione. Quale fu la reazione della base socialista alla decisione presa dalla maggioranza del gruppo dirigente di accelerare i tempi della fusione? La reazione della base fu negativa, e rivolta in senso autonomistico. “Tutto l’atteggiamento del partito sembrò orientato verso la fusione, che al paese apparve come una messa in liquidazione del PSI”. Così fu in seguito commentata la decisione del Consiglio nazionale, nella relazione che la corrente di Critica Sociale doveva presentare al successivo congresso.(11)
In realtà qualcuno poteva credere, con un errore di valutazione politica, che il PSIUP, in quanto partito numericamente più forte, avrebbe finito per assorbire il Partito comunista, di dimensioni più ridotte.
Nel discorso al primo Consiglio nazionale del PSIUP, Nerini aveva affermato: “La nostra aspirazione è quella di arrivare alla formazione di un partito unico della classe lavoratrice. Sento dire che alcuni compagni di questo hanno paura. Siamo oggi 700.000 socialisti. Saremo tra poco più di un milione di socialisti organizzati. Che cosa può farci paura?”.
Le masse lavoratrici e la base socialista avvertivano la debolezza di questo ragionamento. Comprendevano che dietro le più ridotte, allora, forze organizzate del PCI vi era la forza politica dell’Unione Sovietica, uscita vittoriosa dalla guerra contro il nazismo; vi era la forza di un movimento comunista internazionale, che aveva dato la misura della sua capacità combattiva nel corso di circa trent’anni dalla Rivoluzione di Ottobre.
La stessa maggior forza di attrazione del PSIUP rispetto al PCI era indicativa dell’orientamento delle masse. Se queste condividevano la volontà dei dirigenti socialisti di giungere alla realizzazione del partito unico, donde derivava la loro preferenza per il PSIUP, piuttosto che per il PCI, quando da circa un ventennio la propaganda fascista aveva indicato nel comunismo il più agguerrito avversario del fascismo, e quando il PCI, al contrario dei socialisti, era stato capace di costituire e conservare una forte struttura organizzativa clandestina nella lotta contro il regime? I lavoratori, dunque, accorrendo in maggior numero nelle fila socialiste avevano espresso la loro preferenza politica per un socialismo a carattere democratico, autonomo dal PCI. La loro reazione alla decisione del gruppo dirigente di procedere rapidamente alla fusione era negativa. Ci fu, di conseguenza, una flessione organizzativa dovuta anche al fatto che il gruppo dirigente, ritenendo imminente la fusione, “curò poco l’opera di organizzazione e di propaganda”, (12) mentre il Partito comunista presentava alle masse la prossima traduzione dell’unità d’azione in unità organica come un successo della sua politica.

La concorrenza dell’organizzazione comunista

Il Partito comunista, infatti, lavorava alacremente alla costituzione del suo apparato di quadri dirigenti e intermedi, che esso considerava come la necessaria ossatura di una organizzazione politica di massa.
La tesi di Togliatti aveva avuto nel PCI il sopravvento su quella dei vecchi esponenti comunisti, dei quadri di formazione prefascista o maturati nella lotta clandestina, secondo le quali il partito si sarebbe dovuto strutturare come un partito di “rivoluzionari di professione” per una meccanica applicazione della ideologia leninista. Togliatti e la maggioranza del gruppo dirigente comunista sostenevano invece che le condizioni della lotta politica in Italia erano profondamente diverse da quelle nelle quali Lenin aveva lanciato la formula del partito dei militanti professionali della rivoluzione, in polemica con Martov, fino a condurre i bolscevichi alla scissione dal Partito socialdemocratico operaio russo nel lontano 1905.
L’applicazione dell’ideologia leninista, accettata da tutto il PCI, non poteva essere pertanto una applicazione meccanica, ma doveva nascere da una interpretazione creativa che permettesse di adeguare la sostanza del leninismo alle condizioni particolari della lotta comunista in una società come quella italiana, in coerenza con la politica di unità democratica antifascista perseguita dai comunisti fin dal 1943, con la famosa svolta di Salerno. Di conseguenza l’organizzazione del PCI, sulla direttrice delle tesi di Togliatti, si andò sviluppando su un nuovo modello organizzativo. Questo modello era caratterizzato da una larga apertura ideologica verso i lavoratori di ogni ceto e di ogni credo che accettassero il programma politico del partito: per ciò stesso il partito da organizzazione leninista di professionisti della rivoluzione, nella quale secondo la formula di Lenin “fa parte del partito solo chi lavora per il partito”, si trasformava in un’organizzazione a larga base di massa. In questa organizzazione, tuttavia, il potere decisionale, le direttrici operative vengono affidate esclusivamente ad un apparato di quadri-funzionari, selezionati e maturati con un lento e costante lavoro di affinamento politico e ideologico, di provata abnegazione al partito, e di incondizionata fedeltà al gruppo dirigente. Il PCI si organizzava, cioè, come una sorta di fronte popolare al suo interno, caratterizzato da una rigida guida leninista e stalinista del gruppo dirigente del suo apparato.
In una situazione come quella dei primi anni del dopoguerra fu relativamente facile al Partito comunista trovare un numero sempre più nutrito di quadri tra le masse di operai e di intellettuali prive di occupazione; ai militanti che si dedicavano al lavoro di partito full time, come diremmo oggi, il PCI offriva non solo una retribuzione, ma la possibilità di un affinamento politico e ideologico che attirava i quadri migliori del movimento operaio; ed insieme con la carriera politica, anche la possibilità di una collocazione a breve scadenza nel sistema di potere statuale la cui conquista da parte delle sinistre poteva apparire imminente.
La costituzione di questo apparato permise al PCI di iniziare fin da allora quella esperienza organizzativa ed elettorale che doveva permettere ad esso, nel volgere di tre anni, di divenire il secondo partito italiano, scavalcando il Partito socialista. I comunisti adottando un tipo di organizzazione meno democratico del PSIUP, ma più efficace e moderno, si posero cosil immediatamente in grado di accorciare le distanze, nonostante il rilevante svantaggio di partenza, sul piano organizzativo ed elettorale.

L’azione dell’apparato comunista contro l’autonomia del PSIUP

La posizione fusionistica della maggioranza del gruppo dirigente del PSIUP permetteva all’apparato comunista, articolato e capillarizzato, di dare inizio a quell’azione di controllo e di egemonizzazione sulla base socialista, i cui risultati dovevano prodursi in modo lampante nello spazio di un solo anno.
La decisione del Consiglio nazionale del PSIUP apriva un ampio, forse insperato terreno di iniziativa al Partito comunista, che non si faceva scappare l’occasione di intraprendere una efficace opera diretta a intervenire con il suo apparato nella vita interna del Partito socialista.
L’unità d’azione era venuta assumendo in molti casi il carattere di una vera unità organizzativa con la formazione di giunte miste permanenti in sede locale, perfino sezioni miste, giornali comuni tra i due partiti. In questi termini le minoranze socialiste denunciarono immediatamente i pericoli dell’unità di azione ormai intesa come avvio alla fusione tra i due partiti, per cui l’affievolirsi della opera di organizzazione e di propaganda del PSIUP fu senza dubbio dovuta al fatto che si giunse a credere che essa fosse inutile. Cosà commenta “Critica Sociale”: “Sembrava potesse supplire l’azione che con maggiori mezzi e più saldo apparato andava compiendo il Partito comunista, col quale avremmo dovuto prossimamente costituire un unico corpo e un’unica anima”. (13)
La prospettiva della fusione immediata comportava dunque, per la presenza di una forte organizzazione di apparato del PCI, un automatico annebbiamento della fisionomia autonoma del PSIUP, sul piano operativo, organizzativo e propagandistico, che già prefigurava alle masse lavoratrici e alla base socialista quella che sarebbe stata in realtà una eventuale fusione: niente altro che la costituzione di un partito unico dei lavoratori, dominato e controllato dall’apparato del PCI. In un partito di questo genere i lavoratori socialisti sentivano per istinto che essi avrebbero visto fatalmente declinare ogni caratterizzazione democratica del socialismo. La “paura” di cui parlava Nenni, la paura “di non essere più noi, in un partito unificato, di non portarci quel nostro senso umano del socialismo, che e la nostra caratteristica e che deve restare la nostra caratteristica”(14) appare sempre più come una paura reale, che suscita le apprensioni della base e dei quadri socialisti, ne stimola la reazione contro la decisione fusionista del consiglio nazionale del luglio 1945.

La crisi del fusionismo

La “paura” della fusione si trasferisce rapidamente dalla base ai vertici del partito; ed investe la stessa maggioranza che nel Consiglio nazionale aveva proposto la fusione.
C’è una legge sociologica di autoconservazione dei gruppi dirigenti che li spinge a reagire istintivamente in senso negativo anche alle loro convinzioni politiche, quando la prassi dimostra che queste convinzioni, ove trovino attuazione, possono condurre alla distruzione del potere politico dello stesso gruppo dirigente che le professa.
Indubbiamente questa legge deve aver operato sul gruppo dirigente “fusionista” del PSIUP, posto di fronte alle conseguenze della propria scelta, se esso, solo pochi mesi dopo la decisione del luglio, compie un passo indietro sulla via della unità organica con il PCI.
Nella sessione del comitato centrale dell’ottobre successivo e la stessa maggioranza del PSIUP che dichiara inattuale il problema della fusione. Essa non rinuncia, naturalmente, alla prospettiva dell’unità organica: ma avverte che le condizioni della unificazione non sono ancora mature. In realtà la maggioranza del PSIUP ha constatato de visu l’illusione di una unificazione che si traduca se non in un assorbimento dei comunisti nel più numeroso Partito socialista, almeno nella possibilità della costituzione di un partito unitario nel quale le caratteristiche proprie, e con esse il potere politico del gruppo dirigente socialista, avrebbero potuto essere salvaguardati e garantiti.
L’evoluzione dei rapporti tra i due partiti dal luglio all’ottobre ha dimostrato invece che se il PSIUP conta più adesioni ed un maggior numero di elettori del PCI, questo è però molto più forte organizzativamente, per i mezzi finanziari di cui dispone e per l’apparato che ha costituito. Il PCI non solo è più forte del PSIUP allo stato dei fatti, ma tende a divenirlo sempre più, perché esso procede speditamente sulla via del potenziamento del proprio apparato, mentre il PSIUP, nell’ostinazione di un’unificazione organica tra i due partiti, tende addirittura a disarmare sul piano organizzativo e propagandistico.
Il comitato centrale del PSIUP vota pertanto una mozione, presentata da Pertini, Morandi e Silone, nella quale non si parla più di fusione o di partito unico, ma si ribadisce la “ferma volontà del partito di restare fedele alla sua natura di organizzazione genuinamente democratica dei lavoratori Italiani e di interprete di tutte le aspirazioni di libertà politica e di giustizia sociale” e si delimitano i rapporti con i comunisti sul piano dell’unità d’azione.
Da queste affermazioni sembra trasparire un giudizio limitativo della capacità democratica del Partito comunista, in contrapposto al chiaro e inequivocabile impegno assunto dal Partito socialista, e alle garanzie in tal senso che esso dà alle classi lavoratrici e a tutti i ceti di un paese che è appena uscito da una ventennale avventura totalitaria.
La mozione del comitato centrale, a differenza della risoluzione del Consiglio nazionale del luglio precedente, appare come l’espressione di una consapevolezza che si fa strada nell’ambito della classe dirigente socialista, del fatto che, restando immutate le condizioni che rendono necessaria l’unità d’azione politica tra i due partiti, l’impostazione dei rapporti tra di essi data dal PCI, e la scelta di una organizzazione interna di tipo leninista hanno pregiudicato la possibilità di una unificazione socialista a breve scadenza.
La scelta organizzativa del PCI, che prefigura un partito unificato dominato dall’apparato comunista, è in realtà una scelta non solo pratica, ma ideologica e politica. L’errore del gruppo dirigente socialista è appunto quello di non aver approfondito, o di non aver voluto approfondire, le origini e le conseguenze di quella scelta. Il riconoscimento delle vere ragioni che avevano condotto il PCI ad organizzarsi in coerenza con i suoi principi leninisti, adeguandoli alla concreta realtà della situazione italiana, doveva derivare al PSIUP proprio dai tentativi di egemonizzazione che l’apparato comunista intraprendeva nei suoi confronti.
Questi tentativi, oltre a rivelare l’intento del PCI di giungere a monopolizzare intorno alla sua politica lo schieramento della sinistra in Italia, erano rivelatori della natura antidemocratica dell’apparato comunista, e della “doppiezza” che comincia allora a delinearsi nel Partito comunista italiano tra le enunciazioni formali di fedeltà ai principi di democrazia e di autonomia, e la sua prassi politica, che si muove in senso del tutto contraddittorio con questi principi. Peraltro, la decisione del comitato centrale del PSIUP, non fa affatto cessare questi tentativi. Essi, invece, si intensificano. Togliatti, parlando a Torino, il 2 novembre, polemizzava contro il gruppo della Critica Sociale, accusandolo di ostacolare il processo di unificazione organica. Il leader comunista non risparmiava nella sua critica la stessa maggioranza del PSIUP, dichiarando che essa aveva ceduto alle pressioni del gruppo di Critica Sociale, affermando la inattualità della fusione. Il segretario del PCI giungeva a minacciare la direzione del PSIUP che ove essa non si fosse adoperata per una rapida maturazione delle condizioni della fusione, il partito avrebbe indetto un’agitazione nelle fabbriche per denunciare al proletariato le “manovre” socialiste per sabotare l’unità operaia.(15)
L’intimazione di Togliatti fu ripetuta da centinaia di oratori comunisti nelle piazze di tutta Italia; e ribadita da Longo in un articolo sull'”Unità”, e nella relazione al congresso nazionale del Partito comunista. Essi, a riprova dell’efficacia del metodo intimidatorio adottato, indicarono negli avvenuti accordi elettorali con la formula del “blocco” realizzati tra socialisti e comunisti nelle elezioni amministrative, l’avvio alla unificazione organica dei due partiti, da essi considerata in via di maturazione, nonostante la decisione negativa del comitato centrale del PSIUP. Il Partito comunista aveva infatti rapidamente avvertito il pericolo, per le sue pretese egemoniche, della riaffermazione autonomistica contenuta nella risoluzione del comitato centrale socialista, alla quale era seguita una ripresa organizzativa del PSIUP.
Il gruppo dirigente comunista, forte del suo apparato, correva ai ripari, tentando di rovesciare i termini della questione: addossando cioè al PSIUP la responsabilità della mancata unificazione proletaria che ricadeva invece esclusivamente sul PCI, il quale aveva dimostrato di non essersi affatto svincolato da una concezione ideologica e politica di carattere totalitario, che non offriva nessuna garanzia democratica per una eventuale fusione tra i due partiti.(16)

Le contraddizioni del gruppo dirigente socialista.
La tesi di Basso

Di fronte all’offensiva del PCI, il cui apparato si avvaleva degli strumenti offerti dal patto d’Unità d’Azione per una crescente pressione sulla base socialista, l’atteggiamento del gruppo dirigente del PSIUP apparve incerto e contraddittorio.
Esso non si sottrasse, certamente, al suo dovere di confermare la decisione del comitato centrale, tanto che la stessa relazione della direzione del partito per il XXIV congresso, del 24 febbraio 1946, affermava esplicitamente che “non esiste dinanzi al nostro congresso socialista un problema di fusione, ma soltanto un problema di alleanza politica nella lotta comune per la Costituente, la Repubblica e le riforme di struttura”. (17)
La sua reazione alla offensiva comunista non fu però adeguata al pericolo che quella pressione organizzativa e politica andava profilando per l’autonomia socialista. Inoltre la raggiunta unità interna tra le correnti parve ben presto il frutto di un compromesso, non di una omogenea comune valutazione delle prospettive politiche del partito.

L’apparato di Basso

Raggiunto l’accordo fra le varie tendenze sulla impossibilità di dare attuazione alla fusione, si fece subito strada nella maggioranza direzionale una tesi altrettanto pericolosa per l’esistenza del partito, ed ancora più suggestiva di quella dell’unificazione a breve scadenza. Questa tesi, di cui il più coerente assertore fu Lelio Basso, considerava inattuale il problema della fusione per la scarsa forza organizzativa e di apparato del PSIUP nei confronti dei comunisti, e proponeva in conseguenza, allo scopo di rafforzare il partito e porlo in condizioni di affrontare l’unificazione, l’adozione di un modello organizzativo analogo a quello adottato dai comunisti, fondato sulla costituzione di un apparato altrettanto centralizzato di quello del PCI.
Lelio Basso era ispirato, nella formulazione di questa tesi, tanto dalla sua ammirazione per lo sforzo di organizzazione prodotto dal PCI, e la cui indubbia riuscita i socialisti per primi avevano modo di constatare a loro spese; quanto dalla sua convinzione ideologica che lo portava a considerare necessario per la lotta rivoluzionaria un tipo di partito organizzato con una ossatura di militanti professionisti della lotta politica, caratterizzato da una profonda unità ideologica e da una ferrea disciplina interna, che non escludendo il dibattito tra le tendenze, ne limitasse l’espressione al fine di non pregiudicare l’azione politica del partito, inteso come un esercito in lotta per la conquista del potere.
Motivi di origine luxembourghiana echeggiavano in questa concezione che Basso aveva del partito. E invero la sua polemica con il PCI, condotta fin dagli anni della clandestinità e della Resistenza sul periodico da lui diretto, “Bandiera Rossa”, e proseguita negli anni successivi alla Liberazione, era una critica di “sinistra”, basata sulla contestazione del carattere rivoluzionario della politica del gruppo dirigente comunista.
Basso, che si differenziava nettamente dalla tradizione ideologica del socialismo democratico, anche nella sua versione più moderna, che egli più apprezzava, quella della scuola dell’austro-marxismo, si presentava d’altro canto con le carte autonomistiche in regola nei confronti del PCI, per la sua coraggiosa ed efficace polemica rivolta alla denuncia della involuzione stalinista nel mondo sovietico e sul piano dell’azione internazionale di classe, alla, quale egli faceva risalire l’origine della involuzione della politica togliattiana in Italia.
La tesi di Basso ebbe immediatamente una larga eco tra i quadri socialisti, che sentivano l’insufficienza dei moduli organizzativi adottati nel partito sulla scorta della tradizione prefascista, in quanto essa si presentava come una sintesi dinamica tra l’esigenza dell’unità proletaria e l’esigenza dell’autonomia del partito, rivendicata dalla generalità dei militanti, di fronte ai tentativi egemonici del PCI.
Basso riusci a convincere la maggioranza del gruppo dirigente socialista che l’unità con il PCI non era possibile fino a che essa non fosse fondata su concrete garanzie per i socialisti non solo di conservare nel nuovo partito unitario le proprie caratteristiche politiche ma di esercitare essi l’azione di guida del movimento operaio italiano, ponendo in minoranza la posizione “opportunistica” e filostalinista di Togliatti. Queste garanzie non potevano essere di carattere formale, sosteneva Basso; esse sarebbero state il risultato di un forte impegno organizzativo del partito, e della costituzione di un apparato socialista altrettanto ed ancora più forte e qualificato di quello costituito dal PCI. L’unificazione tra i due partiti diveniva, nella concezione di Basso, un obiettivo da perseguire nel senso della acquisizione di tutto il movimento operaio italiano ad una politica autenticamente leninista. Il PSIUP non era ancora pronto alla fusione le cui condizioni sarebbero maturate nella misura in cui esso si sarebbe potuto dare un’organizzazione in grado di competere e di soverchiare quella del PCI.
La tesi di Basso, nella crisi del fusionismo, sposta i termini del discorso dell’unità organica dal piano delle prospettive politiche al piano dei problemi organizzativi e di strutture del movimento socialista. Ma non essendosi chiariti i termini equivoci in cui era stata posta la politica “unitaria” del PSIUP, tutti gli errori, tutte le contraddizioni si riproducono sul terreno della discussione organizzativa, intorno ai temi della struttura del movimento socialista, e dell’assetto del partito.(18)

La polemica sulla struttura del partito e sullo statuto

Il Partito socialista era stato ricostruito sulla base di uno statuto provvisorio che ne sanciva il carattere di partito ideologico, modellato sul tipo di organizzazione politica del movimento socialista negli anni precedenti al fascismo. (19)
Il partito si presentava come un’organizzazione a carattere esclusivamente territoriale, con una struttura elementare: la sezione comunale; la federazione provinciale; la direzione del partito, alla quale si affiancava, come organo straordinario di deliberazione, il consiglio nazionale.
Il carattere territoriale dell’organizzazione risultava ancor più accentuato dal fatto che lo statuto provvisorio poneva un esplicito divieto alla costituzione di più sezioni in un solo comune.
Per i comuni superiori ai 100.000 abitanti, era prevista l’organizzazione di circoli di zona, controllati dalla sezione comunale, che restava sempre l’unica struttura organizzativa locale del partito. La sezione era diretta da un comitato esecutivo, nominato dall’assemblea, con un numero di membri che l’assemblea era libera di stabilire.
La federazione provinciale veniva costituita nelle province nelle quali esistevano almeno tre sezioni comunali. Essa era retta da un comitato eletto dal congresso provinciale.
La direzione del partito risultava composta da 15 membri, 14 dei quali eletti dal congresso nazionale, ed il quindicesimo membro di diritto, nella persona del rappresentante giovanile. La direzione nominava il direttore dell'”Avanti!”, che insieme con il segretario del partito faceva parte di diritto dell’esecutivo di 5 membri, designato dalla direzione.
La Federazione giovanile socialista era strutturata sul modello del partito: sezioni giovanili costituite presso le sezioni comunali; federazioni giovanili provinciali costituite presso le federazioni provinciali del partito; federazione giovanile nazionale, rappresentata nella direzione da un suo membro.
Dal punto di vista del potere decisionale, la struttura del PSIUP è caratterizzata da un forte grado di centralizzazione.
Tutto il potere di decisione politica e organizzativa, a livello nazionale, è affidato alla direzione, un organismo ristretto che si è praticamente autoeletto ed è stato riconfermato dall’unica sessione del Consiglio nazionale, quella del luglio 1945. A livello locale le decisioni sono assunte dai comitati di federazione e di sezione.
A differenza del Partito socialista organizzato nel periodo prefascista, il PSIUP presentava fin dalla sua ricostituzione un forte grado di centralizzazione del potere politico dagli organi esecutivi federali a livello provinciale; e dalla direzione sul piano nazionale. Questa struttura era in un certo senso obbligata, perché il partito usciva dalla lotta clandestina che imponeva l’accentramento delle decisioni nelle mani di pochi uomini responsabili, e perché all’indomani della Liberazione il partito accoglieva nelle sue fila un numero di militanti molto più ampio del suo gruppo dirigente, al quale incombeva pertanto la responsabilità di portare l’organizzazione socialista dalla fase clandestina alla fase di aperta vita politica, senza profondi turbamenti, e repentini cambiamenti di indirizzo politico. Il partito venne, pertanto, riorganizzato “dall’alto” né poteva essere altrimenti. Anzi si può dire che il gruppo dirigente mostrò addirittura un’eccessiva indulgenza nell’aprire le fila della organizzazione anche a persone il cui passato politico lasciava molto a desiderare, e che recava nella nuova milizia quelle caratteristiche negative di opportunismo, di cinismo morale, di conformismo che negli anni successivi finiranno per avere un peso, allora imprevedibile, sulla vita dell’organizzazione socialista.
A noi sembra che la relazione degli amici di “Critica Sociale” rappresentasse abbastanza bene questo stato di cose, quando affermava: “Primo errore fu quello di accogliere nelle fila del partito molta gente priva non solo di preparazione dottrinale, ma di quel minimo di patrimonio di sentimenti e di idee, senza cui non è possibile una coscienza socialista. A parecchi di costoro, non tutti immuni da pecche, si affidarono anche posti di responsabilità… Si mantenne poi, e anzi si aggravò, il sistema che era stato necessario nella fase clandestina: che un piccolo gruppo di dirigenti tenesse in mano tutte le fila d’azione, e deliberasse gli atti che gli altri dovevano compiere. Tutta la vita del partito fu accentrata nelle mani di piccoli gruppi, che distribuirono, tutti o quasi, i posti di lavoro alle persone fedeli alle loro direttive, tenendo lontano i dissenzienti non solo dalle cariche del partito, ma anche dall’azione di propaganda”.(20)
Il panorama che ci presenta il PSIUP alla fine del 1945 è, pertanto, quello di un partito riorganizzato su base territoriale, la cui prima entità associativa è costituita dalla sezione comunale, ma già fortemente centralizzato nelle strutture nazionali e nelle strutture federali intermedie; con una base eterogenea, di scarsa preparazione politica, tra la quale i militanti più esperti della vita di partito sono coloro che hanno partecipato attivamente alla vita delle organizzazioni fasciste, accanto ai vecchi militanti di provata fede e onestà. Il gruppo dirigente che detiene il potere decisionale, politico e organizzativo, è un gruppo dirigente ristretto, che essendo di formazione ideologica marxista, avendo aderito al marxismo in epoca più recente, come i giovani provenienti dal GUF, imprime a tutto il partito un suggello ideologico rigoroso, senza che in realtà la maggior parte dei militanti e dei quadri abbiano nessuna formazione e preparazione ideologica, né marxista né di altro tipo.
In un partito di questo genere le tesi di Basso acquistano una forza di suggestione e una facilità di attuazione che non avrebbero assunto in un partito diverso, o in una situazione storica e politica diversa da quella di quegli anni.
Ciò che Basso propone è in realtà un tipo di partito, che sul modello dell’organizzazione comunista tende ad accentuare, invece che a eliminare, le tendenze negative già in atto nell’organizzazione del PSIUP. Egli prefigura un partito ancor più marcatamente ideologico, marxista, guidato da un apparato omogeneo composto di politici di professione, la cui stessa costituzione comporta un sempre maggiore accentramento del potere politico a livello nazionale e locale; un partito che mantiene la organizzazione territoriale tradizionale, ma smembrandola in forme di organizzazione capillare, che permettono un totale controllo ed orientamento della base da parte dell’apparato, e conferiscono all’azione del partito un maggior mordente di lotta rivoluzionaria. Un partito, insomma, che Basso ritiene lo strumento più efficace per mettere in grado la classe dirigente socialista di affrontare la prospettiva rivoluzionaria della conquista del potere, sia pure per via democratica, e in essa, nell’ambito dell’unità della classe e dei due partiti, è il Partito socialista, non affaticato come il PCI dall’involuzione stalinista e dai legami con l’URSS, ad assumere la guida della lotta per il potere. Il partito secondo Basso rappresenta la sintesi, nella dinamica della lotta di classe, delle due anime del PSIUP, quella “autonomistica” e quella “unitaria”, e il superamento da “sinistra” della politica collaborazionistica e filostalinista di Togliatti.
Non è un caso, dunque, che l’impostazione di Basso comincia ad emergere proprio nel momento di crisi del fusionismo del Consiglio nazionale del luglio del ’45, sconfitto dalla realtà dei mesi successivi. Infatti la prima polemica sull’aspetto interno del partito reca la data di quella sessione del comitato centrale dell’ottobre nel quale la stessa maggioranza direzionale aveva riconosciuta la inattualità della fusione.
In quell’occasione i rappresentanti di Critica Sociale nel comitato centrale (che era stato costituito nel Consiglio nazionale del luglio, per allargare il troppo ristretto gruppo direzionale includendovi altri elementi dirigenti del comitato dell’Alta Italia) e cioè Saragat, Simonini, Faravelli e Corsi votarono contro la mozione Morandi-Pertini-Silone, dopo avervi in un primo momento aderito. La ragione del mutamento di atteggiamento era nel fatto che questi membri del comitato centrale riconoscevano che la mozione “costituisce un’iniziativa autonoma del Partito socialista… innova i rapporti con il PCI… Non si parla più di fusione, né di partito unico”, come ebbe a scrivere “Critica Sociale”(21) ma essi ritirarono la propria adesione dopo che Nenni aveva proposto alcune norme integrative allo statuto provvisorio, che i rappresentanti della minoranza ritenevano mandassero a vuoto “lo sforzo di rinnovamento democratico di cui la grande maggioranza del comitato centrale aveva avvertito e denunciato la necessita”. (22) Le norme integrative dello statuto erano dirette a “completare” l’organizzazione territoriale del partito con la creazione di “nuclei aziendali”, con funzioni e competenze di sezioni. Esse introducevano un sistema “cellulare” di tipo comunista, perché tendevano a creare una organizzazione frazionata in tanti nuclei ristretti, facilmente controllabili politicamente, e a contrapporre questi nuclei operai alle sezioni territoriali, nelle quali venivano ad organizzarsi gli aderenti di ceto medio ed intellettuale. Inoltre le norme integrative prevedevano la creazione di un “ufficio politico”, composto di membri della direzione, tutti residenti a Roma, “destinato a sovrapporsi alla direzione e al comitato centrale, e a esautorarli, tanto più che e costituito in maggioranza da coloro che sono sempre stati i più fervidi partigiani della fusione”.(23)
Nelle norme integrative, proposte da Nenni e approvate dal comitato centrale, apparve chiaro alla minoranza, che si raccoglieva intorno alla “Critica”, che andavano profilandosi le tendenze tipiche dell’organizzazione comunista, contraddistinte da una forte capillarizzazione delle strutture di base, e da un processo di accentramento delle decisioni politiche ai vertici del partito nelle mani di pochi uomini, sospetti, peraltro, per le loro non celate simpatie per l’unita organica con il partito comunista.

Lo statuto Basso e lo statuto Faravelli

La polemica posizione dei rappresentanti della minoranza di Critica Sociale contro le norme integrative proposte ed approvate dalla maggioranza nel comitato centrale dell’ottobre del 1945 non fu che il preludio della più ampia e intensa polemica che doveva sorgere nell’inverno 1945-46, cioè nei mesi in cui si preparava il primo congresso nazionale socialista, intorno alla questione dello statuto del partito.
Nell’estate del 1945 la direzione aveva nominato una commissione, incaricata di apprestare un progetto di statuto, da compilare in sostituzione dello statuto provvisor, io che ormai non rispondeva più alle esigenze del partito che si andava configurando come una compagine di massa, sia per il numero degli iscritti, sia per l’influenza politica che esso aveva assunto nel paese.(24)
La commissione non si riunì che poche volte, senza concludere i suoi lavori, ma in quella sede si delineò un contrasto di fondo sul modo di concepire l’organizzazione e l’assetto della vita interna del partito tra due concezioni che trovarono la rispettiva concretizzazione in due progetti di statuto: quello che recava il nome di Faravelli, per gli “autonomisti” e quello che recava la firma di Basso per la “sinistra”. I due progetti riflettevano una concezione socialista democratica, propria del gruppo di Critica sociale, in opposizione alla concezione leninista del partito di cui era il più coerente teorico Lelio Basso. Il contrasto verteva, quindi, sui princìpi generali, e sulla funzione che si assegnava all’azione ed alla organizzazione socialista; non sui particolari della struttura organizzativa che si intendeva delineare per il movimento socialista.
Nel preambolo al progetto Faravelli (che era divenuto, dopo molti rimaneggiamenti, ad opera di Mondolfo, di Lami Starnuti, di Vigorelli, di Preti, di Tursi, tutti membri della corrente di Critica Sociale, un progetto collettivo di statuto) viene osservato, in modo pertinente: “I compilatori… respingono l’opinione che nega l’intima connessione esistente tra politica e organizzazione e ritiene che alle concezioni politiche sia indifferente la forma organizzativa. Essi sono invece convinti che ogni organizzazione politica deve disporre per la sua affermazione e divulgazione di una organizzazione strumentale costituita in armonia con i princìpi che ispirano l’organizzazione stessa”.(25)
Il progetto prevedeva quindi la costituzione di un partito ispirato al “moderno socialismo marxista”(26) concepito come “organo proprio ed autonomo della classe lavoratrice” e quindi “radicalmente democratico”. (27)
Il progetto Faravelli risultava fondato su una “netta distinzione di competenza e di potere nei suoi organi a salvaguardia dei diritti di soci, cui è riconosciuta piena libertà di pensiero e di critica pur nella disciplina dell’azione” (artt. 2,69,73). (28) La garanzia di libertà di pensiero e di critica consisteva nell’affidamento di giudizi disciplinari ai collegi dei probiviri, resi indipendenti dagli organi direttivi, ai quali il progetto attribuiva una funzione puramente esecutiva, “subordinandoli così strettamente alla sovranità dell’assemblea e dei congressi, che è ripetutamente affermato come un punto essenziale del sistema dello Statuto” (artt. 18, 63).
Il progetto stabiliva inoltre l’obbligo dell’accoglimento “negli uffici rappresentativi e nelle cariche di partito” delle rappresentanze delle eventuali minoranze alle quali doveva garantirsi anche il diritto di esprimere i loro dissensi sulla stampa di partito (artt. 25, 34, 38, 56 ecc.). Esso prevedeva inoltre la proibizione del cumulo dei mandati nei congressi, ed il divieto dei mandati imperativi “i quali trasformerebbero i congressi in inutili logomachie”.(29) Altre garanzie che s’intendevano fornire per la vita democratica, erano: la pubblicità dei bilanci, con il divieto della imposizione di contribuzioni straordinarie da parte della direzione, “divieto che limita nel campo amministrativo i poteri dell’esecutivo”; la esclusione di “indebite interferenze esterne, dirette ad asservire il partito ad altre organizzazioni”.
Il progetto Faravelli era incentrato sul criterio della territorialità dell’organizzazione, temperato dal riconoscimento della esigenza di un largo decentramento delle istanze associative di base e dall’autonomia di tutti gli organi di partito. Esso infatti concepiva la sezione come la struttura associativa di base sulla quale veniva a posarsi tutto l’edificio organizzativo del partito; epperò prevedeva l’articolazione della struttura di base in unioni comunali tra le varie sezioni di uno stesso comune; di sotto-sezioni; di circoli nei rioni e nei quartieri; di gruppi socialisti aziendali: ma queste sottostrutture delle sezioni venivano concepite non come organi che determinano la politica del partito, ma come aggruppamenti che nei luoghi di lavoro si fanno strumenti della politica socialista “elaborata nella sua sede naturale ed insopprimibile che è e resta la Sezione territoriale”.
“Lo statuto respinge le costruzioni corporative ed antidemocratiche che frazionano gli iscritti in categorie e nuclei chiusi nella grettezza di particolari interessi e che spezzano l’unità ideale della classe lavoratrice; ma si ispira invece alla necessita di educare i lavoratori alla preminenza di interessi collettivi, la cui visione e concezione, ripetiamo, è soltanto nelle assemblee delle sezioni, dove le aspirazioni e gli interessi di tutte le categorie si affratellano e si fondono armonicamente”.(30) La stratificazione associativa di base veniva pertanto considerata come una concretizzazione dell’esigenza di una struttura più articolata di quanto fosse stato possibile nell’organizzazione socialista del prefascismo fondata essenzialmente e pressoché esclusivamente sulla organizzazione sezionale, ma senza sacrificare ad essa l’altra esigenza; parimenti e forse più importante della prima, che reclamava di sostenere come sede naturale delle elaborazioni e delle decisioni politiche l’organizzazione sezionale, nella quale venivano a congiungersi le esperienze di lavoro nelle sedi associative territorialmente ristrette, riguardanti singole categorie, oppure singole imprese.
Il progetto aderiva cioè alla esigenza di una organizzazione funzionale e largamente decentrata, ma rifiutava la capillarizzazione dell’organizzazione cellulare, che sul modello comunista veniva proposta da altri settori politici del partito, considerandola come nociva della democrazia interna, e come un tipo di organizzazione che stimolasse le tendenze corporative e categoriali degli iscritti, a discapito della loro graduale e sicura formazione politica che doveva fondarsi non sulle rivendicazioni di esigenze particolaristiche, ma sulla consapevolezza della preminenza degli interessi collettivi su quelli settoriali e pàrticolaristici.
L’alto grado di decentramento organizzativo veniva a sostanziarsi della relativa autonomia di tutti gli organi di partito (sezioni, federazioni, gruppo parlamentare, lega dei comuni socialisti, organizzazioni giovanili… ) rispetto alla direzione centrale. Ne risultava, innanzitutto, la “elevazione delle federazioni provinciali ad organi preminenti nel campo della preparazione politica, del proselitismo, dell’organizzazione e della cultura”.(31) Quello che si vuole eliminare, esplicitamente, è il “centralismo anacronistico della direzione, ricalcato sul centralismo della socialdemocrazia tedesca, che fu il modello dell’organizzazione di tanti partiti socialisti, e dello Stato giolittiano. Alla direzione sono riservati così, nel campo organizzativo, compiti di coordinamento, di stimolo e di sostegno; ed in quello politico compiti veramente nazionali”. (32)
Il centralismo della direzione dovrebbe, peraltro, essere definitivamente superato nella forma più progressiva, elevandone la composizione da organo dirigente del partito ad organo rappresentativo di “tutto il movimento operaio nelle sue molteplici forme e manifestazioni”, realizzando “una vecchia idea di Filippo Turati”, secondo la quale si sarebbero dovuti introdurre nel massimo organo dirigente socialista, con voto deliberativo, gli esponenti del gruppo parlamentare, della confederazione del lavoro, della lega delle cooperative, della lega dei comuni, dell’organizzazione giovanile, ecc. “In tal guisa – cosi era commentato il progetto – quella mancanza di coesione fra il movimento politico rappresentato dal partito e le altre branche del movimento operaio, che fu certamente una delle cause principali della nostra disfatta nell’altro dopoguerra, è, per quanto possibile, abolita”. (33)
Il progetto che andò sotto il nome di Faravelli era, pertanto, l’espressione di una lucida volontà politica della minoranza socialista di dotare il partito di uno strumento organizzativo moderno, efficiente e democratico, rappresentativo di tutte le istanze organizzate del movimento di classe, ispirate spregiudicatamente alle esigenze di massima autonomia e del massimo decentramento di tutte le istanze di base, ma ricondotte alla necessaria unità di coscienza politica, di elaborazione decisionale, di efficacia operativa di struttura del partito, che dalla sezione alla federazione, alla direzione, veniva configurato come la spina dorsale intorno alla quale fiorivano e si arricchivano, in forma articolata, tutte le forme associative del partito. Questa concezione organizzativa che faceva della direzione il cervello politico, la sintesi di tutte le istanze associative del movimento reale dei lavoratori e del partito, garantendo l’autonomia di ciascuna di esse, era tutto l’opposto di quella concezione fondata sul centralismo democratico, che ispirò, in coerenza con la particolare visione ideologica e politica del suo autore, il progetto di statuto redatto da Lelio Basso.
Il progetto Basso era ispirato fondamentalmente ai due criteri organizzativi che avevano presieduto alla costituzione del partito di massa: il criterio della centralizzazione delle decisioni: e, correlativamente al primo, il criterio della massima capillarizzazione organizzativa delle strutture di base.
Non crediamo sia necessario qui illustrare nei particolari il progetto di Basso, in quanto esso fu, come quello Faravelli, ritirato prima del congresso di Firenze del 1946; ma, a differenza del primo (che notevolmente modificato avrebbe costituito la base per lo statuto del Partito socialdemocratico che sarebbe nato dalla scissione di Palazzo Barberini), i criteri ispiratori del progetto Basso troveranno in seguito puntuale realizzazione nello statuto che sarà approvato nel 1947 dal congresso che avrebbe dovuto registrare l’uscita delle minoranze, e l’assunzione della segreteria del partito da parte dello stesso Basso.

La forza organizzativa del Partito socialista al congresso di Firenze

Per una valutazione sufficientemente esatta della forza organizzata delle strutture del Partito socialista italiano nei primi anni del dopoguerra, occorre risalire alla relazione organizzativa presentata al XXIV congresso (Firenze, aprile 1946) del PSIUP.
Dalla relazione al XXIV congresso, presentata da Rodolfo Morandi, risulta che, alla fine del 1945, il numero degli iscritti complessivi del partito “si aggirava sul 700.000”, ma nel corso dei primi due mesi dell’anno, secondo quanto asseriva Morandi, “l’incremento era stato assai forte in molte province e il complesso degli iscritti risulta in aumento continuo”.
I dati complessivi dei voti congressuali danno infatti 860.300 iscritti, con un incremento, quindi, di oltre 160.000 iscritti nei primi due mesi del 1946.
Da questi dati l’organizzazione del PSIUP si presenta, nei primi anni del dopoguerra, come l’organizzazione di un grande partito di massa. Osservava Morandi: “Il nostro partito si classifica in ogni caso fra i più grandi organismi del sistema politico italiano”. (34)
Per quel che riguarda la distribuzione degli iscritti la relazione organizzativa ci offre alcuni interessanti elementi di valutazione. Fra le regioni che hanno il maggior numero di iscritti in cifre assolute è in testa la Lombardia, con oltre ben 160.000 iscritti, seguita dall’Emilia con 150.000 iscritti e quindi dalla Toscana.
Morandi riportava anche alcuni dati relativi al rapporto fra iscritti e popolazione, dai quali risulta sempre in testa la Lombardia, con rapporto percentuale di 2,76%, seguita dall’Umbria con 2,30%, dall’Emilia con 2,26% e dalla Toscana con 2%; le percentuali apparivano invece incredibilmente basse per la Sardegna con lo 0,62%, per la Sicilia con lo 0,68%, per le Puglie con lo 0,87%, per il Lazio con l’l% e per le Marche con lo 0,96%.
La distribuzione degli iscritti per federazione ci dà innanzi a tutte le federazioni quella di Milano con oltre 53.000 iscritti, seguita da quella di Torino con 30.000 iscritti, da quella di Brescia con 22.000 iscritti, da quella di Corno con 20.000 iscritti, di Belluno con 19.000 iscritti, di Napoli con 16.000, di Pesaro con 17.000.
Per quanto sommari ed incompleti siano i dati citati sulla distribuzione geografica delle forze del Partito, risulta peraltro un profondo squilibrio tra la forza delle regioni settentrionali e quella delle altre regioni, in particolare del Mezzogiorno e delle isole. I dati numerici sono infatti confermati anche
dai dati riferiti dal Morandi sulle percentuali fra iscritti e popolazione, per i quali accanto alla Lombardia, che è la più forte regione anche come numero di iscritti, si collocano alcune regioni centrali come l’Umbria e la Toscana. Ben poco invece possiamo giudicare dai dati riportati, per quel che riguarda il numero degli iscritti alle federazioni.
Incompleti appaiono anche gli elementi di giudizio relativi alla composizione sociale degli iscritti. “Purtroppo – rileva Morandi – solo poche federazioni hanno fornito elementi in proposito e quindi i nostri calcoli sono mal sicuri nella generalizzazione che se ne fa”. Comunque da tali dati “risulterebbe che il nostro partito è composto per il 62% di operai, il 13,5% di contadini, e il 5% di impiegati, l’l% di professionisti e il 19% di donne e giovani”.
Se una scarsa importanza hanno questi dati per la loro evidente generalità, un elemento di più esatta valutazione è invece quello che riguarda la forza di attrazione del PSIUP sulle nuove generazioni.
Afferma Morandi infatti che “un indice caratteristico della vitalita del partito è quello che misura la sua forza d’attrazione sui giovani. Le schiere dei giovani che seguono il partito sono numerose e ciò è di buon auspicio per il domani”.
E numero totale degli iscritti alla federazione giovanile ascenderebbe, “stando ai dati fornitici dalle singole federazioni, sugli 80-90.000 (la sola Lombardia dà una cifra di 25.000 iscritti)”.
Tale cifra tuttavia è da accogliere con beneficio d’inventario, poiché, essendo stata distribuita per il PSIUP una tessera unica per i giovani e gli adulti, un sicuro controllo sulla cifra dei giovani non si poteva avere. Un valore molto relativo e da attribuirsi anche ai dati forniti da Morandi sulla composizione sociale delle leve giovanili del partito, che dava il 40% di operai, il 30% di contadini, il 30% di studenti. Le cifre che riguardano il movimento femminile erano altrettanto insicure, ma già da esse si poteva rilevare la scarsa presenza di iscritte del Partito: infatti le aderenti al movimento femminile sommavano a non più di 40.000.
In conclusione il PSIUP si presentava nel suo complesso come un forte movimento politico di massa con una larga presa sugli strati operai e con una notevole forza d’attrazione sulle nuove leve giovanili, che venivano alla vita politica direttamente dalla esperienza fascista.

I problemi della struttura del partito

L’organizzazione di questo movimento di massa presenta sin da allora dei problemi di notevole difficoltà. Affermava Morandi che “l’organizzazione libera di masse così ingenti non aveva precedenti nella storia dei partiti… Nessuno poi pensa che un partito come il nostro, che organizza un milione di aderenti, possa sostenersi di comizi, né della vita di una unica sezione e di alcuni circoli di centro, che contano magari molte decine di migliaia di iscritti, ma richieda un’organizzazione molto più complessa e articolata”.
I più grossi problemi organizzativi che si presentarono al Partito socialista italiano di unità proletaria sorgevano peraltro proprio in relazione alla forte presa che il partito presentava nei confronti delle masse operaie, e che ne spostava l’equilibrio nella distribuzione geografica delle forze, tutto a favore delle regioni maggiormente industrializzate. L’organizzazione degli iscritti operai in gruppi aziendali appare, a quanto risulta dalla relazione Morandi, come un fatto tipico “di un assestamento spontaneo che il partito ha cercato in questo recente periodo. Alcune cifre ci possono dire quale vastità e importanza aveva assunto già l’organizzazione aziendale nel giro di alcuni mesi, e ci consentono di valutare i rapidissimi progressi a cui è destinata”.

Organizzazione aziendale

Passando ad elencare i dati dell’organizzazione aziendale, la relazione rivelava l’esistenza, nel complesso di 392 nuclei aziendali con 20.000 iscritti nella federazione milanese, alla quale facevano seguito quella di Brescia con 49 nuclei aziendali e 6:700 iscritti, quella di Firenze con 80 nuclei aziendali e 5.000 iscritti, quella di Venezia con 52 nuclei aziendali e 5.200 iscritti, quella di Bologna con 42 nuclei aziendali e 1.000 iscritti, quella di Roma con 70 nuclei aziendali e 3.000 iscritti.
Per le altre situazioni provinciali non vengono forniti dalla relazione dati precisi, ma una impressione generale che se ne ricava è quella di uno sviluppo crescente dell’organizzazione aziendale nelle imprese industriali, alla quale fa seguito la volontà politica della direzione “di estendere l’organizzazione dei nuclei alla campagna… la generalizzazione e l’attivazione razionali dell’organizzazione aziendale danno al nostro partito le più promettenti prospettive di sviluppo”.
La composizione sociale degli organizzati del partito era quindi, in quell’epoca, in diretta funzione dei tipi di organizzazione di massa, che il partito sviluppa tendenzialmente in forme spontanee e alle quali la direzione assicura la sua opera di stimolo.
La questione del rapporto fra spinta spontanea delle masse e volontà politica di assicurare a questa spinta la forma organizzativa e permanente di struttura di massa è risolta in una valutazione che è alla base della caratterizzazione del partito come espressione di una esperienza popolare di organizzazione nella società civile, e quindi non soltanto sul piano delle strutturazioni territoriali ma anche su quello dell’organizzazione sui luoghi di lavoro. Di qui deriva lo sviluppo rapido, sia del numero degli iscritti, sia delle forme organizzative tipiche: quelle dei nuclei aziendali, che erano in un certo senso sostitutive della organizzazione degli interessi di classe che, prima del fascismo, era stata la caratteristica propria dell’organizzazione socialista, e aveva preceduto l’organizzazione stessa del partito, essendosi manifestato in forme spontanee di strutturazione nelle leghe delle cooperative, dei sindacati, delle mutue. Il partito di massa che risorge dopo la parentesi del fascismo trova nella tendenza spontanea delle masse ad organizzarsi, la fonte di una nuova esperienza organizzativa nella formazione dei nuclei all’interno dell’impresa.
Dominato dalle lotte fra le fazioni, dall’antagonismo delle correnti, il PSIUP, dopo il congresso di Firenze, non era in grado di approfondire i risultati positivi, né di stabilire i limiti di tale esperienza. La lotta interna politica ha il sopravvento sulla valutazione delle esigenze oggettive dell’organizzazione di classe e il moto di espansione del partito nella società italiana subisce una battuta d’arresto che si riflette anche sulla presa elettorale del partito. Infatti al successo socialista nelle elezioni del 2 giugno del ’46, fece riscontro una sconfitta elettorale nelle elezioni amministrative del novembre dello stesso anno.

Le correnti

Al congresso del PSIUP dell’aprile del ’46 un elemento determinante è rappresentato dalla ripartizione degli iscritti nelle correnti nazionali presenti che in sede congressuale sono: la corrente detta di Base, capeggiata da Nenni, Basso, Cacciatore e Morandi; la corrente di Iniziativa socialista, guidata da Zagari, Vassalli e Bonfantini; la corrente Pertini-Silone; la corrente di Critica Sociale; e una mozione locale della federazione genovese.
La corrente di Base si presentava su posizioni unitarie. Le altre correnti erano correnti autonomiste. Il risultato finale al congresso segnò la prevalenza della concentrazione sulla mozione di Iniziativa e Pertini-Silone, che raccolsero 300.062 voti, insieme con la mozione di Critica Sociale con 83.781 voti, e la mozione della federazione genovese con 14.262 voti; complessivamente i voti delle correnti autonomiste sommavano a 388.105 voti. Alla corrente di Base andarono 338.346 voti. Non è possibile ricostruire i dati relativi ai congressi provinciali, in quanto i resoconti del partito, di quell’anno, risultano del tutto incompleti, anche perché vi fu un notevole numero di mozioni locali di accordo fra le varie correnti a livello provinciale.
Comunque le correnti autonomiste prevalsero ad Aosta, ad Asti, a Biella, a Bologna, a Genova, ad Imperia, a Savona, a Modena, a Reggio Emilia, a Roma, ad Ascoli Piceno, a Orvieto, a Bari, a Livorno, a Terni, a Frosinone, a Latina, ad Avellino, a Caserta, a Napoli, a Potenza, a Siracusa; mentre le posizioni unitarie, per i dati che è stato possibile rintracciare, ebbero la prevalenza a Novara, a Como, a Cremona, a Varese, a Bolzano, a Forli, a Firenze, a Lucca, a Pisa, a Siena, a Perugia, a Catanzaro.
Come rileva Maurizio Penzo, nel suo volume Dalla liberazione a Palazzo Barberini, il panorama che offriva il PSIUP era quello di un partito totalmente diviso “con una contrapposizione molto marcata, non solo di tesi politiche, ma di apparati di corrente, con accuse ricorrenti e reciproche di perseguire fini politici non dichiarati”.

La prima concezione morandiana dell’organizzazione del partito

La concezione del partito di Morandi, al XXIV congresso, espressa nella sua relazione organizzativa, era una concezione che rifletteva la condizione di espansione del partito, pur nell’ambito della visione politica “unitaria” alla quale egli aderiva fin da allora.
Inoltre, essa era il frutto di una organica visione dei problemi di struttura del movimento operaio nel suo insieme, che, per Morandi, trovava la sua più proficua maturazione proprio nel periodo che va dalla Liberazione alle vicende della scissione e del Fronte. In questa visione la stessa politica di unità tra PCI e PSI propugnata da Morandi acquistava un significato del tutto originale rispetto alla concezione che di questa politica avevano gli altri esponenti della “sinistra” socialista.
Morandi considerava, nel 1946, “la distinzione dei due partiti come conseguenza di una situazione che non può essere ignorata ma che tende ad essere superata dalla esperienza obiettiva del movimento operaio”. Egli aggiungeva che “la non sempre esatta comprensione del suo carattere obiettivo, che oggi interessa alle radici ogni organizzazione rivoluzionaria della classe operaia, ha dato luogo ad una concezione astratta ed illusoria del problema della riunificazione organica, che e stata intesa come operazione da effettuare con la buona volontà dei partiti e mediante interventi dall’alto tendenti a ridurre il processo a problemi organizzativi”. Morandi, cioè, non vedeva il problema della unificazione organica come il prodotto di un accordo ai vertici dei partiti, ma come il risultato del processo di rinnovamento dal basso delle strutture del movimento di classe, e, quindi, come il risultato della esperienza obiettiva del movimento operaio nella lotta per la costruzione dello Stato democratico.
Il compito che ne doveva derivare per il PSI era in conseguenza quello di escludere “l’equivoco riformistico di un Partito socialista che si lasci docilmente imprigionare nelle maglie del metodo parlamentare”, per cui l’azione politica del partito ancorché presente ed operosa alla costituente ed al governo deve esercitarsi in una sfera assai più ampia evitando che “il partito cada in una sterile politica di mediazione parlamentare fra gli altri due grandi partiti di massa”. A tal fine “occorre mobilitare la parte cosciente della base affinché gli interessi obiettivi della classe lavoratrice abbiano piena ed energica espressione… solo in tal modo si riuscirà a conquistare l’adesione di strati sempre vasti di lavoratori aprendo nuove possibilità all’azione democratica ed aumentando l’efficienza rivoluzionaria del partito”.
Nella impostazione data da Morandi alla relazione al congresso del PSIUP del 1946, affiorano due fondamentali questioni: la prima è quella che nasce dalla intuizione che l’evoluzione della realtà dei partiti rispetto al prefascismo non è circoscrivibile in termini quantitativi, ma che essa muta la natura stessa della organizzazione partitica fino a maturarne il ruolo e le funzioni; la seconda questione è che in conseguenza della trasformazione del partito in organizzazione democratica di massa esso assume compiti che vanno ben oltre i limiti dell’azione parlamentare. E tuttavia il Partito socialista, rispetto agli altri partiti, ha un antecedente storico nella vita della democrazia prefascista perché già in quella fase esso s’era organizzato come partito di massa in funzione di una lotta popolare all’interno dello Stato borghese. Dove sorgeva il problema destinato ad aprire una contraddizione nella vita organizzativa e politica del Partito socialista?
Affermava Morandi: “E se il nostro partito si giova al riguardo di una esperienza di lotta che gli altri non hanno”, con ciò richiamandosi dunque alla esperienza prefascista, “non per questo trova nella attuale situazione meno sostanziali mutamenti costituiti innanzi tutto dal fatto che le organizzazioni sindacali sono venute sottraendosi, in ragione del loro sviluppo, ad una diretta e precisa influenza di partito”. Il Partito socialista dunque nel momento in cui si ricostituiva dopo la Liberazione come organizzazione politica di massa veniva a trovarsi in una situazione del tutto nuova, rispetto alla sua precedente esperienza storica, perché con la ricostruzione della organizzazione sindacale unitaria (Patto di Roma) veniva a essere privato della direzione degli strumenti di azione sindacale che della politica di massa costituisce il settore più importante.
Questa contraddizione non poteva non essere avvertita proprio da Morandi che, avendo auspicato e teorizzato l’azione di massa come punto centrale dell’iniziativa socialista, si
trovava ad affrontare naturalmente il problema degli strumenti con cui svolgere quest’azione. L’azione di massa, l’esistenza di strutture che permettessero una iniziativa socialista nel mondo del lavoro sono, del resto, la condizione ineliminabile per il consolidamento e lo sviluppo della stessa organizzazione del partito. Lo intuiva Morandi quando affermava la necessità di una organizzazione capillare, complessa e articolata. Traspare già la tendenza di Morandi a risolvere la questione di fondo su un piano esclusivamente di formule organizzative, eludendo il problema politico e di struttura che esso implicava.
Questa posizione morandiana, che prelude alla evoluzione successiva del suo pensiero politico ci viene confermata dal ricorso ad una impostazione empirica ed esclusiva delle scelte di fondo che è chiaramente espressa nella successiva affermazione che la soluzione dei problemi organizzativi non si cava però che dalla esperienza. In questa convinzione la direzione ha permesso e favorito l’esperimentazione che si è fatta in questo campo, senza voler anticipare formule rigide, né forzare un processo naturale di sviluppo, sul quale, se dobbiamo vigilare, è con la sola preoccupazione di evitare fenomeni di congestione e di involuzione antidemocratica”.
Due sono dunque gli obbiettivi dell’impostazione organizzativa morandiana del ’46: la salvaguardia ed il consolidamento della democrazia interna di partito e la ricerca di forme organizzative spontanee che rappresentino un adeguamento della struttura del partito alla realtà della lotta per l’edificazione di uno Stato democratico, di una “democrazia” che sappia “profondamente rinnovare il paese dandogli nuovi istituti e nuove forme rappresentative che spezzino la fase trasformista e conformistica del parlamento”.
Allo sviluppo spontaneo di queste nuove forme organizzative, Morandi affidava empiricamente la soluzione del problema e della contraddizione che nasceva dalla ricostituzione di un partito di massa e dalla sua impossibilità di esercitare una reale iniziativa autonoma di classe qualora esso non fosse stato in grado di organizzare strumenti di azione a livello della lotta economica e sociale del movimento proletario.

L’organizzazione dei NAS

Come abbiamo visto al congresso del ’46 Morandi presentava “l’organizzazione decentrata delle grandi sezioni urbane e l’istituzione dei nuclei e dei gruppi aziendali” come “fenomeni tipici di un assestamento spontaneo che il partito ha cercato in questo recente periodo”.
Con l’organizzazione decentrata delle grandi sezioni urbane e con l’istituzione dei nuclei aziendali è probabile che Morandi intendesse risolvere il problema di articolare l’organizzazione del partito in funzione di una iniziativa a livello di massa, una volta assunta come un dato definitivo la costituzione di un’organizzazione sindacale unitaria, in cui coesistevano le tre correnti dei partiti di massa (unità che gli eventi successivi al ’48 dimostreranno come temporanea).
La formula dei nuclei incontrò una decisa resistenza da parte delle correnti autonomiste, nel congresso e oltre, nelle lunghe discussioni sullo statuto del partito successivo al congresso. Ma la contestazione opposta dagli autonomisti a Morandi, che la organizzazione di nucleo avrebbe finito per modellare il partito sul tipo di quello comunista, ricalcandone la organizzazione cellulare, non ci sembra adeguata alla realtà dei fatti. Esse erano dettate dal sospetto che l’organizzazione dei nuclei fosse una trovata delle correnti “fusioniste” per stroncare la democrazia interna di partito, e per imporre ad esso un tipo di organizzazione omogeneo a quello del PCI, onde preparare gradualmente l’assorbimento del partito da parte del PCI come atto finale della politica unitaria.
Alla luce degli impegni assunti da Morandi in sede congressuale, e, soprattutto, alla luce della realtà storica degli anni seguenti, l’opposizione delle correnti autonomiste non sembra fondata. L’organizzazione dei NAS non fu allora, né mai in seguito, assimilabile all’organizzazione delle cellule “nella quale giustamente – riconosceva Morandi – si riscontrano limiti pregiudizievoli alla democrazia del partito”.
Invece l’impegno socialista a organizzare strutture di fabbrica accresceva il peso socialista nel mondo della produzione, stabilendo un canale di contatto tra la politica generale del partito e l’azione a livello di azienda che la vecchia struttura territoriale non permetteva di realizzare.
L’esperienza degli anni successivi dimostra che l’organizzazione dei nuclei finì per risolversi, al di là degli intendimenti morandiani, come un punto di forza della presenza socialista nel mondo del lavoro. Essa ebbe uno sviluppo impensato.
Per di più i nuclei aziendali divennero insieme alla corrente sindacale il centro di forza degli autonomisti, dopo la scissione del ’47 e fino al ’50, come è confermato dalla conferenza organizzativa del ’50, nella quale la direzione unitaria dopo la riconquista del partito si trovò di fronte alla necessità di sciogliere la corrente sindacalista e negare ogni autonomia politica ai NAS aziendali, al fine di stroncare la resistenza dei gruppi operai autonomistici. Del resto, dopo il 1956, a Milano, a Genova, a Venezia, a Firenze, a Roma, a Napoli l’organizzazione socialista nelle fabbriche ha ripreso nettamente una fisionomia autonomistica. Il problema reale dell’organizzazione aziendale consisteva invece nella necessità di definire il ruolo e le funzioni politiche.
Morandi avvertiva l’insufficienza delle forme tradizionali di organizzazione; vedeva la necessità che la nuova struttura del partito dovesse risultare da “un’integrazione organica di forme molteplici, che debbono consentire una più ricca vita di partito”. Avvertì che il “problema che si pone in ordine ai nuclei e alle sezioni decentrate non è tanto quello di stabilire il grado di subordinazione tra stadi diversi di subordinazione”, ma appunto quello di realizzare quella “integrazione organica tra forme molteplici” delle varie istanze del partito, che permettessero al partito di sviluppare la sua iniziativa in tutte le stratificazioni della società civile, mantenendo l’unità politica e la garanzia di vita democratica al suo interno.

Dal congresso di Firenze alla scissione

Dopo il congresso di Firenze, come per incanto cessano le discussioni sullo statuto. Il compromesso politico raggiunto tra le correnti sembra avere ottenuto l’effetto d’insabbiare il progetto di organizzazione del partito presentato da Basso. Peraltro, le correnti autonomiste che nel loro complesso al congresso di Firenze avevano ottenuto la maggioranza, non sostengono il progetto Faravelli, né propongono altro modello di struttura organizzativa che si ispiri alla concezione del socialismo democratico, e che fissi statutariamente le norme dirette a garantire l’autonomia del PSIUP, e con l’autonomia la garanzia interna di partito.
Al contrario, le stesse correnti autonomistiche (una delle quali, Iniziativa socialista, ha addirittura sciolto la propria organizzazione) sostengono e sottoscrivono anche esse un nuovo patto di unità d’azione con il Partito comunista, non scorgendo i pericoli che esso comporta per la loro stessa esistenza nel partito. Il nuovo patto di unità d’azione tra PSIUP e PCI viene sottoscritto e ratificato in seduta plenaria dalle direzioni dei due partiti il 25 ottobre del 1946.
Il patto prevedeva la costituzione di una giunta centrale d’iintesa, composta di tre rappresentanti per ciascun partito, la decisione e il coordinamento della posizione dei due partiti in tutti i problemi politici d’importanza nazionale. Alla giunta centrale veniva affiancata una giunta esecutiva parlamentare anch’essa composta di tre rappresentanti (deputati) per ciascun partito. A questo organo venivano attribuite le funzioni inerenti al coordinamento dell’azione dei due gruppi parlamentari. La struttura del patto unitario si ramificava dal vertice alla base, mediante la costituzione di giunte esecutive a livello sezionale e provinciale, che avevano il compito di determinare le forme dell’iniziativa unitaria tra i socialisti e i comunisti in ogni settore della vita pubblica.
Il patto stabiliva inoltre una scala di competenze che prevedeva, in caso di mancato accordo in sede comunale, il rinvio della questione sulla quale si verificava il contrasto alla giunta centrale. Soltanto al centro quindi poteva accertarsi “un mancato raggiungimento di accordi per un determinato problema”. Questo disaccordo, peraltro, rendeva ai singoli partiti la loro libertà d’azione soltanto in relazione a quella specifica questione controversa. Il patto unitario rimaneva in vigore a tutti gli effetti, fino all’eventuale disdetta di una delle parti.” Paolo Emiliani nel suo volume Dieci anni perduti così commenta le conseguenze del nuovo patto: “In pratica, i comunisti hanno diritto di bloccare qualsiasi decisione che a loro non piaccia, deferendola alla giunta centrale (e intanto passano mesi per la risposta quando viene). La proposta di federazione fra i due partiti avanzata dai comunisti al loro V congresso era stata pressoché unanimemente respinta al congresso socialista di Firenze, ma queste disposizioni del nuovo patto la realizzavano nella sostanza esattamente secondo la linea organizzativa in quell’occasione magnificata da Longo”. (36)
Nella situazione che viene a crearsi con il nuovo patto si inserisce l’iniziativa di Lelio Basso, il quale subito dopo il congresso di Firenze ha posto mano alla formazione di un apparato di tecnici, professionisti della politica, di quadri sperimentati che aderiscono alla “Iinea leninista” da lui caldeggiata fin dalla Resistenza. Basso, posto dinanzi all’esito del congresso di Firenze, che ha visto la “sinistra” in minoranza, ha realisticamente modificato la sua tattica nella lotta interna di partito. Non ha più insistito nella richiesta che venga accettato dal partito quel complesso di regole di organizzazione rispondente al modello leninista del partito operaio guidato da un monolitico apparato di quadri; ma, favorito dalla sua posizione nella direzione del partito, si e dato a organizzare questo apparato con l’appoggio dei comunisti, che in Basso vedono la pedina migliore per sconfiggere gli autonomisti. La corrente apertamente “fusionista” di Compiti Nuovi viene praticamente disciolta e Basso diviene il leader effettivo della “sinistra”. Egli, dunque, non pretende più che il partito adotti la struttura organizzativa da lui suggerita. Costituisce di sua iniziativa l’apparato che di tale struttura deve essere il fulcro, per impossessarsi del potere del partito e poi plasmare la struttura secondo il modello leninista che egli propone.
In questo tentativo, che avrà un esito positivo per Basso, egli trova l’appoggio incondizionato del PCI, ed è favorito soprattutto dalla situazione che si e creata con l’entrata in vigore del nuovo patto unitario.
Infatti, come osserva sempre l’Emiliani, “nel PSIUP come in tutti i partiti del dopoguerra, abbondavano gli elementi opportunisti e gli avventurieri, portativi dal crollo del fascismo a cercarvi protezione e fortuna; erano minoranza, a causa dell’atmosfera italiana del ventennio, i compagni di matura formazione socialista. Numerosi erano poi gli elementi del ceto medio in cerca di occupazione, bisognosi di mezzi immediati per vivere, anche modestamente, nel marasma del dopoguerra, e inclini perciò a servire i più potenti, specialmente quando vi era la garantita copertura di una popolarità proletaria che trasformava il servilismo in dedizione alla causa. Con la legale partecipazione alla vita del partito non fu perciò difficile ai comunisti estendere il loro apparato, ottenere la composizione di giunte malleabili, provocare l’allontanamento dalle cariche dei loro avversari, far eleggere con ogni mezzo delegati favorevoli alla loro tesi: dominato il gruppo dirigente, messo qualche comunista nella sala, le manovre congressuali diventano assai facili”. (37)

La scissione del ’47. La formazione del PSI

Tra il XXIV e il XXV congresso, tenutosi a Roma nel gennaio del ’47, maturarono gli eventi che portarono alla crisi. Al congresso di Roma le correnti autonomiste di Iniziativa Socialista e di Critica Sociale non parteciparono ai lavori congressuali. Esse furono però presenti nella lotta a livello provinciale. I dati forniti dal quotidiano del partito sono ancora più incompleti e contraddittori di quelli del precedente congresso, per cui non è possibile stabilire quali fossero le forze delle correnti che dovevano operare la secessione. I voti complessivi congressuali furono 610.876, circa 250.000 in meno rispetto al precedente congresso. Si dovrebbe presumere che la forza dei secessionisti si aggirasse intorno a questa cifra che è di circa 100. 000 unità. Inferiore alla cifra dei voti riportati dalle correnti autonomiste nel loro insieme al congresso di Firenze.
Ma questa valutazione è largamente approssimativa e non verificabile. Probabilmente gli iscritti al PSIUP, a voler prestar fede alle affermazioni della relazione Morandi del precedente congresso, che indicava la crescente affluenza di nuovi aderenti, si erano accresciuti nello spazio di tempo trascorso fra i due congressi. Anche questa valutazione non è però verificabile, in quanto mancano i dati relativi al numero complessivo degli iscritti prima della secessione.
Tra la vittoria socialista del 2 giugno 1946 e la fine dello stesso anno si consumò quindi la più enigmatica e per molti versi inspiegabile scissione del partito, che doveva segnare un tracollo del socialismo italiano e la riduzione della sua funzione storica ad un ruolo di sostanziale subalternità, durante un lunghissimo periodo di tempo.
Quasi una fatalità storica sembra condurre l’autoaffondamento all’indomani dei loro maggiori successi i socialisti al elettorali. Così fu dopo le elezioni del 1919 che avevano visto il PSI, nonostante i suoi errori di quel momento, raggiungere un traguardo persino inaspettato, classificandosi come il primo dei partiti Italiani; così fu anche dopo le prime elezioni Italiane successive alla caduta del fascismo, dove s’era accreditato come secondo partito nazionale e primo della sinistra.
Il successo socialista, ottenuto dopo l’impennata autonomistica del congresso di Firenze della primavera del 1946, era sostanzialmente minato dall’insidia frontista. Esso suscitò una forte reazione comunista: Togliatti, lo testimonia Andreotti in una sua intervista, paventava un’Italia socialdemocratica, nella quale i comunisti avrebbero avuto sicuramente meno spazio (come avvenne in quasi tutti i paesi europei).
Anche se e discutibile che vi fossero le condizioni per un’Italia socialdemocratica, è indubbio che la presenza di un forte Partito socialista autonomo toglieva ugualmente spazio ai comunisti, il cui leader era realisticamente consapevole che, nell’inasprirsi dei rapporti internazionali, la collocazione del suo partito sarebbe stata necessariamente quella dell’opposizione.
Il nemico dei comunisti era, sul piano ideologico e politico, la socialdemocrazia, che era anche l’avversario da battere per le correnti frontiste del PSI, ossessionate dalla “socialdemocratizzazione” del partito e dalla volontà di preservare l’unità della classe operaia quale strumento per una politica rivoluzionaria. Essi non guardarono tanto al successo socialista, quanto alla somma dei voti ottenuti dal PSI e dal PCI, che era superiore ai voti ottenuti dalla Democrazia cristiana. In buona fede, con ogni probabilità, si illusero che una stretta alleanza tra i due partiti avrebbe potuto far realizzare una vittoria definitiva, una volta conclusi i lavori dell’Assemblea costituente.
Per raggiungere questo obiettivo dovevano impadronirsi della guida del PSI, mandando gli autonomisti in minoranza, oppure provocandone l’uscita dal partito. Il loro proposito coincideva con gli interessi del PCI ‘ che aiutò in tutti i modi le correnti frontiste nell’azione per impadronirsi del partito, esercitando una stringente pressione a livello di base, e con sostegni di ogni genere.
L’occasione doveva essere costituita dal nuovo congresso nazionale che si doveva svolgere ai primi del 1947, per il quale le assisi locali cominciarono a celebrarsi nell’autunno del 1946.
Gli autonomisti, suddivisi in vari gruppi e correnti, non avvertirono a tempo il pericolo e reagirono solo tardivamente. Addirittura commisero l’errore di partecipare alla stipulazione del nuovo patto unitario (25 ottobre 1946) che offriva ulteriori motivazioni e possibilità all’azione frontista. Tuttavia, quando si profilarono i risultati delle assemblee provinciali, gli autonomisti furono colti da un panico che non era in realtà giustificato. La prevalenza tra i due schieramenti era ancora in forse: comunque, anche se avessero dovuto perdere la maggioranza, gli autonomisti avrebbero costituito una fortissima minoranza, quasi la meta del partito, che avrebbe condizionato la eventuale direzione frontista.
Se Saragat, e con lui gli uomini di Critica Sociale e di Iniziativa Socialista, avevano indubbiamente ogni ragione dal punto di vista teorico e politico (e la rilettura del discorso tenuto da Saragat in sede congressuale è ancora di viva attualità), la loro decisione di abbandonare il partito appare tutt’oggi abbastanza precipitosa. Essa lasciò campo libero ai loro avversari frontisti, e concorse ad innestare un meccanismo di crisi complessiva in tutta la vicenda del socialismo italiano, che colpì, al dunque, anche gli stessi settori socialdemocratici.
La votazione in sede di congresso, alla quale non parteciparono i secessionisti, diede il seguente risultato: 542.887 voti andavano alla mozione di sinistra, 37.786 voti a una mozione locale autonomista, alla quale avevano aderito alcuni delegati di Iniziativa; 17.903 voti andavano alla mozione autonomista di Mantova e 12.4 10 voti a quella di Concentrazione socialista che era la denominazione assunta dalla corrente di Critica Sociale, e per la quale votarono quei delegati che non avevano seguito i dirigenti nella scissione.
La mozione di sinistra riportò dunque 200.000 voti in più rispetto al precedente congresso; ciò che fa pensare o a una forte avanzata delle posizioni della sinistra oppure fa presumere un notevole incremento degli iscritti, di cui una buona parte poteva avere abbandonato il partito insieme con i secessionisti. Questa seconda ipotesi a noi pare sia da scartare perché il permanere nel partito di una parte dei delegati, i quali sulle tre mozioni indicate avevano raccolto 68.000 voti, fa presumere che non tutti gli autonomisti seguirono i secessionisti; occorre poi considerare che si trattava di voti portati dai delegati e che non necessariamente ai delegati che uscivano dal partito corrispondeva una secessione del numero degli iscritti che li avevano delegati al congresso.
Come, viceversa, quei delegati che avevano preferito restare nelle fila del partito, potevano anche non esprimere la reale volontà degli iscritti che li avevano denominati.
In seguito, nella seduta del 4 maggio 1947 del comitato centrale eletto dal congresso (il partito aveva assunto la vecchia sigla di PSI al posto di PSIUP, onde evitare che i secessionisti si impadronissero della vecchia etichetta anteguerra), il segretario del partito, Basso, per dimostrare la scarsa incidenza della crisi sulle forze organizzative del partito, dichiarava che gli iscritti ascendevano a 822.000. A questi occorre aggiungere quelle decine di migliaia di nuovi aderenti provenienti dalle file del Partito d’Azione, che dopo la secessione confluirono nel PSI. Nessun dato, quindi, attendibile ci permette di valutare la reale portata della secessione sulle forze organizzative del Partito socialista.

L’incidenza della politica del Fronte

Quello che è forse possibile presumere è che la secessione non provocò una crisi di grave portata nel partito. Al XXVI congresso, al teatro Astoria (Roma, dicembre ’47), i voti congressuali validi erano complessivamente 786.768. Perché il congresso precedente aveva stabilito il divieto delle frazioni permanenti del partito, i congressi provinciali non si svolsero su mozioni separate. In sede di congresso nazionale si ebbero due votazioni: una su una mozione che approvava l’iniziativa presa dal comitato centrale per la formazione del Fronte democratico popolare, che raccolse la quasi unanimità dei voti, mentre soltanto 4387 voti andavano a una mozione di “destra”, presentata da Lombardo e Russo. Una seconda votazione si ebbe, invece, sul problema della tattica elettorale che vide divisi i delegati fra un ordine del giorno favorevole alla presentazione di liste uniche di Fronte e un ordine del giorno propugnante la presentazione di liste socialiste autonome. Prevalse la posizione favorevole alle liste uniche, con 525.332 voti, contro 257.088 voti. Una ulteriore piccola secessione si ebbe ai primi del febbraio ’48, quando Lombardo abbandonò le fila del partito; tale secessione non poteva avere che un’incidenza marginale. Tra il XXVI e il XXVII congresso (Genova, luglio 1948) si collocò la sconfitta del Fronte popolare, le cui conseguenze negative ricaddero sui socialisti, i quali videro ridursi la loro rappresentanza a soli 42 deputati.
Nel congresso di Genova, che si svolse di nuovo su votazioni per mozioni, il numero degli iscritti risultava sensibilmente diminuito, rispetto al numero degli iscritti al congresso precedente, essendo scesi da 786.768 voti a 531.031 voti.
Le ipotesi che si possono formulare per spiegare le ragioni di un così sensibile calo della forza rappresentata sono due: la prima e che la presentazione di liste di Fronte con i comunisti abbia determinato una crisi organizzativa del partito in coincidenza con la sua crisi elettorale; la seconda ipotesi è che il numero degli iscritti presenti nel congresso dell’Astoria, prima delle elezioni, fosse un dato fittizio, non verificabile in quanto il congresso non si era svolto su mozioni di corrente, per il quale quindi non era stato possibile un confronto reale degli iscritti con il congresso in cui era avvenuta la scissione. Secondo questa ipotesi bisognerebbe giungere al, la conclusione che la secessione del ’47 avesse determinato una forte crisi organizzativa del partito, non manifesta nei dati forniti prima dal segretario del partito e poi in sede di votazione nel XXVI congresso. È difficile accettare un’ipotesi piuttosto che un’altra: in quanto la secessione, come abbiamo visto, non aveva trascinato con sé tutti gli aderenti alla corrente autonomista, parte dei quali sarebbero rimasti fedeli al partito anche negli anni a venire, e parte invece era destinata ad abbandonare il partito negli anni ’48-’49. Per questa ragione ci sembra più probabile che la crisi organizzativa si fosse verificata dopo l’approvazione della tattica del Fronte unito con i comunisti, senza palesarsi in forme clamorose di secessione, ma con l’esodo silenzioso dei militanti. Tale esodo, infatti, sembra possibile che sia continuato anche dopo il congresso del 1948; in quanto al congresso successivo di Firenze, maggio 1949, prima ancora che si verificasse l’ultima scissione del partito, capeggiata da Romita, i voti validi congressuali erano scesi ancora, raggiungendo il numero di 430.258.

Dopo la sconfitta del Fronte

Al congresso di Genova del ’48 prevalse la corrente autonomista di Riscossa Socialista guidata da Jacometti e Lombardi, che raccolse la maggioranza relativa con 227.609 voti (pari al 42%), sulla mozione di sinistra, che ebbe 161.556 voti (pari al 31,5%), e sulla mozione di destra Autonomia Socialista che raccolse 141.866 voti (pari al 26,5%). Nel congresso di Firenze del 1949 la sinistra otteneva la maggioranza con 220.600 voti (51% dei suffragi espressi), mentre 168.525 voti andavano alla mozione Partito di Classe, presentata da Jacometti e Lombardi; 41.133 voti andavano alla mozione Per il Socialismo.
Nel confronto dei voti congressuali delle mozioni fra i due congressi, sembra chiaro che i 100.000 aderenti in meno al partito fossero gli aderenti che dopo le elezioni del 18 aprile erano rimasti nel partito ed avevano votato per la mozione di destra, che a Genova otteneva 141.000 voti e a Firenze ne otteneva invece solo 41.000. Questi militanti avevano abbandonato il partito, con ogni probabilità subito dopo il congresso di Genova. Dal confronto fra i due congressi risulta anche che la mozione autonomistica di centro perde circa 60.000 voti, che vanno a favore della mozione della sinistra, permettendole di riprendere il controllo delle leve del partito.
Sia esatta la prima ipotesi formulata (la secessione ha inciso in maniera rilevante sulla struttura del PSI) oppure sia esatta la seconda ipotesi (la secessione ha inciso solo in parte sulla struttura organizzativa, mentre l’esodo degli aderenti è dovuto alla tattica del fronte), certo è che il Partito socialista vede in poco più di due anni, dal gennaio del 1947 al maggio del 1949, pressoché dimezzati i suoi effettivi. Infatti dagli 860.000 iscritti del congresso di Firenze del 1946 si è scesi ai 430.000 del congresso di Firenze del 1949. Dei 430.000 iscritti in meno, 250.000 sono quelli mancanti al congresso della scissione di Palazzo Barberini; gli altri sono quelli allontanatisi dal partito a seguito della scelta del Fronte popolare, e negli anni successivi. Nell’impossibilità di verificare le cause effettive della crisi organizzativa del partito, ciò che ci sembra più probabile è un’ipotesi intermedia fra quelle due formulate, un’ipotesi che individui nel corso delle due cause, la scissione del ’47 e la scelta della tattica elettorale e politica del Fronte, l’origine della crisi politica e organizzativa che riduceva il Partito socialista dalla posizione di più forte partito di massa italiano del dopoguerra alle dimensioni di un movimento di scarso peso politico e di pressoché nulla efficienza organizzativa. In questa situazione tutto il discorso di Morandi, al congresso del 1946, aveva dovuto essere dimenticato, né i problemi dell’organizzazione che si presentavano alla fine del ciclo della scissione e della sconfitta elettorale potevano ormai essere posti negli stessi termini di allora. Si trattava, nel ’46, di dare una definizione organizzativa dell’esperienza di un partito in espansione che creava spontaneamente le sue forme associative di massa, specie nel settore industriale, con larga presa sulle nuove generazioni. Nel 1949 9 problema che si poneva era invece quello di rianimare la struttura politica che aveva subito durissimi colpi e che si presentava in una situazione che si era concordi nel definire come una situazione caotica, di inefficienza organizzativa, di sbandamento dei quadri e dei militanti e di sfiducia nelle possibilità di ripresa del partito.

Capitolo 8

IL “CENTRALISMO DEMOCRATICO”

l. La concezione morandiana del partito di massa per la politica unitaria

Nel presentare con il titolo Ragioni ed obiettivi della nostra politica unitaria la relazione svolta da Rodolfo Morandi al convegno giovanile di Modena nell’aprile 1950, i curatori del volume di scritti morandiani Partito e classe hanno voluto ricordare che “il convegno di Modena ebbe una grande importanza nella storia del PSI e segnò una svolta sul piano organizzativo come sul piano ideologico”; e ciò perché “vi fu dichiarata”, come disse Morandi, “l’assunzione senza riserve alcune del leninismo come interpretazione e sviluppo del marxismo”.(1)
In quella sede infatti Rodolfo Morandi volle esporre non solo ai giovani socialisti, ma a tutto il partito, le basi ideologiche sulle quali intendeva fondare la sua opera di edificazione di un partito di massa al servizio della politica unitaria, dopo la conquista della direzione del partito da parte della “sinistra”.(2)
Per la prima volta, in uno scritto o discorso di Morandi, appare una così netta adesione al leninismo, inteso come ideologia del movimento operaio nel suo insieme, come ispirazione dell’iniziativa organizzativa alla quale Morandi si accingeva, una volta riconquistate le leve del lavoro di organizzazione del PSI, che egli aveva voluto abbandonare subito dopo il congresso di Firenze del 1946.
In effetti, ciò che importa a Morandi e al gruppo dirigente che ha conquistato la direzione del partito, non è tanto l’assunzione del marxismo-leninismo come ideologia del PSI, poiché la funzione di guida della lotta di classe è da essi considerata come delegata al Partito comunista, quanto lo stimolo attivistico che tale collocazione nell’ambito dell’unità di classe dovrebbe suscitare nei quadri e nell’organizzazione del partito.
La professione di fede leninista di Morandi è in realtà una professione a carattere strumentale, in quanto dall’assunzione del marxismo-leninismo Morandi attendeva una galvanizzazione organizzativa ed attivistica del partito, che le vicende degli anni precedenti avevano pressoché annullato.
Abbiamo visto infatti in quali condizioni si presentava il PSI dopo le scissioni e la sconfitta del fronte. Morandi non esita ad attribuire la crisi organizzativa e strutturale del partito alle scissioni, mentre riferendosi al congresso dell’Astoria, che sancì la tattica del Fronte democratico popolare, afferma: “Si rifletta bene a ciò che per la prima volta consapevolmente si faceva, di elevarlo da una pura sensibilità elettoralistica a una coscienza di massa. E davvero un tale sforzo per quanto arrischiato risultasse rispetto alla forza di coesione del partito, non è risultato vano, come oggi constatiamo”.(3)
Partendo da queste premesse, Morandi giunge a esaltare l’unita d’azione come l’elemento stimolante della ripresa organizzativa: “La via che si aprono le federazioni che accrescono la massa degli. iscritti, le piccole federazioni meridionali che rinascono… è quella di una crescente attivazione di massa, di un concorso senza restrizioni alle lotte, ciò che le porta di per sé a sviluppare su di un piano costruttivo l’unità d’azione, praticandola come condotta unitaria della comune guida di azione delle masse popolari”.(4)
La relazione definiva l’unita di classe in questi termini: “Rispetto al Partito comunista, rispetto a un partito della classe operaia, come noi siamo, una politica unitaria si definirà semmai sul piano delle identità e non sul piano delle differenze”.
Il ragionamento politico appare insufficientemente motivato; ma la sua tesi prende vigore quando conclusivamente egli accerta che “la nostra politica d’unita è l’azione, intervento, partecipazione alla lotta, che in un più vasto ambito della vita nazionale si combatte per la costruzione del socialismo”.(5)
Il partito dunque deve assumere una funzione unitaria nello schieramento popolare, la cui guida è però nelle mani del PCI.
Ma per questo compito, Morandi avverte “che non è un partito debole, minato dalla sfiducia in se medesimo, che può osare un’azione unitaria conseguente. Solo un partito che abbia eliminato il seme della divisione nel suo interno, un partito capace di stroncare qualsiasi tentativo di riprodurre nel suo seno situazioni degenerative, un partito che abbia sbaragliato i personalismi, le clientele e le cricche, sradicato il malcostume del giuoco sulle due scacchiere dei dirigenti, un partito che non si consumi in se stesso, ma che sia in grado di protendersi verso l’esterno, un partito che si accresca di forze e si rinvigorisca nelle strutture, un partito che elevi incessantemente il grado di protendersi verso l’esterno, un partito che si accresca di forze e si rinvigorisca nelle strutture, un partito che elevi incessantemente il grado della sua combattività, può a tale obiettivo dirigersi”.(6) Qualunque sia il giudizio sulla posizione ideologica e politica di Morandi non si può non riconoscere che nella posizione di allora, con un Partito socialista stremato dalle lotte intestine, dalle scissioni, dalle sconfitte elettorali, povero di quadri, con una classe dirigente divisa e sfiduciata, l’appello per l’edificazione di un “partito serio, oltre che forte”, indubbiamente recava con sé una carica galvanizzatrice ed animatrice dei pochi quadri giovani che il PSI ancora riusciva a reclutare. È con questi quadri in gran parte provenienti da una piccola borghesia intellettuale o delle giovani leve operaie in cerca di occupazione, e frustrate in questa loro esigenza dall’alto grado di disoccupazione esistente nel paese, che Morandi si appresta alla costituzione dell’apparato centrale e periferico del partito. A questi quadri, esasperati dalla condizione di disagio sociale del dopoguerra, la politica frontista della lotta “muro contro muro” offre una versione più moderna dell’antico massimalismo.
La differenza che salta subito agli occhi, tra l’apparato di Morandi e quello che Basso aveva tentato di costituire nel ’47-48, è in ciò: che mentre l’apparato di Basso era stato costituito con l’unico scopo di sottrarre il partito alle forze autonomistiche, per ancorarlo a una visione “unitaria” (verso la quale la sola riserva che Basso manteneva era una riserva di natura ideologica che rendeva ancor più ambigua la sostanziale strumentalizzazione della funzione politica del PSI a quella del Partito comunista), l’apparato “morandiano”. una volta conquistato il partito, si proietta effettivamente nell’azione esterna, imprimendo alle vecchie strutture del PSI un dinamismo vitale che ne irrobustisce l’impalcatura organizzativa e dà un senso politico nuovo alla stessa politica “unitaria”.
L’apparato di Basso era il frutto di una visione ideologica statica, riprodotta in una situazione storico-politica estremamente confusa e contraddittoria: e destinato a sparire nel vuoto lasciato dalla politica di Basso dopo la sconfitta del Fronte.
L’apparato di Morandi è il frutto invece di una reale condizione socio-politica della lotta sociale del nostro paese. Esso riuscirà, nei limiti di una concezione ideologica e di una prassi politica discutibili nella loro sostanza, a dare al PSI la prima, elementare ossatura di partito moderno.

2. Il “centralismo democratico”

La struttura organizzata dal partito, basata sul centralismo delle decisioni, sull’organizzazione capillare, e sul rapporto rigido tra gli organismi centrali e gli organismi di base, e affidata all’apparato dei funzionari. Centro dell’azione organizzativa del partito è l’ufficio organizzazione affiancato da una commissione centrale di organizzazione con “attribuzioni di studio e di ordinamento”. Essa si compone dei responsabili nazionali del lavoro femminile e del lavoro giovanile, dei dirigenti degli uffici più strettamente connessi con l’ufficio organizzazione, nonché di elementi scelti tra i responsabili regionali e tra gli ispettori centrali (7).
Le funzioni della commissione centrale di organizzazione vengono così definite: “Compito assegnatole è di convogliare e di elaborare le informazioni di cui dispongono i vari servizi, per procedere sulla base di questi dati di conoscenze, permanentemente aggiornati, allo studio e alla impostazione delle questioni di natura organizzativa, che hanno portata più ampia e rivestono un interesse generale”.(8)
Ferma restando la struttura sezionale e federale del vecchio partito, le innovazioni introdotte da Morandi riguardano l’organizzazione capillare e l’articolazione organizzativa della federazione nell’ambito della provincia. Si giunge così alla “adozione generale del nucleo come stadio organizzativo sottoposto alla sezione”; mentre “campo di esperienze più varie resterà l’organizzazione delle zone nell’ambito delle federazioni”.(9)
Si tenta inoltre l’introduzione di organismi regionali (esperienza riuscita solo in alcune zone dal partito, in Emilia, in Toscana, in Sardegna e in poche altre regioni), con il compito di “mediare utilmente i rapporti tra la direzione nazionale e gli organismi provinciali, sotto l’aspetto preciso di integrare gli organi centrali, sì da renderli al massimo grado operanti nei compiti direttivi che essi hanno”.(10)

Struttura del partito e articolazione funzionale

Tutta l’impostazione morandiana della struttura del partito è basata sul principio dell’articolazione funzionale, che nega ogni autonomia di base, sia a livello di NAS, sia a livello di federazione che di sezione.
Nella sua relazione al convegno di organizzazione, Morandi ebbe a polemizzare aspramente con “una singolare concezione delle federazioni, che deriva da una mentalità radicatasi in una fase nettamente superata del -processo -di formazione dei grandi partiti di massa, quando l’organizzazione si sostanziava di interessi locali ed aveva essenzialmente finalità elettorali”. L’organizzazione regionale non e dunque diretta a coordinare e collegare l’iniziativa delle federazioni, ma a trasmettere gli impulsi direzionali dal centro alla periferia. L’organizzazione regionale deve sorgere da una necessità funzionale, per “le difficoltà che si incontrano nell’intrattenere rapporti diretti con un centinaio di federazioni. Praticamente riesce impossibile dal centro, non dico corrispondere alle particolari caratteristiche delle singole federazioni, ma anche adeguare le direttive che si impartiscono alle effettive capacita che la maggior parte delle stesse possono avere di tradurle in atto”.(11)

L’organizzazione regionale. Autonomia delle federazioni

La funzione esecutiva delle decisioni centralizzate attribuite alle giunte regionali viene ribadita dalla testimonianza di Giusto Tolloy al convegno di organizzazione, dove e chiamato nella sua qualità di segretario della giunta regionale emiliana. Nel suo intervento Tolloy afferma: “… circa i risultati raggiunti dalla giunta regionale emiliana la loro positività è stata messa ampiamente in risalto dai segretari delle federazioni emiliane, intervenuti nel dibattito… Tengo ad aggiungere che l’efficienza della giunta regionale emiliana non è affatto, come qualcuno potrebbe credere superficialmente, un prodotto della spontaneità. Essa è invece la risultante del grado di maturità politica e di volontaria disciplina dei quadri emiliani ed in particolare dei segretari di federazioni. All’atto della costituzione della giunta e dell’elezione degli organi direttivi furono essi stessi infatti a stabilire il compito della giunta e della segreteria, forse non solo organizzativo, ma anche politico, di controllo e di guida delle federazioni nell’applicazione dei deliberati del congresso e della direzione con ciò annullando le remore attuali dello statuto al riguardo”. (12)
Le federazioni emiliane erano, in maggioranza, fedeli alla politica “unitaria”; ben si spiega quindi il “profondo senso di disciplina” con cui esse avevano accolto l’impostazione morandiana per la formazione delle giunte regionali. Il fatto che tali giunte fu allora possibile costituirle in un numero ristretto di regioni, e che ebbero anche in queste (tranne che per la Sicilia e per la Sardegna) vita caduca, dimostra che i residui della concezione autonomistica delle federazioni costituivano un ostacolo insormontabile per il centralismo democratico; e che l’ufficio organizzazione dovette forzosamente accontentarsi di ottenere un grado approssimativo di esecutività (da parte degli organismi federali) delle decisioni prese dal centro. Di qui dunque la ricorrente polemica contro l’autonomismo delle federazioni e delle sezioni: “Ebbene le federazioni non si accorgono forse che certe velleità autonomistiche delle sezioni, oltre a costituire scompensi e sfasature inammissibili nell’ambito provinciale, rappresentano posizioni arretrate sul piano di classe?”. (13)
E “perché proprio l’autonomia delle federazioni dovrebbe farsi vedere guarentigia della volontà della base? Forse che la si garantisce attraverso una frammentazione, forse che certi “cordoni sanitari” di cui si vorrebbe cingere il territorio della provincia, proteggono veramente la volontà di base?”.(14)
In realtà dietro la polemica organizzativa, c’è una precisa polemica politica. La “sinistra” che ha vinto il congresso con poco più del 50% non controlla che una metà circa delle federazioni. Nelle altre gli “autonomisti”, pur dopo lo scioglimento della corrente deciso dai suoi vertici, si sono arroccati in posizioni di resistenza nei confronti delle decisioni direzionali. La direzione “unitaria” intende smantellare queste resistenze, stabilendo un sistema disciplinare di cui il centralismo democratico non rappresenta che l’alibi teorico. Tale situazione si ripresenta in tutte le altre istanze organizzative: i NAS e le organizzazioni di massa.

I NAS

Abbiamo visto come il centralismo morandiano lasci immutata sostanzialmente la struttura del partito nella sua divisione territoriale e funzionale, solo sostituendo il metodo dei rapporti autoritari tra centro e periferia, al sistema che lasciava un ampio margine di autonomia alle federazioni e alle sezioni. L’impostazione morandiana tende invece a dare una più ampia capillarità all’azione organizzativa, potenziando il NAS, cioè il nucleo di militanti nel luogo di lavoro e su base territoriale.
“La politica unitaria, le parole d’ordine ed ogni azione intrapresa dal partito possono esplicarsi e polarizzarsi fra i lavoratori solo attraverso i NAS e da ciò la necessità di un collegamento sempre più stretto cogli organismi territoriali: sezioni e federazioni.
“Nel campo sindacale, i NAS debbono sostenere l’opera dei sindacati, appoggiarla e spiegare ai meno attivi i motivi della lotta… Come ho già fatto al terzo convegno dei ferrovieri socialisti, credo di poter sintetizzare l’opera dei NAS nella formula: fare della politica senza sostituirsi al partito, fare del sindacalismo senza sostituirsi al sindacato”.(15)
Questa formula puramente verbale usata da Lizzadri per sintetizzare la funzione del NAS può destare qualche meraviglia. Ma niente di più concreto è possibile rinvenire in tutte le lunghe dissertazioni sulla funzione del NAS, in particolar modo per quanto riguarda la funzione di questi organismi sui luoghi di lavoro. Qualche chiarimento si può ricavare invece dalle affermazioni sul problema della autonomia del NAS.
“Alla domanda se i NAS debbano godere di autonomia politica, rispondo personalmente: no. Potrei citare esempi su esempi di esperimenti negativi, mi basta ricordare quanto è accaduto subito dopo l’ultimo congresso. I NAS di Torino non sentendo altra voce all’infuori di quella dei loro dirigenti politici, che spesso erano anche loro superiori, si sbandarono con facilità, e ci volle non poca fatica per dimostrare l’errore…”. (16)
Il segretario della federazione di Ferrara, parlando dell’esperienza della sua federazione ribadiva: “Nella nostra provincia ci siamo trovati in una situazione particolarmente disagiata, poiché i vecchi dirigenti della destra avevano potuto giocare con maggiore successo in mezzo ad un proletariato industriale debole… Essi si erano impadroniti dei NAS e ne hanno fatto in buona parte i nuclei dei sindacati autonomi nelle fabbriche. Tuttavia, anche in province più fortunate e con preminenza di classe operaia industriale, alla luce di esperienze negative di molte federazioni, ci pare necessario stabilire che ai NAS non vada lasciata nessuna autonomia politica”. (17)
Si può rilevare, dunque, che l’articolazione organizzativa periferica dei NAS ha una sola funzione: quella di permettere il controllo e l’orientamento, sui luoghi di lavoro, dei militanti operai, che manifestavano il loro dissenso dalla linea politica della direzione. Ciò può avvenire allargando il numero dei NAS, ma mantenendoli sotto il diretto controllo politico della sezione territoriale, o dell’ufficio sindacale della federazione, perché “le stesse sezioni di partito, in questo caso, e in specie se si tratti di grandi centri industriali, non hanno in genere l’autorità necessaria per esercitare un vero controllo sui NAS”. (18)
La struttura dei NAS non può ripetere pertanto neppure la struttura cellulare di tipo comunista. Osservava ancora il segretario della federazione di Ferrara: “Per l’autonomia politica ed organizzativa della cellula occorre una saldezza ideologica che il nostro partito non ha ancora raggiunto, e che è stata il presupposto sul quale il Partito comunista ha creato l’organizzazione di cellula. Se è vero che la riconquistata unità del partito costituisce un grande successo, e indubbio che per alcuni a tale unità si è addivenuti non tanto per avanzamento ideologico, quanto per pigrizia”.
Anche Tolloy nel suo intervento fa cenno alla carente unità ideologica dei quadri intermedi e di base.(19) In un partito che
ha dato alle forze frontiste solo una maggioranza di stretta misura, le resistenze alla linea politica di direzione, al dogmatismo “unitario” della maggioranza si manifestano con rilevanze a livello delle sezioni, delle federazioni, dei quadri intermedi e nazionali, ma soprattutto nei NAS (come abbiamo visto) e nella organizzazione sindacale.

Il partito ed il sindacato

Alla conferenza d’organizzazione, il responsabile dell’ufficio sindacale del partito, dopo il XXVIII congresso, Elio Capodaglio, nel suo intervento, rilevava che “in linea generale si può affermare che o per la natura del settore di lavoro loro affidato oppure per la loro particolare mentalità o per la loro educazione politica, i nostri compagni si mostrano propensi alle vecchie forme del sindacalismo tradizionale; manifestano una esagerata fiducia nel tecnicismo; talora una scarsa combattività; tendenza e difetti, cioè, non più sufficienti o tollerabili rispetto alle caratteristiche odierne del nostro movimento sindacale”. (20)
La “scarsa combattività” non è altro che l’insofferenza dei quadri e dei militanti sindacali socialisti per l’impostazione di lotta della CGIL nel periodo della sua massima politicizzazione e strumentalizzazione al PCI. I sindacalisti socialisti sono accusati di restare propensi alle “forme tradizionali della lotta sindacale”, di predilezione verso il “tecnicismo”, cioè di contrapporre un’azione sindacale autonoma all’azione agitatoria della direzione stalinista della confederazione del lavoro.
Infatti, osserva sempre il responsabile dell’ufficio sindacale del partito, “va rilevata la contraddizione tra la politica unitaria che il partito vuol perseguire e l’impostazione non unitaria che talvolta viene data alle lotte elettorali, specie nell’interno delle fabbriche. Ecco perché non ci meraviglia che a Torino… gli operai socialisti del complesso FIAT con una certa riluttanza abbiano accettato la formazione di liste confederali. Le impostazioni politiche hanno una loro logica che non consente cambiamenti di fronte troppo subitanei… ed anche se ci fa piacere che i compagni di Milano si dimostrino tanto attivi e diligenti da stampare un’edizione straordinaria dell`Avanti per l’elezione della commissione interna dell O.M. ci domandiamo tuttora che risultati politici può dare, nel fine ultimo la divisione delle liste, mentre la lotta che si sviluppa sotto i nostri occhi è diventata ormai da un pezzo una lotta di popolo”.
“Ed inoltre so bene per diretta esperienza che è proprio nel lavoro sindacale che 14 coscienza unitaria, per un complesso di ragioni che non è ora il caso di esaminare, viene messa a dura prova” per cui “una correzione graduale di questo indirizzo s’impone, dunque, se noi vogliamo che l’organizzazione marci di pari passo con la lotta politica”. (21)
Ed Oreste Lizzadri, segretario della CGIL, nell’intervento già citato, affermava: “Si sono verificati alcuni casi nei quali, di fronte ad una lista di tutte le correnti scissionistiche, le correnti socialista e comunista si sono presentate separate. Cosa debbono pensare i lavoratori in tal caso? Come si può parlare un linguaggio unitario se questa unità non si è raggiunta prima fra le correnti più vicine e conseguenti?”.(22)
“Nelle elezioni per i sindacati e nelle C.d.L. il problema èpiù complesso. Debbo intanto premettere che le notizie dei contrasti che ci pervengono fra socialisti e comunisti sono per l’80% di carattere sindacale”. (23)
“Qualche compagno ha affermato che non questioni superficiali, ma ragioni di principio dividono nel sindacato socialisti e comunisti”. Partendo da queste considerazioni, Lizzadri sviluppa il suo attacco a fondo contro la corrente socialista della CGIL, la stragrande maggioranza della quale, nei quadri di base ed intermedi, avversa la politica della direzione.
“Che vi siano lavoratori socialisti e comunisti contrari ad una agitazione propugnata da altri lavoratori socialisti e comunisti, che l’impostazione di una lotta venga giudicata in maniera differente, questo può accadere, ed è bene che sia cosi. Ma che tutta una corrente pregiudizialmente si opponga ad una data azione, o la valuti in modo differente, questo non lo comprendo. Una tale opposizione è 99 volte su 100 frutto di un contrasto voluto ed artificioso… Come credere che tutta una corrente prenda una posizione in contrasto con tutta un’altra corrente su una questione di questo genere senza ammettere l’esistenza di interessi determinati che vogliono il contrasto?”.(24) La conclusione che Lizzadri trae è quella della necessità della liquidazione della corrente socialista della CGIL: “L’eliminazione delle correnti è un passo avanti sulla via dell’unità. Favorisce o danneggia gli interessi dei lavoratori? Queste sono le domande che dobbiamo porci. Se la risposta è positiva, andiamo avanti, compagni, con coraggio, senza titubanza e senza timori”.

Conclusioni

Dall’esame di questi significativi passi degli interventi dei dirigenti del partito alla conferenza nazionale d’organizzazione, nella quale viene delineata l’ossatura del partito morandiano, possiamo trarre le seguenti conclusioni:
a) Pur avendo la “sinistra” conquistato al congresso di Firenze del 1949 la maggioranza, una profonda spaccatura persisteva nel partito. Essa è dimostrata dalle resistenze che si manifestano a tutti i livelli alla politica della direzione, ed al suo dogmatismo ideologico.
b) Queste resistenze si manifestavano soprattutto nei NAS dei settori operai e nel sindacato (corrente socialista della CGIL). Per stroncare le resistenze operaie, la direzione ricorre:
1) all’organizzazione capillare dei NAS, concepiti come organismi privi di autonomia politica ed organizzativa, per isolare i nuclei operai, e per spegnere l’iniziativa socialista di base nelle fabbriche;
2) alla imposizione delle liste unitarie nelle elezioni di CI, e nelle elezioni per le cariche sindacali e nelle Camere del Lavoro;
3) alla liquidazione della corrente sindacale socialista come espressione organizzata ed autonoma, ed alla graduale sostituzione, con l’aiuto del PCI, di nuovi quadri dirigenti sindacali ai quadri autonomisti.
c) La struttura del partito, fondata sui principi del marxismo-leninismo, e del “centralismo democratico”, si presenta come una composizione piramidale, fondata su scala gerarchica, in cui ogni istanza ha una funzione esecutiva rispetto alle decisioni della istanza immediatamente superiore, ed è priva di qualsiasi autonomia sia politica che funzionale. La direzione trasmette le sue decisioni alle federazioni direttamente, o alle giunte regionali (ove esistono) le quali provvedono a trasmetterle, a loro volta, alle federazioni. “La federazione raggruppa le sezioni in zone, nominando i responsabili di zona. I responsabili di zona dovrebbero esercitare un’azione nei confronti delle singole sezioni affinché la sezione ripeta la stessa operazione della federazione; la sezione dovrebbe cioè suddividere i propri iscritti in tanti nuclei di strada o di cascina, nominando per ogni nucleo un responsabile; successivamente i responsabili di nucleo dovrebbero ciascuno suddividere il proprio nucleo in tanti altri piccoli gruppi di compagni, affidando questi gruppi minori alle cure di un Collettore. Il nucleo aziendale o NAS dovrebbe rientrare nel numero dei nuclei in cui è suddivisa la sezione ed essere esso stesso così legato alla sezione”.(25) Così è precisata l’intelaiatura del partito “unitario”, per la politica di massa, di cui il PCI ha la direzione effettiva. Essa, attraverso la centralizzazione delle decisioni e la capillarizzazione della struttura esecutiva, deve permettere alla direzione il controllo diretto di tutto il partito, in ogni sua istanza, per farne lo strumento coerente dell’azione “unitaria”.
A questo compito, il gruppo dirigente morandiano appresta una schiera sempre più numerosa di funzionari giovani, per lo più di estrazione piccolo-borghese, che operano attivamente nel partito e nel sindacato.

L’apparato

I quadri dell’apparato vengono dislocati da una federazione all’altra, inviati dal centro, oppure assorbiti nel lavoro direzionale, secondo un preciso ed organico programma, che è finanziato con le ampie disponibilità di cui la direzione è dotata, a differenza della precedente direzione “autonomistica”.
Due sono i capitoli di spesa principali per la costituzione dell’apparato, che la direzione si assume per venire incontro alle esigenze delle federazioni:
a) contributi condizionati all’impiego di quadri ed attivisti;
b) somme erogate a titolo di sovvenzione.
Nel primo anno di gestione “unitaria” il rapporto tra queste due voci è stato di 1 a 3.(26) Successivamente esso tende a livellarsi.
A tali spese vanno aggiunte quelle ingentissime per intensificare l’impegno organizzativo (spostamento dei funzionari centrali, convegni di organizzazione e di studio… ).
L’imponente sforzo organizzativo e finanziario posto in essere dalla direzione “unitaria” è sostenuto dal PCI con due precisi obiettivi: quello di assorbire e controllare le spinte autonomistiche della base operaia incapsulandola in una struttura politica centralizzata e gerarchica, riducendo così la stessa pressione della corrente socialista nella CGIL e le resistenze che essa presentava alla totale strumentalizzazione del sindacato. E con l’obiettivo di costruire e potenziare un partito socialista completamente controllato dall’apparato filocomunista, che fosse tuttavia in grado di raccogliere attorno a sé quelle notevoli forze di militanti e di elettori socialisti che il PCI non può direttamente organizzare ed attirare. Il Partito comunista italiano vuole un Partito socialista sufficientemente organizzato, in grado oltre tutto di impedire la crescita elettorale ed organizzativa della socialdemocrazia che le elezioni del 18 aprile avevano dimostrato capace di influire sull’elettorato operaio in misura maggiore del previsto. Nello stesso tempo esso vuole permanentemente controllare l’organizzazione e l’iniziativa politica del PSI attraverso l’apparato di funzionari fedeli alla politica dell'”unità di classe”.
L’apparato morandiano non riesce completamente a soffocare i fermenti “autonomistici” della base socialista, nonostante le espulsioni a catena di militanti e di dirigenti. (Al congresso di Bologna del 1951, Morandi fa approvare una modifica delle norme statutarie che permette di delegare ai comitati esecutivi delle federazioni i provvedimenti disciplinari nei confronti degli iscritti, sottoponendoli successivamente alla ratifica dei direttori federali.) Molti militanti si dimettono, o non rinnovano la tessera. La gran parte, pur manifestando la propria solidarietà al partito, si assenta permanentemente dall’attività delle sezioni e delle federazioni. Vi è un calo notevolissimo degli iscritti socialisti alla CGIL. Questi fenomeni vengono rilevati, pur nel -clima di pieno conformismo, da significativi passi dei documenti dell’ufficio organizzativo del partito (di cui dopo il congresso di Bologna è divenuto responsabile Giusto Tolloy, mentre Morandi ha assunto la responsabilità del lavoro di massa), documenti contenenti le istruzioni alle federazioni per la preparazione della conferenza nazionale dei quadri, che si svolge a Roma dall’8 al 12 luglio 1952. In esso si denuncia “la scarsa assimilazione della politica del partito da parte della base”, la “disparità e disfunzionalità delle iniziative prese dalle federazioni”, e la “importanza della influenza ideologica che la socialdemocrazia esercita su larghi strati della popolazione”. “Laddove l’assimilazione non si è avuta o si riscontra manchevole, si deve dedurne che questa politica (quella unitaria) in effetti non s’è fatta, non s’è fatta del tutto, si è fatta in maniera episodica”.(27)
Nel corso della conferenza numerosi interventi rilevarono come la pratica dell’unità d’azione fosse largamente inoperante, per cui gli organismi di consultazione a tutti i livelli restavano lettera morta in gran parte delle situazioni periferiche del partito.
L’impegno organizzativo e finanziario della direzione “unitaria” dà peraltro, come risultato, il potenziamento dell’apparato e dell’organizzazione. In due anni, dal dicembre 1950 al dicembre 1952, l’apparato viene pressoché raddoppiato: “I quadri permanenti di partito, esclusi gli organi nazionali, hanno avuto in due anni l’incremento del 71%. Di questi il 30% sono quadri interni del partito e il 70% sono quadri esterni, sindacali e di altre organizzazioni di massa”, afferma la relazione organizzativa di Tolloy al XXX congresso (Milano, 1953).(28)
Il massimo progresso nel potenziamento dell’apparato viene compiuto nelle regioni del Veneto, dell’Emilia, delle Puglie, della Calabria, della Sicilia. “Si tratta di curare organicamente l’aumento del livello ideologico dei quadri e la formazione di nuove leve di essi, il che può avvenire con l’istituzione di una scuola nazionale di partito, e per una serie di quadri ancora più vasta attraverso la pubblicazione di un corso teorico di partito”.(29)
L’età media dei delegati al congresso di Milano supera appena i 30 anni; sono i funzionari immessi nel lavoro di partito o degli organismi di massa che con il sistema delle votazioni unanimi hanno ottenuto la delega congressuale. Effettivamente il gruppo dirigente socialista viene in gran parte rinnovato, nel corso di questi anni, sia nelle istanze periferiche che in quelle nazionali.

I risultati dell’impegno organizzativo

Come la relazione organizzativa di Tolloy affermava, con il XXX congresso si conclude la prima fase dell’organizzazione del partito di massa, e si apre una fase nuova. Essa fa il punto sui risultati conseguiti.

Iscritti

Per quanto riguarda gli iscritti Tolloy affermava che “il censimento degli iscritti al nostro partito è stato iniziato con serietà di intendimenti nel 1950, ha raggiunto determinati risultati nel 1951, e ormai giunto ad un alto grado di rigorosità nel 1952”. Tale affermazione contestava l’asserzione di Bizzarri alla conferenza nazionale d’organizzazione del dicembre 1950, secondo la quale gli iscritti al PSI in quell’anno erano risaliti a 750.000 dai 400.000 cui erano scesi durante la direzione Jacometti e Lombardi del 1947 e ’48.
Gli iscritti al 31 dicembre 1952, denunciati al XXX congresso, sono sempre 750.000. Ma essi sono presentati in aumento del 4% rispetto all’annata precedente, mentre, come abbiamo visto, Tolloy stesso asserisce che per il 1950 i dati non potevano considerarsi attendibili.(30) Il dato di 750.000 iscritti dal XXX congresso in poi verrà indicato come dato di base del partito in tutti i congressi successivi, fino a quello di Napoli dove invece verrà denunciato il dato di 450.000 iscritti.
Sull’attendibilità di questo dato ci sono da avanzare alcune riserve, perché all’ultimo congresso, prima dell’epoca morandiana, nel quale s’era votato per mozioni, al congresso di Firenze del 1949, erano stati denunciati circa 420.000 iscritti: cifra che la sinistra aveva ripetutamente contestato, parlando di “catastrofe organizzativa del partito” ad opera della direzione “autonomistica”.
Lo stesso Morandi, nella relazione alla conferenza nazionale d’organizzazione del 1950, aveva affermato: “Se diamo uno sguardo alla distribuzione geografica degli iscritti, noi vediamo che la ripartizione delle nostre forze è grossolanamente questa: 50% nord; 20% centro; 20% mezzogiorno; 10% isole. L’Emilia e la Lombardia rappresentano la concentrazione più forte di organizzati, all’incirca un terzo degli appartenenti al partito”. Per quel che riguarda le forze delle singole federazioni, è da rilevare che tre soltanto superano i 25.000 iscritti, mentre sono 46, assai poco meno della metà, le federazioni che contano un numero di iscritti inferiore a 5.000. Particolare menzione merita il fatto che una ventina di federazioni non raggiunge i 2.500 iscritti, per una cifra complessiva di 30.000 tesserati. Tredici di queste minuscole federazioni appartengono all’Italia Meridionale”.(31)
Ora, riportando la dislocazione geografica delle forze del partito ai dati del congresso di Firenze, abbiamo circa 200.000 iscritti a nord; 80.000 nel centro; 80.000 nel sud e 20.000 nelle isole.
Al XXX congresso Tolloy ribadisce che il partito “mantiene complessivamente le sue posizioni nel nord ed in Toscana”, mentre è avanzato nel tesseramento per quanto riguarda il centro-sud e le isole, con un incremento medio del 25%. Cosicché il partito negli anni della “ricostruzione morandiana” è aumentato in effetti di circa 50.000 iscritti nel complesso. Esso, in realtà, non aveva più di 300.000 iscritti nel 1949, che erano saliti a 350.000 all’epoca del congresso di Milano, ed hanno superato i 450.000 negli anni dal 1953 al 1959, mantenendosi su questa cifra con lievi incrementi negli ultimi due anni, dal congresso di Napoli a quello di Milano del 1961.
Lo sforzo organizzativo del gruppo morandiano si era sviluppato pertanto in forma estensiva, più che in forma intensiva. Ne risultava una modificazione sia pure parziale nella distribuzione geografica delle forze del partito, con un maggior equilibrio di forze tra il nord e il centro-sud. Le sezioni salirono da 5.936 nel 1950 a 7.024 nel 1952, cosicché diminuì il numero dei comuni senza sezioni da 2.947 a 7.024. I nuclei aziendali salirono da 725 a 1.077 mentre un più ampio sviluppo ebbero i nuclei territoriali da 566 a 1.633. Il numero dei collettori sale da 2.503 a 7.704.(32)
Da queste cifre si possono desumere le seguenti considerazioni:
a) che gli incrementi di iscritti erano notevolmente ridotti, rispetto allo sforzo organizzativo, all’impegno finanziario ed alla duplicazione dei quadri dell’apparato;
b) che tali incrementi presentavano un carattere estensivo essendo localizzati nel centro dell’Italia e nelle isole, mentre la forza del partito restava stazionaria nelle regioni ove e tradizionalmente più forte;
c) l’incremento delle sezioni si presentava anch’esso concentrato essenzialmente nelle zone dove mancava addirittura l’organizzazione, mentre era notevolmente scarso laddove già esisteva la struttura organizzativa, in particolar modo nelle grandi città;
d) considerevole incremento dei collettori e dei nuclei territoriali costituiva il risultato dell’intensa azione di capillarizzazione dell’attività, cioè della suddivisione in gruppi della struttura molecolare del partito. Abbiamo visto come la “capillarizzazione” rispondesse oltre che ad esigenze di articolazione del partito, anche ad una funzione di stretto controllo e di orientamento dei militanti. I collettori, responsabili di nuclei ristretti di militanti, possono facilmente, più che i segretari di sezione, controllare ed orientare l’attività ed il pensiero dei medesimi;
e) il pressoché inesistente incremento dei nuclei aziendali mostra la scarsa penetrazione dell’organizzazione del partito nelle fabbriche e negli altri luoghi di lavoro. Da queste considerazioni si può trarre una conclusione, che ci sembra sufficientemente rispondente alle caratteristiche di fondo dell’impostazione organizzativa morandiana.
La struttura del partito, per quanto potenziata da un forte impegno organizzativo e finanziario, e dall’attivismo di un nuovo ceto di funzionari, resta la struttura di un partito tradizionale ed elettoralistico, con scarsa incidenza nella realtà del mondo del lavoro, verso la quale una efficace apertura organizzativa avrebbe richiesto un impegno autonomistico corrispondente alle esigenze della base operaia (le federazioni che anche nell’epoca morandiana passano per autonomiste in pectore sono innanzitutto quelle di Milano e di Genova, mentre a Torino – stroncata dall’apparato l’organizzazione socialista nelle fabbriche, a causa dell’acceso autonomismo degli operai socialisti – il partito non sarà più in grado di organizzare una struttura di fabbrica efficiente).
In realtà, l’impostazione morandiana dell’organizzazione non si discosta dalla concezione dell’antico Partito socialista, di cui lascia immutata tutta la struttura federale e territoriale, con in meno l’autonomia delle federazioni, rispetto agli organismi centrali, e delle sezioni rispetto alle federazioni. Il “centralismo democratico”, innescato sulla vecchia struttura del partito, diviene soltanto un metodo gerarchico ed autoritario di controllo dell’organizzazione periferica, e di indirizzo dell’azione del partito. Il partito, come organizzazione di classe, operaia e contadina, segna il passo, ed ha una penetrazione scarsissima nelle fabbriche, mentre man mano va anche riducendosi la sua influenza nel sindacato, con la liquidazione della corrente socialista, fonte di sollecitazioni autonomistiche non tollerate dal PCI.
Secondo Alberto Benzoni e Viva Tedesco (Il movimento socialista nel dopoguerra, Marsilio, Padova 1968) Rodolfo Morandi e con lui “tutto il quadro organizzativo del PSI che si è formato sotto la sua guida” vedono nella politica unitaria “non solo una risposta all’imperialismo guerrafondaio” e alla “involuzione totalitaria della DC, ma anche e soprattutto una diversa concezione del modo d’essere del partito: un antidoto contro la sua socialdemocratizzazione”. Secondo i due autori, la “rivoluzione morandiana” porta ad una modifica sostanziale della struttura interna del partito: “Porta innanzitutto ad un notevole sviluppo della consistenza organizzativa: nel giro di un paio d’anni passa dal fondo di poco più di 400.000 iscritti toccato con il congresso di Firenze, ad oltre 700.000 iscritti, raggiunge una adeguata struttura in tutto il territorio nazionale… vede in primo luogo lo sviluppo della propria organizzazione di fabbrica, il nucleo aziendale socialista, chiave di volta della nuova organizzazione di massa che toccherà proprio nel 1954 la sua massima estensione con 1412 unità”. A questi sviluppi avrebbe dovuto corrispondere “una trasformazione qualitativa nella fisionomia e nell’azione del partito: l’abbandono delle preoccupazioni elettoralistiche, la modificazione della struttura delle sezioni da organi associativi ampi in nuclei di lavoro agili e quanto più possibile capillari, legati alle varie realtà di fabbrica e di quartiere, la proiezione del partito all’esterno, non tanto sotto forma di propaganda e di agitazione quanto di impegno nella lotta di massa. La formazione e la compattezza ideologica, la prassi di lavoro collegiale a tutti i livelli”. Ma “su questo piano i risultati sono meno evidenti: carenze di ogni tipo sono spesso denunciate negli stessi documenti di partito”. Di conseguenza: 1) il rinnovamento dei metodi e della mentalità sarà solo parziale, permanendo nel partito, sia pure sotto l’ombra di slogans più forti e battaglieri, il vecchio habitus elettoralistico: 2) il nuovo apparato formato m quegli anni avrà, anche per la sua limitatezza numerica (e la provenienza essenzialmente piccolo-borghese), un rapporto autoritario-burocratico, di forma più che di sostanza, con il concreto manifestarsi della lotta.

Nella crisi della politica “unitaria” affiorano le tendenze autonomistiche

A mano a mano che il partito procede nell’opera di rafforzamento organizzativo, dal 1951 al 1953, e negli anni successivi, intorno ad esso si va raccogliendo ad ogni elezione un numero crescente di consensi.
Le ragioni di questa ripresa sono da ricercare:
a) nell’abbandono della tattica elettorale dei blocchi, che aveva portato alla catastrofe del 1948;
b) nel deterioramento del successo democristiano del 18 aprile, e nell’inizio della tendenza allo spostamento a sinistra dell’elettorato, di cui il PSI fruisce insieme con il PCI;
c) nella crisi della socialdemocrazia, e nella sua incapacità ad assumere una collocazione come partito autonomo. La ripresa elettorale del PSI stimola la ripresa autonomistica. Vi concorrono inoltre la crisi della politica “unitaria”, guidata dal PCI, le sconfitte operaie e contadine determinate da essa, l’isolamento del movimento operaio che raggiunge in quegli anni la sua fase più acuta.
Il XXX congresso, che si può considerare – come il punto terminale della costruzione morandiana del partito, e anche il punto iniziale della politica d’autonomia. Svoltosi nel clima di lotta contro la legge maggioritaria, che fa risaltare allo stesso gruppo dirigente la funzione del PSI nello schieramento politico, esso assume sul piano tattico, ideologico ed anche organizzativo un orientamento ben diverso che nei due precedenti congressi.
Sul piano tattico, il XXX congresso segna la fine del frontismo elettorale, l’abbandono completo del sistema degli apparentamenti e la proposizione della politica dell’alternativa socialista nella quale, pur ribadendosi l’unità di classe, risalta il ruolo specifico del PSI. Nenni nella sua relazione, rifacendosi all’esperienza concreta degli ultimi anni, che hanno segnato il generale declino della pratica delle consultazioni unitarie previste dal patto d’unità d’azione,(33) e anche Morandi nel suo intervento ricordando le perplessità emerse nella conferenza dei quadri del luglio 1952, accennano a tale eventualità.(34)
Sul piano ideologico la novità del XXX congresso è la completa assenza di ogni riferimento al marxismo-leninismo, che pure tre anni prima al convegno giovanile di Modena, Morandi aveva affermato essere stato definitivamente assunto a piattaforma ideologica del partito. Egli giunge peraltro ad affermare che il “Partito socialista costituiva, in forza di un patrimonio cinquantennale di lotta, la sola formazione politica che, allacciata nel profondo delle masse, poteva concorrere con il Partito comunista nel guidarle in un’azione che non aveva per insegna e come obiettivo la rivoluzione sociale, ma il ristabilimento e la rigenerazione della democrazia nel nostro paese dopo venti anni di dittatura, la conquista della Repubblica, la legittimazione costituzionale del potere. Era in verità (il PSI) la sola formazione politica che potesse farsi garante, nei rapporti con le forze progressiste della borghesia, che tali limiti coscientemente assegnati all’azione della classe operaia e delle masse popolari sarebbero stati osservati”,(35) con ciò ammettendo i limiti di garanzia della politica del PCI nei confronti dello sviluppo democratico del paese. Per cui continuando a rifiutare la “caratterizzazione” e l'”autonomia” del partito, egli giunge ad ammettere che esso “come formazione politica avente una sua particolare individuazione nello schieramento popolare, si trova ancora ad essere, nelle circostanze del momento, la forza specifica che può consentire di superare sul terreno della Costituzione i pericoli di per se stessi insiti in una situazione politica di frattura”: la nuova tattica elettorale comporta la diversità negli strumenti, ma l’identità del fine, che e comune ai due partiti, vale a dire impedire lo scatto della legge maggioritaria. La concezione dell’alternativa socialista è in Morandi puramente strumentale, mentre in Nenni essa si delinea già come una politica, la cui sostanza è l’autonomia: e tuttavia la preoccupazione tattica porta anche Morandi all’abbandono delle rigide formulazioni ideologiche e strategiche del 1950, quando assumeva il superamento totale della diversità storica dei due partiti sul piano delle identità ideologiche (marxismo-leninismo) e politiche (subordinazione del PSI alla guida comunista in ogni congiuntura della lotta di classe). In realtà la ragione del ripiegamento ideologico di Morandi risiede nel fatto che il marxismo-leninismo ha avuto per il movimento operaio una validità ideologica (non culturale-scientifica), in quanto strategia di potere che presupponeva il contesto di un particolare sviluppo del capitalismo finanziario, dell’urto tra gli imperialismi, con la conseguente crisi della struttura statuale e la conquista violenta del potere.
Il 1953 è l’anno della morte di Stalin. È l’anno nel quale la prospettiva internazionale della guerra fredda, dopo la tensione degli anni precedenti (guerra di Corea), non appare più come la fatale premessa della guerra nucleare tra le due grandi potenze mondiali. L’assunzione del marxismo-leninismo e dello stalinismo come ideologia del movimento operaio e del Partito socialista comportava anche l’accettazione della teoria della inevitabilità della guerra. Ma nel 1953 con la morte di Stalin, inizia anche nel mondo comunista quel processo di revisione politica ed ideologica dello stalinismo, che si concluderà con il XX congresso e con l’abbandono della teoria dell’inevitabilità della guerra.
L’ideologismo marxista-leninista del gruppo dirigente morandiano viene vulnerato in due punti nevralgici:
a) sul piano della valutazione delle tendenze di fondo della situazione internazionale, in quanto la prospettiva della distensione (discorso di Fulton, morte di Stalin) annulla la prospettiva dello scontro tra i blocchi, della “catastrofe” economica e militare dell’imperialismo; e della conquista rivoluzionaria del potere per il concorso di circostanze “esterne”, cioè la vittoria dello Stato-guida. (Nel 1949 in polemica con Riccardo Lombardi, Morandi era giunto ad affermare: “Siamo nell’Europa marshallizzata, nell’Europa riarmata con pubblici stanziamenti di bilancio dell’America… Siamo nell’epoca della guerra fredda e della pace calda, nell’epoca delle dittature di classe. In queste condizioni è puro snobismo d’intellettuale ironizzare sul mito di “Baffone”. È politicamente follia corrodere la fiducia di cui la classe lavoratrice si alimenta di avere nella dura lotta che conduce un punto d’appoggio non meno solido di quello di cui dispongono le classi dirigenti”.) Il neutralismo si rivela una prospettiva politica nuova, in presenza degli sviluppi nuovi della realtà mondiale.
b) Sul piano della lotta politica interna, la conclusione del periodo di ricostruzione capitalistica, che vede le classi dominanti non solo in una posizione di riconquistato predominio sociale, ma anche impegnate in uno sforzo dinamico di formazione di un’economia industriale di alto livello competitivo, e, correlativamente, l’inizio del processo di espansione degli anni ’51-60 di cui beneficerà già un largo settore di lavoratori delle industrie e del settore terziario costituiscono una clamorosa smentita dell’analisi teorica e dell’impostazione della lotta politica e sindacale del movimento operaio italiano nel dopoguerra, fondate sulla convinzione che il capitalismo monopolistico non fosse in grado di organizzare un’economia di sviluppo, sia pure in forma non omogenea e differenziata.
L’infondatezza di questa impostazione appare in tutta evidenza sia dal quadro dello sviluppo economico del paese, sia dal quadro della situazione di arretramento del movimento operaio italiano nei luoghi di produzione ed in generale nella società; sia dalla crescente insofferenza della base e dei quadri socialisti e comunisti nei confronti di obiettivi e forme di lotta che si rivelano sempre più anacronistici ed inefficaci.
In conclusione, la posizione marxista-leninista, in un contesto internazionale ed interno profondamente diverso da quello in cui operò il partito bolscevico negli anni della rivoluzione sovietica, rivela il carattere ideologistico, strumentale ed in sostanza controrivoluzionario e conservatore della versione stalinista, per la quale essa ha subito, in particolar modo negli anni del dopoguerra, un processo di mistificazione che da teoria rivoluzionaria l’aveva degradata a mitologia di massa in copertura della politica internazionale dell’URSS.
L’evoluzione della realtà internazionale (e la fase nuova del sistema sovietico) e della realtà italiana smentisce la duplice previsione “catastrofica” (guerra e depressione permanente). D’altronde è lo stesso comportamento delle masse operaie e contadine che, di fronte alla nuova realtà sociale, si colloca al di fuori degli schemi ideologici tradizionali (sono questi, infatti, gli anni di più profonda crisi della CGIL).
Il Partito socialista appare più rapido ed elastico del PCI nel tentativo di adeguarsi alla nuova realtà ed alle nuove esigenze delle masse con una più efficace sortita dal terreno minato delle posizioni ideologiche e politiche del frontismo, sul quale il movimento operaio rischia la sua definitiva sconfitta (legge maggioritaria). Questo tentativo del PSI che assume la formula dell’alternativa socialista costituisce il primo atto concreto generale di rottura del frontismo: ed il suo esito e positivo. Quali sono le ragioni che permettono e sollecitano al PSI questo spostamento di fronte nonostante il pervicace rifiuto comunista di assumere una politica diversa da quella che ha portato il movimento di classe alla sconfitta del ’48-50?
1) La pressione autonomista della base e dei quadri, il cui autonomismo è in funzione di una politica più efficace del movimento operaio sul piano politico e sindacale (abbiamo visto accusare i sindacalisti socialisti, fin dal 1950, di “tecnicismo e di riformismo” per essersi opposti nella stragrande maggioranza alla strumentalizzazione del sindacato alla politica del PCI).
2) La presenza a livello di gruppo dirigente del PSI di settori di formazione non leninista e morandiana (dai vecchi massimalisti e riformisti ai dirigenti autonomisti della generazione postfascista non usciti dal partito con la scissione del 1947, agli azionisti). Questi settori emergono nel XXX congresso di Milano, nel 1953, rompendo l’omogeneità del gruppo dirigente morandiano, ed assumendo via via sempre maggiori responsabilità di elaborazione ed operative nel partito. (Al congresso di Milano rientra nella direzione del partito Riccardo Lombardi, insieme con un primo ristretto gruppo di autonomisti nel comitato centrale.)
3) L’assenza di un legame organico tra il PSI ed il movimento comunista internazionale, che invece vincola il PCI alla strategia internazionale del mondo sovietico.
4) Il revisionismo della posizione di Nenni che, consapevole del sorgere di nuove condizioni di lotta politica del proletariato italiano, inizia il suo distacco dalla posizione frontista, alla quale aveva aderito.
È difficile accertare se il congresso di Milano, segnando l’avvio della fase autonomistica del PSI, segni contemporaneamente anche il tramonto del “morandismo”. Ciò non significa che l’influenza morandiana del PSI non permanga anche nel corso degli anni dal ’53 in poi, soprattutto per la presenza di un larghissimo strato di quadri dirigenti e intermedi, da Morandi immessi nella struttura del partito.
Comunque il sistema ideologico imposto da Morandi nel 1950, e la sua concezione dell’organizzazione e dell’azione del partito, entrano in crisi fin da quell’epoca, insieme con la politica “unitaria” alla quale essi erano intimamente collegati.
Due elementi della concezione morandiana resteranno come patrimonio del partito e del suo gruppo dirigente, nel quale dal 1956 in poi confluiranno con Nenni molti dei quadri di formazione morandiana (operandosi così una scissione nella generazione morandiana).
1) Il senso del partito. L’impegno organizzativo, l’importanza data da Morandi ai problemi della struttura del partito fin dal 1947(36) il legame che si stabilisce, per l’ampliamento dei quadri di funzionari tra il destino individuale e il destino politico, 2 successo del partito contenevano infatti un germe autonomistico che si svilupperà in molti quadri dirigenti in presenza di un contrasto politico ed ideologico con il PCI, e nello stesso tempo manterrà il PSI su posizioni di autonomia nei confronti del sistema di potere conservatore, impedendo che l’autonomia socialista degeneri in clientelismo e in “corsa al governo”.
2) Il programmismo morandiano. L’accento posto da Morandi sui problemi dell’esame della struttura del paese, lo stesso fatto che i congressi di quel periodo, non essendo centrati sulla discussione delle mozioni congressuali, vedeva larga parte del dibattito dedicato all’esame dei “temi” della politica socialista, e quindi alle condizioni reali della lotta sociale e politica in Italia: si trattava di fattori che concorsero ad una verifica costante della validità dell’azione socialista nel paese, e che permisero al PSI di prendere coscienza con sufficiente rapidità del mutamento delle condizioni reali di sviluppo della società italiana. Inoltre, anche per i successivi stimoli in senso programmistico di personalità del tipo di Lombardi, si creò un habitus mentale dei quadri socialisti che li predisponeva all’esame ed alla ricerca fattuale delle situazioni economiche, sociali e politiche che operò nei confronti dell’ideologismo in forma analoga a quella in cui la “riforma” operò nei confronti del cattolicesimo. La lezione morandiana di ricercare la caratterizzazione del partito non rispetto ad un sistema di valori astratti, ma rispetto alla concreta realtà delle condizioni storiche e di sviluppo socio-economico del paese, introdusse nel partito la consapevolezza di quella costante verifica effettuale che finì per operare in direzione opposta all’intendimento morandiano: contro l’ideologismo e contro la politica “unitaria” che dell’ideologismo e della mitologia prosovietica era l’animatrice in funzione dell’egemonia comunista nel movimento operaio italiano.
Il programmismo morandiano visto alla luce di un esame obiettivo, non soltanto assume il significato di un elemento di stimolo alla liberazione del socialismo italiano dafl’ideologismo marxista-leninista; ma appare come la matrice di quell’empirismo fenomenologico, che indissolubile dal riaffermato sistema di valori della libertà (che è oltretutto il prodotto della reazione alla mistificazione dogmatica e filostatuale dell’ideologia) costituisce oggi la caratteristica del comportamento politico della nuova generazione dirigente socialista.

3. La crisi del “centralismo democratico”

Il XXX congresso (Milano, 8-12 gennaio 1953) che vede il PSI definire i termini della politica di alternativa socialista, con l’obiettivo della lotta contro la legge maggioritaria, segna anche l’avvio, ancora incerto e contraddittorio ma irreversibile, di un processo politico che è destinato nel volgere di pochi anni a restituire al PSI il suo ruolo autonomo nello schieramento politico italiano. La conseguenza della svolta del PSI è la necessita di un adeguamento della struttura organizzativa del partito e dei suoi rapporti con gli organismi unitari di massa agli obiettivi de sua politica.
Nel suo intervento XXX congresso, Fernando Santi imposta in termini nuovi a posizione sindacale del PSI, confermando che nel partito il processo di revisione degli schemi leninisti-stalinisti ha già raggiunto uno stadio avanzato.
“Compito del sindacato – afferma Santi – è quello di promuovere il miglioramento graduale e costante delle condizioni economiche, civili, culturali e professionali dei lavoratori”. (37)
Questa definizione dei compiti del sindacato è in chiave ostentatamente “riformistica”, e si colloca in antitesi alla concezione strumentale del sindacato come “cinghia di trasmissione” della politica del partito (il PCI) allora dominante nella Confederazione del Lavoro.
L’affermazione di Santi non è fine a se medesima: essa è il punto di partenza per tracciare un quadro generale della concezione autonomistica degli obiettivi e delle forme di lotta del movimento operaio in coerenza con l’impegno di lotta contro la legge maggioritaria, che palesa la preoccupazione di Santi e degli autonomisti di dare alla politica di alternativa socialista un significato che non sia esclusivamente tattico, ma di presentarla nel contesto di una visione organica, autonoma, dei problemi della società e dello Stato.
“Per esercitare questa sua funzione – continua Santi nel suo intervento – che è funzione di progresso sociale, la classe lavoratrice deve disporre di un movimento organizzato, libero e forte che deve essere adeguatamente rappresentato in tutte le istanze della vita del paese e particolarmente laddove si fanno le leggi”. In questa prospettiva, che è quella della lotta per la conquista dall'”interno” dello Stato, antitetica alla concezione leniffista-stalinista della conquista dall'”esterno”, si pone il problema dei rapporti tra lo Stato e le masse lavoratrici. “In realtà – afferma Santi – vi è un solo modo efficace e democratico di inserire le masse nello Stato: quello indicato dal movimento operaio in una posizione attiva d’iniziativa e di autonomia, tendente a trasformare gradualmente lo Stato, nell’attuale momento storico, attraverso la realizzazione della Costituzione per quanto riguarda particolarmente i diritti dei lavoratori e i princìpi sociali enunciati. Questa posizione democratica è stata scelta da gran tempo dal movimento operaio nel nostro paese”, osserva Santi. E, con un chiaro riferimento alla tradizione turatiana, egli precisa: “Fin da quando esso si divise dalla frazione dell’anarchismo che voleva la conquista dall’esterno, abbiamo scelto la strada democratica perché voleva dire e vuol dire difendere l’unita nazionale… e voleva dire non creare la prospettiva greca… Nonostante tutte le difficoltà in campo nazionale ed internazionale, noi pensiamo che dobbiamo camminare su questa strada: difendere la democrazia politica perché essa si sostanzi della democrazia economica e sociale”. Capovolgendo l’impostazione morandiana, Santi definisce dunque una prospettiva della lotta socialista fondata sulla possibilità della costruzione graduale, democratica del socialismo dall’interno dello Stato, non condizionata alla modificazione dei rapporti di forza internazionali: e sintetizza questa posizione con la formula dell’austro-marxismo (“sostanziare la democrazia politica con la democrazia economica e sociale”) che Morandi aveva definito la “forma più raffinata dell’opportunismo socialdemocratico”. (38)
Il rifiuto della teoria della pauperizzazione è espresso, conseguentemente, con l’affermazione della necessità di “un movimento sindacale libero e forte che abbia possibilità di battersi per migliorare la capacità di consumo delle grandi masse popolari” per cui “l’elemento fondamentale della sua lotta è l’unità d’azione con i lavoratori appartenenti a tutte le organizzazioni o a nessuna organizzazione. L’unità d’azione è il risultato di una politica, di una giusta politica rivendicativa a favore di tutti i lavoratori, da realizzarsi con i giusti mezzi accettati dalla maggioranza dei lavoratori”.
Con il che Santi rilancia la funzione rivendicativa del sindacato, come elemento di “progresso sociale”; e su di essa basa la politica di unita d’azione con i lavoratori, escludendo implicitamente ogni strumentalismo e ogni politicizzazione della lotta sindacale. Il significato di queste affermazioni risalta ancor più a confronto con quelle del morandiano Vincenzo Gatto, vice di Morandi nella responsabilità del lavoro di massa, il quale dichiarava che “la lotta di massa non è soltanto la lotta sindacale anche se questa e la più tipica… ma è lotta di massa quella che conducono su basi unitarie i vari movimenti di rinascita… e parimenti azione di massa quella che conducono le donne per la loro emancipazione dallo sfruttamento, dal pregiudizio, dalla schiavitù, dalla miseria… lo sono ancora le lotte per risolvere il problema della drammatica situazione della gioventù… la cooperazione in generale… è azione di massa la lotta per migliori condizioni dei contadini nelle montagne e dei coltivatori diretti. Tutte lotte che nella loro logica concorrono sempre a risolversi nella lotta delle lotte, come e stata definita la lotta per la pace, la più nobile delle lotte di massa”.(39)
Il contrasto che emerge tra le due posizioni e contrasto di fondo tra autonomisti e morandiani. Ma è importante osservare che nell’intervento di Gatto non manca il riconoscimento della necessità e possibilità di una caratterizzazione dell’azione socialista nel sindacato, a ragione della pressione della base sindacale e di quel settore di dirigenti socialisti della CGIL che vedono nell’iniziativa sindacale socialista la condizione per rimuovere la confederazione dalla situazione di immobilismo e di crisi cui l’ha condotta la politica del PCI. Già quest’iniziativa s’è manifestata in sede del III congresso della CGIL tenutosi a Napoli alla fine del ’52 nel quale il contributo dei socialisti diretto alla revisione della politica sindacale della confederazione, per adeguarla alla nuova realtà sociale del paese, è risultato abbastanza vivace. Il congresso della CGIL ha costituito inoltre l’occasione per la riorganizzazione della corrente sindacale sciolta due anni prima. La ricostituzione della corrente, per la nuova situazione che s’è creata, non è più circoscrivibile all’episodio congressuale, come aveva voluto la direzione del partito, perché “da una parte si chiede il sollecito inquadramento della corrente sindacale, con la pronta creazione dei comitati di corrente, intesi come strumenti agili e responsabili della diffusione nella corrente degli indirizzi di partito e per l’attivazione dei compagni”.(40)
Pur accettando questa richiesta, il gruppo morandiano vi contrappone però “la strumentazione del partito nel settore di massa”(41) in base all’affermazione già riportata che l'”azione di massa non si esaurisce nell’azione sindacale” e che tutte le lotte di massa devono risolversi nella lotta per la pace.
Vale a dire che anche il revisionismo dell’azione sindacale, mentre per Santi e gli autonomisti è inquadrato in una concezione revisionistica generale della strategia del movimento operaio, e da Gatto e dai morandiani accettato, purché contenuto entro i limiti della strategia “unitaria”, cioè della strategia comunista. Questo atteggiamento caratterizzerà in seguito tutta l’impostazione e l’azione nel PSI del gruppo morandiano che anche dopo la morte di Morandi resterà su posizioni “unitarie”: ed è l’atteggiamento che accetta solo il rinnovamento strumentale e funzionale dell’azione e della struttura politica e sindacale del partito, tentando di frenare ogni sviluppo revisionistico dell’ideologia e della strategia “unitaria”.
Nella “Risoluzione per il lavoro di massa” del XXX congresso viene pertanto accolta la richiesta della formazione dei comitati di corrente, che rappresentano la strutturazione organica della corrente sindacale socialista. “Essi – afferma la risoluzione – dovranno essere messi in atto in primo luogo nei settori sindacale e cooperativo e dovranno essere usati come mezzo per un più organico inquadramento e per il migliore indirizzo dei compagni socialisti che militano nelle organizzazioni, affinché assolvano ai compiti più avanzati che ad essi spettano nelle lotte e diano il massimo di attività per il rafforzamento delle organizzazioni popolari, allargandone l’influenza sugli strati di lavoratori non organizzati”. (42)
C’e, come si vede, nella risoluzione una posizione di compromesso. Si accettano i comitati di corrente e si cerca di delimitarne la funzione ad una dimensione esclusivamente operativa, escludendo ogni possibilità di investire la politica sindacale, cioè gli obiettivi e le forme di lotta assunte dalla CGIL. Questo compito e affidato, invece, alle “commissioni di partito per il lavoro di massa”.
Queste commissioni sono costituite a livello federale. “Esse debbono essere strumento di un’attività pratica rivolta ad infondere in tutto il partito una più elevata coscienza dei fini preposti all’unità d’azione nell’attuale fase di lotta, i quali sono l’allargamento progressivo dell’unità dei lavoratori”.(43) “Compete ad esse, in particolare, l’appropriata determinazione dei rapporti tra partito ed organizzazioni di massa, ciò che vuol dare il più chiaro orientamento ai militanti, indirizzando e guidando i socialisti, nel pieno rispetto dell’autonomia di queste, in una attività, che sarà tanto più efficace, in una misura in cui sarà meglio organizzata”.(44)
Alle commissioni viene affidato, in sostanza, il controllo, la guida dell’azione del partito negli organismi di massa, a livello locale, così come la commissione nazionale del lavoro di massa esercita tale controllo a livello nazionale. È chiaro il proposito del gruppo dirigente morandiano di sviluppare da un lato organizzativamente la presenza del partito in questi organismi “unitari”; ma nello stesso tempo di controllare l’iniziativa dei comitati di corrente, nel sindacato e nelle altre organizzazioni di massa, ai quali vengono affidate le mansioni esecutive di un indirizzo politico dettato dall’apparato del partito, strettamente controllato dal gruppo morandiano. Questo proposito e il frutto di una dilagante tendenza revisionistica che ha la sua sede naturale in quegli organismi, come il sindacato, a diretto contatto con la nuova realtà economica e sociale del paese, e sui quali maggiormente pesano le conseguenze di una politica errata del movimento operaio.
La risoluzione impegna inoltre il partito “in concomitanza con le indicazioni e le direttive scaturite dal congresso circa la maggiore capillarizzazione delle strutture organizzative del partito, ed in particolare circa l’organizzazione sui luoghi di lavoro” a dare “la massima attuazione ed il massimo sostegno a tali direttive”: a sviluppare cioè l’organizzazione dei nuclei aziendali.
Ma ancora una volta l’impegno non esce dal campo delle generiche affermazioni, ed assume un valore esortativo, che nulla precisa circa la natura, la funzione, i compiti dei NAS.
Per l’elaborazione dei temi dell’azione di massa, la risoluzione indica il metodo di convegni differenziati, da promuovere sia in sede nazionale che in sede provinciale, “per approfondire i principali temi di lotta dei lavoratori” e “per recare a maggiore qualificazione i quadri socialisti nell’ambito delle organizzazioni democratiche”. La definizione di questi convegni come sede di approfondimento dei temi della lotta dei lavoratori assume un carattere positivo, perché essi finiscono per rappresentare l’unica sede di partito per una discussione aperta ed allargata sull’azione di massa del movimento socialista e delle organizzazioni “unitarie”.

4. L’avvio del processo autonomistico

A dieci anni di distanza dal 25 aprile, il XXXI congresso del PSI (Torino, 31 marzo-4 aprile 1955) è costretto a riconoscere il fallimento politico della sinistra italiana. La destra “controlla il governo e l’apparato dello Stato direttamente e a mezzo degli uomini che ha nei partiti della maggioranza. I principali mezzi di formazione dell’opinione pubblica sono nelle sue mani…”. Così la relazione della direzione del partito al congresso. E prosegue: “Dieci anni or sono giaceva vinta ed umiliata, ma si potrebbe dire con una espressione di Marx che fosse stata abbattuta, come la borghesia francese nel 1848, soltanto per attingere dalla terra nuove forze. È bastato che la sinistra venisse allontanata dal governo, perché a poco a poco essa ripigliasse il sopravvento. Oggi non le basta più controllare il governo e l’apparato statale, ma addirittura vorrebbe mettere a tacere l’opposizione parlamentare e lo stesso Parlamento, i partiti e i sindacati operai”. (45) Se il piano della destra non è giunto a conclusione, per la sconfitta della legge maggioritaria, ciò è avvenuto perché il PSI ha compiuto un primo passo sulla via della liquidazione del frontismo, presentandosi alle elezioni del 7 giugno con liste proprie ed avanzando, sia pur timidamente, una nuova prospettiva politica in autonomia dal Partito comunista.
La situazione generale del movimento operaio resta tuttavia molto pesante. Aprendo la discussione congressuale Pietro Nenni rileva accoratamente: “A dieci anni dalla Liberazione costa caro tenere alta nella fabbrica, nella campagna, nei pubblici e privati uffici la bandiera della democrazia. Lo sanno le maestranze della FIAT… per le quali la semplice elezione della commissione interna e divenuta una prova di forza e di coraggio”.(46)
L’inizio dei lavori congressuali coincide infatti con l’esito disastroso delle elezioni interne alla FIAT. È il punto più basso della crisi dell’organizzazione sindacale “unitaria” e di tutto lo schieramento socialista e comunista. Non soltanto la politica “frontista” non è riuscita a dischiudere alcuna prospettiva di potere alla classe lavoratrice italiana, ma l’ha precipitata di sconfitta in sconfitta, fino ad una situazione in cui l’appartenenza alla CGIL, e la tessera comunista e socialista fanno oggetto il lavoratore di pesanti rappresaglie padronali, contro le quali tutta la complessa e macchinosa bardatura apparatistica del sindacato e dei partiti non oppone nessuna reale difesa.
La condizione operaia alla FIAT, come dovunque, è cosi descritta da Nenni: “Gli operai sono spiati, costretti alle loro macchine come automi: si nega loro il diritto di dire, anche negli intervalli di lavoro, una parola che abbia significato di classe; si è introdotto il sistema delle perquisizioni all’ingresso nelle fabbriche per paura di quella potente arma nucleare cui è assurto ogni foglietto di propaganda; gli agenti padronali sorvegliano gli operai oltre la cerchia della fabbrica, nei luoghi di ritrovo o di riunione politica e sindacale; sono ammoniti sin nel seno della loro famiglia da lettere minacciose; sono posti davanti all’alternativa di votare come desidera l’azienda o di perdere il posto di lavoro”.
Ma Nenni si rende perfettamente conto che l’arretramento del fronte operaio è dovuto a cause ben precise, che non risiedono esclusivamente nell’offensiva padronale. Esse vanno ascritte alla debolezza politica dell’azione delle sinistre, le quali dopo il successo del 7 giugno non hanno saputo offrire uno sbocco politico alla precisa indicazione delle masse popolari contro il monopolio democristiano del potere e per una politica di rinnovamento del paese.
“Né gli operai cadranno nell’errore – prosegue infatti Nenni – di limitarsi a denunciare il terrorismo padronale, che spiega molte cose, e non le spiega tutte, ma risalendo francamente alle cause di ordine politico e di ordine sindacale che hanno accresciuto l’efficienza del terrorismo padronale, prepareranno le condizioni di una pronta e vigorosa ripresa”. (47)
Tuttavia l’analisi del gruppo dirigente socialista e dello stesso segretario del partito si arresta a questo punto. Le cause cui vengono fatte risalire le sconfitte operaie sono individuate nella politica di violazione del dettato costituzionale perseguita dalla maggioranza “centrista” e ripetutamente denunziata tanto dai socialisti quanto dai comunisti, come da altri settori del movimento democratico, laici e cattolici. Quel che è del tutto assente è uno sforzo di analisi critica degli errori politici della direzione comunista e socialista del movimento operaio italiano.
Manca, in una parola, una considerazione attenta delle ragioni storiche e politiche che hanno condotto alla resurrezione della borghesia capitalistica distrutta dalla guerra, ed al completo isolamento dello schieramento frontista.
La relazione introduttiva al XXXI congresso contiene infatti una vasta parte dedicata alla riaffermazione ed all’esaltazione della politica “unitaria” con il PCI. Viene ribadita la comune direttiva di “guidare il movimento popolare alla conquista della Repubblica democratica parlamentare”;(48) viene confermata “la validità delle direttive che hanno ispirato nell’ultimo decennio l’iniziativa e l’azione della classe operaia, ed il cui valore non è soltanto di ordine tattico: è stata confermata nei giorni scorsi dalla IV Conferenza Nazionale del PCI; è pienamente riconosciuta dal nostro partito; fa parte del patrimonio comune della classe operaia”. (49)
E tuttavia anche in questa riconferma acritica della validità della politica frontista – niente affatto misurata alla realtà della condizione operaia e della sconfitta politica delle sinistre – si può scorgere un accenno nuovo, come il preludio di un nuovo discorso che si inizia, nella preoccupazione di non negare A passato ma nel contempo di proporre indicazioni nuove per il presente e per l’avvenire. “La politica unitaria di massa non ha soffocato l’autonomo sviluppo dei due partiti”, afferma la relazione.
“La repressione – vi si legge subito dopo – rinserra la solidarietà dei lavoratori, e in primo luogo dei socialisti e dei comunisti, nella strenua difesa dei diritti democratici: ogni possibilità interna di apertura politica, ogni schiarita internazionale, restituiscono all’azione politica unitaria elasticità e individualità.
“Sono cioè i fattori obiettivi della situazione interna ed internazionale, e non rigidi schemi precostituiti, a determinare il carattere delle lotte e dell’iniziativa politica dei partiti operai, nel solco degli interessi solidali di tutti i lavoratori”.(50)
L’unica nota nuova che viene portata dal gruppo dirigente socialista nella rassegna del quadro internazionale riguarda l’affermarsi di forze distensive all’interno stesso del mondo occidentale, in un processo di differenziazione che di per sé smentisce l’identificazione di questo blocco con la politica imperialistica del capitalismo, come invece si continua ad affermare nei documenti socialisti. Si tratta delle “forze che negli ultimi anni hanno ottenuto la fine delle ostilità in Corea e in Indocina e che hanno posto in crisi la CED”.(51) “Se i sindacati americani – prosegue la relazione – sono corrotti dai profitti imperialistici, in ogni altra parte del mondo la lotta operaia e popolare per la pace si radicalizza. L’ultimo congresso del Labour Party si è diviso a metà sulla questione del riarmo tedesco. Il gruppo laburista inglese si è astenuto sulla questione della ratifica dei Protocolli di Parigi. Nel voto sulla CED in Francia, 53 deputati socialisti su cento, cioè la maggioranza, avevano votato contro… Nei sindacati operai dei Paesi scandinavi l’opposizione al riarmo tedesco è assai forte”. (52)
Seppure il riscontro di queste forze “distensive” soltanto in funzione della loro opposizione agli armamenti europei e tedeschi in particolare sembra riecheggiare analoghe votazioni positive che in quegli anni venivano fatte dalla propaganda sovietica e dai partiti comunisti occidentali, indubbiamente interessate a sostenere le posizioni di quelle forze politiche che all’interno del mondo occidentale ostacolavano le misure di riarmo; questo atteggiamento del PSI trova spiegazione soprattutto nell’esigenza per il partito di definire uno spazio politico suo proprio nel quadro della “sinistra” italiana ed occidentale. Il palesarsi di queste nuove posizioni nello schieramento della socialdemocrazia europea viene subito colto dai dirigenti socialisti come il segno della possibilità di sviluppare un’iniziativa del partito che ne caratterizzi l’azione, senza dover affrontare il tema di fondo dei rapporti con il cosiddetto mondo del socialismo. Infatti la relazione affermava che “una tale situazione nello stesso settore socialdemocratico conferma come nella sua coraggiosa e coerente campagna per la pace il partito sia tutt’altro che isolato. Esso incontra larghi consensi in Europa ed in Asia”. Ma anche queste considerazioni come tutte le iniziative assunte, appaiono viziate dalla funzione che il PSI sembra voglia assegnarsi di mediatore tra queste nuove forze distensive e la forza da essi ritenuta quella pacifica per eccellenza, l’Unione Sovietica. E significativo, a questo proposito, che venga ricordato come “il viaggio del segretario del partito a Londra nel luglio scorso fu l’indice di una situazione in via di lenta ma costante trasformazione. Dopo di allora i capi laburisti, col loro viaggio a Mosca e a Pechino, hanno fatto cadere alcune delle incomprensioni esistenti tra l’Est e l’Ovest, e in Germania la più importante sezione dell’Internazionale socialdemocratica ha dato all’opposizione al riarmo forme radicali di lotta culminate nello sciopero generale del 22 gennaio 1955”.(53)
L’impressione che il PSI volesse assumersi in quel momento il ruolo di mediatore tra le forze di opposizione al riarmo occidentale e i paesi dell’Est, funzione soltanto formalmente autonoma dalla politica del blocco comunista, trova conferma nella assoluta carenza di una linea di politica estera che non si limitasse ad una generica riaffermazione del principio della “neutralità”, e nella decisa opposizione agli impegni militari dell’Italia, che aveva trovato la sua concreta applicazione nella lotta parlamentare e di piazza contro l’UEO. Al di la di queste poche cose, tutte riconducibili alla posizione di politica estera assunta fin dal congresso di Firenze del 1949, non c’è niente di sostanzialmente nuovo al congresso di Torino: se non per quanto riguarda la nota di ottimismo sugli sviluppi positivi della situazione internazionale, verso una condizione di minore tensione tra i blocchi. Questa fiducia nella distensione, che sempre caratterizza la posizione internazionale dei socialisti Italiani, fa però velo alla comprensione della reale situazione dei rapporti politici e militari fra i blocchi, togliendo ai socialisti ogni possibilità di un’efficace iniziativa politica in Italia e in Europa per coagulare su una piattaforma nuova quelle forze che andavano manifestando la loro insoddisfazione per la contrapposizione manichea tra libertà e totalitarismo, tra socialismo e capitalismo. Essa toglieva forza anche al tentativo incipiente del PSI di svolgere il ruolo autonomo di protagonista della politica di “apertura a sinistra” che esso stesso andava indicando come l’unica via d’uscita alla situazione d’involuzione nella quale rischiava di cadere la democrazia italiana e di trascinare in questa caduta tutte le conquiste ottenute dalla classe lavoratrice con la lotta di Resistenza e con la vittoria del 2 giugno 1946. Questo perché è proprio sul terreno della politica estera che affonda le sue più salde radici l’intesa frontista con il PCI, secondo le parole dello stesso Rodolfo Morandi in questo congresso di Torino. È Morandi infatti a definire la politica “unitaria” come “comune opposizione a ogni attentato all’indipendenza della nazione e alla pace nel mondo, presupposti indivisibili della libertà e della certezza del lavoro; ciò che doveva tradursi nell’avversione all’intervento economico e militare degli Stati Uniti in Europa e in Asia, che ebbe inizio con l’enunciazione della famigerata dottrina Truman, dalla quale sarebbero nati il Piano Marshall prima ed il Patto Atlantico poi”. (54)
Nel momento in cui il PSI deve apprestarsi ad un superamento concreto della politica “unitaria” non è sufficiente l’affermazione (questa “a partire dal ’50-51 si concretizza in una azione sempre meglio individuata dei due partiti”) se non vengono affrontati i problemi della distinzione di fondo tra le due iniziative politiche dei rispettivi partiti, sul piano della politica nazionale e su quello della politica internazionale. Senza di che la politica “unitaria” non poteva dirsi superata se non sul piano dei suoi strumenti di applicazione, quello del patto d’unità d’azione, che ormai appartiene al patrimonio in soffitta dei due partiti. La politica “unitaria” resta nei suoi legami organizzativi e strutturali tra i due partiti; resta nei comuni atteggiamenti di solidarietà incondizionata al mondo sovietico, anche se sul piano della politica interna i socialisti sono di fronte al problema di dover operare in condizioni del tutto nuove per evitare al movimento operaio italiano una definitiva sconfitta.
La scelta che essi evitano a Torino, l’impegno che accantonano rispetto ai problemi di una radicale revisione della politica “unitaria” verranno proposti a pochi mesi di distanza dai drammatici avvenimenti internazionali, dalla crisi del mondo comunista che esploderà nel corso del 1956. Nella Cina comunista si preparano, già in quei mesi della primavera 1955, le condizioni della polemica con l’Unione Sovietica. Siamo ad un anno dai grandi rivolgimenti del mondo comunista, in Unione Sovietica come in Polonia e Ungheria.
Nella relazione della direzione e del segretario del PSI, nei discorsi di Morandi, di Lombardi, di Basso, di Vecchietti (che più a lungo si sofferma sui problemi internazionali), di tutto questo non appare traccia. Non c’è il presagio di questi avvenimenti che scuoteranno l’organizzazione dei blocchi; non vi è neppure la sensibilità ai sintomi che già precorrono le vicende che si svilupperanno dal 1956 in poi.
Nel mondo sovietico una lotta accanita si svolge, dietro le quinte, tra gli epigoni di Stalin. La crisi dei regimi stalinisti in Ungheria, in Polonia, in Romania volge ad un epilogo drammatico. I dirigenti che scorazzano su e giù per le capitali del mondo comunista non hanno avvertito nulla, non hanno avuto sentore di nulla. “Tutta Varsavia sapeva, e nessuno parlava”, dirà Nenni al successivo congresso di Venezia, rievocando, in un uragano di applausi, gli avvenimenti della Polonia sotto il terrore staliniano. A Torino un applauso addirittura oceanico, cronometrato “un minuto primo e 55 secondi”,(55) saluta invece l’affermazione che il valore della politica “unitaria” tra PSI e PCI è fuori discussione. Un applauso che accomuna il gruppo dirigente del PSI a quello comunista: cioè con coloro che a Roma, come a Varsavia, come a Mosca, come a Budapest “sapevano”. Ma “nessuno parlava”. Nessuno parlava anche al congresso di Torino, a poca distanza dalle repressioni antisindacali alla FIAT, ma a molta distanza dalle repressioni poliziesche dei regimi stalinisti ancora in piedi nei paesi dell’Europa orientale.
Tutto ciò che riguarda il mondo comunista, ed il cataclisma che Kruscev susciterà al XX congresso dell’PCUS, viene liquidato dal gruppo dirigente socialista in queste poche righe della relazione congressuale: “Non appena si è delineata nel mondo una prospettiva di allentamento della tensione internazionale, l’URSS e le democrazie popolari si sono affrettate ad incrementare la produzione dei beni di consumo rispetto all’industria pesante e a ridurre le spese militari con importanti conseguenze di ordine interno e di ordine internazionale”.(56)
Non si sa bene se occorra mettere in risalto più l’imperturbabile capacità di nascondere ai lavoratori ed ai quadri socialisti la realtà dello stalinismo, oppure la completa insensibilità ai problemi del movimento operaio, della sua partecipazione democratica alla edificazione del socialismo, e la completa insensibilità alle questioni di fondo della situazione mondiale, che pure, si afferma, condizionano pesantemente le tendenze di sviluppo della situazione interna, e da esse si fa dipendere la stessa “individualità” della politica del partito. In realtà lo schema entro il quale ci si muove, senza nessuno sforzo neppure di aggiornamento (e siamo a due anni dalla morte di Stalin), e ancora e sempre quello della contrapposizione manichea tra il mondo del capitalismo e quello del socialismo. Le cause di inasprimento o di allentamento della tensione internazionale sono da ricercare, secondo la direzione socialista, sempre ed esclusivamente nella politica americana; così come nella gravosa tutela americana sul nostro paese sarebbe da ricercare la ragione dell’involuzione antidemocratica del governo nazionale. Perfino un leader dell’autonomismo (per quanto ben mimetizzato, in quegli anni) come Riccardo Lombardi non sfugge al semplicismo di questo schema.
Cosa contrasta e sconfigge la pervicace politica aggressiva del blocco occidentale guidata dagli Stati Uniti d’America? Naturalmente e la volontà di pace dell’Unione Sovietica, che si desume come petizione di principio dall’accettazione dell’URSS come paese-guida del socialismo, che contrasta le mire aggressive del mondo occidentale. “Nelle reiterate proposte sovietiche di riconvocare i Quattro Grandi per risolvere definitivamente la questione tedesca e nella convocazione andata a vuoto della conferenza generale degli Stati europei per organizzare la sicurezza continentale europea, c’è quanto basta a distruggere la leggenda dell’aggressività dei paesi dell’Est con la quale si vorrebbe giustificare un ulteriore aumento delle spese militari al seguito dell’America impegnata in una frenetica corsa al riarmo atomico”.(57)
L’aggressività dello stalinismo è pertanto invenzione dei circoli aggressivi statunitensi, e il pericolo per la pace nasce dalla corsa agli armamenti atomici degli USA, cui si accodano i paesi europei. Nelle linee di questa rappresentazione manichea della realtà internazionale si colloca così l’adesione a tutte le proposte sovietiche, adesione che toglie ogni significato alla politica di neutralità propugnata dal PSI e riconfermata al congresso di Torino.
Per quanto riguarda l’analisi della situazione internazionale, tutta l’attenzione del gruppo dirigente socialista appare rivolta alle “contraddizioni” che cominciano a manifestarsi all’interno del mondo occidentale; con una disamina degli avvenimenti e delle forze che in esso operano che non brilla certamente per acutezza ed originalità. Eppure la relazione della direzione non mancava di ricordare che “Lenin osservava come molti degli errori del movimento operaio nel periodo susseguente allo schiacciamento della Comune fossero la conseguenza di un’errata valutazione della situazione mondiale”.(58) Non si accorgevano i dirigenti socialisti che molti degli errori di direzione del movimento operaio italiano in questo dopoguerra erano la conseguenza di una altrettanto errata valutazione della situazione mondiale.
Ecco cosa pensava la direzione socialista di questa situazione nel momento in cui si apre la discussione congressuale: “Lo spirito e la capacità offensiva del blocco capitalista sono in diminuzione. Le formule più arrischiate della politica americana di forza sono state accantonate. Il blocco è diviso e sui problemi asiatici ha rischiato di sfasciarsi nell’estate scorsa mentr’era riunita la conferenza di Ginevra e rischia di andare verso una nuova crisi di fondo per la posizione che l’America assume nella questione di Formosa… In Europa il fallimento della CED è stato solo parzialmente compensato dagli accordi di Parigi sulla UEO… Il riarmo tedesco divide irreparabilmente l’Europa e la stessa Germania, e allarma le popolazioni di tutti i paesi”.(59) Persistono sull’orizzonte internazionale elementi di pericolo, fattori di turbamento, tuttavia, afferma il segretario del partito, “la valutazione posistiva delle prospettive nella difesa della pace che abbiamo dato nella relazione precongressuale può essere confermata dal Congresso”.
Il gruppo dirigente del partito sembra che non sappia o non voglia distaccarsi da una accettazione della strategia frontista, pur ravvisando con esattezza gli elementi d’involuzione della situazione politica generale, ed acquisendo la consapevolezza di una maggiore individualità dell’azione del partito. Vi è al fondo di questa contraddizione più che la naturale vischiosità di ogni classe dirigente a criticare se medesima (per quanto la relazione direzionale si concluda con un richiamo a “ciò che Marx diceva delle rivoluzioni che criticano continuamente se stesse”, “si fanno beffa in modo spietato e senza riguardi delle mezze misure e delle miserie dei loro primi tentativi” ritenendolo valido anche “per gli avvenimenti Italiani degli ultimi dieci anni”) un errore di analisi della situazione italiana ed internazionale. C’è, da un lato, ancora l’ostinazione a identificare l’azione per la pace e la lotta per il socialismo con l’azione internazionale del mondo comunista: il che rende priva di significato reale la politica della neutralità che il gruppo dirigente del PSI ha fatto propria dopo averla criticata quando essa veniva proposta dalla maggioranza “autonomista” del congresso di Genova.
C’è, in secondo luogo, da registrare l’assoluta assenza di una seria e approfondita disamina delle linee di sviluppo della società italiana. Nella sua relazione al congresso, Nenni riconosce che “la società italiana ha fatto certamente dei progressi notevoli nel decennio trascorso. La ricostruzione è assai avanzata”, senza però approfondire le ragioni e le linee di tendenza di un’avanzata capitalistica in forme dinamiche del tutto impreviste dal movimento operaio italiano, ed anche dai socialisti, che avevano contestato lungamente la capacità dei monopoli di promuovere e sostenere il progresso economico del paese, sia pure in forme differenziate e squilibrate, che lasciavano irrisolti “i problemi centrali della società italiana” che possono essere avviati a soluzione con uno “sforzo della collettività e dello Stato” tendente “sempre più a far sparire l’immensa distanza che esiste non soltanto tra ricchi e poveri, ma anche tra il tenore medio di vita e le condizioni di esistenza di una larghissima parte della popolazione, costretta entro limiti sempre più intollerabili”.(60)
Se tutto ciò non è avvenuto, se ciò che lo Stato ha compiuto “negli ultimi dieci anni e del tutto insufficiente e frammentario”, la ragione va ricercata per Nenni nella “tirannia della destra economica, nel fatto che forze economiche, di per sé estremamente potenti in ogni società (i monopoli, la grande industria, la grande proprietà agraria, l’alta burocrazia civile e militare che costituiscono la destra economica e politica), esercitano una specie di tacita ed anche non tacita tirannia, dettando legge al Parlamento, ricattando il governo…”. (61) “C’è stato un tempo in cui si è potuto dire che il tarlo segreto della società italiana fosse il misoneismo, la ristrettezza di visione del ceto padronale, soprattutto agrario. Questo fenomeno esiste tuttora, ma accanto ad esso è sorta la potenza dei monopoli. La grande azienda, elemento di progresso, ha dato luogo ai trusts, alle boldings, alle società a catena, cioè a quel complesso di attività monopolistiche che concentrano nelle mani di pochi una potenza economica e politica che soffoca la vita democratica del paese, crea un nuovo feudalismo, pone allo Stato i due problemi del controllo e della nazionalizzazione, se esso non vuole essere soverchiato. Diceva Roosevelt che 1a libertà di una democrazia non è sicura se il popolo tollera l’aumento di potere economico privato sino al punto in cui diviene più forte dello Stato democratico stesso””.(62)
Nenni che, come lui stesso confessa, non si trova in grado di poter compiere una più approfondita analisi dello sviluppo dell’economia capitalistica, intuisce tuttavia con la sua fine sensibilità di politico qual è il vero problema che si pone di fronte al movimento operaio in una società che si avvia ad un livello elevato di industrializzazione: quello dei rapporti tra lo Stato ed il potere economico delle grandi concentrazioni industriali, finanziarie, agrarie. Il controllo delle leve di direzione del processo di sviluppo economico può infatti avvenire solo a livello del potere statale. Lo sviluppo dello Stato come struttura economica, l’estensione delle sue attività e dei suoi interventi in ogni settore della vita produttiva, intesa nel senso più ampio, dalla produzione alla distribuzione, ne fa il volano di direzione di tutta la vita economica nazionale.
La politica frontista isolando il movimento operaio ed escludendo lo schieramento delle sinistre dalla direzione della società e dello Stato, ha permesso proprio alle forze economiche private di esercitare una pressione e un controllo efficaci sull’uso degli strumenti pubblici di direzione e di controllo dell’economia nazionale. L’assenza delle forze popolari dal governo del paese ha permesso a quelle forze economiche e politiche che erano enormemente indebolite dal crollo del regime fascista di risollevare il capo e di usufruire in proprio del flusso imponente di aiuti americani per operare lungo le linee di una ricostruzione che, insieme alla ripresa economica del paese, assicurava la ripresa del tradizionale predominio delle classi capitalistiche.
Non era forse in questa situazione che la direzione socialista constatava a Torino la conferma dell’esattezza dell’analisi compiuta dall’on. Riccardo Lombardi, quando proponeva al congresso dell’Astoria (1947) ed ai successivi congressi la prospettiva politica di una iniziativa propria del partito per operare nell’ambito della realtà del piano Marshall onde sottrarre l’uso degli aiuti e delle commesse americane al controllo esclusivo dei gruppi economici privati, e dare al movimento italiano una capacita d’intervento che avrebbe contestato ai gruppi monopolisti le posizioni di potere che essi avevano recuperato, esteso e rafforzato proprio in virtù dell’isolamento cui la politica comunista aveva condannato i lavoratori Italiani?
Nenni e la direzione del PSI (Lombardi compreso) sembrano badare meno alla critica del passato che alla necessita di prospettare e definire una linea d’azione che permetta alla classe lavoratrice italiana di trovare una via d’uscita dal vicolo cieco in cui è stata cacciata. Il partito, e soprattutto i suoi quadri intermedi e i dirigenti di formazione morandiana, sono talmente imbevuti della mitologia unitaria somministrata a piene mani nel corso degli ultimi anni, che aprire un discorso sugli errori di questa politica appare più che mai arduo e, forse, improduttivo, almeno a breve scadenza. Solo due anni dopo, con le rivelazioni del XX congresso, i dirigenti socialisti – sull’onda dello “choc” provocato dalle rivelazioni di Kruscev – saranno in grado di avviare una radicale revisione della politica frontista.
Ma al congresso di Torino questo non avviene, e probabilmente non poteva avvenire. Il discorso, dalle ragioni della sconfitta del movimento operaio si sposta sulle prospettive di soluzione da dare alla situazione che si e venuta creando, nel senso di uno sviluppo della politica del dialogo con i cattolici per affrontare i problemi dello sviluppo democratico, e della soluzione dei gravi squilibri economici e sociali lasciati aperti dal processo di ricostruzione capitalistico.
Ci si domanda, in questa sede, con quali possibilita reali di successo può essere avviata la politica dell’incontro tra socialisti e cattolici, mentre si riconferma la validità della conquista del potere nella Repubblica democratica insieme con i comunisti, e mentre non si è in grado di svincolare la politica della neutralità dai lacci della solidarietà con il mondo comunista, dei quali la permanenza attiva del PSI tra le fila dei Partigiani della Pace (persino Riccardo Lombardi ne è il vicepresidente mondiale!) rappresenta solo l’aspetto più vistoso.
Pure, esaminando gli atti del congresso di Torino, si ha la sensazione che il gruppo dirigente socialista ritenesse possibile un esito positivo di tale politica a breve scadenza.
Per queste ragioni, nella II legislatura repubblicana, il PSI avvia una tattica più flessibile, che favorisce l’avvio di un dialogo con il movimento cattolico e con la stessa Democrazia cristiana. È il tema, questo, del congresso socialista di Torino (31 marzo – 4 aprile 1955) che è il XXXI del partito. Nenni, nella sua relazione, lancia l’obiettivo dell'”incontro tra le masse socialiste e le masse cattoliche”, che viene accolto dallo stesso Morandi, e sanzionato dalle conclusioni dei lavori congressuali, sia pure con riserve e ambigue interpretazioni da parte dell’apparato.
Tutta l’opinione pubblica ed il mondo politico seguono con crescente interesse l’evoluzione della linea politica del PSI, ed i segni sempre più frequenti che esso dà di maggiore indipendenza dal PCI. I socialisti abbandonano, sia pure senza rotture clamorose, il Movimento dei Partigiani della Pace, cui avevano preso parte negli anni della politica “unitaria”, sviluppando invece i loro contatti con vari partiti dell’Internazionale socialista, accentuano la loro propensione per una politica di distensione nel mondo, pongono l’esigenza di un superamento della contrapposizione tra blocchi contrapposti.
Un’occasione storica viene dalla denuncia dei crimini dello stalinismo fatta da Kruscev nel suo rapporto al XX congresso del PCUS nel 1956.
Il decesso di Morandi segna la fine di un’epoca, essendo egli stato l’alfiere della politica “unitaria”, anche se gli ultimi due anni della sua vita lo avevano visto più attento alle esigenze di far corrispondere l’azione del PSI ai problemi dello sviluppo della democrazia italiana.
S’inizia una fase nuova del PSI. Nell’estate del 1956 c’è a Pralognan l’incontro tra Nenni e Saragat, nel quale i due leader attestano il riavvicinamento tra le posizioni ideali e politiche dei due partiti. Ma la reazione dell’apparato che resta fedele in larga misura alle impostazioni morandiane non tarda a venire in luce.
In occasione della rivolta ungherese e della successiva repressione dell’esercito russo che interviene, occupando l’Ungheria, tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, il conflitto tra quelle che ormai sono due anime antitetiche del socialismo esplode: mentre i “nenniani” (cioè, oltre il segretario del partito, Lombardi, Mazzali, De Martino, Mancini, Cattani ed altri) condannano duramente l’invasione sovietica, la “sinistra” (Vecchietti, Valori, Lizzadri, Gatto) ne prendono le difese. Da allora, questa corrente verrà chiamata “carrista”, appunto perché in quella occasione appoggiò i “carri armati” che entrarono a Budapest.
I conti vengono fatti al congresso che si svolge a Venezia, dal 2 al 7 del febbraio 1957. Era il XXXII dei congressi socialisti, e fu certamente un congresso di portata storica. Esso fu accolto dal saluto del cardinale Roncalli, allora titolare della diocesi di Venezia, che dopo pochi anni sarebbe divenuto papa Giovanni XXIII. Seguito con attenzione da tutto il mondo politico nazionale, e da molti settori internazionali, a cominciare da quelli del socialismo europeo, rappresentati a Venezia dal prestigioso leader laburista Aneurin Bevan, esso si svolse in un clima di grande tensione politica, dominato dalla personalità di Nenni, che vi tenne un discorso tra i più belli della sua lunga carriera, e che commosse il pubblico dei delegati e degli invitati. Nenni rievocò con accenti indimenticabili l’oscura notte dello stalinismo, ricordando come “a Varsavia, tutti sapevano e nessuno parlava”. Affondò con lucidità la sua critica storica e politica, ribadendo quanto già scritto su Mondo operaio, che bisognava “risalire dagli errori di Stalin alla natura del sistema”; rivendicò la natura democratica del socialismo in contrapposizione a quella totalitaria del comunismo al potere; e, per quanto riguardava la situazione italiana, definì i tratti salienti dell’autonornia socialista, dell’iniziativa del PSI, volta a creare un’alternativa democratica al “centrismo”.
Gli oppositori non osarono venire allo scoperto. Accettarono formalmente l’impostazione nenniana, votando all’unanimità il documento conclusivo, ma nelle votazioni a scrutinio segreto per l’elezione del comitato centrale manovrarono in modo da ottenere la maggioranza.
Tuttavia, gli uomini dell’apparato non ebbero né potevano avere la possibilità di assumere la guida del partito, che rimase affidata a Nenni, rieletto segretario, affiancato daben quattro vicesegretari: due della “sinistra”, Basso e Vecchietti; due “autonomisti”, Mazzali e De Martino.
Nonostante il colpo di mano nelle votazioni per il comitato centrale, il congresso dimostrò al paese che l’affima politica del PSI era fervidamente autonomistica e democratica. Al congresso portarono la loro adesione l’USI (Unione Socialisti Indipendenti) di Valdo Magnani ed Unità Popolare, la formazione che si era costituita contro la legge maggioritaria nel 1953, e che aveva tra i suoi uomini più rappresentativi, oltre a Parri, che però non entrò nel PSI, Calamandrei, Codignola, Vittorelli.
Pochi mesi dopo, confluiva nel PSI il MU1S, costituita dalla sinistra socialdemocratica di Zagari, Matteotti, Solari, Manca, che si era scissa dal PSDI, il partito di Saragat.
La linea nenniana fu premiata alle elezioni dellanno seguente il congresso di Venezia, nel 1958, quando il PSI conseguì il suo miglior successo in voti, dopo il massimo storico del dopoguerra, del giugno 1946.
Le liste socialiste ottennero il 14,3%, e tutta una nuova generazione di dirigenti entrò a far parte del Parlamento.

Capitolo 9

IL PARTITO SOCIALISTA NEGLI ANNI DELL’AUTONOMIA

Dal congresso di Venezia al congresso di Napoli

La valutazione critica dell’efficienza della politica “unitaria” a risolvere il problema dell’inserimento delle masse popolari nella direzione dello Stato; e, insieme, l’acquisizione del nesso inscindibile di socialismo con democrazia e libertà, sollecitata dall’esplodere della crisi dello “stalinismo”, sono a fondamento di un graduale quanto spregiudicato approfondimento della politica seguita dal 1949 in poi, e, con essa, della struttura organizzativa che il partito s’era data.
Così ad una scelta di fondo tra politica “unitaria” e politica di “autonomia”, corrisponde il ripensamento critico del “centralismo democratico” e della natura autoritaria, burocratica, insita in tale sistema. Dal congresso di Venezia (febbraio 1957), nel quale la volontà “autonomistica” del partito viene deformata nella selezione del gruppo dirigente dal permanere del sistema delle false unanimità, al congresso di Napoli (15-18 gennaio 1959), che vede l’affermazione della corrente autonomista, il PSI percorre la strada della demistificazione del monolitismo di partito, che riceve il più duro colpo dall’esplicito manifestarsi delle sue correnti interne.
“Il coraggio che ha comportato il sacrificare l’unanimità in parte fittizia degli ultimi anni alla ricerca della chiarezza ideologica, politica e di metodo – afferma Nenni nella relazione al XXXIII congresso – ha evitato al partito il peggiore. dei rischi ai quali era esposto: la prevaricazione del burocratismo sulla libera formazione della volontà politica della massa dei nostri aderenti”.
La lotta per l’autonomia passava dunque per la denuncia del burocratismo e del “centralismo democratico”, che dell’autonomia sono la negazione. E Nenni, infatti, proseguiva:

“Noi non soffriamo nel nostro partito di elefantiasi burocratica, eppure un eminente studioso come il compagno Dal Prà ha colto in un acuto intervento nella Tribuna precongressuale uno degli aspetti delle nostre difficoltà interne quando ha constatato come si sia creato un diaframma fra gruppo dirigente e realtà politica e come sia necessario che lo spirito burocratico sia combattuto direttamente e frontalmente dallo stesso movimento socialista. In senso generale, la sua tesi che la scelta del congresso di Napoli sia tra socialismo burocratico, attendista e conformista, e socialismo costruttivo è valida per il nostro modo di essere all’interno del partito, per la nostra concezione del partito, non meno per l’indirizzo politico che intendiamo darci”.
Troviamo in questa relazione di Nenni la più acuta e spietata contestazione del “centralismo democratico” allorché egli ricorda che “il Partito socialista non è qualcosa di staccato e di sovrapposto alle masse, non è una scuola per agitatori professionali e per uomini politici che manipolano le masse come lo scultore manipola l’argilla, ma è l’espressione della classe lavoratrice organizzata per la sua emancipazione”.
Quali erano stati gli effetti del centralismo democratico? “Il partito – proseguiva il segretario del PSI – ha faticato a trovare la propria strada perché andava perdendo l’abitudine alla discussione, perché andava spoliticizzandosi, perché della vita democratica praticava più gli aspetti formali che quelli sostanziali; perché andava assuefacendosi ai miti, il mito delle parole e delle etichette, e alla più prestigiosa di esse nel nostro paese: “sinistra”, e al mito della personalità.
“Sono cose alle quali dobbiamo tutti fare attenzione nell’avvenire. Nella organizzazione occorre essere attenti a non sacrificare la democrazia al centralismo trasformando quest’ultimo in supercentralismo. Si finirebbe allora per realizzare, anche nel partito, ciò che Marx diceva della burocrazia, e cioè che essa fa dello Stato la sua proprietà privata”.
Il quadro che abbiamo innanzi tracciato del Partito socialista negli anni del centralismo democratico, ed i forti residui che esso ha lasciato nella vita dell’organizzazione, ci sembrano pienamente confermati da questa lucida testimonianza del segretario del PSI.
Il passaggio dalla unanimità “al regno o governo della maggioranza” è visto da Nenni nel contesto della acquistata consapevolezza del legame inscindibile tra democrazia e socialismo, susseguente alla presa d’atto della crisi del sistema stalinista nei paesi comunisti.
Cosicché, conclude Nenni, “è certo, in ogni caso, che una regola interna di organizzazione la quale ponga fortemente l’accento sulla formazione democratica che intende dare ai quadri ed ai militanti è in perfetta armonia con l’impegno democratico del nostro congresso di Venezia. Essa non ha niente a che vedere col partito cosiddetto d’opinione, ed esige al contrario un partito fortemente e modernamente organizzato al fine di elevare e dilatare la vita democratica di base facendo cadere ogni diaframma tra gruppo dirigente e realtà politica e sciogliendo i nodi burocratici, se ne esistano e dove esistano”.
In questi brani della relazione Nenni al congresso di Napoli sono in nuce tutti i problemi della crisi del centralismo democratico e della trasformazione del partito strutturato sulle regole del centralismo, in partito democratico moderno.
Tuttavia i temi prospettati da Nenni non vengono ripresi che marginalmente nella discussione congressuale, tutta impegnata sulla tematica della politica di autonomia e portata a disconoscere l’importanza dei problemi della struttura organizzativa, che a quelli della politica di autonomia sono invece strettamente connessi.
La stessa risoluzione della maggioranza non fa cenno alle questioni del partito, se non per ritornare sul tema dell'”unità socialista” per auspicarne l’attuazione non più. mediante un processo di riunificazione tra i due partiti, come era stato deciso al congresso di Venezia, ma nell’interno del PSI come “unità dei socialisti nel PSI, e quindi confluenza nel PSI di forze e gruppi socialisti, su una piattaforma democratica, classista e internazionalista”.
Restano così irrisolti i problemi della trasformazione organizzativa; su tali questioni il dibattito tra le correnti si riduce alla schermaglia tra la “sinistra” che accusa gli “autonomisti”di trasformare il partito di “massa” in partito di “opinione”perseguendo una politica “socialdemocratica” di rottura dell’unità della classe operaia, e gli “autonomisti” che si limitano a confutare tali accuse.
Quello di Napoli fu il congresso della piena affermazione della linea nenniana; che sancì la conquista autonomistica del partito e pose le premesse per concretizzare il dialogo, già avviato, tra il PSI e le forze democratiche.
Vi furono al congresso tre posizioni: oltre a quella nenniana, che ebbe il 58,30%, ed alla “sinistra” (32,65%), ci fu una mozione di Basso che raccolse l’8,73%. Forti della maggioranza assoluta, gli autonomisti fecero eleggere dal comitato centrale (del quale, per la prima volta, faceva parte Craxi) una direzione monocolore, di 15 membri, con Nenni segretario e De Martino vicesegretario.
La nuova direzione si trovò ad operare politicamente in una situazione difficile, con la polemica comunista d’un lato, e la reazione delle destre che paventava un accordo DC-PSI, con l’ingresso del partito storico dei lavoratori Italiani nella direzione dello Stato, dall’altro.
La situazione divenne più grave e carica di rischi per la democrazia, con il governo Tambroni, il quale fu costretto a dimettersi per la reazione popolare, ma soprattutto per l’intesa tra i partiti democratici, cui il PSI prese parte, che fu detta da Moro delle “convergenze parallele”. Essa permise la costituzione del governo monocolore presieduto da Fanfani. Su di esso i socialisti danno la loro astensione.
Dopo le elezioni amministrative del 6 novembre 1960, s’avvia, a livello locale, l’esperienza degli accordi di centrosinistra tra PSI, DC, socialdemocratici e repubblicani. I primi grandi comuni nei quali si attua tale intesa sono Milano, Genova, Firenze.
La percezione esatta di questa situazione si trova, ancora una volta, nell’anafisi dei problemi della vita interna e dello sviluppo organizzativo del partito, compiuta da Nenni nella sua relazione al XXXIV congresso del partito (Milano, 15-19 marzo 1961). “Il frazionismo è stato la malattia interna del partito da quattro anni in qua, in maniera subdola dal congresso di Venezia a quello di Napoli, aperta da Napoli in poi”, osserva Nenni, e prosegue: “Da Napoli in poi il fatto più impressionante è la rigidità delle correnti tramutatesi in frazioni. Non c’è stata sessione di lavoro del CC, non c’è stato un voto in cui le frazioni non si siano riconosciute quasi automaticamente come nel Parlamento i gruppi dei diversi partiti. In tali condizioni la maggioranza del CC ha finito per dover assumere da sola la responsabilità della direzione del partito. Quando si è posto il problema dell’integrazione
della direzione non si è potuto ottenere che esso venisse subordinato al fine delle correnti organizzate”.
E qui Nenni cita una serie di episodi di aperta ribellione della minoranza alle decisioni congressuali, dall’ostilità nei confronti dell’adesione del MUIS (la sinistra socialdemocratica uscita dal PSD1 nel 1959 e confluita nel PSI) alla lettera dei 44 parlamentari in occasione dell’astensione al governo Fanfani succeduto al governo Tambroni. “Tutti gli argomenti polemici contro il partito – dichiara Nenni – sono stati forniti dal partito stesso. Durante la campagna elettorale l’attacco al partito, sia da parte dei comunisti, sia da parte della Democrazia cristiana e della destra, ha potuto fondarsi su pezze di appoggio fornite a getto continuo dalla stampa di frazione”.
Di fronte a questi episodi la direzione autonomistica avrebbe potuto intervenire energicamente anche sul terreno disciplinare, in base all’art. 2 dello statuto che sancisce il divieto delle frazioni. “La direzione non se n’è avvalsa ed ha fatto bene, perché ha tenuto conto che un problema politico e di costume non si risolve soltanto con misure disciplinari. Il XXXIV congresso è la sede opportuna per discutere la questione e per risolverla nel solo modo possibile: quello di una franca ed aperta discussione di tutti i problemi, quello della disciplina nell’azione nel rispetto non soltanto formale delle decisioni dei congressi e del CC del partito”, conclude la relazione Nenni.

Il congresso di Milano

Il XXXIV congresso discusse, con accuse reciproche tra le correnti, questi problemi; ma nulla riuscì a risolvere, non prendendo nessuna decisione in proposito, nonostante che nella “Piattaforma congressuale degli autonomisti” presentata insieme con la relazione del segretario del partito, fossero contenute alcune precise proposte di soluzione.
Riconoscendo che le correnti si sono “cristallizzate fino a dar vita a rigide organizzazioni verticali”, la “piattaforma congressuale” degli “autonomisti” indicava i pericoli di questa situazione nella conseguenza “fatale” della “conversione del partito di massa a partito d’opinione, rendendo impossibile l’assolvimento della sua funzione autonoma, la quale richiede che esso abbia una presenza e un peso crescenti nelle lotte politiche e sociali.
“Il XXXIV congresso – proseguiva il testo degli autonomisti – deve segnare il punto di partenza per l’assunzione da parte del partito di una pratica organizzativa, corredata da innovazioni delle regole corrispondenti, la quale abbia per scopo precipuo la salvaguardia e il potenziamento, al tempo stesso, dell’unità, dell’efficienza e della democrazia interna del partito. Per il raggiungimento di tali obiettivi è opportuno che il XXXIV congresso dia mandato agli organi che esso eleggerà di fissare le norme statutarie, necessarie a garantire l’attuazione dei seguenti princìpi:
“- Assicurare in ogni momento la libera circolazione delle idee che, da fatto di vertice, deve diventare fatto di base, sottoponendo alla discussione nelle assemblee di partito i temi di azione politica che possano essere motivo di diverse interpretazioni e soluzioni da parte degli organi dirigenti; una tale pratica abilitando il partito alla trattazione di temi specifici e concreti contribuirà ad impedire la crescente frattura esistente oggi fra partito e popolazione, particolarmente fra partito ed i giovani.
“- Formulare una linea e una pratica che faccia dell’organizzazione di partito e dei quadri che ad essa si dedicano, uno strumento in ogni momento garante, sia dell’esecuzione della politica del partito che della libertà di espressione, e quindi dei diritti delle minoranze; costituire gli organi dirigenti, direzione compresa, con tutte le correnti vietando al tempo stesso le frazioni. Una cura particolare deve essere dedicata all’apparato del partito ed al rinnovamento dei quadri. Bisogna sapere utilizzare tutte le energie ed in specie quelle giovanili assicurando così la continuità storica del partito, combattendo la costituzione di gruppi personali e le degenerazioni di carattere elettoralistico. Il lavoro del partito deve fondarsi essenzialmente sull’attivita volontaria: i compagni funzionari hanno particolare responsabilità e, nel pieno rispetto delle singole opinioni, sono impegnati, al pari di tutti gli altri compagni, a seguire la politica decisa dal partito”.
La posizione della “sinistra” veniva invece espressa, in polemica con gli “autonomisti”, nei termini seguenti: “Dobbiamo dire con assoluta franchezza che oggi il Partito socialista non è, per la sua struttura organizzativa e per la situazione interna, all’altezza dei compiti che gli stanno di fronte nella lotta per la democrazia e per il socialismo. I suoi strumenti di elaborazione, di lavoro e di lotta son ancora quelli tradizionali, in sempre più chiara contraddizione con le esigenze più complesse delle lotte contemporanee; la sua divisione interna, e particolarmente il modo come essa si esplica, costituisce un serio freno alla espansione ideologica e politica del partito, alla necessità che si pone con carattere di urgenza, di un assai più vasto suo collegamento con le grandi masse popolari e coi nuovi problemi che esse esprimono.
“La cristallizzazione in correnti o frazioni finisce con l’accelerare pericolosamente un processo di involuzione in senso socialdemocratico. La divisione in correnti è stata imposta alla minoranza di sinistra dal modo come la maggioranza, dopo il congresso di Napoli, ha organizzato il lavoro di direzione politica del partito. La requisizione di ogni effettivo potere non solo di decisione, ma persino di effettiva elaborazione della linea politica, da parte della maggioranza, il funzionamento della direzione come comitato di corrente della maggioranza, la riduzione del comitato centrale a organo di registrazione e di ratifica delle posizioni politiche assunte dalla direzione e dalla segreteria del partito, la pratica impossibilità di discutere democraticamente, in termini di analisi di situazione e di elaborazione di una prospettiva politica, in seno al comitato centrale, e persino in seno alla stessa direzione maggioritaria, il fatale scadimento della partecipazione dei compagni alla costruzione della politica, essendo essi chiamati solo a dire sì o no a posizioni già prese al vertice del partito, tutto ciò ha imposto alla minoranza di sinistra di mantenere salvo, nei limiti del possibile, un centro di elaborazione e di vita democratica.
“Sotto questo aspetto la corrente di sinistra ha dato un importante contributo alla coesione e alla unità in una fase nella quale la sfiducia e la mancata partecipazione democratica di larghi settori del partito potevano trasformarsi in pericolosi e irreparabili distacchi.
“Ma questa situazione, che la minoranza di sinistra ha subito suo malgrado, è estremamente pericolosa, e si pone la necessità, nel pieno rispetto delle diverse posizioni interne di partito, di restituire agli organi di direzione, a ogni livello della organizzazione, il funzionamento attivo e collegiale, che sia democratico non solo nella forma ma anche nel contenuto, cioè nel fatto di impegnare tutte le forze del partito, pur nella disciplina delle decisioni maggioritarie, al comune lavoro di decisione e di attuazione”.
Quanto a Lelio Basso, ed alla sua piccola corrente di Alternativa democratica, nel documento preparato per il congresso si proponeva di sollecitare una discussione di fondo sui problemi del partito, auspicando la costituzione di un partito di “tipo nuovo”, ma non meglio precisato nelle sue strutture e nel suo meccanismo, tutto ciò essendo lasciato alla interpretazione di volenterosi lettori della prosa bassiana.
Si chiedeva infatti di “creare un partito di tipo nuovo anche nelle sue strutture organizzative. E chiaro a chiunque che il partito ha oggi scarsi contatti con la vita reale, con l’esperienza quotidiana delle masse: l’assenteismo domina nelle sezioni, gli ingranaggi dell’azione quotidiana che dovrebbero collegare il partito alle masse sono arrugginiti. Non si tratta soltanto di tonificare le organizzazioni di base esistenti, oggi praticamente inefficienti, ma di creare organizzazioni nuove più agili, più articolate, più differenziate, capaci di tenere il passo con il ritmo sempre più vivace della vita del paese; di inserirsi in tutti i campi di attività, di lavoro, di studio; di affrontare, i problemi reali da cui dipende l’avvenire del paese e di interessare ed impegnare su questi problemi, a sostegno di soluzioni studiate e preparate in comune, i lavoratori delle fabbriche e la gioventù della scuola, la gente delle campagne e delle zone più arretrate ed insieme i tecnici dell’industria più moderna, promuovendo una circolazione continua di idee e propositi, di suggerimenti e di critiche, fra iscritti e rappresentanti, fra la base ed i dirigenti, fuori delle formule stantie di una organizzazione sclerotizzata.
“Non è questa la sede per tracciare anche un piano organizzativo della vita di partito, ma dev’essere chiaro che una rinascita democratica in Italia non ci sarà se non ci sarà a promuoverla un partito fortemente democratico, non nelle sue enunciazioni verbali ma nella realtà della sua vita interna.
“Primo compito di un partito democratico dev’essere quello di realizzare la partecipazione reale alla vita politica intesa nel suo senso più largo e l’impegno permanente dei suoi iscritti e possibilmente dei suoi simpatizzanti, sollecitandone la maturazione della coscienza, orientandone e dirigendone l’attività verso compiti che rispondano alla capacita di ciascuno”.
Al di là della polemica congressuale, si riscontra una valutazione sostanzialmente univoca tra le correnti sullo stato organizzativo del partito, sulla sua inadeguatezza alla realtà nuova della società italiana, ai compiti ed alle funzioni democratiche che esso deve assolvere nel paese. Ma alla diagnosi dei mali non corrisponde, nei fatti, alcuna cura radicale.
Le proposte concrete degli autonomisti vengono tutte respinte dal congresso: viene rinviata la costituzione del Consiglio nazionale con funzioni consultive; viene accantonata la proposta avanzata da De Martino di un ampliamento del numero dei membri del comitato centrale, diretto a inserire nuovi quadri nelle sedi decisionali del partito. L’unica proposta che trova attuazione dopo il congresso è quella della costituzione della Federazione giovanile socialista, sulla base di una reale autonomia funzionale del movimento nel quale sono organizzati i giovani socialisti.
Non affrontiamo in questa sede i problemi relativi all’organizzazione giovanile socialista, che investono senza alcun dubbio questioni fondamentali nel rapporto tra l’azione e il pensiero socialista e le esigenze più avanzate che per loro natura i giovani esprimono. Diciamo soltanto che la presenza del PSI tra le masse giovanili è troppo debole al pari di quella degli altri partiti di “massa”. Dai dati resi pubblici in occasione del convegno costitutivo della Federazione giovanile socialista (Reggio Emilia, novembre 1961) risultavano effettivamente iscritti al PSI non oltre 40.000 giovani sotto i 25 anni; vale a dire meno del 10 per cento.
Questi dati rendono abbastanza chiaramente l’idea dell’invecchiamento dei quadri militanti e dirigenti del partito: nel quale si registra il fenomeno conseguente del divario crescente tra le generazioni del primo dopoguerra e le generazioni degli anni Cinquanta. Il problema che tale situazione propone in forma acuta è quello dello svecchiamento dei quadri dirigenti locali e nazionali, ancorati in gran parte a vecchie concezioni organizzative, formatisi in un lavoro attivistico lodevole ma insufficiente ove non venga integrato da una formazione culturale-politica che sovente le stringenti necessità dell’azione impediscono oggettivamente di affrontare.

Il problema dell’apparato

Abbiamo già visto come il problema dell’apparato sia stato affrontato solo in forma generica dai dirigenti del PSI, i quali, all’atto del passaggio dalla politica “unitaria” a quella “autonomista”, si sono trovati di fronte al problema politico dell’apparato, nel senso della necessità di orientare a favore della nuova politica la parte più consistente dei quadri funzionari ai quali nell’epoca morandiana erano stati attribuiti almeno di fatto poteri pressoché assoluti (in particolare modo ai membri degli esecutivi federali).
Risolto positivamente questo problema, soprattutto per lo spostamento degli apparati delle grandi città su posizioni autonomistiche, la discussione riguardo agli apparati, sul potere dei, funzionari-dirigenti, sulla loro qualificazione politico-sociologica è stata del tutto abbandonata.
L’apparato dei funzionari-dirigenti è considerato nel PSI – giustamente – come elemento indispensabile per l’esistenza del partito, per la sua espansione politica ed organizzativa, per la sua funzionalità di organizzazione di massa; è considerato, inoltre, come condizione stessa per una vita democratica che assicuri la partecipazione di base alle decisioni politiche ed all’attuazione di esse. Un partito senza apparato è addirittura inconcepibile in una moderna democrazia, che e appunto una democrazia di partiti. Ma il problema che si pone e quello innanzitutto del modo di formazione di selezione dell’apparato dei funzionari dirigenti, dei limiti al suo potere politico che non può essere naturalmente assoluto ed esclusivo, se non a pena di spegnere ogni possibilità di vita democratica del partito.
L’apparato dei dirigenti funzionari deve innanzitutto rinunciare alla pretesa di costituire il corpo di direzione esclusivo del partito: esso costituisce una componente fondamentale della esistenza e della funzionalità del partito. Accanto ad esso, altre zone del movimento socialista organizzato devono trovare la loro rappresentanza negli organi direzionali ed esecutivi del partito, a tutti i livelli. Il partito, cioè, non può essere diretto esclusivamente dall’apparato, o da membri dell’apparato che siano ascesi a posizioni di potere pubblico esterne al partito grazie all’appoggio determinante dell’apparato medesimo. Se così avvenisse, la tendenza oligarchica insita in ogni organizzazione politica si consoliderebbe a discapito della vita democratica, degli interessi di tutti gli iscritti all’organizzazione.
La democrazia interna di partito è assicurata dalla socializzazione del potere interno, che si proietta nel potere politico di decisione che il partito ha nel sistema politico generale.
E questa socializzazione del potere politico interno del partito può sorgere soltanto dalla garanzia della reale rappresentanza a livello decisionale di tutte le zone del movimento politico che il partito organizza.
Gli organi dirigenti locali e nazionali vanno pertanto considerati come il punto di incontro di tutte le componenti del movimento organizzato: l’apparato dei funzionari; gli attivisti volontari; i rappresentanti del partito nei pubblici poteri (Parlamento, Enti locali, aziende municipalizzate ecc.); i rappresentanti degli organismi collaterali, di natura sindacale, culturale, assistenziale. Il partito infatti, come termine intermedio tra la società civile organizzata nei suoi interessi economici, sociali e culturali ed i pubblici poteri, non può identificarsi, soprattutto nei suoi organi decisionali, con il movimento organizzato degli interessi di categoria (come vorrebbero certe tendenze anarco-sindacali); ne con le sue rappresentanze nel potere pubblico. Ma dev’essere il punto d’incontro delle une e delle altre; l’organismo di omogeneizzazione e di selezione degli interessi organizzati nella società civile, e di rappresentanza di questi interessi a livello dei pubblici poteri.
Un partito a struttura indiretta è un organismo largamente articolato nelle sue componenti e deve essere, quindi, altrettanto articolato nei suoi organi di decisione e di esecuzione.
Un’organizzazione funzionale – qual è quella del partito a struttura indiretta – deve pertanto avere una direzione altrettanto funzionale, che non si può identificare con l’apparato, ma bensì rappresentare tutte le componenti: quella territoriale, e quella delle organizzazioni collaterali; quella delle rappresentanze dei pubblici poteri, e quella dell’attivismo volontario e del lavoro retribuito dei funzionari.
L’adozione di questo criterio comporta una regola elastica, interpretata in forma sperimentale, naturalmente, che è quella della ripartizione dei posti negli organismi decisionali ed esecutivi tra le varie componenti della vita del partito.
Ad esempio, l’organo esecutivo di una federazione dovrebbe essere composto non più, come avveniva per il passato, ed avviene sovente anche per il presente, dai dirigenti funzionari e dai consiglieri comunali e provinciali o dal deputato locale.
Esso verrebbe ad essere composto da un numero x di funzionari dirigenti; da un numero x di consiglieri comunali e provinciali; da uno dei deputati e senatori locali; da un numero x di iscritti al partito non funzionari; da un numero x di rappresentanti degli organismi collaterali.
Questo esempio ha ovviamente un valore puramente indicativo. Ma una regola rigorosa dovrebbe ovviare alla tendenza ormai irresistibile ad attribuire ai membri della direzione nazionale del partito la qualifica parlamentare.

L’apparato parlamentarizzato

La pressoche totale “parlamentarizzazione” della direzione nazionale del partito, reca con sé il rischio di una identificazione del partito con la sua rappresentanza parlamentare, con gravi conseguenze sul piano del costume (la corsa alla funzione dirigente come trampolino di lancio per la carriera parlamentare e governativa) e, sul piano politico, nel senso di uno spostamento di tutto il potere di decisione nel giro degli interessi e delle esigenze del gioco parlamentare, facendo declinare l’organizzazione partitica a semplice macchina per la raccolta dei voti e per la propaganda di parte.
Noi consideriamo la parlamentarizzazione del gruppo dirigente del partito come il frutto più negativo del sistema del centralismo democratico, che postulava una organizzazione di partito chiusa, un potere politico e parlamentare, di decisioni interne ed esterne, concentrato in poche mani, controllato dall’apparato.
Il superamento del centralismo democratico pone perentoriamente l’esigenza di limitare il numero dei parlamentari ed anche, se vi fossero, dei ministri negli organi dirigenti nazionali. Ciò che non significa affatto creare le condizioni di una inconcepibile distinzione tra partito e gruppo parlamentare; ma significa il rispetto della rappresentatività degli interessi e delle forze che il partito organizza, fondamento di un equilibrio dinamico della vita del partito, e garanzia delle condizioni per la partecipazione democratica.

Il monopolio delle dirigenze

Lo stesso problema si pone per il comitato centrale del partito. Il numero ristretto dei suoi componenti ne fa un organo di monopolio verticale del potere di decisione politica, con un elevato grado di elettoralizzazione dei suoi membri.
Una concezione gelosa, esclusiva delle prerogative del comitato centrale potrebbe, in linea teorica, giustificarne o almeno spiegarne la formazione così ristretta, il criterio del numerus clausus che impedisce, di fatto, un reale ricambio del gruppo dirigente nazionale del partito.
Nel XXXIV congresso nazionale fu avanzata dal vicesegretario del partito una proposta di modifica dello statuto, diretta ad allargare il numero dei componenti del comitato centrale. Tale riforma, ritenuta esatta in via di principio, era stata anch’essa rinviata sine die.

Prospettive di un partito nuovo

“Nel difficile cammino per creare nella nostra struttura interna una piena democrazia socialista, che superi ed avanzi quella dei partiti borghesi ed eviti i rischi del centralismo, propri dei partiti comunisti, alcuni passi sono stati compiuti ma molto rimane ancora da fare. Si tratta di fare degli organi dirigenti la guida morale e politica, non la gerarchia burocratica del partito, si tratta di rendere sempre più partecipi e protagonisti dell’elaborazione della linea del partito tutti i suoi militanti, si tratta di demolire false gerarchie del passato a cominciare da quella che distingueva tra compagni qualificati e non qualificati, nel che si contiene in germe la radice di quell’errore che conduce alla mitica esaltazione del capo, all’intrusione del Fúhrerprinzip nelle file del movimento socialista, non molto lontana da quella del pastore dei popoli; si tratta di restituire sempre di più il partito alla sua reale dimensione umana, alla sua natura di libera associazione di uomini, di combattenti per una idea, i quali recano al grande patrimonio comune ciascuno la propria soggettiva esperienza, i propri valori morali nati nel travaglio di una crisi di coscienza o nel fuoco di una lotta sociale o nell’ondata vittoriosa della liberazione antifascista, ciascuno il proprio contributo, l’operaio con il suo lavoro, il contadino con la sua saggezza ed il suo diffidente senso del collettivo e la diretta conoscenza dei problemi e la sua forte volontà di uguaglianza, l’intellettuale con la coscienza, propria degli autentici uomini di cultura, della modestia del loro sapere. Si tratta di demolire la concezione sovrannaturale e fanatica del partito che ha sempre ragione verso i suoi componenti ed anche verso l’esterno, ravvisando in tutti la coscienza che il partito è ogni singolo militante e l’insieme di tutti i militanti, che esso non esercita alcuna dittatura sul singolo, come non consente alcuna prevaricazione del singolo ai suoi danni”.
Con queste parole il vicesegretario del PSI, Francesco De Martino, nella sua relazione su “Il Partito e i problemi attuali della democrazia” al comitato centrale del 9-10-11 gennaio 1962 definì nei suoi termini esatti 2 contenuto di quell’impegno di lotta al socialismo burocratico che Nenni aveva enunciato al congresso di Napoli.
Creare un partito nuovo dalle macerie del centralismo burocratico: “ecco un avvincente ed entusiasmante compito per la nuova generazione socialista”. Un partito che porti sul piano della piena democrazia interna la tradizione di impegno organizzativo che ha creato i presupposti dell’autonomia socialista, ma che i compiti nuovi dell’autonomia, lo sviluppo incessante della società italiana, la funzione decisiva assunta dal PSI nella politica della “svolta a sinistra” fanno ritenere inadeguata ad assicurare la partecipazione democratica dei militanti, l’efficienza operativa del partito ed un’adeguata selezione del suo gruppo dirigente.
Disse Nenni al XXXIV congresso: “Il tipo stesso della nostra organizzazione è invecchiato ed ha bisogno urgente di essere modificato”. Tuttavia non si può porre il problema del rinnovamento delle strutture socialiste in termini di funzionalità, quasi di tecnica organizzativa. Esso è problema politico, ed è problema ideologico.
La realtà è che la politica di autonomia ha indotto di per se medesima un processo di profonda revisione delle strutture organizzative del movimento socialista. Il cosiddetto “centralismo democratico”, ovverosia la concezione burocratica del socialismo, altro non era ed è che l’espressione organizzativa del frontismo. Più che evidente la sua derivazione dal modello del Partito comunista.
La politica di autonomia l’acquisizione dei valori pieni della democrazia quale dimensione reale della lotta socialista, il rifiuto del burocratismo comportano di conseguenza una rottura di fondo con gli schemi del centralismo.
Questa rottura avvenuta per sollecitazione politica della maggioranza autonomista formatasi intorno a Nenni, e per l’irrompere delle esigenze pressanti di ammodernamento, non giunse peraltro alle sue conseguenze più coerenti per il permanere di interessi cristallizzati, insorti nell’epoca del centralismo, che pesavano sul comportamento politico tanto della maggioranza come della minoranza. Forme gravi di “centralismo democratico” si proiettarono nella vita interna stessa delle due correnti.
Al XXXIV congresso (Milano 15-19 marzo 1961) la corrente di “autonomia” riconfermò la maggioranza con 269.576 voti, pari al 55,09%.
Le correnti di minoranza, unificate in sede congressuale, riportarono sulla loro mozione 205.148 voti, pari al 41,9%.
Una mozione presentata in forma di “lettera” da Sandro Pertini, ottenne 5404 voti, pari all’1,1%. Gli astenuti furono 9041, pari all’1,84%, e 108 i voti di mozioni locali non attribuiti a mozioni nazionali. Nel comitato centrale, la maggioranza ottenne 45 membri contro 21 alla “sinistra”, 6 ad “alternativa democratica”, ed 1 alla “lettera Pertini”.
Rispetto al XXXIII congresso, la corrente di “autonomia” perdette 3695 voti e 3,21 punti di percentuale; le correnti di minoranza unificate guadagnarono 5185 voti, con incremento percentuale dello 0,6; la “lettera Pertini” ottenne 1’1,1; aumentò notevolmente il numero degli astenuti (9041 contro 1497). Si può calcolare, almeno su un piano aritmetico, che la perdita in percentuale degli autonomisti sia stata assorbita dagli astenuti, dalla “lettera Pertini” e dalle minoranze unificate.
Se si valutano i risultati complessivi dei congressi provinciali, nei quali la “sinistra” e “alternativa democratica” votarono su mozioni separate, la “sinistra” aumentò, rispetto al precedente congresso, di 18.407 voti, e del 2,49 in percentuale, avendo ottenuto 171.467 voti, pari al 35,04%; “alternativa democratica”, invece, ottenne 33.678 voti, pari al 6,88 % con una perdita di 7.255 voti e 1,85 in percentuale.

Capitolo 10

DAL CENTRO-SINISTRA ALLA PROPOSTA DELL’ALTERNATIVA

Si discuterà ancora molto a lungo, nel movimento socialista e al di fuori di esso, sul significato del periodo del centro-sinistra nella storia italiana.
Noi abbiamo la sensazione (e già ai giorni in cui scriviamo se ne avvertono i primi segni eloquenti) che verso questo periodo l’atteggiamento ed il giudizio, in sede politica ed in sede storica, rischiano di praticare il percorso già compiuto nei confronti di un’altra fase, altrettanto discussa ed altrettanto importante insieme per la storia del movimento socialista e per la società italiana, quale fu quella del primo decennio ed oltre di questo secolo, quella che va sotto il nome della “età di Giolitti”.
Su questa fase, che vide tra lacerazioni e lotte durissime all’interno del PSI prevalere il tracciato segnato dalla politica riformista turatiana, per molto tempo il giudizio corrente è stato polemico e tendente a sottolineare i limiti, che indubbiamente ci furono, della politica riformista. Poi, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale e la fine del fascismo, il giudizio storico s’è rovesciato, e con esso è mutato anche il giudizio politico, paradossalmente ad opera del leader comunista italiano, Palmiro Togliatti, che apertamente per primo ne sottolineò il valore fondamentale per la storia del movimento dei lavoratori.
Cosi rischia di accadere anche per la fase decennale, o poco più, del centro-sinistra. A mano a mano che gli eventi di quel periodo si allontanano nel tempo; a mano a mano che le polemiche contingenti suscitate dai fatti più significativi di quei momenti si attenuano o perfino si spengono, il giudizio su di essi si fa più pacato, più obiettivo, tende a porre in rilievo le luci oltre che le ombre di quella fase. All’inizio della quale vanno collocati alcuni avvenimenti, che aiutano a rendere più comprensibili anche gli eventi successivi.
La crisi dell’equilibrio centrista, una crisi lunga che aveva preso le mosse dalla sconfitta subita dalla proposta di modificazione della legge elettorale il 7 giugno del 1953, non aveva trovato sbocchi possibili a destra. Il tentativo Tambroni del 1960 era stato facilmente bloccato dalla pronta reazione popolare, e dal senso di responsabilità dimostrato da tutte le forze costituzionali, che l’avevano prontamente isolato, sul piano politico e sul piano parlamentare. L’assottigliarsi della riserva dei voti a destra, ed il coagulo di una parte dell’elettorato conservatore e reazionario intorno al Movimento sociale italiano, aveva reso impraticabile anche la possibilità di una alleanza conservatrice per la DC.
Soprattutto la crescita della società italiana, il rafforzarsi delle organizzazioni politiche e sindacali dei lavoratori, uscite dalla crisi del frontismo, la dinamica sociale e culturale prodotta dallo stesso “miracolo economico” insieme con la laicizzazione del costume, la diffusione dell’istruzione secondaria ed universitaria prodotti dall’industrializzazione del paese: tutti questi fattori operavano non solo per l’esclusione di un atteggiamento tendente a soluzioni politiche di stampo arretrato, ma, all’opposto, per una conversione verso posizioni più aperte e progressiste della stessa Democrazia cristiana, che in quegli anni riscoprì, con Moro, la formula del primo De Gasperi, secondo la quale la DC è “un partito di centro che marcia verso sinistra”. Su questo atteggiamento della DC ebbe certamente influenza notevole anche la nuova era inaugurata nella Chiesa. Dal pontificato di Giovanni XXIII, quel Roncalli che, allora in qualità di patriarca di Venezia aveva salutato con fervore il congresso del PSI nel 1957, e che, asceso al soglio pontificio, aveva impresso un nuovo corso alla vita della comunità ecclesiale, e suscitato nuove ispirazioni allo stesso movimento politico dei cattolici.
C’è da considerare infine, e non per ultimi, un’altra serie di fattori politici che presiedettero alla vita del centro-sinistra: l’avanzare del processo di distensione, a seguito della crisi dello stalinismo nel mondo comunista, e l’avvento di Kruscev quale leader della destalinizzazione; e la vittoria di Kennedy che, assunta la direzione della nazione americana, non nascose le sue simpatie politiche per un nuovo corso ne
gli affari Italiani. Tutti quei fattori influirono sulla nascita del centro-sinistra, sui suoi sviluppi e sui suoi esiti, in termini positivi come in termini negativi. Essi stessi, del resto, erano destinati a variare, con il tempo: la morte di Giovanni XXIII, ed il riflusso che ne conseguì, cancellò molte speranze sulla possibilità di un irreversibile affrancamento del movimento cattolico dalle sollecitazioni conservatrici ed integraliste; l’assassinio di Kermedy diede spazio all’emergere di posizioni tradizionali della diplomazia americana caratterizzate da diffidenze ed anche da ostilità nei confronti della politica del centro-sinistra in Italia; la defenestrazione di Kruscev e l’arresto del processo di destalinizzazione pose problemi complessi al movimento operaio nel nostro paese. specie per i rapporti tra socialisti e comunisti, e per il ritardo che impose all’evoluzione delle posizioni del Partito comunista italiano.
Enorme influenza sulle vicende del centro-sinistra ebbero, infine, i fattori relativi all’andamento dei processi economici. Le crisi economiche e monetarie del 1964, del 1968, e quella più grave, che accompagnò l’ultima fase del centro-sinistra, agli inizi degli anni Settanta, ridussero i margini delle risorse disponibili per una politica riformatrice e di sviluppo sociale, sollevarono reazioni degli ambienti di destra e di larghi settori dei ceti medi contro le impostazioni riformatrici più coraggiose, costrinsero i governi a misure impopolari con la conseguenza di una riduzione dei margini parlamentari, specie per i socialisti.
Tutte le considerazioni ed i giudizi sull’era del centro-sinistra non possono tuttavia prescindere dai rapporti tra i socialisti ed i comunisti.
L’atteggiamento rigido, di contrapposizione dura verso il centro-sinistra e di aperta polemica nei confronti del PSI influirono fortemente, in senso non positivo, sulle vicende di questo nuovo corso politico. Segni di autocritica sono venuti successivamente da parte dei dirigenti del PCI, verso quelle impostazioni. Sono anche emerse informazioni relative a diversità di valutazioni politiche che si sarebbero registrate all’interno di questo partito.
Si è persino affermato che Togliatti sarebbe stato fautore di un atteggiamento politico più flessibile, fino a proporre l’astensione nei confronti del primo governo Moro, e che sarebbe stato messo in minoranza, allora, nella direzione del suo
partito. Indiscrezione, questa, che non ha, allo stato dei fatti, possibilità di conferma in atti o documenti ineccepibili, ma che rientra nell’ordine delle possibili verità, considerando l’intelligenza politica di Togliatti.
Come e possibile ritenere attendibile, seppure anche questa non comprovata, l’asserzione che l’allora leader del PCI non fosse affatto entusiasta della scissione in casa socialista che portò alla formazione del PSIUP. Certo è che l’atteggiamento comunista fu quello che i fatti registrarono, e la scissione dell’ala sinistra socialista indebolì notevolmente la forza organizzativa, elettorale e politica del PSI peggiorando il rapporto di forze con la Democrazia cristiana.
L’atteggiamento del PCI doveva variare, con alti e bassi, nel corso del decennio, anche in relazione all’evoluzione delle sue posizioni politiche generali, e presentare un mutamento di segno più sensibile con il congresso del PCI del 1969; ciononostante, le polemiche tra socialisti e comunisti non incrinarono mai il rapporto unitario nell’organizzazione sindacale, né fiaccarono mai la volontà dei socialisti di restare un partito della sinistra. Le ripetute polemiche, che accompagnarono tutto l’arco del centro-sinistra, sulla delimitazione della maggioranza, il rifiuto di opporsi alla formazione di giunte di sinistra negli enti locali prima, e successivamente nelle regioni, testimoniano di questa costante delle posizioni socialiste: che ad esse pagheranno il prezzo della crisi dell’unificazione del 1969, senza averne da parte comunista né riconoscimenti, né atteggiamenti più distensivi, ma continuando, per tutti quegli anni, ad essere oggetto di una estenuante polemica politica ed elettorale.
Dopo l’esperienza del governo Fanfani, che vide l’astensione del PSI e che realizzò la nazionalizzazione dell’energia elettrica, il centro-sinistra entrò nella fase di realizzazione concreta nel periodo immediatamente successivo alle elezioni del 28 aprile 1963.
Conviene marcarne alcuni episodi salienti. Nelle elezioni, il PSI ottenne alla Camera 4.251.966 voti, scendendo in percentuale dal 14,2 delle precedenti consultazioni, al 13,8 ed eleggendo 87 deputati contro i precedenti 84; al Senato i voti furono 3.856.135, con una flessione dello 0,1%, e con un aumento da 35 a 44 seggi. Il comitato centrale che seguì le elezioni (il 17, 18, 19 maggio) diede mandato alla direzione di sostenere la formazione di un governo di centro-sinistra che “per il suo programma, la volontà politica di applicarlo e la sua composizione autorizzi l’appoggio del PSI”. Il congresso, convocato per il 18-21 luglio dello stesso anno avrebbe avuto “il compito di approfondire le prospettive del movimento operaio e dello sviluppo democratico in Italia”.
Alle decisioni del comitato centrale s’erano opposti i membri della sinistra; ma anche nella maggioranza autonomista erano emerse posizioni diverse, specie da parte di Santi, Giolitti e Lombardi. Tali dissensi dovevano manifestarsi con maggior evidenza nelle settimane successive, fino ad esplodere nell’episodio della famosa “notte di S. Gregorio”, tra il 16 e il 17 giugno, quando la delegazione, incaricata dal comitato centrale (apertosi il 13) di trattare per la formazione del governo presieduto dall’on. Moro fu posta in minoranza per l’opposizione, oltre che della sinistra, anche di 15 autonomisti capeggiati da Lombardi, che si dichiarò insoddisfatto del programma del governo, specie per ciò che riguardava la legge urbanistica, le regioni, l’agricoltura ecc. Posta in minoranza, la segreteria presentò le sue dimissioni, mentre il comitato centrale formalizzava il rigetto degli accordi di governo, senza alcun documento che ne motivasse politicamente la decisione. Furono respinte le dimissioni della segreteria e della direzione che si era associata, Nenni rimase segretario, De Martino vicesegretario, affiancati da un esecutivo politico composto da esponenti di tutte le correnti: Mancini e Lombardi per la maggioranza, Basso, Valori e Vecchietti per l’opposizione; per la preparazione del congresso rinviato ad ottobre il comitato centrale votò a maggioranza un ordine del giorno che confermava la validità delle prospettive del centro-sinistra.
Il PSI decise di astenersi nei confronti del governo-ponte costituito dall’on. Leone; dopo che Moro aveva rinunciato all’incarico, e dopo che il 19 luglio venne concluso un accordo per ricostituire la maggioranza autonomistica, si giunse al congresso (25-29 ottobre) con tre mozioni: autonomia, sinistra, Pertini.
Il congresso fu aperto dalla relazione di Nenni, che sottolineava “il carattere eccezionale del congresso”, che stava nel fatto che le decisioni congressuali “sono destinate ad operare subito, nei quindici giorni che stanno di fronte al paese nel mezzo di una crisi alla quale occorre dare sbocco adeguato in rapporto alle cause passate e recenti che l’hanno determinata, agli interessi dei lavoratori, una crisi che, abbandonata a se medesima, finirebbe per porre problemi paurosi di efficienza e forse anche di sopravvivenza delle istituzioni democratiche”. Affermato che “la partecipazione socialista al governo non è più questione di principio, ma solo di opportunità politica”, in quanto “la via al socialismo è quella democratica” e “comporta l’abbandono della teoria leninista del potere, quale venne accolta anche dal nostro partito nel primo dopoguerra”, Nenni concludeva che “come definitiva e ormai la nostra scelta in favore di una evoluzione che renda possibile la piena acquisizione della democrazia allo Stato e quella del socialismo alla democrazia, così noi sappiamo che tocca al movimento operaio italiano tracciare la via al socialismo nel nostro paese, attingendo agli esempi di altri popoli, senza illuderci o pretendere di trovare in essi un modello”.
Fu un discorso di ampio respiro, e di grande importanza, quello di Nenni, la cui lettura è premessa indispensabile per la comprensione dei caratteri originali della politica socialista nella fase del centro-sinistra, indicato non come fine a se medesimo, bensì come momento storico della “via italiana al socialismo”: l’alleanza con la DC pertanto non può risultare come un’alleanza politica generale “per la quale non esistono le premesse ideologiche e la concordanza dei fini ultimi; e invece un accordo limitato nei suoi obiettivi economici, sociali, politici”.
Nenni tracciava quindi un vero programma del centro-sinistra: attuare l’ordinamento regionale, riformare la Pubblica Sicurezza, eliminare ogni discriminazione tra i cittadini, potenziare e riformare la scuola pubblica; eliminare gli squilibri tra nord e sud, attuare la riforma urbanistica e la riforma sanitaria. Su questo programma, il PSI “deve andare all’incontro dei prossimi giorni con la DC, col PSDI, con il PRI per verificare se esiste di nuovo, come è esistito nel febbraio 1962, un comune terreno di accordo programmatico sui problemi indilazionabili”.
Per Vecchietti, relatore della “sinistra”, tre erano le condizioni irrinunciabili per accettare l’ingresso del PSI al governo: in politica estera, il rifiuto del riarmo atomico della Germania, comunque attuato; in politica economica, il rifiuto di ogni politica deflazionistica e l’attuazione di una programmazione antimonopolistica; il rifiuto della delimitazione della maggioranza anche per le leggi di riforma più importanti, mentre Nenni aveva sostenuto, su questo punto, che “la esclusione degli altri partiti dalla maggioranza ha il senso di una scelta, non di una discriminazione, una scelta democratica del tutto normale in un sistema pluralistico”.
Per Lombardi il congresso doveva decidere di “scegliere se lasciare campo libero al neocapitalismo o inserirsi nel processo di trasformazione per contestare il modello di sviluppo del neocapitalismo” per cui “la politica delle riforme di struttura deve trovare necessariamente il suo perno nella programmazione democratica che modifichi i rapporti di classe ed i rapporti di potere, che incida realmente sul sistema della accumulazione privata”. “Una prospettiva di spicciolo riformismo sembra per noi inconcepibile”, concludeva il leader della nuova componente che si andava formando nel seno della maggioranza autonomista, il quale aveva dedicato una parte notevole del suo discorso anche ai problemi della politica internazionale, sottolineando il “rifiuto dell’ideologia dell’atlantismo”. Un intervento molto efficace a favore delle tesi nenniane fu compiuto da un giovane esponente autonomista, Venerio Cattani, che e uno dei protagonisti del processo di rinnovamento del PSI.
Nenni, nella replica, insistette sul concetto che la delimitazione della maggioranza “non può voler dire respingere i voti che vengono in appoggio di questa politica: può voler dire una sola cosa, che noi non ammetteremo che sul programma di governo ci siano defezioni interne” oppure “che sui problemi di fondo la maggioranza si rompa e se ne costituisca un’altra”.
La mozione conclusiva, su tale punto, precisava che “la maggioranza parlamentare di centro-sinistra sarà naturalmente costituita dai quattro partiti che avranno assunto tale comune impegno. L’esclusione degli altri partiti ha il senso di una scelta, non di una discriminazione… Questo soltanto implica la delimitazione della maggioranza nell’ambito delle responsabilità dei quattro partiti”. Affermazione che si collega alla decisione assunta sul problema delle autonomie locali, laddove la mozione “considera che sia le maggioranze di sinistra, sia quelle di centro-sinistra hanno permesso al PSI l’attuazione di un unico orientamento politico e amministrativo; perciò il congresso lascia alle organizzazioni locali libertà di scelta nella formazione delle maggioranze”.
La mozione tracciava così due costanti che segneranno la politica del PSI nel centro-sinistra, e sulle quali non vi sarà mai da parte socialista cedimento alle pressioni di altre forze politiche.
La mozione rimuoveva la proibizione sancita al congresso di Milano nel 1961 di partecipare al governo ed “autorizzava il comitato centrale e i gruppi parlamentari socialisti a trattare, sulla base di un vasto, profondo programma di rinnovamento del paese, fino alla partecipazione diretta alla maggioranza e ad un governo di centro-sinistra, purché sia assicurata la realizzazione delle seguenti condizioni:
“1) Una politica di programmazione economica e di riforme di struttura (a cominciare da quelle prioritarie nell’agricoltura, nella scuola e nell’urbanisfica)… a tal fine dovranno essere impiegati e creati strumenti efficaci di controllo e direzione del processo di accumulazione e di intervento dello Stato nell’attività produttiva mediante l’impresa pubblica. Per le sue dimensioni ed importanza storica il primo tra gli squilibri esistenti che dovrà essere concretamente superato è quello nord-sud.
“2) Una nuova politica agricola che si proponga i fini dell’elevamento del reddito e della qualità di vita dei contadini, della trasformazione delle strutture fondiarie e dei rapporti tra proprietà e lavoro, a cominciare dalla trasformazione della mezzadria in proprietà coltivatrice, della riforma degli organismi di mercato, prima tra le quali la riforma democratica della Federconsorzi.
“3) L’applicazione integrale della Costituzione sia per quanto riguarda le riforme costituzionali, sia per la riforma dei rapporti tra i pubblici poteri, collettivita e cittadini, la riforma della legge di pubblica sicurezza, dei codici e dell’ordinamento giudiziario… il riconoscimento ed il rispetto dei diritti sindacali civili e politici dei lavoratori nei luoghi di lavoro.
“4) La riforma della pubblica amministrazione e degli enti pubblici, coerente con la programmazione economica.
“5) Una politica di potenziamento della ricerca scientifica e di riforma democratica della scuola.
“6) Una politica sociale imperniata sulla riforma radicale della previdenza e dell’assistenza, che garantisca un sistema di sicurezza per tutti i cittadini.
“7) Una politica estera informata alle nuove prospettive che si sono create nel mondo. La situazione quale si è venuta profilando consente al partito, senza venir meno ai princìpi dell’internazionalismo, del pacifismo, del neutralismo, i quali hanno sempre avuto lo scopo di assicurare la pace, di non rimettere in discussione l’adesione italiana alla NATO e gli obblighi che ne derivano. Ma esige nel contempo un’azione intesa a coordinare tutti gli sforzi, dentro e fuori dai blocchi, per risolvere i problemi fondamentali della pace”.
La mozione di maggioranza ottenne il 57,42% dei voti; quella di sinistra il 39,30%, quella Pertini il 2,16%. Il comitato centrale fu portato, con una modifica dello statuto, da 81 a 101 membri.
Dopo la conclusione del congresso, il governo Leone presentò le dimissioni, e l’incarico di formare un nuovo governo fu affidato a Moro. Le trattative per il programma furono concluse il 25 novembre e l’accordo fu ratificato dal comitato centrale del PSI con 59 voti contro i 40 della sinistra, che definì l’accordo un rovesciamento delle posizioni politiche ed ideologiche tradizionali del PSI, chiese un congresso straordinario, e minacciò l’unita del partito.
Il 4 dicembre Moro annunciò la formazione del nuovo governo con Nenni vicepresidente, Arnaudi ministro per la Ricerca Scientifica, Giolitti ministro del Bilancio, Pieraccini ai Lavori Pubblici, Mancini alla Sanità, Corona al Turismo e Spettacolo, a rappresentare il PSI nel governo il 12 dicembre. Francesco De Martino veniva eletto nuovo segretario del partito, con Giacomo Brodolini vicesegretario.
In sede di dibattito parlamentare sulla fiducia, Lelio Basso parlò annunciando il voto contrario dei venticinque deputati della sinistra; lo stesso fece al Senato Schiavetti, a nome di 15 senatori (che uscirono dall’aula al momento del voto, il che, per il regolamento di questo ramo del Parlamento, equivale a voto contrario). Inevitabile fu il pronunciamento dei probiviri, che decretarono la sospensione di un anno per i parlamentari dissenzienti (ridotta poi a sei mesi per i sei senatori che dichiararono di non voler infrangere l’unità del partito): era la nuova scissione.
Altro elemento nuovo nella vita del partito fu il sorgere della corrente “lombardiana”, intermedia tra la maggioranza autonomista (Nenni, De Martino) e la “sinistra”, rimasta fedele al partito (Bertoldi, Mariani, Veronesi, Balzamo). La differenziazione si sviluppò soprattutto in ordine alla politica del primo governo di centro-sinistra, e si realizzò palesemente con il comitato centrale del 3 e 4 luglio 1964, nel corso della crisi che seguì le dimissioni del primo governo Moro, e la formazione del suo dicastero.
Nel successivo comitato centrale (28-29 luglio 1964) i “lombardiani” votarono un proprio documento contrario alla ratifica del nuovo accordo programmatico, approvato invece dalla maggioranza autonomista, ed iniziarono così la loro attività di opposizione alla politica di centro-sinistra, di cui avevano condiviso l’avvio e le premesse, e di cui invece combatteranno l’attuazione e gli sviluppi.
Nel nuovo governo non rientrano, tra i socialisti, Giolitti ed i sottosegretari “lombardiani” Anderlini, Banfi, Simone Gatto. Pieraccini sostituisce Giolitti al Bilancio, mentre Mancini assume la responsabilità dei Lavori Pubblici e Mariotti prende il suo posto alla Sanità. Tale resta la delegazione socialista anche nel terzo governo Moro che si costituira nel gennaio del 1966, dopo la crisi seguita alla caduta alla Camera nel voto a scrutinio segreto sulla istituzione della scuola media statale.
Dal ’64 al ’66 si svolge la prima fase della difficile e tormentata storia del centro-sinistra, fase caratterizzata dalla ripresa del dialogo unitario tra PSI e PSDI, e dall’emergere di quella politica dell’unificazione, che dall’esperienza di centrosinistra viene alimentata anche per il convincimento, fattosi rapidamente strada nel gruppo dirigente autonomista, della necessità di un più forte ed unitario schieramento socialista da opporre alle pressioni della Democrazia cristiana.
La politica di unificazione – alla quale si oppose anche la nuova corrente lombardiana – assume un percorso più marcato con la elezione di Saragat alla presidenza della Repubblica, alla fine del 1964, dopo la malattia che ha colpito in estate il presidente Segni.
Saragat, divenuto presidente della Repubblica con il concorso del voto di tutta la sinistra, sembrava aver operato perché il suo partito traesse un diverso giudizio degli sviluppi della situazione italiana ed internazionale, superando anche alcune posizioni che erano di ostacolo al dialogo con i socialisti. Ma la sollecitazione maggiore al processo di unificazione venne senza alcun dubbio dalla comune partecipazione dei due partiti al centro-sinistra.
In questa fase, la presenza socialista nel governo lascia un segno non eliminabile: dalla scuola alla programmazione economica, alla politica sanitaria (Mancini all’inizio del 1964 lancia la prima campagna antipolio che ottiene effetti sorprendenti), all’afficoltura (con la legge sulla abolizione della mezzadria del settembre 1964), ai tentativi di legislazione urbanistica (legge 167, proposte di legge urbanistica generale, legge per l’edilizia agevolata) l’impegno socialista per imprimere un nuovo indirizzo all’azione del governo è notevole ed incessante. Altrettanto può dirsi sul piano della politica estera, e dell’azione meridionalistica. Nelle regioni meridionali, si registra un impulso notevole agli investimenti in opere pubbliche, che si traducono in occupazione, in aumento di reddito, in occasione di sviluppo, in razionalizzazione dei servizi civili e sociali. Tutto il complesso della vita sociale e amministrativa delle regioni meridionali riceve in quegli anni una scossa salutare. La stessa formazione di nuove infrastrutture stradali assicura l’avvio di un’opera di modernizzazione per decenni attesa invano.
Indubbiamente grandi sono le resistenze politiche incontrate dai socialisti nella loro azione: determinanti a volte le resistenze ai loro progetti ed alle loro proposte, più forti anche di quanto erano state immaginate e preannunciate; limiti oggettivi si registrano nelle difficoltà economiche dell’epoca che segna la fine di un miracolo fondato su fragili basi. Ma occorre affermare, in verità, che il PSI fu sempre, nella sostanza, coerente con l’impegno assunto dal partito nel congresso del 1963, con le sue impostazioni programmatiche, con lo spirito di novità che voleva imprimere alla vita nazionale.
Uno spirito nuovo insorse nella politica estera nazionale, sempre più caratterizzata da una convinta adesione ai principi della distensione, e, sollecitate dalla presenza socialista nel governo, ad ampie aperture verso i paesi del mondo comunista, non esclusa la Cina, del cui riconoscimento s’avviano le premesse che furono perfezionate da Nenni, in una fase successiva, nella sua qualità di ministro degli Esteri. Ed uno spi
rito rinnovatore si delineò nella vita costituzionale del paese, che andò normalizzandosi nel senso dell’adempimento delle istituzioni inattuate dal centrismo, e quindi di un completamento della architettura costituzionale, dalle regioni al referendum, alla attività degli organi parlamentari. Così come una maggiore libertà, una maggiore democrazia, una maggiore capacità di tolleranza politica permeava la vita del paese, una volta compiuta quell’assunzione di responsabilità di governo da parte di un partito del movimento dei lavoratori, che di per sé già infrangeva tabù reazionari e codini, afimentati da un secolo di storia reazionaria e moderata, e concorreva a dissipare quefl’atmosfera di fanatismo ideologico e politico, delle contrapposizioni odiose e totalizzanti che avevano ammorbato la vita dell’Italia negli anni che erano intercorsi dal 1948 alla fine degli anni Cinquanta.
In questo quadro si poneva la questione dell’unificazione.
Al XXXVI congresso del PSI (Roma, 1965) il problema viene affrontato e discusso; l’orientamento del partito è favorevole, nonostante le obiezioni di Riccardo Lombardi e le perplessità mostrate da De Martino, che e divenuto segretario del partito, dopo l’ingresso al governo di Nenni, con Brodolini alla vicesegreteria.
Il XXXVII congresso, che dura un solo giorno, il 26 ottobre 1966, e una pura formalità che prelude al congresso dell’Unificazione tra PSI e PSDI, che si tiene sempre a Roma dal 28 al 31 ottobre, approvando la Carta dell’Unificazione.
La fusione in realtà si risolve in una struttura che somma le strutture dei due partiti, comitato centrale e direzione, e mantiene i due segretari (De Martino e Tanassi) e i due vicesegretari (Brodolini e Cariglia). Anche i due simboli permangono, collocati uno accanto afl’altro.
La fusione viene rinviata al I congresso del partito unificato, dopo le elezioni del maggio 1968, nelle quali il partito, pur conseguendo un risultato che se in sé non è disprezzabile (14,5%) è ben lontano dalle aspettative che si erano andate creando.

Capitolo 11

DALL’UNIFICAZIONE AGLI ANNI SETTANTA

Con l’unificazione tra PSI e PSDI saltarono molte delle posizioni ideologiche tradizionali. La Carta dell’Unificazione, dopo una riaffermazione del patrimonio di esperienze dottrinarie appartenenti alla storia del socialismo italiano, passava infatti alla definizione in termini abbastanza nuovi del rapporto tra partito e libertà di espressione culturale-politica.
Affermata l’esigenza dell’adeguamento della dottrina e dell’azione “all’evoluzione dei tempi e dei rapporti sociali” la Carta conferma che “il partito non chiede ai suoi militanti l’adesione ad un credo filosofico e religioso”: questa proposizione costituirebbe una semplice ripetizione meccanica del diritto statutario di libertà di pensiero per i militanti uti singuli secondo l’esperienza ormai consolidata dei partiti di sinistra in Italia, se non venisse estesa ad accogliere “con pari diritto di cittadinanza tutte le correnti di pensiero che accettano i principi etici e i postulati politici e sociali ispirati agli ideali di giustizia, di uguaglianza e di pace che il partito pone a fondamento del proprio programma”.(1) Questa affermazione costituisce una rottura esplicita e fondamentale nel monolitismo ideologico del passato, anche dei partiti socialisti, e colloca obiettivamente il partito unificato in una posizione almeno “a-ideologica”. E si deve in proposito sottolineare che la Carta dell’Unificazione aveva valore statutario, in quanto accolta nell’articolo 1 dello statuto. La norma citata ha una sua ragione ancora più profonda nell’adesione del partito (art. 2 dello statuto) all’Internazionale socialista, di cui si costituisce come sezione italiana, per la quale non esistono preclusioni di ordine ideologico, e la cui maggior parte dei partiti aderenti hanno da tempo rifiutato ogni carattere ideologistico.
Il carattere “a-ideologico” del partito viene implicitamente ribadito anche nel paragrafo secondo della Carta dell’Unificazione, quando si afferma che “il partito promuove l’organizzazione politica dei lavoratori, e dei cittadini… rifiutando di attribuirsi prerogative di egemonia, di guida carismatica, di tutela paternalistica”.
Pertanto l’unità socialista risulta, nella sua nota più incisiva, come una “proposta” del movimento socialista ai cittadini Italiani, ai lavoratori, per la formazione di un partito politico di tipo nuovo, alternativo ai partiti dogmatici del nostro paese, entrati in una crisi profonda che tocca aspetti essenziali della vita politica italiana.
Essa può recare a convergenza esperienze ideali e culturali diverse ma concordanti nel fine della formazione di una forza popolare democratica e socialista moderna, capace di produrre un’attività programmatrice aderente alle esigenze reali di un paese in continua trasformazione e di una “società civile”dalle componenti complesse ed articolate su un sistema di “economia mista”. In questa prospettiva, il processo dell’unificazione socialista si collocava quale forza di accelerazione da imprimere al superamento di una situazione di crisi e di stagnazione della vita dei partiti, che rischia di soffocare tutta la democrazia italiana ancorandola all’alternativa tra il populismo protestatario e demagogico dell’opposizione comunista, e la distruzione dello Stato operata dalla gestione moderata.
Per essere tutto questo, il processo unitario doveva rivolgersi a persone, a ceti, a gruppi di interessi legittimi, ad organizzazioni politiche e culturali che concordassero nella necessità di creare un partito capace di dirigere lo Stato democratico e la società italiana verso obiettivi di sviluppo economico e di progresso sociale e civile, di libertà e di eguaglianza, secondo i moduli ideali della democrazia socialista.
Queste premesse teoriche trovarono però una dura smentita nella realtà. Il processo di unificazione deluse ben presto le speranze che aveva suscitato negli ambienti socialisti, e non soltanto in essi. Non si dimostrò, come pure ambiva e poteva essere, un processo di rinnovamento teorico, politico ed organizzativo del socialismo italiano; ne esasperò invece gli elementi di crisi, di ritardo, di estraniazione dalla realtà effettuale del paese, che a questo processo sicuramente preesistevano. ma che esso, lungi dall’avviarne il superamento, fini per ingigantire ed esasperare.
Le stesse modalità che resero concreta l’unificazione furono insieme il risultato delle storture profondamente radicate nella vita del socialismo italiano, e la causa di una nuova fase di crisi.
Dalla Costituente socialista del 30 ottobre 1966 al primo ed ultimo congresso del Partito unificato, nell’ottobre del 1968, il superamento delle distinzioni organizzative, oltre che politiche, fu solo apparente, e neppure la decisione di sommare gli organi centrali e periferici dei due partiti, la diarchia costituita dai due co-segretari, finì per paralizzare i vertici e la base dei due partiti, fra i quali non vi fu che solo qualche raro episodio di osmosi. Restavano in piedi, di fatto, le due strutture separate e, all’interno di ciascuna di esse, le varie correnti.
La duplicazione degli organi li rendeva pletorici e sempre più inadeguati ai loro compiti ordinari ed a quelli straordinari, cioè connessi al dovere di portare avanti le procedure unificatrici, e di alimentare il processo di rinnovamento e di rilancio della presenza socialista nel movimento dei lavoratori e nella società italiana, che erano l’obiettivo dell’unificazione stessa. La stessa adesione di piccoli movimenti socialisti minori e di socialisti senza tessera perse qualsiasi significato e si ridusse, nonostante i nomi di un certo prestigio tra gli aderenti, ad una presenza pressoché formale nel comitato centrale e nella direzione.
Alla sostanziale paralisi organizzativa, si aggiungevano le divergenze politiche, all’inizio latenti, poi, via via, sempre più esplicite. Queste differenze trovavano alimento nella divergente valutazione che le due componenti davano del processo di trasformazione che si andava maturando nella società italiana, come effetto della più ampia possibilità di partecipazione politica che il centro-sinistra, con l’indubbio ampliamento della base sociale dello Stato che aveva comportato, obiettivamente aveva posto in essere. Nella vita produttiva, nelle università e nelle scuole spirava un vento nuovo, la politicizzazione delle masse appariva crescente, cadevano i diaframmi ideologici ed andavano in frantumi le rigide contrapposizioni politiche che avevano contrassegnato il decennio precedente. D’altro lato, questa maggiore sensibilizzazione politica delle masse, insieme con l’affiorare di una tendenza che diverrà inarrestabile all’unità sindacale, si esprimeva in una richiesta di rinnovamento del modo di governare il paese, che la prevalente forza democristiana all’interno del centro-sinistra impediva di realizzare, almeno in misura rispondente alla domanda dei ceti popolari e delle nuove generazioni.
L’unificazione socialista avrebbe dovuto avere lo scopo (ed infatti così veniva dichiarato) di realizzare la presenza di un interlocutore socialista più forte e più compatto nei confronti della Democrazia cristiana; avrebbe dovuto coincidere quindi anche con un rilancio della politica riformatrice, che aveva segnato il passo per le resistenze opposte dai ceti ostili alle riforme, di cui la DC aveva assunto e manteneva una larga rappresentanza.
Pochi mesi prima dell’unificazione, si era verificato un avvenimento di eccezionale gravità che aveva scosso il sentimento civile del paese e tutta l’opinione pubblica mondiale.
Il 19 luglio 1966, a causa della grave speculazione edilizia, era franata tutta una zona della collina su cui sorge Agrigento, minacciando la stessa Valle dei Templi. Il 4 agosto, alla Camera riunitasi d’urgenza, il ministro socialista dei Lavori Pubblici, Giacomo Mancini, denunciava i fatti “mostruosi” della speculazione edilizia della zona colpita, e metteva in luce, con un incisivo discorso che aveva l’approvazione unanime dei gruppi parlamentari, responsabilità e complicità amministrative e politiche che avevano permesso a quei fatti mostruosi di verificarsi, fuori da ogni serio controllo e possibilità di intervento. Forte del suffragio ottenuto dalle Camere, Mancini apre un’inchiesta che confermerà le posizioni espresse, mettendo in luce la fitta rete di interessi illeciti, che ad Agrigento, come in tutte le città Italiane, devastavano il territorio, il paesaggio, l’ambiente storico e naturale.
L’atteggiamento di Mancini, sostenuto da tutto il PSI, suona immediatamente come una sfida non soltanto alle forze devastatrici della speculazione edilizia e del dissesto urbanistico, ma soprattutto contro la politica di lassismo e di protezione politica che la DC ha svolto negli anni precedenti, ostacolando e sabotando ogni progetto di legislazione urbanistica destinato a combattere o almeno a frenare il caos edilizio.
Dietro la “grinta” di Mancini si intravede la “grinta” di un partito, che, accingendosi a realizzare l’unificazione delle forze socialiste, sente rinvigorirsi il suo ruolo e la sua funzione, ed appare destinato a muoversi con maggiore energia ed incisività nei confronti del suo alleato di governo.
L’impressione viene confermata quando, pochi giorni dopo il congresso di unificazione, il 4 novembre 1966 un altro evento, questa volta naturale, l’alluvione che colpisce Firenze ed altre zone del paese, mette in evidenza un’altra carenza gravissima della classe che ha governato il paese: il gravissimo dissesto idrogeologico cui non si è mai nel passato posto mano, e per il quale l’intero territorio nazionale appare in balia di eventi per i quali non e apprestata nessuna difesa. Anche in questa occasione i socialisti si muovono con decisione, reclamando una politica della difesa del suolo che sia al primo posto nella scala delle priorita del programma quinquennale che il governo si appresta a presentare, e che la Camera approverà nel marzo successivo. Le circostanze vogliono che ancora una volta sia Mancini a doversi muovere, come ministro dei Lavori Pubblici, e per tali circostanze il dirigente socialista comincia ad apparire come l’uomo politico che meglio personifica la possibilità di un nuovo corso socialista legato alla politica dell’unificazione.
Il corso dell’anno successivo, il 1967, sembra confermare, per gli avvenimenti politici generali che esso registra, la possibilità di questa svolta.
Nel gennaio, la visita in Italia del presidente del soviet supremo dell’URSS, Nicolai Podgorny, appare un successo del governo di centro-sinistra e getta molta acqua sul fuoco della polemica del PCI contro il centro-sinistra stesso e contro l’unificazione socialista. Si comincia a parlare, da parte comunista, dell’esigenza di un’opposizione parlamentare più articolata e flessibile, che non si risolva in un “cartello dei no”, e che colga invece le occasioni per un dialogo più aperto con le forze socialiste e cattoliche più avanzate.
In marzo la pubblicazione dell’Enciclica Populorum Progressio da parte di Paolo VI sembra segnare un ritorno dei circoli vaticani allo spirito del papato giovanneo, che era stato una premessa della svolta del centro-sinistra all’inizio degli anni Sessanta.
La destra deve segnare il passo. Riceve infatti una dura sconfitta quando, avendo osannato il 20 ottobre il discorso di critica al governo del presidente del Senato Merzagora, ritenuto esponente politico dei circoli finanziari ed industriali del paese, deve assistere alle dimissioni dello stesso Merzagora dal suo incarico, alla data del 3 novembre successivo. In questo stesso mese si svolge a Milano il congresso della Democrazia cristiana, che mentre sembra avvertire la necessità di una collocazione più progressista, non tralascia di manifestare segni di una ripresa integralista, dietro la quale traspare la preoccupazione della possibile concorrenza politica ed elettorale del nuovo Partito socialista, nato dalla unificazione dell’anno precedente.
Il quadro politico generale appariva dunque sostanzialmente favorevole al dispiegarsi di una iniziativa socialista che permettesse di tradurre le premesse dell’unificazione in una crescente influenza politica del partito.
Ma questo risultava paralizzato dalla sua situazione interna, che andava deteriorandosi ancor di più, a mano a mano che si avvicinava la data del primo congresso nazionale, e soprattutto, quella delle elezioni politiche generali, considerate il banco di prova dell’unificazione. All’impasse in cui sta cadendo il Partito socialista unificato dà rilievo Mancini in un articolo apparso sull'”Avanti!” del 20 aprile 1967, in cui il ministro socialista constata che ci si trova dinanzi ad un partito “congelato”. “Sono passati sette mesi dall’unificazione -osserva Mancini- e dalla Costituente aperta. In questo periodo abbiamo avuto una convocazione del comitato centrale e quattro o cinque riunioni della direzione del partito… E inutile parlare contro le correnti, i gruppi di potere, le clientele; sono conseguenze inevitabili della stagnazione della democrazia interna. Altro pericolo da scongiurare è quello del ritorno a metodi di lotta interna che hanno pesato negativamente sulla vita e sull’azione del partito”.
Il “congelamento” del PSI finisce per appannare l’iniziativa socialista anche a livello dell’azione di governo, dopo la fiammata della fine del 1966 e dei primi mesi del ’67.
Avvicinandosi la scadenza delle elezioni, la DC preme il piede sul freno dell’azione riformatrice. Gli obiettivi del piano quinquennale approvato dalle Camere restano sulla carta. Inoltre, il mancato accertamento delle responsabilità del SIFAR nella vicenda del mancato colpo di Stato del 1964, dà l’avvio a quel metodo di incerta condotta del governo nei confronti di quella che negli anni successivi verrà chiamata la “strategia della tensione”.
Le elezioni politiche generali del 19-20 maggio 1968 danno al PSU un risultato di dubbia interpretazione. Esso raccoglie 4.604.367 voti, pari al 14,5%. Un risultato certamente inferiore alle attese, ed infatti c’è subito chi lo sottolinea in modo drammatico. Un risultato, a dir vero, neppure catastrofico: perché se è vero che la somma dei voti dei due partiti nelle precedenti elezioni del 1963 aveva raggiunto il 19,9 per cento, c’era tuttavia da mettere nel conto la scissione del PSIUP, che ottiene nel 1968 oltre un milione e mezzo di voti.
In realtà, se il partito unificato non ha sfondato in termini elettorali, esso ha mantenuto l’elettorato tradizionale dei due partiti confluenti, nonostante la situazione di paralisi della sua iniziativa politica dopo l’unificazione.
La fase che corre dalle elezioni politiche al congresso nazionale e quella contrassegnata dal cosiddetto “disimpegno” del partito dal governo. Tesi prevalsa nel comitato centrale del 31 maggio, a seguito della convergenza tra le correnti facenti capo ai due cosegretari, Tanassi e De Martino. Si delineano gli schieramenti congressuali, per l’assise nazionale che si terrà a Roma dal 23 al 30 ottobre. Alla convergenza tra i due cosegretari, destinata a infrangersi in sede congressuale, fa riscontro la convergenza, che invece si salderà nel dibattito del congresso, tra il settore autonomistico del PSI che fa capo a Mancini, a Ferri e a Matteotti ed anche a Craxi, con un gruppo di ex socialdemocratici, facenti capo a Viglianesi, Romita e Preti.
Il congresso di Roma (in cui il partito riprende la denominazione storica di PSI) vede il successo della componente di “Presenza socialista” guidata da Mancini, che conquista la maggioranza relativa, davanti a “Riscossa” (De Martino), a “Rinnovamento” (Tanassi), alla “Sinistra” di Lombardi ed alla piccola corrente di “Impegno” (Giolitti). Su sollecitazione di Nenni, rimasto formalmente al di sopra delle parti, ma che in una sua Lettera ai compagni aveva espresso opinioni analoghe alle posizioni della mozione di “Presenza socialista”, si forma una maggioranza composta da “Presenza” e da “Rinnovamento”, del 52% (37% “Presenza” e 15% “Rinnovamento”), che elegge segretario del partito Mauro Ferri, mentre Pietro Nenni viene riconfermato alla presidenza.
Il dato più significativo del congresso, a detta di tutti gli osservatori, è costituito dal discorso di Mancini. Mancini afferma infatti che “la partecipazione al governo fa parte della sua vita interna, determinatasi
battaglia generale del partito, ma non può ne deve esaurirla”e ad essa deve seguire un metodo “serio e severo, che 9 partito deve sottoporre a controllo continuo nelle sedi responsabili”.
La parte centrale del discorso di Mancini è dedicata al partito, oltre che ai rapporti con la DC e con il PCI, per i quali formula la teoria della reciprocità: “Non possiamo distribuire carezze e complimenti a chi ci maltratta o ci considera in modo sprezzante. Siamo rispettosi e vogliamo comportarci in modo corretto e democratico. Ritengo che non si chieda troppo se pretendiamo che anche gli altri si comportino allo stesso modo nei nostri confronti”. Commenta Orazio Barrese, biografo, critico ed anche parziale nelle sue polemiche, di Mancini: “L’interesse e le reazioni del congresso sono vastissime”. (2)
“Non paventando le accuse di efficientismo”, il leader di “Presenza”, dopo aver denunciato lo stato di debolezza dell’organizzazione socialista e la “latitanza” di essa nella “grande competizione tra mondo cattolico e mondo comunista”, affrontava il tema del partito in modo nuovo, in riferimento cioè al complessivo sviluppo della società italiana.
“Il discorso del partito – affermava – non può esaurirsi in un esercizio di buone intenzioni. Se vuole e deve essere concreto, deve partire dal rapporto tra il partito e l’Italia dei nostri giorni, quella che sarà l’Italia dei prossimi anni”. I dati più rilevanti sono “la protesta dei giovani, la vivacità del mondo operaio e contadino, la diffusione della cultura e della tecnica” che pongono al movimento socialista il problema di “una risposta alle questioni sollevate dalla contestazione giovanile e dalla ripresa operaia”, risposta che il PSI può dare solo con un ritorno ai “grandi temi della libertà umana, della solidarietà tra i popoli, della lotta contro ogni autoritarismo, dalla fabbrica all’università, all’organizzazione sanitaria”. È solo intorno a questi temi che si rilancia la presenza del partito, si creano e si sviluppano le nuove forme di organizzazione, si dà sostanza all’obiettivo dell’unificazione, di un rilancio del movimento socialista. E senza la qualificazione del partito su questi temi, è inutile pensare a miracolosi recuperi elettorali, né vale strapparsi le vesti e cospargersi il capo di ceneri, se i risultati elettorali deludono le speranze affrettatamente nutrite.
Sullo slancio di questo discorso, Mancini diviene, senza dubbio alcuno, il protagonista della fase successiva della vita del partito. Il suo appare subito, al di là delle intenzioni, il programma politico ed organizzativo di un segretario del partito. Lo diverrà solo due anni dopo, nel cuore di una delle fasi più drammatiche della storia del socialismo italiano.
Il discorso piace poco ai componenti della ristretta maggioranza uscita dal congresso; piace invece molto alle altre parti del PSI, che vedono in esso tracciata la piattaforma di una svolta politica nella vita del partito. La segreteria di Ferri, nonostante l’indubbio valore personale di uno dei migliori dirigenti socialisti, appare subito una soluzione precaria, sia perché troppo ristretta era la sua base numerica rispetto ad un’ampia ed agguerrita minoranza che lo incalzava; sia perché le componenti di tale maggioranza non mostravano affatto la necessaria omogeneità sui temi sollevati dal discorso di Mancini, che, anzi, come abbiamo detto, trovava proprio nella componente alleata di “Rinnovamento”, composta tutta da ex socialdemocratici, sia nella stessa componente di “Presenza”, notevoli incomprensioni ed anche ostilità.
Una tregua di alcuni mesi sopravvenne per l’impegno del partito a risolvere il problema del governo, con un ritorno al centro-sinistra, che vide corresponsabilizzato, come vicepresidente del Consiglio e capo della delegazione del PSI, il leader della opposizione interna del partito Francesco De Martino, mentre Mancini riassumeva la responsabilità del dicastero dei Lavori Pubblici.
Le divergenze, latenti in questi mesi nel PSI, riemergono con la forza delle cose. I temi indicati dal discorso congressuale di Mancini vivono nella realtà sociale e politica del paese, con la quale il partito è costretto a cimentarsi ogni giorno.
La direzione del partito è guidata da una maggioranza debole quantitativamente e divisa politicamente. Il partito e ancora una volta paralizzato: la “risposta” ai grandi temi della società italiana tarda a venire, e quando viene, appare di segno opposto a quello indicato da Mancini. In realtà, con la maggioranza creata dal congresso si è costituito un asse, più o meno visibile, che tende a spostare il partito su una piattaforma politica le cui caratteristiche sono quelle del vecchio PSDI: il che contraddice la natura del PSI, oltre che i rapporti di forza reali espressi dallo stesso congresso. Su questi grandi temi politici la spaccatura si rivela, con il passare dei mesi e di fronte alle scadenze politiche, profonda ed insanabile.
Sui temi dellordine pubblico; della delimitazione della maggioranza in Parlamento e nei Consigli comunali e provinciali; della politica internazionale; delle riforme; della contestazione giovanile; dell’unità sindacale; del rilancio del partito si manifesta sempre, su ciascuno di essi, un contrasto di principio e di fatto. Il conflitto più acuto si produce sulla questione dell’estensione o meno del centro-sinistra a tutti gli enti locali. Su questo problema Mancini aveva espresso al congresso una valutazione negativa, rifiutando cioè questa proposta formulata in termini perentori.
In un convegno dei segretari di federazione, la proposta della estensione del centro-sinistra a tutti gli enti locali, sostenuta dal segretario, viene messa in netta minoranza rivelandosi così una divaricazione di posizioni anche all’interno della maggioranza. Si va profilando nel partito una nuova maggioranza, il cui nucleo centrale e costituito dai demartiniani di “Riscossa”; dalla parte manciniana di “Presenza”, compresi gli ex socialdemocratici della UIL che seguono Viglianesi; dai giolittiani, e da alcuni esponenti della sinistra, come Balzamo, Querci e Veronesi, che convengono su questa posizione.
E quella maggioranza più larga reclamata da 57 segretari di federazione su 85 nel documento conclusivo della loro assemblea. C’è anche un altro elemento che fa catalizzare il dissenso all’interno del PSI. L’eccidio di Battipaglia ripropone drammaticamente il problema dell’ordine pubblico e della repressione contro i moti popolari, che vede valutazioni opposte nelle fila del partito e del suo gruppo dirigente. Nel comitato centrale di maggio, il nuovo schieramento di maggioranza si concretizza, e si prospetta una segreteria Mancini, che trova addirittura un veto nella minaccia dell’immediata scissione da parte degli ex socialdemocratici, che presente nella sessione del comitato centrale del 4 luglio un documento che sostanzialmente accetta le posizioni sostenute da Ferri e Tanassi, e che viene respinto dalla maggioranza del comitato centrale con 67 voti contro 51; né è accolta la richiesta di un congresso straordinario, avanzata da Mancini, insieme con la proposta di una temporanea gestione paritaria del partito. Gli ex socialdemocratici, con l’eccezione di una larga parte della UIL che segue Viglianesi e di qualche altro dirigente; insieme con il gruppo di Ferri, Matteotti, Longo, di estrazione PSI, dichiarano la scissione, che la stragrande maggioranza della base respinge, confermando la sua fedeltà al Partito socialista.
La nuova maggioranza elegge De Martino segretario e Mancini vicesegretario, mentre il posto di presidente viene lasciato a Pietro Nenni, che non l’accetta, perché, dichiara: “Essendo stato il presidente della unificazione non posso essere il presidente della scissione”. A ben guardare, anche ad alcuni anni di distanza, essendo svaniti gli strascichi delle polemiche a caldo, non si possono registrare ragioni politiche plausibili per l’atto secessionistico. Le divergenze, anche profonde, potevano benissimo coesistere nell’ambito di uno stesso partito, mediante la normale dialettica democratica e delle maggioranze e delle minoranze.
L’atto scissionistico non ebbe l’effetto che i suoi promotori si ripromettevano. Anzi, la scelta dei socialisti della UIL, di provenienza socialdemocratica, di restare nel PSI, segnò un evento nuovo, destinato anche a favorire il procedere dell’unita sindacale.
L’unico effetto negativo che la scissione realizzò fu quello di impedire il consolidamento dell’unità socialista, che, nonostante gli errori di impostazione e di attuazione, rappresentava il senso positivo del processo di unificazione. Lo stesso risultato delle elezioni del maggio 1968, alla luce di una più attenta valutazione delle difficoltà incontrate dal processo unificatorio, e delle successive prove elettorali dei due partiti, non appare così deludente come si volle considerarlo.
Dopo la scissione, e la conseguente crisi di governo, che portò ad un ritorno del monocolore democristiano, il PSI fu diretto dagli esponenti della “nuova maggioranza” cui si era associata la “sinistra” di Lombardi. Il gruppo dirigente, composto da militanti anziani e giovani (come Caldoro, Manca, Giannotta ecc.) mostrò una sostanziale unità.
Il ruolo del partito fu determinante per dare uno sbocco positivo al movimento di lotta dei lavoratori che divenne più intenso e travolgente nei mesi successivi alla scissione del PSI. È l'”autunno caldo” delle lotte sindacali, la contestazione degli studenti ha acquistato una crescente valenza politica, tanto che entrambi questi movimenti si presentano come momenti di richiesta di sostanziali mutamenti nelle strutture di potere della società e di rilancio della politica riformatrice. La risposta a queste richieste viene tentata dal gruppo dirigente del PSI con la partecipazione socialista al governo, in termini diversi rispetto alle fasi che avevano presentato sintomi di logoramento dell’alleanza di centro-sinistra.
Condizioni per il ritorno al governo sono, tra le altre, l’amnistia per i reati commessi da 14.000 militanti e dirigenti sindacali nel corso delle lotte dell'”autunno caldo” e l’attuazione dell’istituto regionale, mercé l’indizione delle elezioni per i Consigli regionali. Entrambe queste condizioni vengono accolte, ed il governo Rumor che si costituisce con la vicepresidenza di De Martino è anche il governo che darà attuazione allo Statuto dei diritti dei lavoratoti, proposto dal ministro socialista del Lavoro del precedente governo di centro-sinistra, Giacomo Brodolini, defunto pochi mesi prima. Si tratta della più importante conquista sociale realizzata dal centro-sinistra, che basterebbe da sola a giustificare il giudizio positivo sulla esperienza compiuta dai socialisti al governo del paese. Segretario del PSI è eletto Giacomo Mancini, cui presto si affiancheranno tre vicesegretari, Giovanni Mosca, Bettino Craxi per i nenniani, Tristano Codignola per la “sinistra”. Responsabile dell’organizzazione è Gino Bertoldi.
Dopo l’approvazione dello Statuto dei lavoratoti (14 maggio), della legge finanziaria regionale (15 maggio), deTamnistia e della legge costituzionale sul referendum popolare (21 maggio) da parte del Parlamento, il 7 ed 8 giugno si svolgono le elezioni regionali, che registrano una discreta affermazione per il PSI che ottiene il 10,4% dei voti.
La svolta democratica a sinistra impressa dal nuovo corso del PSI incontra presto una reazione dura ed oscura nelle sue ispirazioni, e nelle manovre che l’accompagnano.
Oscure sono le motivazioni delle dimissioni di Rumor il 7 luglio alla vigilia di uno sciopero generale indetto dai sindacati per sollecitare le riforme; oscura e la vicenda del veto socialdemocratico ad Andreotti incaricato di formare il nuovo governo e che vi deve rinunciare; oscure e torbide sono le nuove vicende della strategia della tensione. Oscure sono le forze che manovrano le spie e i provocatori, che, come indagini successive dimostreranno, al soldo dei servizi segreti, Italiani e non solo Italiani, intrecciano le loro trame contro il PSI e contro 9 suo segretario politico. Già nel luglio comincia a Reggio Calabria la “guerra per il capoluogo”. Ed in novembre comincia dalle colonne di un infame settimanale una violenta campagna denigratoria contro il segretario ed altri dirigenti socialisti.
Subito appare evidente che è il PSI che si vuole colpire, perché il PSI è sempre di più il partito chiave dell’equilibrio democratico del paese. È il PSI, fra l’altro, che ha promosso la legge istitutiva del divorzio che il 9 ottobre 1970 viene approvata al Senato, e che porta la firma di Loris Fortuna.
Il gruppo dirigente socialista, ed il segretario del partito in particolare, avvertono immediatamente la pericolosità e l’origine delle manovre legate alla “strategia della tensione” ed avviano quella battaglia politica sui “corpi separati”, sulle deviazioni dei servizi segreti, sull’inquinamento delle istituzioni dello Stato, che sarà al centro della vita politica italiana degli anni successivi. Alle spinte eversive s’accompagnano e si intrecciano due fenomeni con i quali i socialisti e le sinistre, in particolar modo le organizzazioni sindacali, devono misurarsi: il riapparire di sintomi di logoramento della situazione economica e una tendenza elettorale favorevole alla destra: sono fattori destinati ad influire innanzitutto sul comportamento della Democrazia cristiana, e ad introdurre un processo di deterioramento nella politica di centro-sinistra.
Dal febbraio al luglio del ’71 si sussegue una serie ininterrotta di incidenti a Reggio Calabria, che vedono presi di mira ogni volta i militanti e le sedi del PSI. Le elezioni amministrative e quelle regionali in Sicilia del 13 giugno segnano un notevole spostamento a destra, ed un effettivo successo del MSI.
La crisi del dollaro dell’agosto 1971 acuisce i fenomeni di crisi economica, avviando il processo di inflazione selvaggia anche nel nostro paese; la crisi politica raggiunge la sua fase più acuta con l’elezione nel dicembre di Giovanni Leone a presidente della Repubblica con il voto determinante del MSI, la susseguente crisi del centro-sinistra, lo scioglimento delle Camere, le elezioni anticipate a cui si va con il governo monocolare guidato da Andreotti.
Il PSI è al centro della bufera degli eventi che si scandiscono con ritmo incalzante nel corso di questi due anni. È oggetto di attacchi e di campagne calunniose. Né viene risparmiato dalle polemiche e dagli attacchi degli stessi comunisti. Il gruppo dirigente del PCI, che pur ha annunciato sostanziali novità nei suoi atteggiamenti politici e parlamentari, non sembra avvertire che l’attacco al PSI ed ai suoi dirigenti non solo s’inquadra logicamente nella strategia diretta ad alimentare la tensione, ma è rivolto a far retrocedere tutta la sinistra dalle posizioni conquistate con le lotte del biennio 1968-1970. Lotte alle quali i socialisti hanno partecipato in prima fila, non per “doppiezza”, come sono stati accusati dagli ambienti moderati, ma in coerenza con l’esplicita e dichiarata volontà di non esaurire la politica e la vita del partito nell’azione di governo, e nel riconoscimento che ogni processo di rinnovamento della vita nazionale, di rafforzamento delle istituzioni, di approfondimento della democrazia, di attuazione delle riforme prima di essere portato alla decisione del Parlamento e del governo deve essere vissuto e calato nella realtà popolare. Tuttavia la concomitanza degli eventi suddetti, la pressione delle forze ostili allo sviluppo della politica riformatrice, hanno come dato di fatto la crisi del disegno socialista, non a favore di uno spostamento a sinistra dell’asse del paese, ma di una tendenza involutiva di destra.
Il risultato delle elezioni politiche del maggio 1972 è la conferma di questa realtà. I socialisti ottengono 3.209.503 pari al 9,6%, poco più di quanto ottenga il MSI. Il PCI avanza di poco ottenendo il 27,2%, mentre viene liquidata la rappresentanza parlamentare del PSIUP, che non ottiene il quoziente necessario.
Inferiore a quello delle regionali del ’70 è il risultato socialista, anche se lo scarto tra risultati nelle elezioni amministrative e regionali ed elezioni politiche e una costante del PSI.
Ma mentre, a seguito anche dei nuovi rapporti di forza parlamentari scaturiti dalle elezioni, si torna ad una coalizione di governo di centro, presieduta da Andreotti, i socialisti affrontano il loro congresso, varie volte rinviato, con una trasparente situazione di crisi interna, a malapena celata da una formale impostazione di congresso a tesi, per la quale la divisione non avviene, normalmente, su mozioni, ma su un particolare comma di una tesi, riguardante le prospettive di governo.
In realtà la crisi deriva dalla incrinatura dello schieramento della “nuova maggioranza” che aveva guidato il partito durante e dopo la fase della scissione, e, conseguentemente, dalla regressione che ne derivava verso la pratica della divisione del partito in correnti ed in gruppi. La crisi del partito è ancor di più accentuata dalla mancanza di un dibattito che affronti alla radice i problemi del paese, e sia in grado di fornire un’analisi aperta e coraggiosa delle forze sulla scena politica nazionale. In più vi è l’amara realtà di una parte del gruppo dirigente che non avvertendo come l’attacco denigratorio dei fascisti nei confronti del segretario è precipuamente un attacco contro il partito, non esclude di farne ragione di richiesta per un cambio al vertice del partito.
Tutti questi motivi emergono nel convegno romano della corrente di “Riscossa” a metà luglio del 1972, che segna il ritorno formale alla pratica correntizia; nell’andamento del dibattito e nelle decisioni dei congressi di base e di federazione; nel risultato conclusivo del congresso che si svolge a Genova, agli inizi di novembre, e che vede la corrente di De Martino ottenere il 45%, il cartello Mancini, Bertoldi, Lombardi complessivamente il 42% (21% Mancini, 11% Sinistra, 10% Bertoldi) e gli autonomisti nenniani il 13%.
L’alleanza tra demartiniani e nenniani determinerà la formazione della maggioranza interna, che vede il ritorno di De Martino alla segreteria, con Nenni presidente, Mosca e Craxi vicesegretari.
La relazione di Mancini deve adempiere all’obbligo di un esame di avvenimenti complessi e drammatici, per la vita del partito e per la vita del paese, quali sono quelli susseguitisi dal 1968 in poi.
Dopo aver rievocato le fasi della scissione, l’insorgere della strategia della tensione, le pressioni politiche che hanno ridato fiato alle destre; dopo aver sottolineato con forza i problemi dell’involuzione di certi settori delle istituzioni repubblicane, dei rapporti tra forze economiche e forze politiche, il segretario del partito affronta con lucidità i temi dei rapporti con le altre forze politiche.
Sul tema dei rapporti con il PCI, egli afferma: “La nostra autonomia non è in discussione e non siamo disposti a discuterla con nessuno perché questo vorrebbe dire soltanto cedere ai nostri avversari, pretendere di mascherare e di trasportare sul terreno di nostre presunte responsabilità ideologiche e politiche responsabilità che sono invece d’ordine sociale ed economico e che competono non a noi ma alle forze politiche che sono alla nostra destra.
“Noi abbiamo sempre affermato che i nostri rapporti con il PCI vanno posti in modo particolare rispetto a tutti gli altri partiti Italiani: e non occorre spiegare né il perché di questa nostra esigenza né come tale esigenza possa in alcun modo significare diminuzione o limitazione della nostra autonomia nella vita del partito e nelle sue scelte politiche. Abbiamo affermato l’interesse di tutta la nazione alla convergenza del PCI verso tipi di lotta democratica e di obiettivi democratici: ed è in questa visione, cioè nella visione dell’esigenza primaria di una politica riformatrice di attuazione della Costituzione, che abbiamo regolato i nostri rapporti con il PCI respingendo sempre, con serenità ma con fermezza, ogni suggestione di schieramento politico inattuale, inadeguato, controproducente che a nostro giudizio porterebbe indietro e non farebbe avanzare la lotta politica in Italia. Su questo tema delle proposte di schieramento – come le ha definite il Partito comunista – le nostre tesi si pronunciano chiaramente e motivano in modo esauriente il nostro dissenso.
“Le tesi ravvisano anche una tendenza egemonica del PCI ad assumere la rappresentanza dell’intera sinistra italiana. Questa tendenza potrà diventare un elemento dominante della politica comunista se alle ricorrenti tentazioni egemoniche daremo spazio con errori politici e organizzativi o illudendoci che possano servire anche per noi, che abbiamo le radici nello stesso terreno sociale e di classe del PCI, quei rifugi, quei paraventi dietro i quali si ripara, ad esempio, la socialdemocrazia.
“Deve essere nostro vanto la capacità di aver saputo, più di ogni altro partito, rinnovare in modo autonomo la nostra politica, non rinnegando peraltro quanto di positivo e di importante si è realizzato con la politica di centro-sinistra, con la presenza dei socialisti nel governo centrale, nelle regioni, negli enti locali.
“Fu in questa situazione, di fronte ai profondi contrasti sociali connaturati alle battute d’arresto della politica delle riforme che il PSI caratterizzò la sua presenza nel governo e nel paese con la politica dei nuovi equilibri che ha rappresentato, da un lato la reazione all’affievolimento della linea riformatrice imposta al governo dalle forze moderate dopo il voto del 13 giugno ’71 e, dall’altro, l’indicazione della necessità, per la ripresa della politica di riforme, della convergenza di tutte le forze sociali e politiche interessate alla elaborazione e all’attuazione delle riforme.
Il segretario uscente rilevava con chiarezza: “Ciò non significava né significa – come il partito ha ripetutamente precisato nel suoi documenti, contro le distorte e interessate interpretazioni della parte avversa – che la richiesta di nuovi equilibri rappresentasse la volontà di pervenire a una maggioranza di governo includente il partito comunista. Questo non è l’obiettivo del Partito socialista né può esserlo per le condizioni di fatto in cui opera il movimento dei lavoratori nel nostro paese, per la realtà dei ritardi con cui il Partito comunista – che pur ha compiuto passi non irrilevanti sulla strada del rinnovamento della linea politica – affronta ancora oggi i temi centrali dell’autonomia e della democrazia nella organizzazione della lotta politica del movimento operaio. L’ultimo congresso comunista, infatti, anche per essersi tenuto alla vigilia delle elezioni politiche generali, non aveva sviluppato in modo approfondito e coerente questi temi, che pur erano emersi nel precedente congresso del febbraio ’69 e nel corso dell’esperienza politica di questi ultimi anni, preferendo scavalcarli con una proposta di una nuova maggioranza dalla DC al PCI, con i socialisti in un ruolo sostanzialmente subalterno e di mediazione e, per questo, polemizzando con la politica dei nuovi equilibri. Tale ipotesi avanzata dal PCI non era fondata, a nostro giudizio, su elementi validi di analisi della situazione economica, sociale e politica del paese ed appariva più espressione di una esigenza di mobilitazione delle masse comuniste che un contributo positivo alla soluzione della crisi politica del paese”.
La linea esposta confliggeva, quindi, con la proposta comunista della “solidarietà nazionale” che già veniva avanzata.
Quanto alla Democrazia cristiana Mancini afferma: “Momento centrale della politica socialista, ormai da quasi tre lustri, è lo sviluppo dei rapporti tra il nostro partito e il movimento cattolico, rapporti che la svolta centrista non deve indebolire ma deve invece rafforzare. Proprio per questo mi sembra opportuno riesaminare e ripensare il problema dei nostri rapporti con la Democrazia cristiana in un approfondimento della conoscenza di questo partito e della realtà cattolica nel suo complesso. Non possiamo certo pretendere di esaurire in questa sede un cosi vasto e profondo argomento; ma mi sembra opportuno fissare alcuni concetti generali, necessari almeno all’orientamento.
“Mi sembra opportuno, anzitutto, cercare di dare una risposta almeno parziale a un interrogativo che è sempre stato sbrigativamente trattato dalla nostra pubblicistica: la ragione per la quale, contrariamente a quanto è avvenuto in qualsiasi altra parte d’Europa, da quasi ormai trent’anni un potere cattolico permanga alla guida dell’Italia. L’ltalia è un paese cattolico, profondamente permeato dei valori della civiltà cattolica. In tutto ciò che noi facciamo, pensiamo, diciamo, sentiamo che per qualche verso il cattolicesimo c’entra.
“Tutto questo però, a mio giudizio, non basta a spiegare più di venticinque anni di potere dei cattolici in Italia e la sostanziale immutabilità della forza elettorale della Democrazia cristiana nonostante i grandi e profondi rivolgimenti intervenuti in questo venticinquennio nella struttura economica, sociale, culturale del paese. Ricordiamo che venticinque anni fa l’Italia era un paese contadino, cioè congeniale ad un partito cattolico, con più della metà della popolazione occupata nelle campagne mentre ora è un paese industriale, con le città superpopolate e con appena un ottavo di popolazione rurale; e ricordiamoci anche che venticinque anni fa la cultura italiana era praticamente ferma all’idealismo, gentiliano o crociano, mentre oggi è fortemente influenzata dal pensiero marxista.
L’affermazione della Democrazia cristiana in Italia non è perciò la conseguenza ineluttabile di fatti imponderabili, magari connessi agli errori delle sinistre, come molti amano semplicisticamente affermare. Trasformazioni importanti, in Italia, ci sono state, e non si può di tutto imputare ‘ il caso, tanto più che con il consolidamento della Democrazia cristiana abbiamo visto crescere e affermarsi come grande forza politica nazionale un partito – il Partito comunista – che fino a quattro o cinque anni fa l’ottanta per cento della stampa presentava come una specie di agenzia di un paese straniero.
“E nemmeno il fatto si può spiegare definendo semplicisticamente la Democrazia cristiana, come molti fanno, “un partito aperto”, in primo luogo perché questo in realtà non spiegherebbe niente e poi anche perché la Democrazia cristiana un partito aperto non lo è affatto. Dobbiamo dunque necessariamente concludere che l’affermazione della DC è il frutto di orientamenti efficaci in riferimento alla realtà, anche se spregiudicati. La DC ha saputo rinunciare al mondo contadino e al conservatorismo insito in esso e cavalcare la tigre dell’industrializzazione senza farsi sbalzare di groppa; ha saputo spremere dal vecchio sociologismo cattolico tutto quello che c’era da spremere per tenere il passo con la problematica moderna; e, soprattutto, ha saputo non supervalutare il momento parlamentare, nonostante che fosse sempre presente in Parlamento come partito di maggioranza, ma ha utilizzato il tempo (anche quello delle crisi endemiche del Parlamento, come la legislatura dal ’53 al ’58) per piantare sempre più vaste radici nel paese, attraverso il pulviscolo delle organizzazioni cattoliche e i sempre più numerosi canali delle strutture dello Stato, ben memore in ogni momento della grande crisi di rigetto che per quasi un secolo aveva estraniato i cattolici dalla vita dello Stato italiano, imitando e ripagando con altrettanta incisività nell’organizzazione sociale l’incisività del Partito comunista.
“Mentre noi socialisti badavamo a costruire la Repubblica e a predicare il culto della democrazia e della libertà, cattolici e comunisti badavano a costruire i loro partiti”.
Dall’analisi della DC, Mancini consegue che: “Il centrismo degli anni Settanta non ha terreno sotto i piedi, non ha spazi su cui allargarsi. Non ha la situazione di rottura sindacale di allora; non ha la guerra ideologica anche se cerca di rinverdirla con le troppe storie dei gruppuscoli; non ha il supporto dell’espansione dell’impresa pubblica, per la quale un tempo bastavano i capitali dello Stato mentre oggi occorrono invece programmi e decisioni politiche. Non ha la Chiesa di Pio XII e le scomuniche del Santo Uffizio. Il centrismo degli anni Settanta è soltanto un gran tuffo all’indietro dettato più dalla convinzione e consentito dalle suggestioni di una campagna elettorale i cui elementi emotivi si sono già vanificati nelle mani stesse di coloro che ne hanno tanto spregiudicatamente usato e abusato.
“Il centrismo, nell’attuale situazione italiana, è un fatto di destra e solo sulla destra può contare. Questo è il vero rischio, la saldatura di tutti gli interessi moderati e di destra che oggi convergono nel sostegno al centrismo. Di fronte a questa situazione noi dobbiamo dichiarare con fermezza che non abbiamo giuocato mai a spostare a destra la Democrazia cristiana, anche se da questo avrebbe potuto venirci qualche vantaggio elettorale; e questo nella convinzione responsabile che lo spostamento a destra della DC non sia nell’interesse di nessuno, né dello Stato né delle masse popolari, né del socialismo né della cattolicità”.
La relazione trae a questo punto le sue conclusioni politiche:
“A nostro onore dobbiamo dire che tutti i grandi fatti della vita politica nazionale – dalla Repubblica all’ordinamento regionale, dalla svolta a sinistra alla collocazione dell’Italia fra i paesi più pacifici del mondo, dalla scuola dell’obbligo allo statuto dei lavoratori – tutti i grandi fatti portano la firma e l’impegno e la lotta dei socialisti. E sappiamo che tutti i fatti nuovi che dovranno venire, o verranno con noi o non verranno, se si tratta di fatti riformatori e democratici. E non è solo perché occupiamo in Parlamento una posizione pressoché determinante per far quadrare i conti delle possibili maggioranze. E perché occupiamo storicamente nel Paese uno spazio che è solo nostro, a patto di non perderlo deliberatamente; perché svolgiamo nel Paese una funzione che nessun altro può svolgere, a meno di non dimenticarcene noi stessi.
“Se abbandonassimo il nostro spazio e dimenticassimo la nostra funzione perché attratti da non so quale miraggio o da non so quale illusione, le cose non andrebbero male solo per noi ma andrebbero male per tutti perché allora, sì, avremmo lo spostamento a destra dell’intera situazione di tutte le forze politiche, Democrazia cristiana in testa, come del resto si ègià puntualmente verificato nel passato, quando non siamo stati lesti a saltare giù da autobus che stavano prendendo una strada diversa da quella che era stata precedentemente tracciata.
“Non e vero (quante volte ancora dobbiamo ripeterlo?) che è intenzione nostra chiudere il discorso politico e di governo con la DC. È vero esattamente il contrario. Lo abbiamo detto nelle tesi e in questa fase precongressuale e qui lo ribadiamo”; e propone “una fase intermedia di transizione che attraverso l’eliminazione dell’ipoteca di destra rappresentata nel governo dalla presenza del Partito liberale e attraverso la collaborazione parlamentare per la soluzione delle questioni più urgenti consenta di riannodare i fili spezzati della politica riformatrice di centro-sinistra, di ripensare i programmi ed i modi di attuazione. L’obiettivo che la situazione e i fatti ci pongono davanti è un obiettivo ampio e difficile: la-democratizzazione della vita dello Stato in tutti i suoi aspetti, economici, sociali, amministrativi. Richiede un grande sforzo, un grande impegno.
Con il congresso di Genova, che esprime una maggioranza “disponibile” alla ripresa del colloquio con la Democrazia cristiana per offrire un’alternativa al risorto centrismo, tende a concludersi l’esperienza politica del centro-sinistra.
Nel luglio 1973, dopo il congresso democristiano di un mese prima che vede il ritorno di Fanfani alla segreteria del partito e l’accettazione del cosiddetto “patto di palazzo Giustiniani”, va in crisi il governo Andreotti, e Rumor costituisce il suo quarto ministero con il reingresso dei socialisti al governo. Il governo subirà una crisi nel marzo dell’anno successivo, per l’uscita dei repubblicani, e Rumor, dopo un rimpasto, che i vede il ritorno di Mancini nel governo come capo della delegazione socialista e ministro per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno, formerà l’ultimo gabinetto di centro-sinistra che durerà fino all’autunno del 1974, dopo il referendum sul divorzio che il 12 maggio dello stesso anno aveva segnato una grande vittoria dello schieramento divorzista.
Si conclude così, dopo oltre dieci anni, un’epoca politica che aveva suscitato insieme grande interesse e grandi speranze, non solo in Italia, e provocato aspre polemiche da parte di forze di segno diverso. Un’epoca nella quale si erano per la prima volta affrontate le questioni centrali della vita del paese, ma senza che per una gran parte di esse si addivenisse a soluzioni soddisfacenti.
Già abbiamo avuto modo di anticipare il giudizio sostanzialmente positivo che va dato al decennio ed oltre del centro-sinistra, pur non tacendo le ombre e le contraddizioni che esso ha presentato.
Nell’ultima fase, quella dei governi Colombo prima delle elezioni del ’72 e di Rumor, nel ’73-’74, il centro-sinistra mostrò il suo volto politico più aperto: adottò il metodo del confronto costante con i sindacati, apri sul piano parlamentare al contributo delle opposizioni. Ciò permise, tra l’altro, di giungere al varo di importanti leggi, come quella sullo statuto dei diritti dei lavoratori, e quella sulla casa. Sul piano internazionale, si segnalarono le iniziative per il riconoscimento della Cina popolare, l’adesione al progetto di sicurezza europea, i nuovi rapporti con il Terzo Mondo.
Ma proprio in questa fase evolutiva del centro-sinistra si registrarono, né poteva essere altrimenti, le più accanite resistenze ed i più pesanti attacchi, destinati a mettere in crisi i governi di centro-sinistra, ed i rapporti tra il PSI e la Democrazia cristiana. Negli anni Settanta è emersa soprattutto la rivolta degli interessi feriti, o che paventarono di essere colpiti, contro la linea riformatrice, mentre la repressione delle tecnostrutture si è fatta più dura, in ordine al processo di ristrutturazione derivante dalla crisi economica interna ed internazionale. In un convegno della rivista “Il Mulino” di quegli anni si metteva in rilievo come “le giuste intenzioni della politica di centro-sinistra si sono infrante contro i grandi manager della nuova classe che prolifera, espressione del potere proprio delle tecnostrutture economiche e finanziarie”. Senza questa opposizione attiva, ben più facile sarebbe stato superare le resistenze degli interessi più arcaici, come quelli della speculazione edilizia, delle strutture sanitarie private, o del mondo agricolo. Il centro-sinistra in realtà si esaurì nello scontro contro lo schieramento che si era saldato tra gli interessi del capitalismo avanzato e quelli del capitalismo parassitario ed arcaico. Esso mostrò poi la sua maggior debolezza nella difesa della legalità democratica e nella lotta contro il fascismo e l’inquinamento delle istituzioni ‘ come avvenne nei ripetuti episodi di degenerazione dei servizi di sicurezza e di alcuni settori, non secondari, dei corpi separati. Nonostante le ripetute sollecitazioni dei socialisti e dell’opinione democratica, nonostante le buone intenzioni più volte espresse il governo e le altre autorità pubbliche non seppero offrire una risposta ferma e tranquillizzante, né operare per fronteggiare adeguatamente la strategia della tensione, i suoi mandanti, i suoi esecutori, i suoi finanziatori. Da tale debolezza presero avvio quei fenomeni di deterioramento della vita pubblica e delle stesse istituzioni democratiche che il centro-sinistra lasciò in eredità alla fase politica successiva.
Questi problemi divennero sempre più il terreno della polemica del centro-sinistra, e l’iniziativa dei socialisti sui temi dei diritti civili e dei problemi dello Stato divenne più incalzante, sollecitata dagli eventi tragici che punteggiarono la cronaca italiana con la lunga catena degli attentati, dei complotti, delle stragi e dei sequestri, e del permanere di una posizione di debolezza o di omissione da parte dei pubblici poteri.
In questa fase, il PSI ha dovuto prendere a mano a mano le distanze dall’area di governo, pur assumendo posizioni di sostegno a soluzioni governative che evitassero vuoti di potere politico, fino a quando naturalmente ciò apparisse possibile, fino a quando cioè l’obiettivo riconoscimento dello “stato di necessità” non comportasse il rischio di un rovesciamento della linea politica socialista. Questa linea si accompagna allo sviluppo di un faticoso e lungo processo unitario rivolto a superare le divisioni del congresso di Genova, nel quale era parso evidente che tali divisioni erano state inasprite da problemi di mutamento della segreteria.
Dopo Genova, De Martino era tornato alla guida del PSI, con Nenni presidente, e Craxi e Mosca vicesegretari. Si trattava di una soluzione maggioritaria, accompagnata dalla formazione di un ufficio politico (con Mancini, Bertoldi, Lombardi accanto a un segretario e un vicesegretario) rappresentativo di tutte le correnti, e da un ufficio di segreteria con compiti operativi, composto da Manca, Vincenzo Gatto, Signorile e Landolfi.
Momenti salienti di questa fase politica furono per il PSI la intensa partecipazione alla battaglia per il referendum sul divorzio nel maggio 1974; la conferenza nazionale di organizzazione a Firenze nel febbraio del 1975; le elezioni politiche regionali, che videro il PSI raccogliere un buon successo, con l’11,3 per cento dei suffragi; l’apertura della crisi politica alla fine del 1975 ed il XL congresso del partito, a Roma, dal 3 al 7 marzo 1976. Infine le elezioni politiche del 20 giugno dello stesso anno.
Gli avvenimenti esterni vengono seguiti da un intenso dibattito interno al PSI, che deve elaborare una linea che dia una risposta efficace alla grave crisi economica, politica ed istituzionale del paese.
La vittoria del referendum sul divorzio ha messo in evidenza la profonda trasformazione del paese, sul piano del costume oltre che sul piano politico; il successo della sinistra alle elezioni regionali ed amministrative del 15 giugno 1975 ha posto in evidenza la volontà delle masse popolari di attuare una svolta politica, di cui la formazione delle giunte di sinistra in un gran numero di regioni e di grandi comuni appare come la premessa dell’avvio di una nuova fase politica che fa intravedere una più diretta assunzione di responsabilità di governo da parte di tutta la sinistra. La crisi del bicolore Moro-La Malfa, succeduto al governo Rumor con i socialisti, e la formazione del monocolore Moro conducono allo scioglimento anticipato delle Camere, ed alle nuove elezioni.
In questo quadro politico, il PSI è alle prese con il problema di definire una linea che, prendendo atto dell’esaurimento del centro-sinistra, lungo un tracciato di continuità con i valori affermati con la stessa presenza nel governo del paese, prepari le condizioni per un nuovo corso politico. La “centralità” della posizione politica dei socialisti è reclamata dagli eventi stessi della crisi politica del paese, che per avere una soluzione democratica che la sottragga ai rischi dell’eversione e della violenza crescente, non può che centrarsi sulla ripresa dello spazio e della funzione socialista. C’era in Italia, e non solo, enorme attesa per il congresso socialista; poi per il risultato che il PSI avrebbe conseguito nelle successive elezioni.
Il XL congresso sancì una linea unitaria, che ha preso il nome dell’alternativa.(4) L’unità, d’obbligo in un partito che l’aveva lungamente ricercata ed ormai alla vigilia di una importante scadenza elettorale, portò tuttavia a non chiarire il concetto di alternativa, né soprattutto mise in evidenza, come doveva, il ruolo e la funzione del PSI, la “centralità” della sua posizione nella vita politica del paese.
Ne derivò anche la sensazione di un annebbiamento dell’autonomia del partito, ed una disposizione eccessivamente preoccupata di far risaltare il ruolo della presenza comunista nella direzione del paese, per realizzare una soluzione di emergenza alla crisi. Tale posizione certamente finì per non chiarire agli elettori il significato della alternativa, e per confondere il ruolo del PSI come assoggettabile alla generale proposta comunista della politica del “compromesso storico”. Di qui l’esito negativo delle elezioni del 20 giugno 1976, soprattutto se riferito alla avanzata delle sinistre nel loro complesso, ed in modo specifico alla vittoria elettorale del Partito comunista.
La posizione socialista era risultata eccessivamente appiattita alla posizione comunista, tradendo quel principio generale della vita politica, che Hegel aveva sintetizzato nell’assioma che “il genio politico consiste nella propria identificazione”.
A questa considerazione va aggiunta la ripetuta constatazione che nelle società industriali si registra una tendenza oggettiva alla polarizzazione del consenso politico ed elettorale verso le grandi concentrazioni di potere politico, e che tale tendenza sembra diretta a prevalere anche in Italia, se una forza politica nell’esaltazione della propria autonoma identità programmatica, organizzativa e culturale politica non si dimostra in grado d’interromperla. Al PSI è mancato in quegli anni un senso di sano integralismo che giustifichi di fronte agli elettori l’esistenza di una forza politica.
Né si può badare al discorso ideologico-politico, uscendo dai temi della struttura. La conferenza di organizzazione del 1975 aveva fatto molte promesse, senza mantenerne che alcune.
Nonostante gli sforzi dell’allora responsabile dell’organizzazione del PSI, Rino Formica, relatore alla conferenza stessa, i socialisti non si dimostrarono in grado, in quella favorevole occasione, di identificare il nodo strutturale della loro permanente debolezza elettorale. Esso risiedeva e risiede nel fatto che nel PSI ad un elettorato di massa (che tale poteva ancora giudicarsi la somma di un consenso di elettori che s’aggirava sui tre milioni e mezzo) corrispondeva la struttura di un partito di opinione, fondato su base eminentemente di carattere territoriale. Anche sul tema della struttura, dunque, il PSI è partito atipico e, se così si può dire, enigmatico. Esso, come è stato da molti altri affermato, appare, insieme, il più debole dei partiti maggiori, ed il più forte dei partiti minori. Anche una ragione della sua debolezza politica, la divisione in correnti precostituite, può ricondursi alla sua preminente struttura territoriale: essa è tipicamente struttura “neutra” che prescinde dalle caratteristiche sociali e dagli interessi ideali ed operativi dei propri componenti, per accomunarli in un comune e indifferenziato scambio di opinioni, nel migliore dei casi inserito in un processo del tutto concettuale di elaborazione politica, e, nel peggiore dei casi, in una pratica di registrazione del consenso e del dissenso condizionati da strumentalizzazioni improprie al discorso politico.
Il PSI, anni Settanta, a molta distanza dal compimento dell’opera di Morandi, che ricostruì la forza dell’organizzazione territoriale del partito, non aveva affrontato e risolto il problema della ricostruzione della propria presenza organizzata in tutti i settori in cui si articola la complessa e viva “società civile” di un paese come il nostro che presenta tutte le caratteristiche e le contraddizioni della società industriale occidentale. Il PSI ha le ragioni della sua debolezza strutturale essenzialmente nel non risolto rapporto tra partito e società civile. Tanto più acuto appare questo problema, quanto più un partito socialista, presentandosi come fautore di un socialismo costruito “dal basso”, fondato sui valori dell’autogestione e dell’autogoverno delle masse, può e deve trovare nella sua organizzazione a livello della società civile le sedi istituzionali proprie per quella organizzazione della partecipazione che è insieme la finalità propria e la strumentazione distintiva di cui si deve sostanziare la struttura di un partito socialista moderno. Per dirla con Roberto Guiducci, un partito socialista che vuole la propria potenzialità di trasformazione sociale, culturale e politica non può che prefigurare, anche nella propria struttura, la “società dei socialisti”.

Parte IV

IL NUOVO CORSO SOCIALISTA

Capitolo 12

IL NUOVO CORSO SOCIALISTA DOPO LA SCONFITTA DEL 1976

La sconfitta del 1976

La sconfitta elettorale dell’estate 1976 apparve ancora più grave per i socialisti, in quanto essa fu contestuale alla grande affermazione del PCI, che, pur non riuscendo nel sorpasso della DC, ottenne il massimo risultato elettorale della storia del comunismo italiano.
DC e PCI risultarono essere i vincitori delle elezioni; il PSI il grande sconfitto. E ciò nonostante che il partito si fosse presentato al corpo elettorale molto più coeso che per il passato, dopo l’assise congressuale che aveva visto unita quasi la totalità del partito; e nonostante che fosse stata avviata una fase nuova di pacificazione interna e di smantellamento degli apparati di corrente.
Le ragioni della sconfitta erano sostanzialmente due. La prima risiedeva nel fatto che il ciclo del centro-sinistra era ormai definitivamente tramontato. I vari tentativi di rianimare questa formula politica, come era avvenuto con i governi Colombo e Rumor, ancora a partecipazione socialista, invece che rilanciare la vecchia alleanza, ne aveva dimostrato – se ancora ce n’era bisogno – la totale inconsistenza e improponibilità.
Nel vuoto politico che il tramonto del centro-sinistra aveva creato, s’inseriva l’iniziativa comunista della politica del “compromesso storico”, lanciata già nel 1973 da Berlinguer, e che aveva trovato nella DC un interlocutore interessato. E non solo nella tradizionale “sinistra” democristiana, che era riuscita a conquistare la segreteria del partito, affidandola a Zaccagnini; ma anche in Andreotti, e, soprattutto, in Moro, che era andato teorizzando quella che egli stesso aveva definito la “terza fase”: molto di più di una strategia dell’attenzione verso il PCI.
Il partito di Berlinguer era stato, inoltre, favorito dallo spostamento a sinistra che si era verificato nel complesso della società italiana, sulla scia della contestazione “sessantottina”, e della ripresa operaia registrata fin dagli inizi degli anni Settanta.
Questo processo si era evidenziato nello scontro referendario sul divorzio, il cui risultato aveva sorpreso per primo Berlinguer (che, secondo quanto scrive Chiara Valentini nel suo libro Berlinguer segretario, non pronosticava più del 35% di consensi al fronte divorzista); e, soprattutto, nelle elezioni regionali ed amministrative del 1975, che avevano dato il via alla formazione delle “giunte rosse” in gran parte degli enti locali e in numerose regioni.
In questo quadro, DC e PCI erano diventati sempre più protagonisti del gioco politico, mentre il PSI sembrava assumere una posizione marginale e sussidiaria. I socialisti venivano considerati dai due maggiori partiti, dalla stampa e da gran parte dell’opinione pubblica, quasi “una razza in via d’estinzione”. Giudizio che era sulle bocche dei frequentatori dei “salotti romani”, nei quali già s’intrecciavano le trame della futura alleanza ritenuta ormai inevitabile.
La seconda ragione della sconfitta era da ricercare nel fatto che il gruppo dirigente socialista, con la segreteria De Martino, sempre più forte nel partito, ma sempre più debole nell’insieme della vita politica nazionale, invece di reagire a questa situazione con una propria proposta politica, decise, per falso realismo o per istintiva rassegnazione, di cavalcare in testa alla galoppata guidata dal PCI, che tra l’altro sarebbe stata destinata a travolgere il PSI, qualora avesse raggiunto il suo traguardo. Era nata da questo stato d’animo, più che da un ragionamento politicamente lucido, la teoria dei “nuovi equilibri”, che sembrava calzare a pennello per l’offensiva politica lanciata dal PCI. Infatti, a ben vedere, la formula dei “nuovi equilibri” – di cui bisogna riconoscere la paternità a un giovane dirigente in grande ascesa, Enrico Manca – sintetizzava proprio i due fattori di fondo che caratterizzavano l’ascesa del PCI: quello della crescita di consensi, rivelatrice in sé di una volontà popolare rivolta a realizzare una fase sociale e politica più avanzata e la creazione di un nuovo equilibrio con la presenza del PCI, che si riteneva rispondesse alla volontà degli elettori, nella direzione del paese.
Quando verso la fine della campagna elettorale, in una trasmissione televisiva, il giornalista Arturo Gismondi chiese a De Martino se i socialisti, potendolo, avrebbero accettato di andare al governo senza il PCI, ne ricevette un deciso diniego. Era una risposta coerente con la linea assunta dal congresso del partito. De Martino non poteva, come segretario nazionale del PSI darne, forse, una diversa. Ma tutta l’Italia ebbe da quella risposta la netta convinzione che il PSI non era più un-protagonista della politica italiana. Che suo compito era ormai quello di “tirare la volata” al PCI.
Per dirla con espressione meno pittoresca, risultava evidente che la politica degli “equilibri più avanzati” era pienamente fungibile e complementare a quella del compromesso storico di Berlinguer.
Essa era stata formulata e approvata dal PSI come una sorta di variante tattica della politica della “alternativa”: ma la variante aveva finito per cancellare la sostanza di questa, e proporsi come sussidiaria alla politica del PCI, che rifiutava allora ogni progetto di alternativa.
La discussione sull’alternativa, nel congresso socialista, era stata animata, e non era giunta, in realtà, a un concreto punto conclusivo. Riccardo Lombardi, che era stato l’ispiratore iniziale, sosteneva l’alternativa “secca”, una proposta politica rispondente cioè essenzialmente a quello che veniva considerato uno “spostamento a sinistra” della società italiana, al quale doveva corrispondere, a suo parere, una esclusione della DC dalla guida del paese, così come era avvenuto in larga parte delle amministrazioni locali e in molte regioni. L’unica condizione che Lombardi poneva era quella della formulazione di un “programma comune” delle sinistre, che legittimasse la richiesta di governare la società nazionale una volta defenestrata la DC.
Gli autonomisti nenniani e la corrente di Mancini non respingevano l’alternativa come proposta di fondo, ma la condizionavano a un mutamento dei rapporti di forza all’interno della sinistra, e a una revisione di analisi e di proposte, tale da allontanare ogni sospetto che l’alternativa significasse una alternativa al sistema e una fuoriuscita dal capitalismo. De Martino, che aveva da solo quasi la maggioranza del partito, si collocava su una posizione intermedia: accettava, nella sostanza, la proposta lombardiana, ma la condizionava alla possibilità di realizzare una fase di passaggio nella quale si configurasse un’alleanza tra DC, PSI e PCI, che permettesse di governare il paese nel presente, e fronteggiare i gravi problemi che si era chiamati ad affrontare, dalla crisi economica al terrorismo.
Nenni aveva proposto a tal fine un governo di emergenza, non allo scopo di preparare il terreno per l’alternativa, ma per ristabilire quelle condizioni di agibilità democratica nelle quali riprendere poi il cammino della politica autonomistica del PSI. Tutti, in realtà, in un modo o nell’altro – con l’eccezione di Lombardi – convenivano con un governo dove fossero presenti il PCI e la DC. In sostanza, non s’erano registrate a quel momento divergenze notevoli dalla linea demartiniana, tanto e vero che la risoluzione conclusiva dell’ultimo congresso era stata adottata con una maggioranza del 90 e più per cento.
Era la prima volta, dall’epoca frontista, che un segretario del PSI si trovava in una posizione così forte e così fortunata. L’aveva osservato Giacomo Mancini nel discorso congressuale, quando rivolgendosi allo stesso De Martino aveva rilevato che proprio questa circostanza “investiva il segretario di un’enorme responsabilità”.
Questa “enorme responsabilità” ricadde sulle spalle di De Martino con lo scacco elettorale del PSI. Del quale non gli si poteva, al momento, fare personalmente una colpa esclusiva, perché non aveva trovato nel congresso se non collaborazione da parte degli altri, forse perché l’assise si era svolta alle soglie della campagna elettorale, e non si volevano divisioni interne.
Si concludeva con il risultato elettorale tutto il ciclo della gestione demartiniana, che non era stato, al di là del valore personale di questo autorevole dirigente socialista, una delle più felici della storia del partito.
De Martino stesso se ne accorse. E con il suo senso della storia, e l’innata misura dell’uomo di elevata cultura, si preparò a realizzare, insieme con gli altri dirigenti più prestigiosi, una procedura di sostanziale mutamento nella guida politica del partito.
La situazione precipitò a seguito di una crisi interna alla corrente dello stesso segretario del partito, nella quale si verificò una spaccatura che costrinse De Martino a rassegnare le dimissioni all’atto di apertura dei lavori del comitato centrale, che all’inizio di luglio si svolsero a Roma, all’Hotel Midas sulla via Aurelia. A quelle di De Martino seguirono le dimissioni di tutta la direzione.
Non vi fu, in realtà, neppure un approfondito dibattito sulle cause della sconfitta elettorale e sulle eventuali modifiche della linea politica che l’aveva provocata.
Tutta l’attenzione del comitato centrale si concentrò sulla scelta del nuovo segretario e sull’esigenza di un rinnovamento del gruppo dirigente nel suo complesso. Due erano le candidature alla segreteria: quella di Giolitti, che veniva ascritto alla corrente di De Martino, anche se indubbiamente aveva una sua propria personalità politica e un elevato prestigio culturale; l’altra era quella di Bettino Craxi, autonomista da sempre, molto vicino a Nenni, che era stato vicesegretario del partito ininterrottamente dal 1970 e che dopo le elezioni recenti aveva assunto l’incarico di presidente del gruppo dei deputati socialisti. Giolitti era sostenuto dalla sinistra di Lombardi, oltre che dallo stesso De Martino. Su Craxi puntarono gli “autonomisti” nenniani, come era ovvio, e Giacomo Mancini, convinto dell’esigenzà di una figura nuova, di un dirigente giovane, ma già sperimentato, che, dirigendo il partito, ne rinnovasse completamente l’immagine. Giolitti, cui nessuno poteva negare titoli e meriti, avrebbe rappresentato, tuttavia, il vecchio modo di essere del PSI, e non avrebbe offerto quell’immagine di trasformazione del partito che si rendeva drammaticamente necessaria, dopo una sconfitta elettorale così cocente, e tale da avvalorare l’ipotesi che i socialisti fossero una “razza in estinzione”.
Mancini riuscì a convincere l’ala dissidente della corrente demartiniana che era capeggiata da Manca: e dalla convergenza tra questa, i nenniani e i manciniani nacque l’accordo sul nome di Craxi. Egli fu eletto segretario dalla nuova direzione, della quale Francesco De Martino con un atto di coerenza chiese di non far parte; ed ebbe il voto favorevole di tutti i componenti, ad eccezione dei lombardiani che si astennero.
A Craxi fu affiancata una segreteria rappresentativa delle tendenze che, dunque, non avevano del tutto smobilitato. Era composta da Manca, da Signorile, da Lauricella e da Landolfi. Doveva durare non più di un anno e mezzo fino al successivo congresso.

Dopo il Midas

Il gruppo dirigente del PSI uscito dal Midas si trovò ad affrontare una somma enorme di problemi esterni e interni al partito.
S’era infatti avviata in concreto la politica che era stata definita della “solidarietà nazionale”, sulla base di un dialogo ormai preferenziale tra DC e PCI. Pochi giorni dopo la sessione del comitato centrale che aveva portato Craxi alla testa del PSI, veniva varato il governo Andreotti al quale veniva riservata la singolare sorte di non ottenere ne la fiducia né la sfiducia delle Camere, perché i partiti, ai quali il governo si rivolgeva per essere sostenuto, si limitarono ad astenersi, con l’eccezione, naturalmente, della DC.
Fino a quel momento l’artefice delle formule parlamentari e governative più inusuali, ed anche astruse, era considerato Aldo Moro. A lui s’era dovuta, agli inizi del centro-sinistra, quella delle “convergenze parallele”. La palma, in questa specialità, passò nell’agosto del 1976 ad Enrico Berlinguer: fu lui, infatti, a coniare e a volere la formula della “non sfiducia”, come fu definita quella singolare situazione parlamentare che si veniva a creare con una maggioranza che non votava il governo che s’intendeva far vivere. Lo conferma la Valentini in Berlinguer segretario.(1) Il PSI fu colto di sorpresa dalla spregiudicatezza di Berlinguer che aveva preferito l'”atterraggio morbido” nell’area della maggioranza. Con questa mossa, tra l’altro, il PSI era totalmente spiazzato: chi aveva ormai in mano le sorti del governo era il PCI che, senza essere vincolato a impegni di maggioranza, ne faceva dipendere la durata dal suo consenso ai comportamenti dell’esecutivo.
Questa situazione, alla lunga, finirà per creare difficoltà allo stesso Berlinguer. Ma, per intanto, la funzione di interlocutore della DC nelle maggioranze parlamentari, che il PSI aveva esercitato per oltre un quinquennio, veniva bruscamente a cessare. E il PCI ne prendeva il posto, sia pure in una forma anomala.
Il PSI avrebbe preferito un altro tipo di soluzione, come quella, su cui insisteva Nenni, del “governo di emergenza”, o addirittura il passaggio all’opposizione, come suggeriva Lombardi. Ma finì per subire il gioco e accodarsi, rimandando ad altra occasione l’esordio di un’iniziativa più autonoma.
In quel che restava del 1976 e per tutto il 1977 la politica socialista appariva incerta e oscillante. In un comitato centrale dell’autunno del ’76 vi fu persino un tentativo di riprendere A discorso di un possibile bicolore DC-PSI con eventuale appoggio esterno del PCI, ma non se ne fece nulla, anche perché i segnali che provenivano da via delle Botteghe Oscure non erano affatto favorevoli. Restò l’idea di tentare la via della composizione di un governo organico di unità nazionale che però non uscì mai dal vago, né diede luogo a iniziative significative.
Tutto questo anche perché all’interno del partito le acque tornavano a essere agitate. Si profilava nella segreteria e nella direzione un’intesa tra gli ex demartiniani di Manca e i lombardiani rappresentati da Claudio Signorile in segreteria. L’intesa appariva minacciosa per lo stesso segretario del partito, che veniva già indicato alla base come non proclive alla linea alternativistica approvata dal congresso. La situazione divenne più esasperata nell’occasione del dibattito parlamentare sulla Lockeed, quando i gruppi socialisti non votarono per il rinvio a giudizio degli ex ministri democristiani. Un movimento di base occupò il 6 marzo 1977 la sede della direzione del partito, vi fu a Roma una adunata degli iscritti per protestare contro la dirigenza del partito. La Federazione giovanile, che doveva tenere il suo congresso nazionale, si pose all’avanguardia di un tentativo di radicalizzazione del partito, giungendo a inneggiare a un segretario diverso da Craxi.
Questi, tuttavia, andava rafforzandosi, aumentando la sua forza nel comitato centrale e nei gruppi parlamentari, grazie a una crescente adesione alla sua linea da parte dei dirigenti, deputati e senatori ex demartiniani e, soprattutto, ex manciniani.
Si rafforzava anche in quei settori dell’opinione pubblica che, almeno potenzialmente, vedeva in Craxi un out-sider del gioco sempre più fitto che s’intrecciava tra la segreteria del PCI, il governo e la segreteria della DC spalleggiata da Moro.
Craxi non commise l’errore di assumere la bandiera di una posizione di contestazione della “solidarietà democratica” secondo moduli di “destra”. Comprese le difficoltà cui andava incontro Berlinguer, che veniva attaccato dall’esterno ed ormai criticato apertamente anche all’interno del PCI per il troppo lento procedere della sua strategia rivolta a legittimare l’ingresso del PCI nel governo del paese. Del resto la situazione generale dell’Italia era tale da sconsigliare al PSI, e al suo segretario, un’iniziativa diretta a provocare una crisi di governo, nel momento in cui più aggressiva si faceva l’azione del terrorismo e in cui la crisi economica, contrassegnata da una paurosa iperinflazione, accentuava il disagio delle masse popolari.
Mostrando di essere convinto che le cose andavano viste secondo questa analisi, Craxi cambiò gradualmente rotta, mettendo la barra a sinistra in vista del nuovo congresso che era convocato per la primavera del 1978. Incaricò una commissione di intellettuali socialisti di preparare un progetto di tesi da sottoporre al dibattito delle sezioni e delle federazioni. Il progetto, redatto sulla base della scelta strategica dell’alternativa, costituì il punto di incontro di craxiani, lombardiani, personalità provenienti dal movimento cattolico, ex giolittiani. Il progetto apprezzabile per la ricchezza di idee, per spunti di cultura politica di penetrante interesse, risultava però del tutto elusivo su alcune questioni politiche fondamentali. Su tutte, una: esso cancellava, per opportunità tattica, la ormai tradizionale divergenza tra i lombardiani e gli altri settori del partito sui “tempi” dell’alternativa.

Il congresso di Torino

Intorno al progetto non si formò l’unità del partito: si creò una maggioranza di craxiani e lombardiani che raccoglieva nei precongressi il 63,05%. Alla mozione “Unità e Autonomia per l’Alternativa” (De Martino e Manca che s’erano ricongiunti) andava il 25,9%; a “Presenza Socialista” (Mancini) il 7,1 % e al gruppo di “Sinistra per l’Alternativa” (guidata da Achilli e Benzoni) il 3,95%.
Nel mentre si svolgevano i congressi provinciali, il PSI si trovò ad affrontare, come tutte le altre forze politiche del paese, le tragiche vicende del caso Moro.
La differenziazione tra i vari settori del partito che s’era verificata nel dibattito congressuale non si ripeté in riferimento alla linea che il partito seguì in questa vicenda, e che lo portò a caratterizzarsi nettamente rispetto alla DC, al PCI e agli altri partiti della “solidarieta nazionale”.
Il gruppo dirigente fu compatto, sia pure con qualche rarissima riserva. L’unica personalità socialista ad assumere apertamente una posizione favorevole alla linea della “fermezza” che i socialisti pressoché unanimemente contestavano, fu Sandro Pertini.
Le decisioni congressuali furono in una certa misura condizionate, per quanto riguardava la linea politica generale, dal clima pesante che si era instaurato nel paese a seguito della vicenda del rapimento del presidente della DC. Questa però non incise sull’andamento delle questioni interne del partito.
Nel corso dei lavori del XLI congresso – che si svolse a Torino dal 29 marzo al 2 aprile del 1978 – rimase salda la convergenza tra lombardiani e craxiani, anche se il segretario del partito sembrò accentuare la propria impostazione politica, specie nel corso della sua relazione. Cosa che appare evidente, come osserva Antonio Ghirelli quando tratta il tema dell’alternativa, nel suo libro Efletto Craxi, che contiene una puntuale e lucida ricostruzione degli avvenimenti socialisti in quella fase: “Con l’aria di voler sgombrare il terreno da ambiguità e doppiezze” – come dirà più tardi un acuto osservatore dei lavori di Torino – il relatore pone “una tale serie di se e di ma che finiscono per far sfumare questa soluzione in un futuro altrettanto vago e indeciso”.
E un’idea, sostiene, intorno alla quale “nascono diverse problematiche che nessuna parola d’ordine può facilmente sciogliere, e nessun atteggiamento velleitario può semplificare”. Anzitutto bisogna mettersi d’accordo (con. i comunisti) sul tipo di socialismo che si persegue. Non un’utopia, un’idea salvifica, ma neppure il dominio di una nuova classe burocratica. Dunque, un socialismo nella libertà e nella democrazia nel quale possano riconoscersi non solo quelli che vivono del proprio lavoro, ma “anche coloro che, lavorando con responsabilità nel settore privato dell’economia, lavorano nel medesimo tempo per sé e per gli altri”. In secondo luogo bisogna precisare “con chi” vada realizzata l’alternativa. Va bene la forza politica e sindacale della sinistra, purché conti su “un vasto consenso maggioritario”; questa preoccupazione spiega l’insistenza con cui il nuovo gruppo dirigente del PSI parla di “tappe necessarie di chiarificazioni successive”, nonché il riferimento del Progetto ad un’alleanza riformatrice… Anche il contesto internazionale deve essere quello dell’Europa occidentale, con i suoi “valori” e le sue “istituzioni”… In ogni caso, dell’immediato – osserva Ghirelli – non si parla; nessuno parla dell’alternativa: il processo storico-politico che la sua realizzazione comporta, appartiene al futuro”.(2)
Per l’immediato il congresso decide quasi all’unanimità, con la sola opposizione del gruppo di Achilli, di approvare un documento, nel quale si “approva la politica di unità nazionale di tutte le forze democratiche diretta a far uscire il paese dalla grave crisi”; si afferma che “la maggioranza che si è costituita in Parlamento nella tragica giornata del 16 marzo, pur non realizzando interamente la richiesta del PSI per un governo organico di emergenza, costituisce un punto di riferimento valido per l’unità nazionale e rappresenta un risultato positivo della proposta fatta da tempo dal PSI perché, da parte di tutte le forze politiche, e in particolare da parte della DC, si prendesse atto della situazione di emergenza in cui si trova il paese e della necessità di non opporre un rifiuto all’offerta di disponibilità e di responsabilità democratica che veniva dall’insieme delle forze della sinistra”. Ed aggiunge: “Il significato primo della politica di unità nazionale è quindi quello di far cadere pregiudiziali e discriminazioni rispetto al dovere comune di tutte le forze democratiche di difendere la Repubblica”.(3)
Il congresso, in definitiva, rinviava al futuro la politica di alternativa, e ribadiva la posizione socialista favorevole alla costituzione di un governo organico, d’emergenza, con la partecipazione di tutte le forze della sinistra. Era un atto di responsabilità verso il paese, che si trovava ad affrontare circostanze durissime, quali in primo luogo l’offensiva terroristica culminata proprio in quelle settimane con il sequestro e la prigionia di Moro; e quella di una congiuntura economica sfavorevole che insidiava innanzitutto il tenore di vita, l’occupazione e le conquiste dei lavoratori.
La sensazione che affiorò nella stampa e nell’opinione pubblica fu, peraltro, quella dell’accentuarsi del carattere di indipendenza e di autonomia del PSI, e del suo ritorno a un ruolo non marginale, quale quello cui era stato costretto dalla sconfitta del 1976. Si prefigurava cioè un nuovo corso della politica socialista, che non sfuggiva agli osservatori più attenti.

Le novità nel PSI

Le maggiori novità il congresso di Torino le arreca nella vita interna del partito.
Non sono scomparse le correnti, come pur si era dichiarato da ogni parte di volere al momento del ricambio della segreteria e dei vertici del PSI, al Midas. Esse risorgevano dalla diversificazione politica che s’era registrata all’apertura del dibattito congressuale. C’era stata la ricomposizione della corrente demartiniana, per iniziativa di Manca. Aveva ottenuto una consistente affermazione in voti: ma, subito dopo il congresso, essa si autodisciolse, per non più ricostituirsi, per volere dello stesso De Martino.
La corrente di Mancini subì un ridimensionamento notevole: in due anni discese dal 22% del XI, congresso, al poco più del 7% di Torino, perdendo i due terzi dei propri effettivi, quasi tutti confluiti sulle posizioni craxiane. Restò forte la presenza della “sinistra” di Lombardi, nonostante la secessione del gruppo di Achilli. L’anziano leader ne rimase l’ispiratore, ma la gestione effettiva della corrente era passata nelle mani dei giovani, in particolare di Signorile, De Michelis e Cicchitto, che avevano operato decisamente in direzione dell’alleanza “generazionale” con Craxi.
Nella riunione del comitato centrale del successivo 6 aprile viene eletta la nuova direzione, drasticamente ridotta nel numero dei suoi componenti, che sono soltanto 25. Questa elegge, con 19 voti contro 6 astensioni, Craxi segretario e Signorile vicesegretario. Vi rientra De Martino, e, ovviamente, Mancini. Entrambi assumono nel partito il ruolo che ad essi compete per la loro personalità, il loro prestigio e la loro vasta popolarità. Ma alle loro spalle s’è dissolta ogni forza organizzata reale.
Il Merkel, uno studioso tedesco che ha dedicato un interessante saggio alle trasformazioni del PSI, sostiene infatti che da quel momento in poi l’opposizione interna al partito viene ad essere Aimitata alla persona di queste persone, non potendo più esse contare sul sostegno di una corrente politica organizzata”.(4)
Ci si avviava a una concentrazione di forza decisionale nelle mani di Craxi. Ma si era all’inizio di un processo che si concluderà – dopo qualche scossone – pochi anni dopo.
Comunque il XLI congresso legittimava sostanzialmente la scelta del Midas. Faceva avanzare alla ribalta una generazione di “quarantenni” alla guida del partito.
A questa profonda trasformazione al vertice non seguiva tuttavia un rinnovamento sostanziale nella struttura e nella vita interna del partito. Soprattutto alla periferia, dove il vecchio personale politico era ancora dominante; ed i metodi di gestione politica ed organizzativa restavano ancora quelli di un tempo. Inoltre, nelle federazioni, nelle organizzazioni di base la conflittualità non tendeva affatto a ridimensionarsi. Si spostava sempre di più, invece, dal terreno delle scelte politiche a quello degli interessi e delle collocazioni personali e di gruppo.
Tanto alla periferia quanto al centro, si assisteva – come rileva sempre il Merkel – ad “un processo di concentrazione delle correnti” che conduce a “una razionalizzazione della struttura del potere nel partito”. Dal “sistema correntizio” si passa a un “sistema asimmetrico-bipolare”, ove a una consistente posizione della sinistra, rappresentata pressoché esclusivamente dai lombardiani, si va contrapponendo una maggioranza riformista sempre più estesa”.(5)

La posizione del PSI sul caso Moro

La nuova dirigenza socialista si trova ad affrontare i problemi drammatici del “caso Moro”.
A circa un mese dalla strage di via Fani e dal rapimento dello statista democristiano, una cosa appare certa agli occhi dei socialisti: che le indagini e la mobilitazione degli apparati pubblici ben poco danno da sperare. L’ipotesi di una liberazione di Moro da parte delle autorità competenti appare sempre più evanescente.
Il dilemma, nella sua tragicità, è di stringente semplicità: o si lascia Moro alla mercé dei brigatisti, con la conclusione sempre più prevedibile e temuta della sua fine per mano degli assassini; oppure si assume una qualche iniziativa che consenta di forzare la situazione e di aprire uno spiraglio per una soluzione favorevole alla vita del presidente della DC.
I partiti della maggioranza di governo, con PCI e DC alla testa, sono per una posizione di intransigenza assoluta, di fermezza come viene definita: nessuna iniziativa, rispondere esclusivamente con l’azione degli organi di polizia, nella speranza – sempre meno credibile – di scoprire “il covo” dove Moro è tenuto prigioniero e giungere alla sua liberazione.
Questa motivazione appare sempre di più come un alibi, perché tutti ormai capiscono che si tratta di una ipotesi del tutto astratta. L’inefficienza dell’apparato repressivo balza agli occhi di ogni osservatore obiettivo. Negli anni successivi, specie con le indagini della Commissione P2, al giudizio di inefficienza si sovrapporrà il sospetto della volontà di inazione.
Le numerose lettere che provengono da Moro, scritte di suo pugno, invitano uomini della DC, degli altri partiti, responsabili delle istituzioni a seguire una strada diversa. Nella loro drammaticità rivelano la totale sfiducia dello statista in una soluzione “di polizia” e insistono per seguire la strada di possibili iniziative che permettano una soluzione positiva della vicenda.
Il PSI, dopo qualche iniziale esitazione, quando il quadro della situazione appare in tutta la sua drammatica evidenza, sceglie questa strada, che è la più coerente, la più logica, la più umana.
Non dobbiamo qui rievocare la storia della vicenda di Moro.
Conviene coglierne il significato politico e morale, e porre in rilievo la tensione ideale cui tutto il PSI si ispirò in quelle circostanze.

L’elezione di Pertini

Dopo il 9 maggio, con l’assassinio di Moro risultò sempre più chiaramente come il quadro politico generale del paese non potesse più essere quello di prima.
Da un lato la politica di solidarietà nazionale cominciò a dare subito segni di crisi. Il PSI, dal canto suo, aveva riacquistato nello scontro con i partiti della fermezza la coscienza piena della propria indipendenza politica e l’orgoglio delle proprie origini.
Non poteva più essere considerato una forza politica ausiliaria nell’ambito di un disegno politico globale imperniato su un’alleanza tra i due maggiori partiti che appariva sempre di più in difficoltà. La convergenza sulla linea della fermezza aveva solo formalmente cementato i due partiti. Ognuno ormai diffidava dell’altro e nei democristiani s’era sparso il seme del dubbio su una possibile diversa soluzione della vicenda.
Le elezioni amministrative del 14 maggio segnarono un vero e proprio crollo elettorale del PCI, che perse circa 9 punti. Gli elettori non avevano evidentemente premiato la politica della fermezza.
La crescita di ruolo del PSI venne evidenziata dalla vicenda, anch’essa ricca di zone d’ombra, delle dimissioni di Leone e dell’elezione del nuovo capo dello Stato.
Leone affermerà dieci anni dopo che le sue dimissioni -avvenute in seguito alla pubblicazione di un “libro-scandalo” della Cederna, poi smentito dal giudizio della magistratura -furono determinate dalla posizione che egli avrebbe assunto proprio nella vicenda Moro.(6)
A succedere a Leone fu eletto Sandro Pertini. Berlinguer aveva voluto e, in un certo senso, imposto le dimissioni di Leone.
Un socialista ascende al Quirinale. Commenta Ghirelli nel suo libro: “Le circostanze sono note, così come è noto che la vittoria di Berlinguer si trasforma in un successo per Craxi, cioè l’elezione di un socialista come successore del presidente fuggiasco. Il primo a fare il nome di Pertini come di un possibile candidato di maggioranza è Giacomo Mancini, che ne parla il 21 giugno in una intervista telefonica con un redattore di Taese Sera”, Fabrizio Coisson. C’è anche un secondo candidato del PSI, Antonio Giolitti, al quale pare vadano almeno per ragioni anagrafiche le preferenze del segretario, e presto ne spunteranno altri”.(7) Prevale Pertini, con una larghissima votazione, che inizia così il suo settennato, contrassegnato dalla conquista della simpatia e della popolarità della stragrande maggioranza degli Italiani e da iniziative apprezzate perché ispirate dalla esigenza di difesa degli interessi della gente comune e della pubblica moralità.
Nella seconda metà del ’78 e nella prima parte del ’79 la situazione politica è tutta caratterizzata dalla graduale, ma inarrestabile crisi della solidarietà democratica, fino allo scioglimento ancora una volta anticipato delle Camere.
La legislatura si concludeva con un PSI più combattivo e già rinnovato nel suo gruppo dirigente, che aveva affrontato la bufera del caso Moro su una posizione di indipendenza e di coraggio, che non si era fatto stringere nella tenaglia del compromesso storico e che poteva vantare il successo della elezione di un suo uomo di grande prestigio alla più alta carica dello Stato.
Anche sul piano parlamentare il bilancio socialista non era negativo. L’attività parlamentare del PSI si andava rivolgendo sempre di più ai settori dei diritti civili, della giustizia, dei problemi del corretto funzionamento dei “corpi separati”, a cominciare dai servizi di sicurezza, dell’ordinamento del Consiglio Superiore della Magistratura, della sindacalizzazione della polizia.
In entrambi i rami del Parlamento tornava a manifestarsi una maggiore vivacità di iniziativa, in consonanza con la maggiore vitalità e freschezza che il rilancio del partito mostrava sul piano politico generale.
Alle elezioni del 3 giugno del 1979, il PSI che aveva condotto la campagna elettorale sottolineando l’impegno di assicurare la “governabilità” del paese, e sfumando la proposta del governo di emergenza a partecipazione comunista, (8) otteneva il 9,8% dei voti, contro il 9,6% di tre anni prima.
Il risultato segnava un impercettibile miglioramento, quasi un nonnulla.
Il “nuovo corso” socialista sembrava non aver prodotto nessun effetto, almeno sotto il punto di vista dei consensi elettorali. Ma rispetto alle elezioni precedenti, si doveva tener presente il forte successo ottenuto dai radicali, che erano passati dall’1,6 al 3,4%, con una campagna elettorale apertamente ostile all'”unità nazionale”, che aveva loro permesso di assorbire la più gran parte del calo comunista (dal 34% al 30,4%).
Era, questa, una indicazione indiretta al PSI, nel senso di una più marcata caratterizzazione.
Nelle consultazioni europee che si tennero appena una settimana dopo, il PSI saliva all’11% probabilmente a spese del PCI, che scendeva ancora attestandosi sul 29,5%.
Nonostante il non soddisfacente quadro dei risultati elettorali per il Parlamento nazionale, il PSI si vide offrire la possibilità di tentare un’alternanza alla guida del governo (tenuto sempre dai democristiani dal lontanissimo 1945), con l’incarico di formare l’esecutivo ottenuto da Craxi, dopo un fallimento di Andreotti.
Il tentativo di Craxi fu contrastato dal PCI e dalla DC, la cui segreteria dichiarò che il partito che aveva la maggioranza, sia pure relativa, non poteva cedere la guida del governo a un altro.
L’incarico a Craxi era servito, tuttavia, ad evidenziare la “centralità” che il PSI stava andando ad assumere nello schieramento politico italiano.
Si costituiva, dopo una lunga crisi, un governo presieduto da Cossiga, con democristiani, socialdemocratici e liberali al quale i socialisti davano la loro astensione differenziandosi, dopo quattro anni, dal PCI, che votava contro. La decisione era presa pressoché all’unanimità dal comitato centrale (solo il gruppo di Achilli votava contro), ed era motivata con l’esigenza di “una reale tregua della situazione politica”, mentre si richiamavano tutte le forze democratiche “alla comune responsabilità” sulla governabilità del paese.
Pochi mesi dopo si registrava nel partito un avvenimento nuovo: veniva a infrangersi la maggioranza del congresso di Torino.
La frattura avveniva in direzione, il 25 ottobre 1979, sulla questione della installazione dei Pershing e dei Cruise, in risposta al dispiegamento degli SS 20 sovietici.
La sinistra di Lombardi e il gruppo di Achilli si dichiararono contrari, mentre tutto il resto della direzione, compresi i manciniani e gli ex demartiniani, consentivano con la posizione del segretario, favorevole alla richiesta di installazione.
L’episodio si andava a inquadrare in una situazione di fermento che serpeggiava nel partito, anche in ragione di una polemica interna sollevatasi a seguito del cosiddetto “affare ENI-Petromin”. I rapporti che si erano andati cementando nel corso degli ultimi anni tra la componente craxiana e quella della “sinistra”, coordinata da Signorile, apparivano ormai deteriorati.
S’era tornati al vecchio sistema antecedente al Midas, delle contrapposizioni in sedi esterne al partito; veniva da alcune parti affacciata persino l’ipotesi di un cambio al vertice.
La stampa avversaria non mancava di ingigantire questi scontri, che in effetti erano però tornati ad esistere.
L’l gennaio del 1980 sopraggiunse la notizia della morte di Nenni. Veniva a mancare l’uomo che da circa sessant’anni era stato protagonista delle vicende socialiste, e per lungo tempo aveva avuto la guida incontrastata del partito, in fasi politiche diverse e, a volte, contraddittorie.
L’emozione e il cordoglio furono enormi nel partito, nel paese e nel mondo: Nenni era infatti popolarissimo e conosciuto da tutti e dappertutto.
La morte di Nenni coincideva con un momento difficile. Il comitato centrale del 16 gennaio vide una ricomposizione unitaria con l’approvazione di un ordine del giorno che rilevava come “il congresso democristisano, ormai imminente, rappresentava la conclusione della tregua politica dell’estate, e sosteneva la formazione di un governo di emergenza e di solidarietà democratica con la presenza delle forze democratiche disponibili”. Lombardi era eletto presidente del partito: ma rimase in carica non più di due mesi, dimettendosi.
Il congresso democristiano (dal 16 al 20 febbraio) segnò la vittoria del cosiddetto “preambolo” con il quale si dichiarava che la DC rifiutava corresponsabilità di governo con il Partito comunista.
Nelle nuove condizioni che si venivano a creare, e tenendo conto dell’aggravarsi della situazione dell’ordine pubblico, per la sempre più aggressiva azione del terrorismo, e dell’economia italiana, in una nuova riunione del comitato centrale (20-21 marzo) il PSI deliberava la sua “disponibilità” a far parte di un governo di garanzia democratica, sulla base di un programma rivolto ad affrontare i due più gravi problemi che incombevano sulla vita nazionale: il terrorismo e l’inflazione.
La decisione che era presa con 121 voti favorevoli, 8 astensioni e solo 7 voti contrari, schiudeva le porte a un ritorno del PSI nel governo del paese. Erano passati quasi sei anni dall’ultima volta in cui il PSI aveva assunto questo tipo di responsabilità, ed in tutti questi anni l’Italia aveva vissuto una crisi di immani proporzioni. La scelta era giusta e, sia pure in modi diversi, tutto, o quasi tutto, il partito l’accettava.

Capitolo 13

LA NUOVA IDENTITA CULTURALE

La terza fase del revisionismo

Negli anni immediatamente successivi al Midas si sviluppò un intenso dibattito culturale e politico, nel quale affiorarono nuove idee, nuove elaborazioni e nuovi temi di discussione nel segno di una sempre maggiore apertura e di maggiore libertà dalle schematizzazioni dogmatiche e ideologistiche che ancora ostacolavano il dispiegarsi di un processo di rinnovamento del pensiero e dei comportamenti politici dell’area socialista.
Si è parlato, con riferimento a questo periodo, di una specie di “rivoluzione culturale” nel PSI post-Midas.
Così la definisce Arturo Gismondi, che, nel suo libro sul periodo della solidarietà nazionale, ricorda: “Proprio mentre da settori diversi della cultura e della politica si mette in dubbio la sopravvivenza di un significativo spazio autonomo del PSI, e da qualche parte si avanzano prognosi infauste sull’avvenire e sulla sopravvivenza dello stesso partito, la cultura socialista manifesta segni di risveglio e di vitalita”. Ed indica un avvenimento preciso: “Una settimana dopo l’elezione di Craxi alla segreteria… si apre a Roma il convegno di “MondOperaio” su La questione socialista dopo il 20 giugno. Soprattutto per merito della relazione introduttiva di Norberto Bobbio, il convegno eserciterà un influsso non secondario sugli orientamenti del PSI nei mesi e negli anni successivi”. (1)
Certamente la presenza e la parola di Bobbio non rappresentavano una novità in sé per l’attività culturale dei socialisti.
Fin dagli inizi degli anni Cinquanta non aveva taciuto -anche in aperta polemica con Togliatti – la sua critica dello stalinismo e delle strumentalizzazioni partitiche della cultura, rivendicando sempre l’indipendenza della ricerca e l’autonomia dell’espressione artistica e del pensiero. Restano ancora vive le pagine di Politica e cultura, il libro che raccoglie le sue polemiche e i suoi saggi in proposito.
Dopo il 1956 fu tra i protagonisti della stagione revisionistica, che per impulso degli scritti sullo stalinismo di Nenni, i De Martino e altri dirigenti del PSI, caratterizzò tutto il processo di presa di coscienza autonoma e critica del PSI. Se si scorre l’antologia dei testi degli anni ’55-62, si ritrovano con Bobbio, nell’opera di ideazione revisionistica, Agazzi, Basso, Cafagna, Calvino, Cassola, De Martino, Della Mea, Foa, Giolitti, Guiducci, Libertini, Lombardi, Mancini, Momigliano, Nenni, Panzieri, Pizzorno. Cioè politici, sociologi, filosofi, economisti, scrittori. Introducendo questa antologia, Federico Coen, divenuto direttore di “MondOperaio” nel 1973, avendo come condirettore prima Sisinio Zito, poi, dall’agosto 1978, Roberto Villetti, giustamente notava che “la ricostruzione che qui si offre della stagione creativa del “revisionismo socialista”, nelle sue diverse componenti… e una testimonianza – per usare una fraseologia cara al PCI – che anche i socialisti Italiani “vengono da lontano”, che la parte decisiva che essi hanno nella lotta per la democrazia e il socialismo nel nostro paese non e dovuta a circostanze casuali, ma è il risultato di ricerche profondamente sofferte e lungamente meditate”.(2)
Il filone revisionistico era stato fortissimo e penetrante nella vita del PSI fin verso la fine degli anni Sessanta. Poi, negli anni successivi, il suo corso era parso oscurarsi e declinare, nonostante che una nuova generazione di studiosi e di giovani dirigenti ne avesse seguito e continuato il percorso. Tra di essi basti ricordare Tamburrano, Ruffolo, Arfè, Coen, Archibugi, Petriccione, oltre ai già citati Cafagna e Giolitti. Altri ancor più giovani, come Luciano Pellicani, offrivano già un fertile e spregiudicato contributo di idee.
Perché s’era registrato questo indebolimento del pensiero revisionista socialista, tra la fine degli anni Sessanta e la metà del decennio successivo? Perché esso ebbe un ruolo molto più affievolito nella cultura politica della sinistra e una sempre più ridotta influenza sulla vita e sui comportamenti dello stesso PSI?
La ragione di tutto questo è da ricercarsi, a ben vedere, nel fatto che il “revisionismo socialista”, fin dalla sua origine, si era diramato in due direzioni diverse e alla fine risultate addirittura opposte. Ad un “revisionismo democratico”, che conduceva il PSI ad assumere le caratterizzazioni tipiche dell’esperienza delle socialdemocrazie europee, propugnato da Nenni sul piano politico, e da Bobbio sul piano culturale, si era subito contrapposto un “revisionismo di sinistra”, propugnato da Della Mea, Libertini, Panzieri, Foa, ed in parte dallo stesso Basso. Questi era partito dalla critica allo stalinismo per tentare di reidentificare una nuova strategia rivoluzionaria basata sull’autonomia della classe operaia nelle strutture produttive del capitalismo e rispetto ai processi di burocratizzazione della forma-partito.
Questa seconda versione del revisionismo aveva presto abbandonato l’area politica e culturale del PSI, s’era dapprima identificata con il PSIUP, aveva dato vita alla rivista “Quaderni Rossi”, incontrandosi con spezzoni culturali della sinistra comunista, era confluita infine nel gran magma culturale della contestazione studentesca e della lotta operaia di quegli anni.
Il contesto complessivo delle vicende della sinistra italiana di quegli anni aveva finito per ridurre a esperienza puramente residuale e demodée l’area del revisionismo socialista democratico mentre aveva dato lustro a quel filone del revisionismo rivoluzionario (non lontano dall’antico revisionismo del sindacalismo rivoluzionario del primo decennio del secolo XX).
Tale filone era stato assunto con tutti i titoli di nobiltà “rivoluzionaria” nella cultura del ’68 studentesco, ed aveva fatto da “ponte” tra il movimento degli studenti e quello operaistico dei primi anni Settanta. “Quaderni Rossi”, in questo senso, ne aveva costituito l’esempio più noto e più appropriato.
Chi s’era ispirato e continuava a ispirarsi invece al revisionismo socialista della seconda metà degli anni Cinquanta appariva una sorta di sopravvissuto, di fossile della cultura della sinistra, quasi un personaggio che girasse in ghette e monocolo nel mondo dominato dai blue jeans.
Il deterioramento della situazione interna del PSI, caratterizzata dalle furiose lotte tra le fazioni, e dal crescere dei fenomeni clientelistici e di malcostume, aveva fatto il resto.
Chi s’interessava più di revisionismo e di cultura? Tra l’altro chi aveva più magagne da non far contare finiva per far professione di ortodossia, dichiarandosi marxista e magari leninista e insorgendo contro chi citava Turati.
Purtuttavia, in concomitanza con il passaggio del PSI in un’area diversa da quella governativa, un primo risveglio s’era già registrato.
“MondOperaio”, con la direzione di Coen, aveva mostrato una maggiore vivacità, rispetto agli anni immediatamente precedenti, nei quali, non certamente per colpa di Giolitti ed Arfé, che ne erano stati condirettori, il periodico aveva battuto una certa fiacca, come riconoscerà lo stesso Arfé.(3) Un maggiore interesse culturale, e per il mondo degli intellettuali, s’era manifestato nel congresso del 1976, quando un gruppo di questi fu eletto nel comitato centrale: non era molto, ma era pur sempre un segnale di maggior attenzione.
S’erano poi svolti due convegni organizzati dalla Commissione nazionale cultura: uno a Roma, il 21 e 22 dicembre del 1975; l’altro a Milano, il 23 gennaio 1976. Avevano svolto le relazioni Francesco Alberoni, Vittorio Fiore, Roberto Guiducci, Gianni Statera, Luciano Cafagna (“Nuovo progetto socialista”), Walter Pedullà e Luciana Martinelli, Bettino Craxi nel convegno di Roma, dove erano intervenuti, tra gli altri, Furio Colombo, Mario Colangeli, Riccardo Lombardi, Marco Pannella, Lino Miccicchè, Massimo Pini, Claudio Signorile. A Milano erano stati relatori Landolfi “Crisi dei sistemi totalizzanti”) ed Ettore A. Albertoni, ed erano intervenuti Aldo Aniasi, Ugo Finetti, Carlo Fontana, Enrico Decleva, Paolo Grassi, Alfassio Grimaldi, Paolo Murialdi, Massimo Pini, Alceo Riosa, Carlo Ripa di Meana.(4)
Citiamo minutamente queste iniziative, sia perché i temi trattati (quali il “Nuovo progetto socialista” e “Crisi dei sistemi totalizzanti”) e sia perché molti dei partecipanti saranno i medesimi che contrassegneranno il dibattito politico-culturale del nuovo corso socialista. La stessa iniziativa del convegno di “MondOperaio”, che si tenne pochi giorni dopo il Midas, era stata ovviamente programmata in antecedenza alla svolta. I segni erano, dunque, già nell’aria. I tempi apparivano maturi.
La “svolta” non nacque dal nulla, non fiorì nel deserto delle idee. Naturalmente il nuovo corso diede un impulso note vole a un processo di rilancio del “revisionismo socialista” e delle iniziative dirette a qualificare le identità politico-culturali del PSI.
In esso la rivista del partito, il cui titolo viene sintetizzato in “MondOperaio”, offre – insieme con il Centro culturale omonimo – un contributo estremamente rilevante. Sotto la direzione di Coen, fino al 1983, e poi di Luciano Pellicani, la rivista; di Paolo Flores D’Arcais, successivamente di Giagni e di Baccianini, il Centro. Saranno entrambi sedi di dibattiti; di confronti e di ricerche su un arco amplissimo di temi che vanno dallo “Stato ed 9 marxismo” alla “Democrazia industriale”; da “Egemonia e democrazia” a “Socialismo e divisione del lavoro”.
Richiama l’attenzione del mondo culturale e politico soprattutto il dibattito che si svolge su “Egemonia e democrazia”, che è rivolto a esaminare e anche a dissacrare uno dei punti nodali della cultura della sinistra: quello del concetto di egemonia che, da Gramsci in poi sostituito al concetto di “dittatura del proletariato”, ha determinato equivoci e incertezze negli orientamenti democratici della sinistra italiana. Al dibattito partecipano intellettuali che esprimono ogni tendenza della sinistra, quali Amato, Bobbio, Cicchitto, Colletti, Covatta, Diaz, Galli della Loggia, Gerratana, Guiducci, Landolfi, Matteucci, Pellicani, Ricci, Salvadori, Spriano, Tamburrano.
Sulle pagine della rivista e nei convegni si incontrano nomi prestigiosi, Italiani e stranieri. Un ruolo determinante è svolto tuttavia, oltre che da Coen e Pellicani, da Amato e Cafagna, da Mughini, da Massimo L. Salvadori e da altri, tra cui i più giovani come Roberto Villetti.
Intorno a “MondOperaio” si muovono moltissimi rappresentanti delle nuove generazioni. E dal gruppo di “MondOperaio” nascerà sostanzialmente quel “Progetto socialista” le cui linee erano state già anticipate da Cafagna alla fine del 1975 e che, elaborato insieme con una serie di intellettuali che saranno coordinati da Covatta, rappresenterà – come abbiamo già avuto modo di vedere – la piattaforma congressuale del 1978.
Questa nuova fase revisionistica, pur mantenendo saldi collegamenti con le altre due, sia quella della fase antecedente alla prima guerra mondiale, sia quella successiva al XX congresso del PCUS, in particolar modo con quest’ultima, viene tuttavia gradualmente assumendo una sua cifra distinta e originale.
Una connessione fondamentale tra le tre fasi del revisionismo esisteva ed esiste, per almeno due aspetti che risultano costanti in ogni momento di esso. Il primo è quello della costante difesa dell’indissolubilità dei valori socialisti da quelli della democrazia politica (negati, almeno implicitamente, da quel settore del revisionismo di sinistra della fine degli anni Sessanta). Si era rifiutato, da Bissolati, Bonomi e Turati in poi, il concetto di “dittatura del proletariato”, e si andava contestando criticamente, alla fine degli anni Settanta, lo stesso concetto gramsciano di egemonia. Il secondo aspetto comune alle tre fasi del revisionismo e quello dell’identificazione con il riformismo, inteso non solo come teoria, ma anche e soprattutto come prassi; cioè comportamento delle classi sociali lavoratrici nella loro esistenza politica concreta e indirizzo di opposizione e/o di governo dei gruppi dirigenti socialisti che ai principi di revisionismo-riformismo si ispiravano e si ispirano.
Il revisionismo-riformismo in tutte le sue fasi si è sempre concretizzato e qualificato in un programma: dallo storico “programma minimo” degli inizi del secolo al programma sodalista dell’epoca autonomista della Costituente, al programmismo socialista del centro-sinistra, fino alle elaborazioni programmatiche che qualificano il “nuovo corso socialista” dopo il Midas.
Ha affermato Luciano Cafagna, uno dei protagonisti della terza fase revisionisfica, insieme con Amato e Pellicani: “Per quanto riguarda le posizioni propriamente programmatiche, val la pena di ricordare, anche se non ci si pensa spesso, che sono di prima ed originaria ispirazione socialista quasi tutte le innovazioni politiche di segno progressista introdotte in Italia dalla Costituente alla Repubblica, ai principi della Costituzione repubblicana, via via fino alle riforme, giuste o sbagliate che fossero, efficaci o inefficaci, degli anni ’60-70”. E proseguiva: “È importante ricordare che si dovettero vincere resistenze dei comunisti non indifferenti ad accettare le impostazioni programmatiche suggerite da Nenni, da Lombardi e da Fortuna, e che, comunque, da parte dei comunisti di idee programmatiche concrete ne vennero sempre pochissime: nei casi migliori, essi si affiancarono in momenti successivi all’iniziativa socialista”. Cafagna ne spiega così le ragioni: “Mentre la cultura socialista è infatti, nonostante tutti i difetti sociologici ed organizzativi del partito che se ne nutre, una cultura di autentica tradizione riformistica, quella comunista ha un’altra matrice tutt’altro che riformista: la concezione della politica come guerra da vincere”.(5)
Il carattere originale del revisionismo che si va affermando in concomitanza con il “nuovo corso” risiede invece nel fatto, segnalato acutamente da alcuni studiosi di area socialista, che esso non si qualifica e si caratterizza ormai più come negazione dell’interpretazione “rivoluzionaria” dell’ortodossia marxista, come lo fu nei primi due decenni del XX secolo; e neppure più come negazione dei principi e della prassi del leninismo-stalinismo, come era avvenuto dal 1956 in poi. In entrambe queste fasi prevaleva nel revisionismo, per necessità dei fatti storici, l’aspetto negativo e contestativo della dottrina con la quale si contrastava: ma per ciò stesso esso restava in qualche modo collegato alla medesima area culturale, al medesimo filone ideologico (il marxismo) nel quale sorgeva e si sviluppava in forma sia pure fortemente critica.
Osservava sempre lucidamente Cafagna: “A stretto rigore per revisionismo dovrebbe intendersi un tipo di teorizzazione che si tiene legato al ceppo dell’antica dottrina, modificando questa in alcuni punti, ma continuando il discorso che quella dottrina aveva impostato, e giustificando le variazioni introdotte, in rapporto critico ma non interrotto con quelle premesse teoriche”.
Sotto questo aspetto, il punto conclusivo delle prime due fasi del revisionismo, ed introduttivo della terza, può essere considerato la legittimazione di filoni culturali differenziati nel corpo teorico del socialismo.
S’indicava la matrice della cultura e del pensiero politico del socialismo attuale non più limitatamente nel marxismo, sia pure nella sua versione socialdemocratica: ad esso invece dovevano affiancarsi altri filoni teorici, tradizionali e moderni, quali quelli che risalgono a Proudhon, al socialismo risorgimentale, fino al socialismo liberale dei Rosselli, alle eleborazioni autogestionarie francesi e jugoslave degli ultimi decenni, fino a teorie maturate nell’ambito della cultura democratica anglosassone (come, potremmo aggiungere, esemplificativamente, la “teoria della giustizia” di Rawls). Lo stesso saggio a firma di Craxi apparso su l'”Espresso” nell’estate del ’79, che suscitò un nugolo di polemiche, in realtà non faceva altro che codificare un processo le cui premesse erano più che lontane: dal momento in cui, fin dall’avvio della vita democratica, lo stesso statuto del PSI non richiedeva più ai militanti l’adesione a una determinata ideologia (il marxismo).
Questa formalizzazione della libertà ideologica e religiosa degli aderenti al socialismo era stata duramente oscurata nell’epoca del frontismo, ma comunque era anche allora stata nominalmente rispettata, tant’è vero che nel 1947 erano stati ammessi nel PSI gli esponenti del Partito d’Azione, come Lombardi, De Martino, Foa e, successivamente, Codignola, che, provenendo da Giustizia e Libertà, erano di formazione liberal-socialista.
Agli inizi degli anni Settanta, erano venuti a far parte della famiglia socialista esponenti del movimento cattolico, come Labor, Acquaviva, Covatta, Benadusi ed altri ‘ che sicuramente non avevano mai manifestato una “fede” marxista, ne ad essi era stato, logicamente, chiesto di farlo.

I conti con il marxismo-leninismo

Un momento centrale del processo di revisione fu senza dubbio il convegno internazionale organizzato dal centro culturale “MondOperaio” il 30 novembre 1978, sul tema “Marxismo, leninismo, socialismo”. Esso costituì l’occasione per una puntualizzazione di tutta la tematica ideologica e politica che, alla fine degli anni Settanta, era oggetto di dibattito e di riflessione in tutta la sinistra: italiana, europea, mondiale.
Al convegno presero parte, infatti, studiosi di ogni parte della sinistra internazionale, come Castoriadis, Touraine, Fejto, Kolakowski, Karpinski, Smolar, Martinet, Rosanvallon, Pelikan; ed Italiani, come Cafagna, Amato, Pellicani, Pizzorno, Teodori, Salvadori, Baget Bozzo, Strada, Rossanda, Vattimo, Ruffolo, Flores d’Arcais, Galli della Loggia ed altri.
La problematica del rapporto tra l’esperienza socialista e comunista, e delle sue fonti ideologiche, e, soprattutto, l’equazione tra marxismo e leninismo, furono affrontate in termini dissacranti e chiarificatori nel complesso delle relazioni e degli interventi che si susseguirono.(6)
Introducendo i lavori, il segretario del PSI, Craxi, affrontava le questioni della crisi del socialismo ad Occidente, e del comunismo ad Oriente, ed affermava che “deve essere ripresa e sviluppata con piena legittimità un’analisi critica del marxismo, dei suoi limiti, delle sue insufficienze, distinguendo, in esso ciò che è morto da ciò che è vivo”. Ed aggiungeva: “Come ha scritto Ignazio Silone, il marxismo non coincide affatto con il socialismo” e che “quello che comunque sembra certo è la insostenibilità e la inattuabilità dell’interpretazione leninista del marxismo”.
Da parte sua, Giuliano Amato vedeva nel marxismo-leninismo “un’utopia negativa e deviante e che tale ha dimostrato di essere”.
Un contributo fondamentale veniva da Cornelius Castoriadis che sottolineava come “non vi è stato un apporto teorico di Lenin al marxismo, o, più in generale, un’opera teorica di Lenin. Ciò che si “deve” a Lenin, la sua creazione storica dai risultati straordinari – ma sostanzialmente inconsapevole -è di tutt’altro ordine. Essa è consistita nella trasformazione del marxismo in una concezione strumentale e al tempo stesso nella costruzione di una nuova entità storica: il Partito-Stato. Lenin ha “applicato” il pensiero di Marx o, più esattamente, certi aspetti della sua concezione, inizialmente alla realtà russa ed in seguito a quella internazionale. Tale “applicazione” e stata essenzialmente una strumentalizzazione. Inoltre essa è stata, e non avrebbe potuto che essere, una riduzione”.
Secondo Castoriadis la vera opera di Lenin è consistita nella costruzione e dilatazione del “Partito-Stato burocratico e totalitario”; opera assolutamente originale e dalle conseguenze storiche addirittura immani. Questo risultato testimonierebbe dell’applicazione efficace del marxismo strumentalizzato. Tuttavia, la teoria avrebbe conseguito tale efficacia pagando il prezzo dell’appannamento totale di ciò che la contraddistingue come tale per acquisire caratteri della ortodossia.
Castoriadis si impegnava nell’esame di ciò che il marxismo ha introdotto nel movimento operaio. E, in proposito, scriveva: “Quest’ultimo (il marxismo), considerato in quanto tale, costituisce un insieme di idee borghesi iniettate nel proletariato dall’esterno. Le idee rivoluzionarie e politicamente pertinenti di Marx non vengono da Marx stesso. Sono tutte creazioni del movimento operaio rivoluzionario a partire dal XIX secolo. Ciò che è proprio di Marx, e che il marxismo ha effettivamente introdotto nel movimento operaio, sono gli schemi immaginari, i significati sociali immaginari del capitalismo passati al vaglio della filosofia della storia e dell’economia di Marx, e il rivestimento di “scientificità”, esso stesso tipicamente capitalistico”.
Nell’insistere sul tema della concezione leninista del partito, metteva in luce la fondamentale fragilità intellettuale di Lenin sotto il profilo della fantasia creativa, della capacità d’invenzione, della idoneità alla elaborazione di livello. “E’ noto che il modello di organizzazione leninista non possiede alcuna originalità: circola dai tempi di Netchaer, Tkatchev ecc. e ad esso diversi gruppi populisti si erano già ispirati. Lenin riprende questo modello (nel Che fare tesse le lodi di Tkatchev) senza mai interrogarsi sul rapporto tra lo “strumento” e la finalità o il significato della propria operazione.
Pensiero strumentale, pensiero operativo, che evade il proble ma del significato”. E ancora: “Sulla carta, “socialismo” esiste come riferimento astratto del programma del partito al suo “scopo finale”… Ma nella realtà effettiva, l’organizzazione si limita a ricalcare il modello capitalistico e burocratico, il modello dell’azienda con la sua disciplina, la sua divisione fra dirigenti e diretti, il suo lavoro parcellizzato”. Insomma, “la concezione leninista del partito è fatta per cancellare interamente la domanda: dove è il socialismo del partito e nel partito?”.
La conclusione di Castoriadis era ineccepibile: “Lenin sarà storicamente un innovatore, in quanto artefice del primo totalitarismo moderno. Lenin e il partito bolscevico si dedicheranno al compito di restaurazione-instaurazione dello Stato… Ma questo Stato, che, per più versi, imita e replica il vecchio apparato burocratico degli zar sotto una nomenclatura differente, costituisce tutt’altra cosa, in verità, rispetto allo Stato classico. Interamente dominato dal partito unico, esso è, per l’essenziale, strumento e prolungamento di quello. Il crollo del partito condurrebbe ipso facto al crollo dello Stato (come dimostra il caso ungherese nel 1956). Il partito non è uno Stato nello Stato – è l’essenza dello Stato”.
Un’analisi radicale del fenomeno comunista, risalendo dallo stalinismo al leninismo, ed oltre, cioè fino alle radici propriamente marxiste della storia comunista mondiale, era quella condotta nella relazione di Luciano Cafagna.
Secondo Cafagna “il leninismo è la più grande espressione del mito rivoluzionario dei tempi moderni, e con esso bisogna fare i conti; il leninismo non e soltanto una teoria, è un corpo teorico-pratico”. Ciò rilevato, afferma che “Lenin non fu certamente un filosofo o uno scienziato sociale di particolare impegno analitico. Le sue stesse opere più “teoriche” non superano mai il genere letterario del pamphlet. Ma sarebbe grave errore non riconoscere che un robusto corpo di convinzioni circola in tutti i suoi scritti e si mantiene costante negli anni”. Per quanto attiene alla “struttura portante del leninismo una e trina” ne descrive, in rapida analisi, la morfologia, segnalandone gli “elementi costitutivi” che sono i seguenti:
“a) la teoria centralistica e disciplinare del partito;
“b) la teoria dittatoriale dello Stato di transizione degli operai armati;
“c) la teoria di quella che Lenin chiamava la “organizzazione comunista del lavoro sociale””.
Tre momenti del pensiero del fondatore dell’URSS che l’autore vede “pervasi da un’unica e profonda logica centralistica, che ne costituisce il filo conduttore”. E a proposito di essa Cafagna, m uno scorcio dedicato al tema del modello leninista di partito, pone il problema dell’avvenire di questa “istituzione” entro l’ambito di una società aperta di tipo occidentale, chiedendosi “se essa sia o non dissociabile dagli altri elementi della trinità indicata, cioè dalla tendenza alla unificazione totalizzante del potere. In altre parole, se possa immaginarsi o no un adattamento permanente di questa istituzione, in qualche sua variante, ad una società in cui siano possibili l’intraprendenza economica e l’azione sindacale (le cui libertà appaiono parallele e complementari) e che sia regolata politicamente nella forma della democrazia almeno pluralistica e competitiva”.
Una parte notevole era dedicata a un altro aspetto del pensiero leniniano, quello, cioè, relativo al tema della teoria del partito come risposta alla crisi del marxismo verificatasi alla fine del XIX secolo. Relativamente a questa difficoltà nella quale, all’epoca, incorse l’elaborazione di Marx e lo schieramento sociale e politico che ad essa si ispirava, egli asseriva: “La “crisi” di questa dottrina ha pertanto sempre una doppia facciata: una “fattuale” connessa alle smentite e alle “repliche” più o meno “dure” della storia e una “ideale”, connessa agli sviluppi (che non sono sempre lineari) della conoscenza scientifica… L’aspetto “fattuale” della crisi del marxismo di fine secolo consisteva nell’evidenza, largamente riconosciuta, di una vocazione sostanzialmente progressiva (verso conquiste economico-sociali e economico-legislative e verso connesse e parallele estensioni di diritti politici) e non rivoluzionaria del protagonista dello scenario storico marxiano – la classe operaia dei paesi industrializzati – in presenza di strutture capitalistiche più elastiche di quanto non si fosse previsto”.
Inoltrandosi in una disamina accurata della posizione leninista, esprimeva una considerazione: “A questo punto se il marxismo è inteso essenzialmente come una teoria della rivoluzione socialista, per sfuggire alla “crisi” il rimedio radicale è negare la classe come soggetto storico sovrano. Bisogna sovraimporre al movimento operaio vero e proprio una minoranza rigidamente organizzata, con una disciplina di ferro, animata da volontà rivoluzionaria che tutto subordina a se stessa. È uno svolgimento simmetrico e opposto alla separazione fra proletariato e rivoluzione registrato da Bernstein”.
Il partito, dunque, si sostituisce alla classe. E il giovane Trotskij, menscevico, conia la formula “sostitutismo” per sottolineare il totale capovolgimento della connessione classepartito, intuizione che, peraltro, suscita obiezioni non soltanto nel centro-destra socialdemocratico, ma anche nella socialdemocrazia di sinistra non Polscevica, rappresentata dalla già mentovata Rosa la Rossa. E certo, però, che fin da quei remoti anni taluni esponenti della cultura marxista si sforzano di mettere in discussione la connotazione sostitutistica di Lenin. A costoro replica Cafagna nei seguenti termini: “Si tende a contrapporre a questa formula l’attenzione sempre rivolta da Lenin all’azione reale delle masse, la esaltazione sollecitante sempre espressa verso il ruolo di queste. Ma il partito che si sostituisce storicamente alla classe non è un partito che rinuncia alla classe come strumento! Ma tutto questo è banale. Qui non si tratta di una “sostituzione” nel senso di lasciare la classe “a casa” e di mandare al fronte il partito. La “sostituzione” concerne la sovranità storica della classe sulle proprie scelte e i propri atti. Il partito che si sostituisce storicamente alla classe non è un partito che rinuncia alla classe come strumento, è un partito che la “scopre” come tale!”. Il leninismo venne in luce come erede del giacobinismo. Certo, come attestato dallo stesso Lenin che – non diversamente da Trotskij – adoperò questo termine per definire la sua linea sul problema del partito. Però non stiamo ad occuparci di un “giacobinismo da cospiratori, senza base sociale. Abbiamo qui, invece, un giacobinismo che, attraverso l’approvazione e il controllo della dinamica sociale di una classe espropriata della propria spontaneità, può finalmente vendicare e riscattare una tradizione di tentativi minoritari e impotenti”.
I giacobini leninisti sono, come e noto, “rivoluzionari professionali”. Ma chi sono costoro? Ecco la risposta: “I “rivoluzionari professionali” non sono politici come gli altri. Costituiscono un fenomeno che non è solo politico ma ha anche rilevanza sociale diversa da quella che è propria delle élites che non praticano la rivoluzione come attività “professionale”. Ne consegue che essi, professionalizzandosi in vista della rivoluzione, finiscono con il configurare questa come un proprio fine “autonomo”, il cui requisito principale (anche se motivato eteronomamente) deve essere l’appropriazione assolutistica del Potere”.
Nel tracciare l’identikit del rivoluzionarismo ottocentesco Luciano Cafagna affermava che esso trova i suoi addentellati nel moto diretto al cambiamento dell’assetto sociale in chiave capitalistico-borghese e viene in evidenza quale estrema componente “tradita” del coinvolgimento in detto moto. Però di quel cambiamento è momento integrante, e non deve ingannare la circostanza che abbia finalizzato la propria strategia alla sua ricusazione e al vagheggiamento di oltrepassarlo. Lo è non soltanto per la inequivoca radice sociale dei rivoluzionari, quanto per le motivazioni ondeggianti fra liberali e libertarie in rapporto alle quali si verifica la militanza, la legittimazione. il soffocamento critico e il tradimento. In verità non si è al cospetto solo di un fenomeno di libertarismo, ma anche di una inedita mescolanza di libertarismo e pulsione al proprio auto-affermarsi, in cui l’autoaffermazione dell’individuo borghese conosce una gigantesca lievitazione nella misura in cui si riconosce in un insieme di idee generali.
Ne deriva la demistificazione del pensiero leninista sul tema del partito: “Per lui (Lenin) una struttura politica dalle finalità anticapitalistiche che sia rigidamente organizzata secondo la disciplina autoritario-gerarchica-prescrittiva sarà una struttura genuinamente espressiva della essenza operaia, e potrà anticipare il pieno realizzarsi di questa. Si tratta dell’utilizzazione immediata e piena del potenziale antianarchico della struttura operaia, eretto a vocazione operaia, a natura operaia. Per contro alla rivendicazione di libertà anarchico-individualistiche entro la struttura politica operaia sarà un residuo borghese o piccolo borghese, espressione di rinuncia al privilegio operaio (che è privilegio di compattezza e di efficienza). E ancora: “La elaborazione assolutistica del principio di organizzazione come centrale categoria operaia non ha nulla a che vedere con la concezione, sostanzialmente empirica, della organizzazione come strumento per la difesa sociale e la ascesa sociale della classe operaia. Quest’ultima si inserisce in una visione evolutiva della lotta economica e politica che può essere di puro “movimento” nel senso bernsteiniano, e di “movimento e fine” nel senso kautskyano, in cui il “fine” è però postulato in continuità con il movimento e non anteposto ad esso”.
Trattando della crisi del marxismo indicava lucidamente che “si riassume, dal punto di vista fattuale, nella evidenza, finalmente dilagata, che alla operazione espropriativa promossa in nome del marxismo non si sia accompagnata la preconizzata riappropriazione da parte proletaria. Di questa rivoluzione “dimezzata” il leninismo è il fondamento teorico. Ma la rivoluzione “dimezzata” altro non è che la rivoluzione giacobina, blanquista, la rivoluzione impossibile e sempre fallita, che Marx ed Engels avevano criticato e vagheggiato al tempo stesso, e finalmente, per merito di Lenin realizzata”.
C’era tuttavia da chiedersi come mai, in certi contesti nazionali retti da regimi democratico-rappresentativi, i partiti comunisti possono contare sull’adesione di una vasta area del mondo del lavoro. Cafagna fornisce a tale proposito due spiegazioni. La prima, di contenuto mitologico, è da riferire al fascino di uno Stato propagandato come socialista, operaio, proletario, che, nell’immaginario popolare, la formula di organizzazione e di lotta tipica delle formazioni politiche di ispirazione marxista-leninista consentirebbe di concretizzare. La seconda, di essenza tradeuffionistica, è da collegare alla dimostrata più grande idoneità dei partiti comunisti di esprimere e rappresentare le esigenze, le aspirazioni, gli interessi, gli ideali, le idee dei lavoratori rispetto ai partiti di radice socialdemocratica e laburista. Prova provata della validità di tale interpretazione: la direzione, ormai annosa, delle massime confederazioni sindacali assunta dai comunisti in grandi paesi dell’Occidente capitalistico quali la Francia e l’Italia. Queste due spiegazioni non si escluderebbero reciprocamente.
Cafagna toccava, nella sua parte finale, il tema delle “varianze” del leninismo, le più importanti delle quali sarebbero due: quella che il compilatore chiama “gramsciana” e quella che noi riteniamo di poter definire “berlingueriana”. La prima evidenzia una forte tensione verso il dialogo culturale partito-masse, inteso come efficiente di controllo e decurtazione delle connotazioni autoritarie e intimamente non democratiche proprie del meccanismo di selezione della dirigenza e di elaborazione delle decisioni. La seconda si caratterizza per la tendenza a sostenere apertamente la tesi della scindibilità dei dati della già mentovata “trinità” leninista. Così si sottolineano rinunce alla “dittatura del proletariato”, si enfatizzano sconti anche forti relativamente allo stalinismo tradizionale, si teorizzano “terze vie”.
I comunisti non potevano coesistere, convivere, cooperare con altri filoni culturali, dottrinari, politici. Ne erano impediti dal loro naturale integralismo. E su queste battute chiudiamo con il “secondo grande nodo problematico”, per usare le stesse parole dello stesso Salvadori, il quale individua subito il “terzo”, anch’esso “irrisolto”, allorché esamina l’attitudine di Marx ed Engels nei confronti del processo rivoluzionario.
Tale attitudine viene centrata in una serie di interrogativi ai quali ambedue non hanno dato alcuna risposta giacché “presupponevano un rapido saldarsi della “spontaneità sociale” con la “spontaneità politica””.
C’è adesso da rilevare come l’analisi salvadoriana raggiunga un livello critico particolarmente elevato – per profondità e incisività oltre che per originalità e limpidezza – allorché si intrattiene sul tema dell’indole del potere rivoluzionario. “Il dilemma sostanziale che Marx lasciò in eredità, e che non a caso in seguito divise i marxisti, fu se l’asse centrale del potere rivoluzionario dovesse essere la massa autorganizzantesi oppure una forza politica coerentemente rivoluzionaria (indubbiamente marxista) che avesse assunto il controllo dello Stato dittatoriale. Dietro a tutto ciò stava evidentemente l’alternativa tra dittatura del proletariato in quanto classe e dittatura del partito rivoluzionario che agisse in nome della classe, e, in stretta connessione, il problema del tipo di apparato amministrativo che avrebbe dovuto assumere il compito di attuare il nuovo ordine. Anche a questo proposito Marx diede indicazioni “negative”, su come cioè si “spezza” l’apparato vecchio: ma nessuna seria analisi di come si costituisca un nuovo apparato…”.
E Lenin? In che rapporto è con il marxismo di Marx, con le insufficienze, le ambiguità, le antinomie sia di Marx che di Engels? È presto detto: “Io credo si possa affermare che l’opera di Lenin trovi la sua caratterizzazione proprio in quanto sciolse secondo una coerenza specifica i nodi problematici irrisolti o le “ambiguità” del marxismo. Lenin – e qui sta la sua grandezza unica di capo rivoluzionario della nostra epoca – elaborò il proprio marxismo, ciò che noi chiamiamo appunto leninismo, risolvendo questa ambiguità in rapporto ai compiti pratici della lotta politica del movimento rivoluzionario in Russia”. Nel soffermarsi su altri e vari aspetti del leninismo, Salvadori dichiara che il pilone portante del bolscevismo – cioè di un marxismo profondamente alterato – e da individuare nella soluzione data da Lenin al problema della natura del proletariato, il quale può qualificarsi “classe generale” solo se si identifica con una idea rivoluzionaria che non è in condizione di costituirsi indipendentemente e, pertanto, deve necessariamente ricevere dall’esterno. Ciò non toglie che le lotte rivendicative, parziali, circoscritte, e anche politiche, condotte nell’ambito del sistema, sono utili in quanto consentono al movimento rivoluzionario di dotarsi di una base di massa, senza la quale non e neppure in grado di esistere o di resistere. Per Lenin la pressione contestativa delle masse è da proiettare oltre il naturale perimetro della spontaneità per impulso di una organizzazione coscientissima, disciplinatissima, selezionatissima, strutturatissima, che, cioè, abbia le ben conosciute caratteristiche del partito leninista. Solo in tal modo il movimento è in condizione di vantare la connotazione rivoluzionaria e, con essa e mediante essa, “una visione non particolare ma storico-generale (la “coscienza comunista”) delle prospettive”. In rapporto a ciò, “ogni azione del partito nel guidare le masse non deve mai rispecchiare un punto di vista proprio di una classe particolare, ma deve guardare agli effetti sui rapporti di classe e sociali complessivi”. E ancora: “Si può dire che in questo ultimo punto si esprima appieno come Lenin abbia sempre guardato alla funzione dei bolscevichi in termini di forza potenziale di governo, mai di difesa di interessi di categoria. La parola d’ordine che il bolscevico deve essere un tribuno del popolo, e che deve guardare a tutte le classi senza eccezione, è tipica a questo riguardo”.
Secondo Pellicani negli scritti di Marx sono ospitate “almeno” due teorie della rivoluzione comunista: una di taglio evolutivo, che segnala nella estensione delle forze produttive la variabile indipendente del cambiamento storico; l’altra di impronta romantico-giacobina, che affida a una minoranza consapevole, forte e alacre, la funzione propulsiva nel senso della modificazione sociale. La prima non tarda ad entrare in difficoltà perché la vicenda del quadro capitalistico non conferma l’analisi catastrofico-palingenetica che anima le pagine del Capitale. A ciò Lenin reagisce adottando la linea romantico-giacobina ed enfatizzando il tema della rottura rivoluzionaria nell’ambito della formula giacobina della conquista del potere.
Pellicani affermava quindi che “il concetto-chiave per intendere la particolare natura del socialismo marxiano è quello di scienza”. E, sulla scia di tale constatazione, rileva come “Marx potrà dichiarare a giusto titolo che la sua teoria era contemporaneamente scienza dei fatti e scienza dei valori, scienza delle connessioni causali e scienza dei fini ultimi. Ma la prima scienza nel suo progetto non avrà altra funzione che quella di confermare, puntellare, legittimare la seconda scienza, la scienza sovrana, quella che, grazie al metodo dialettico, era in grado di svelare il senso globale dell’avventura umana. C’è di più. Negli scritti di Marx la scienza dialettica non è solo assiologica, è anche soteriologica, indica all’umanità la via della salvezza, il methodos per estirpare le radici del male. Ed è proprio questa pretesa che fa del marxismo una religione con maschera di scienza positiva, più precisamente un neognosticismo manicheo a carattere apocalittico”.
Ritiene il disegno complessivo di Marx come “una visione squisitamente e irrimediabilmente elitistica e paternalistica della rivoluzione. Questa, in quanto “realizzazione della filosofia”, deve essere pilotata dai detentori del sapere assoluto, cioè dai filosofi dialettici. D’altra parte l’esperienza storica dice a chiare lettere che “ogni stato di cose provvisorio dopo una rivoluzione esige una dittatura, e una dittatura energica” e che “esiste un solo mezzo per abbreviare, semplificare, concentrare l’agonia assassina della vecchia società, un solo mezzo: il terrore rivoluzionario””.
Luciano Pellicani si sofferma sulla polemica ottocentesca degli anarchici contro Marx e contro il marxismo, asserendo che essi “denunziarono l’opportunismo di Marx e previdero con profetica lungimiranza che la rivoluzione comunista sarebbe sfociata nella tirannia dei “socialisti scientifici”, cioè dei teorici dialettici autoproclamatisi unici interpreti autorizzati degli “interessi real? della classe operaia”.
E inoltrandosi nell’esame critico del pensiero di Marx afferma che “anche nel marxismo di Marx la cosiddetta dittatura del proletariato sarà la dittatura della parte cosciente sulla classe, cioè la tirannia ideocratica dell’aristocrazia gnostica che conosce il telos immanente al processo storico e sa come si deve operare per estirpare le radici dell’alienazione. Né potrebbe essere diversamente, visto che gli operai sono accecati dall’ideologia borghese e che devono, pertanto, essere illuminati dall’esterno da coloro che hanno strappato il “velo di Maya” che copre la realtà”. Pellicani rileva che poiché “per Lenin la diagnosi-terapia di Marx era inquestionabilmente vera: il mondo era stato corrotto dalla proprietà privata e solo il comunismo poteva purificarlo. Ma la marcia verso il “mondo nuovo” era ostacolata non solo dagli interessi delle classi dominanti, ma anche e soprattutto dalle spontanee tendenze degli sfruttati obnubilati dalla ideologia borghese e quindi incapaci di scorgere da soli la via della liberazione. Occorreva, pertanto, strutturare il partito rivoluzionario in modo che la “”giusta coscienza” potesse prevalere sulla “falsa coscienza” e orientare la marcia dell’umanità nella direzione del comunismo”,
Pellicani, inoltrandosi nella sua analisi, spinge ancora più a fondo la requisitoria antileninista, entrando però in rotta di collisione con la tesi di fondo del saggio di Massimo Salvadori e con altri contributi emersi dai lavori del convegno, tutti concordi, sostanzialmente, con maggiori o minori sfumature, nell’indicare in Lenin un marxista correttore, completatore e, per certi versi, sconvolgitore del pensiero di Max. Dice: “Lenin era ossessionato dal problema della purezza del marxismo; da essa dipendeva la “giusta coscienza” e quindi la stessa rivoluzione. Per questo cercò di ideare uno schema organizzativo atto a sottrarre il “socialismo scientifico” alla critica. Tutti i compromessi tattici erano ammissibili per fare avanzare il partito verso il potere; ma non era ammissibile però la messa in discussione della meta finale che era la “distruzione dell’economia di mercato” e la rimodellazione del corpo sociale entro lo stampo del collettivismo economico e spirituale. Di qui l’idea di creare un partito a immagine e somiglianza della Compagnia di Gesù: ortodossia, disciplina militare, subordinazione assoluta e senza riserve delle volontà individuali alla volontà collettiva, formazione di una corte di rivoluzionari di professione dedicati “anima e corpo” alla guerra contro il Capitale”.
Ed eccoci agli scenari classisti tipici della concezione leninista della vita, del mondo, dell’uomo, della società, del divenire storico come risultano dalla descrizione che ne fa il saggista: “La visione che Lenin aveva della realtà era schiettamente manichea e polemica: c’era in atto una guerra cosmica fra lo spirito borghese – la pistis accecante e corruttrice – e lo spirito comunista – la gnosis scientifica e salvifica. Il che imponeva un imperativo ineluttabile: la militarizzazione del movimento proletario e la concentrazione di tutto il potere nelle mani dello “stato maggiore della rivoluzione”, che nel contempo doveva essere la suprema autorità spirituale. A questa, non già agli operai, era assegnata la missione storica di ribaltare l’esistente per riportarlo a nuova vita. Ma questo significa che occorreva tener distanti e separati i rivoluzionari professionali dalla massa proletaria”.
Il giudizio di Pellicani non lasciava adito a nessun dubbio sulla definitiva presa di coscienza degli intellettuali socialisti, e sul definitivo abbandono di ogni residua influenza del marxismo-leninismo da parte della cultura e della classe dirigente del PSI alla fine degli anni Settanta.
Un partito “aperto” come da almeno vent’anni si era proclamato il PSI non poteva che essere un partito “aperto” anche culturalmente e ideologicamente.
In questo arco di avvenimenti, il saggio che venne restrittivamente giudicato come un ritorno a Proudhon, non poteva costituire una novità così devastante come si voleva far credere.
In realtà si coglieva in esso – e questo era giusto che fosse – A passaggio dalla lunga fase “ereticale” del revisionismo, quasi come variabile minoritaria, dell’originario corpus della dottrina marxista, ad una fase di esperienza compiuta, a sé, di formazione di una cultura politica totalmente autonoma insorgente da una varietà di filoni del pensiero politico, potenzialmente capace, quindi, di sopportare una posizione maggioritaria, un “primato” della posizione socialista.
Le critiche manifestavano, dunque, un senso di allarme che aveva ben ragione d’essere, perché segnalavano l’aprirsi e il dispiegarsi di un momento più maturo del revisionismo riformista.
Ancora Cafagna notava: “I valori per il movimento socialista sono, oggi, gli stessi delle antiche battaglie revisionistiche… ma non si presentano più come revisione di nulla, sono valori in sé e negazione di ciò che li nega”.1
Queste affermazioni sono avvalorate più che mai dal fatto che l’espressione riformista è divenuta addirittura – prendendo a prestito una locuzione gramsciana non sostanzialmente ad essa consona – egemone, nel senso che ormai, dall’inizio degli anni Ottanta, tutte le forze politiche si dichiarano riformiste o riformatrici. Cosa che può ingenerare una notevole confusione culturale e politica, se a questa qualificazione non s’accompagna un adeguato travaglio profondamente. revisionistico.
Il processo in atto di definizione di un revisionismo riformista originale e autonomo trovò un suo sbocco politico nella Conferenza programmatica di Rimini (31 marzo-4 aprile 1982).
Sulla base delle premesse culturali cui era approdato il rinnovato impegno revisionistico, a Rimini si posero le premesse di un programma di cambiamento e di governo della società a livello dei problemi vecchi e nuovi, comunque insorgenti dalla profonda trasformazione in essa in atto.
Nel suo discorso alla Conferenza, Claudio Martelli proponeva quella che egli stesso definiva “l’alleanza tra il merito e il bisogno”, vale a dire l’intenzionalità del PSI di rappresentare insieme i settori più dinamici e non conservatori del paese e quegli ampi settori della underclass, che sono costituiti dalle vecchie e nuove povertà, individuali, sociali e territoriali.
Si intendeva, cioè, definire un volto programmatico del socialismo democratico, non abbandonando la tradizionale rappresentanza degli interessi del mondo del lavoro e dei ceti più deboli; e nello stesso tempo collegarsi attivamente a tutti quei nuovi soggetti sociali, espressi dalla crescita economica e sociale del paese, e gestirne i bisogni di maggiore democrazia, di maggiore efficienza, di modernizzazione di ogni settore della società, dalla produzione all’amministrazione dei servizi, dell’istruzione, della giustizia, delle istituzioni pubbliche.
Sullo sfondo della crisi del Welfare State (che in Italia aveva assunto più le caratteristiche di uno Stato, meramente assistenziale) ed anche dei rapporti tra il cittadino e il potere burocratico, si dava corso a una filosofia sociale nuova e attiva, che presto dovrà scontrarsi con resistenze conservatrici, e che determineranno una domanda allo stesso PSI di farsi protagonista di alcune battaglie riformatrici e rinnovatrici che a Rimini erano state accennate, ma che non avevano ancora raccolto un’adeguata attenzione del gruppo dirigente socialista che guidava il nuovo PSI.
In primo luogo, quelle della giustizia giusta, dell’ambiente, contro i poteri occulti e i “corpi separati” dello Stato, problemi cioè della crescita democratica della società italiana.
Il PSI s’è impegnato a fondo, in questi anni, anche sul versante del chiarimento in corso nella sinistra italiana, per superare ogni residuo di concezioni totalitarie ed oscurantiste. Di notevole rilievo, a questo proposito, e stata l’iniziativa del convegno di “MondOperaio” sul tema “Lo stalinismo nella sinistra italiana”(8) che si è svolto a Roma il 16 e 17 marzo 1988 con la partecipazione di uno stuolo di intellettuali, quali Strada, Pellicani, De Felice, Valiani, Galasso, Guarini, Colletti, Diaz, Caprara, Bettiza, Gismondi, Tamburrano.

Capitolo 14

LA PRESIDENZA SOCIALISTA

Il ritorno al governo

Dalla primavera del 1980 riprendeva la collaborazione del PSI al governo con la DC e, insieme ad essa, con il PSDI, il PRI e il Partito liberale. Dopo circa sei anni, i socialisti assumevano nuovamente responsabilità di governo partecipando a una coalizione “pentapartitica”, verso la quale veniva ad essere rimossa quella pregiudiziale che era durata per tutta l’esperienza del centro-sinistra. Del resto, negli anni della “solìdarietà democratica” il PLI, pur con sue connotazioni specifiche, aveva partecipato allo schieramento dell'”arco costituzionale”, che aveva escluso soltanto il MSI. Non era certo il PSI di Craxi che avrebbe potuto rinnovare quella discriminante che era stata mantenuta nei confronti dei liberali dalle coalizioni di centro-sinistra.
La partecipazione al governo si profilava come la logica conseguenza della scelta a favore della stabilità e della governabilità compiuta dal partito e presentata agli elettori soltanto otto mesi prima. Il fatto che essa non avesse ottenuto un positivo riscontro di consensi, ed il fatto che la stessa possibilità di una presidenza socialista fosse stata bocciata dalla DC, oltre che dai comunisti al momento dell’incarico a Craxi, non distolse il Partito socialista dal mantenere il proprio impegno.
Del resto, dopo la fine della politica di “unità nazionale”, non c’erano altre alternative possibili per governare il paese.
Se il PSI si fosse sottratto, si sarebbe creato un pericolosissimo vuoto politico, gravido di enormi rischi nel momento in cui la crisi economica restava acutissima e l’offensiva terroristica non cessava di incalzare: anzi era ripresa con rinnovato vigore.
A dire il vero la partecipazione al secondo governo presieduto da Cossiga non aveva destato grandi entusiasmi. La “sinistra” del partito decise di non parteciparvi, inizialmente. Nel primo governo Cossiga erano entrati due “tecnici”: Massimo Severo Giannini che, come titolare della Funzione Pubblica, tentò di varare quella riforma della pubblica Amministrazione che da tempo progettava, ma con scarso o nessun successo; e, al ministero delle Finanze, un altro uomo di indiscusso valore, il professor Franco Reviglio.
Entrambi restarono nel secondo gabinetto Cossiga. Ad essi si affiancarono: Lagorio alla Difesa, Formica ai Trasporti, Aniasi alla Sanità, Balzamo alla Ricerca Scientifica, Capria al Mezzogiorno, De Michelis alle Partecipazioni Statali e Manca al Commercio con l’Estero.
Le prospettive erano incerte. La situazione era sempre più irta di difficoltà. Agli inizi dell’agosto la strage della stazione di Bologna, in cui persero la vita 76 persone, scosse il paese. Le indagini incontrarono ostacoli che sembravano insormontabili.
Di fronte a questa situazione, il PSI (che aveva ottenuto un incoraggiante risultato alle elezioni regionali e comunali della primavera) accentuò la sua posizione favorevole alla stabilizzazione alla guida del paese, mantenendola poi ferma nell’autunno, quando il secondo governo presieduto da Cossiga cadde per l’agguato dei “franchi tiratori” su alcune misure economiche dirette a fronteggiare la crisi.
Al successivo governo, guidato da Arnaldo Forlani, restarono sette ministri socialisti: gli stessi della precedente compagine, con l’uscita di Balzamo e di Giannini. Pochi mesi dopo, anche questo governo si dimette, nell’occasione delle rivelazioni dello scandalo della P2. Si trattava di un ulteriore segno della instabilità in cui viveva il paese.
Nella primavera del 1981 ha luogo il XLII congresso del partito.
Esso era stato preceduto da un chiarimento all’interno del PSI, dopo che, nell’autunno dell’anno precedente, s’era dimessa ed era stata rieletta la direzione, con l’uscita di Signorile dalla vicesegreteria.
Il congresso si tiene a Palermo, dal 23 al 27 aprile. Ancora una volta si svolge su mozioni contrapposte: quella che fa capo a Craxi; quella della “Sinistra”; quella di Achilli e quella di “Presenza Socialista” (Mancini). Alla prima mozione dei “Riformisti” veniva attribuito il 70% dei voti; alla “Sinistra” il 20%; ad Achilli il 7,7% e a “Presenza Socialista” il 2,3%.
La novità del congresso era la decisione, proposta dai “riformisti”, contrastata dalle altre correnti, di procedere a una modifica statutaria che permettesse l’elezione “diretta” da parte del congresso del segretario del partito.
La proposta veniva approvata dopo un vivace dibattito. Per cui si procedeva alla elezione prevista che dava a Craxi il voto di 174 delegati; contrari furono 114 delegati e una decina di schede andarono disperse.
Sul piano politico Craxi ribadiva nella sua relazione -approvata dal congresso – l’obiettivo della governabilità che “deve affrontare un quadro di impegni che diano un senso di continuità degli obiettivi di rinnovamento e di riforma all’ottava legislatura”. Di fronte al problema della presidenza socialista, emerso nel corso del dibattito congressuale,(1) il segretario del PSI invitava “alla prudenza nell’affrontare la questione, che non è certo il primo dei problemi; problema che naturalmente sorge per il fatto che in democrazia il ricambio si deve considerare non come un fatto patologico, ma fisiologico. Il ricambio non come un’anormalità, ma come una normalità”.(2)
Veniva ripreso anche il tema della Grande Riforma, che il PSI aveva da tempo lanciato ponendo l’accento sulla esigenza di riforme istituzionali. A questo proposito Craxi precisava che l’attuazione integrale della Costituzione non contrastava con l’elaborazione di modifiche e revisioni che il potere democratico aveva il diritto di attuare e che la stessa Costituzione rendeva possibili.
Nella serie degli interventi critici, Achilli pose al congresso la domanda se il governo non stesse “facendo una politica vicina a quella della nuova destra le cui parole magiche erano militarismo e monetarismo, con il taglio della spesa pubblica che priva i settori fondamentali come la Sanità e gli Enti Locali di finanziamenti indispensabili ad attuare le riforme”.
Signorile sostenne che compito essenziale per la sinistra italiana era quello di individuare una strategia di sviluppo capace di determinare scelte di espansione, ma anche di riequilibrio, sia nei settori dei servizi quanto in quello delle aree territoriali: per questo si poneva il problema del consenso dei soggetti sociali ad essa interessati.
Per Giacomo Mancini il partito si trovava dinnanzi al problema di fortificare la governabilità, nella ricerca di rapporti a sinistra e di irrobustire la centralità socialista, facendone il perno di uno schieramento riformatore che includesse nuove forze. Espresse in particolare il compiacimento per il fatto che, in seguito all’elezione di Pertini il Quirinale non fosse più un “centro di manovre e di trame contro la vita democratica”.
Da parte sua Martelli – che il congresso indicava ormai come il naturale vicesegretario vicario – affermò che la proposta comunista di alternativa richiedeva tappe e chiarificazioni intermedie, non potendo il PSI accettare una riproposizione di alleanze basate sull'”agganciamento del rimorchiatore socialista al cargo comunista”. Rigettando ogni ipotesi di “terza via” tra crisi comunista e crisi della socialdemocrazia, esprimeva il rifiuto per l’elemento comune alle due esperienze rappresentato dal burocratismo statalistico, auspicando un ritorno alle origini mutualistiche, autonomistiche e autogestionarie del movimento operaio, auspicando che questo potesse essere il terreno comune di ricerca della sinistra.
Effetto politico del congresso può essere considerato da un lato il buon successo delle amministrative parziali che vede la percentuale dei socialisti al 14%; dall’altro la formazione, il 7 giugno successivo, del primo governo a presidenza non democristiana. Alla guida di esso è il leader repubblicano Giovanni Spadolini.
Prima della costituzione del governo, il 17 maggio, s’era votato per il referendum sull’aborto, che aveva visto una schiacciante affermazione delle forze favorevoli alla legge, ed una sconfitta della DC.
La scelta di un laico alla presidenza del Consiglio rappresentò una svolta di grande portata nella vita pubblica italiana.
Dal 1945, dopo la breve anche se significativa esperienza di Ferruccio Parri, questo incarico era sempre stato appannaggio della Democrazia cristiana: si era, nella costituzione materiale del paese, stabilita una sorta di “giurisdizione” del partito che, pur essendo elettoralmente il più forte, era pur sempre, dalle elezioni del 1953 in poi, partito di maggioranza relativa, non avendo più conquistato quel predominio che aveva ottenuto il 18 aprile.
La novità nella guida del governo era stata, per così dire, preceduta dal riconoscimento che si era avuto con il breve governo Forlani, dell'”uguale dignità” tra la DC e i suoi alleati di governo, concretizzatasi con un rapporto paritario tra il numero di ministri democristiani e quello dei ministri non democristiani.
Entrarono a far parte del nuovo ministero, per i socialisti, Formica alle Finanze, Lagorio alla Difesa, Balzamo ai Trasporti, De Michelis alle Partecipazioni Statali, Capria al Commercio con l’estero, Aniasi agli Affari Regionali. Partecipava ad esso anche la “sinistra” del partito, con Claudio Signorile che assumeva l’incarico del Mezzogiorno.
Il primo governo Spadolini denoterà una maggiore dose di stabilità rispetto ai governi precedenti, perché durerà fino all’estate del 1982. Dopo una breve crisi, determinata dallo scontro sulla politica economica tra i socialisti e il ministro del Tesoro, il democristiano Andreatta, farà seguito un secondo gabinetto identico al primo nella sua composizione, che avrà una vita più breve, fino alla crisi che condurrà alle nuove elezioni anticipate del 1983. Si può a ragione affermare che i due governi a presidenza laica costituirono la premessa per una svolta ancora più marcata nella direzione politica del paese. Essi furono in un certo senso il preludio alla presidenza socialista che si doveva realizzare all’inizio della legislatura successiva.

La presidenza socialista

Lo spartiacque è rappresentato dalle elezioni del 26 giugno 1983, nelle quali il PSI è in sensibile aumento, conquistando l’11,4% dei voti, con 74 deputati e 38 senatori.
Dopo una complessa trattativa per la formazione del governo, nell’agosto di quell’anno si verificava un avvenimento che indubbiamente ha una portata storica: ad oltre novant’anni dalla formazione del PSI, un socialista, Craxi, assume la presidenza dell’esecutivo. E già in sé, quest’evento, il suggello della piena legittimazione dei socialisti a guidare la vita del paese.
Il governo Craxi (che ha come sottosegretario alla presidenza Giuliano Amato) ha battuto ogni precedente per la sua durata, restando in carica all’incirca tre anni e mezzo. Un record che denotava il positivo punto di equilibrio che la presidenza socialista stabiliva tra le forze della coalizione di maggioranza; e, di conseguenza, assicurava una tenuta da lunghissimo tempo non più verificatasi nel processo di stabilizzazione della vita politica ed istituzionale.
La distanza ravvicinata di tempo che ci separa da questi avvenimenti induce a lasciare un giudizio più penetrante su di essi ai momenti in cui sarà possibile che vengano trattati in sede di storia e non solo di cronaca.
Il giudizio che di esso si può dare allo stato delle cose è comunque un giudizio abbondantemente lusinghiero: confortato, tra l’altro, dalla rivalutazione dello stesso segno che ne hanno dato o ne danno politologi e commentatori di vari settori.
Non si può non ricordare che l’ascesa a Palazzo Chigi di Craxi venne a essere avversata, oltre che dall’estrema sinistra e dal MSI, anche dal PCI. Anzi, quest’ultimo, sotto la spinta del segretario Berlinguer, dichiarò e condusse un’opposizione più dura degli altri.
Berlinguer parlò addirittura di “pericolo per la democrazia”; pose una “questione morale” di grande effetto scenico, perché puntava a raccogliere il malcontento che si diffondeva nel paese per una serie di scandali, allo scopo di far leva su di esso per indebolire il governo; profetizzò, sbagliandosi, la fine anticipata dell’esperienza socialista alla guida dell’esecutivo. Gli fecero eco, almeno per un certo periodo, alcuni prestigiosi organi di stampa, che, alla fine, dovettero mitigare il loro atteggiamento.
Lo stesso atteggiamento dei comunisti non fu tuttavia immune da contraddizioni. In almeno due occasioni essi sostennero apertamente Craxi, applaudendolo a scena aperta: in occasione del dibattito su Sigonella; e l’l marzo 1986, quando il presidente del Consiglio polemizzò con la destra economica nel suo discorso ai delegati.
Il bilancio del governo presenta indubbiamente un saldo attivo. In politica estera, dove fu dato un segno di reale autonomia nei confronti dell’alleato americano, pur nella piena lealtà alle alleanze intraprese; si difesero gli interessi della pace e insieme quelli dell’Italia nell’area mediterranea, e su ogni questione che implicava pericoli per l’equilibrio internazionale, schierandosi sempre a favore del metodo del negoziato e puntando a sostenere le trattative per il disarmo e migliori relazioni tra le Grandi Potenze; assecondando ogni iniziativa che facesse compiere passi innanzi in direzione dell’unità politica dell’Europa.
Si realizzò il nuovo Concordato e con esso si portò a conclusione il processo di rinnovamento della legislazione ecclesiastica, tutelando tutte le confessioni, oltre a quella cattolica.
Si avviò un miglioramento dei rapporti con il Parlamento, e si pose il problema concreto di una migliore funzionalità delle istituzioni rappresentative.
In economia si affrontò il problema dell’inflazione e si mantenne l’impegno programmatico di un rientro da essa, portandone il tasso ben al di sotto delle due cifre; ciò fu fatto senza ricorrere a “stangate” e a terapie deflattive, anzi sostenendo la domanda interna e la crescita della produzione, talché si poté registrare un’avanzata dell’Italia nella classifica dei paesi industrializzati, grazie alla costante crescita del reddito nazionale.
Si affrontò il problema della emancipazione femminile, istituendo per la prima volta la commissione per la parità tra i sessi, presieduta dalla socialista Elena Marinucci.
Dove il governo non mostrò la medesima forza attuativa fu nel settore della spesa pubblica, nel quale non si realizzò una sensibile diminuzione del “deficit” del Bilancio, e quindi dell’indebolimento complessivo dello Stato; in quello della disoccupazione che rimase ai livelli precedenti, nonostante le iniziative intraprese dal ministro del Lavoro De Michelis; in quello del Mezzogiorno, che vide immodificato il divario reddituale e gli squilibri sociali che lo separano dalle zone più dinamiche del paese.
L’Italia salì cosi a pieno diritto tra i “grandi” dell’economia internazionale (anche a seguito di uno scontro che si verificò con quei paesi che le negavano una presenza effettiva), ma non pose ancora mano efficacemente alle grandi questioni del Mezzogiorno e della disoccupazione, come a quelle del ritardo enorme dei servizi pubblici. Problemi lasciati a marcire e ad aggravarsi dall’egemonia democristiana di alcuni decenni e che nello spazio di tre anni e mezzo, tra l’altro sotto l’imperio di problemi enormi da affrontare (quali il terrorismo e l’inflazione), era impensabile venissero risolti.
Fece grande effetto, al momento in cui avvenne, lo scontro sulla scala mobile, che riduceva momentaneamente la crescita della contingenza pagata ai lavoratori dipendenti onde attenuare le anticipazioni inflazionistiche che ne potevano derivare.
Il PCI, e in particolare il suo segretario, ne fecero una drammatizzazione che non fu compresa dalla maggioranza dei lavoratori Italiani. Al referendum, richiesto per abrogarne gli effetti – e al quale era contrario lo stesso capo della corrente comunista della CGIL – il PCI e quelle forze che insieme ad esso sostenevano la campagna per il “sì” ebbero una bruciante sconfitta.
Un aspetto tutt’altro che secondario da rilevare riguardò i rapporti tra il PSI e l’esperienza di guida socialista del governo.
Pur sostenendo con grande forza l’esperienza governativa, il PSI riuscì a trovare anche spazi specifici di iniziativa politica, che non coincidevano con l’attività governativa, né entravano in conflitto con essa.
In due campi, particolarmente, si esplicò questa autonoma azione del partito. In quello della Giustizia, dove anche per il verificarsi di alcuni drammatici avvenimenti (come il caso Tortora), si sviluppò quell’antico filone garantista che risale al riformismo turatiano e che fin dagli anni Sessanta era stato rivendicato, specialmente dall’azione di Mancini. Ed in quello dell’energia nucleare, che vide il vicesegretario Martelli protagonista di una decisa opzione avversa al nucleare senza sicurezza, derivante da alcune spericolate iniziative assunte dai pubblici poteri a favore della costruzione di alcuni impianti che presentavano tali caratteristiche.
I socialisti furono tra i promotori del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati e per l’abolizione dell’Inquirente, insieme con i radicali e i liberali. Mentre, sul piano parlamentare, Giuliano Vassalli poneva tutte le sue capacità e tutta la sua esperienza al servizio della causa del rinnovamento della struttura e della codificazione del sistema giudiziario italiano.

Il problema del partito

Questa scelta di collegamento con i nuovi bisogni della società, e con i sentimenti delle nuove generazioni, che in parte si congiungevano anche con l’eredità di esperienze nel loro complesso non accettabili, come quella del “sessantotto”, ma pur sempre ricche di fermenti e di aspettative da riprendere ed accogliere, ha qualificato la presenza del PSI nella società italiana in modo dinamico e apertamente anticonservatore.
Allo stesso tempo ha posto il problema di adeguare anche le strutture del partito a un contesto della società che appariva sempre più mobile e sempre più sollecitato da stimolazioni culturali e sociali di tipo diverso da quello che tradizionalmente era stato rappresentato dalla organizzazione del partito nel suo passato, attraverso le varie fasi della sua esperienza storica.
Per la verità il processo di rinnovamento annunciato al Midas, mentre aveva prodotto indubbi effetti sulla strategia politica del partito, sul suo patrimonio ideativo e sulle sue iniziative tattiche, aveva segnato il passo per quanto riguardava invece la struttura organizzata del partito stesso.
L’innovazione più incisiva era costituita da una riforma della gestione di vertice: quella che al congresso di Palermo aveva condotto alla decisione di adottare il sistema della elezione diretta del segretario del partito da parte del congresso. Il che conferiva al leader poteri di decisione politica e di gestione molto estesi, corrispondenti obiettivamente al ruolo che Craxi era andato assumendo nella vita del socialismo italiano e, in generale, nel paese.
Osservava in modo esatto Gianni Statera, concludendo un suo studio su tali argomenti, che “nel caso Craxi la personalizzazione della leadership – che è fenomeno comune alle società avanzate – si è venuta sviluppando “al di là” del partito socialista”. E ne deduceva: “A Craxi l’attuale PSI va certamente stretto”.(3)
Statera scriveva in una fase nella quale ancora il PSI non aveva realizzato i risultati elettorali che raggiungerà nelle elezioni politiche del 1987, nelle quali otterrà il 14,3% dei voti, e nelle parziali amministrative del 1988, dove supererà il 18%, in concomitanza con la costante flessione dei voti del PCI.
Ma anche l’espansione del consenso elettorale non attenuava il problema del partito, anzi ne rafforzava l’importanza, come riconosceva lo stesso Craxi quando, dopo le amministrative del 1988, poneva con energia questo problema, impegnandosi a trovarne la soluzione.
Già prima del congresso di Verona, tenutosi dall’11 al 14 maggio 1984, Martelli aveva lanciato l’idea dell’autoriforma del partito. Nel congresso della città scaligera ci furono altre innovazioni: l’elezione diretta da parte dell’assise congressuale fu estesa ai segretari di federazione e ai segretari regionali. Il comitato centrale fu sostituito da un’Assemblea nazionale, che per essere rappresentativa di tutte le istanze dell’area socialista, anche quella esterna al PSI, risultò eccessivamente estesa nel numero dei suoi partecipanti.
Al congresso di Rimini il problema venne riproposto, sulla base di un documento ampio e organico, elaborato dal dipartimento di Organizzazione nazionale, presieduto da Agostino Marianetti.(4)
Tuttavia anche in questo congresso (Rimini 31 marzo-5 aprile 1987) non si giunse a decisioni operative, anche se in numerosi interventi (da Marianetti a Ruffolo, a Mancini) si pose con vivacità la questione dello stato del partito, e del cambiamento della sua vita interna.
Sullo stato del PSI, ha scritto Wolfgang Merkel, nel suo saggio citato, che “anche se il gruppo dirigente intorno a Craxi lamentò la disfunzionalità dell’antiquato partito di massa, il PSI rimane, con una struttura organizzativa differenziata, sia nelle funzioni che territorialmente, e con un rapporto elettorale di 7:1, un tipico partito di massa. Il PSI somma inoltre i difetti strutturali di DC e PCI, senza avere alcuni pregi di queste organizzazioni politiche. Il PSI non ha mai superato le strutture burocratiche create da Morandi, aggiungendovi piuttosto delle strutture clientelari. Questa struttura composita ha origini che precedono la gestione Craxi, e risale almeno al 1963, quando il PSI entrò non solo al governo, ma anche nel sottogoverno.
“Craxi – aggiunge MerkeI – è stato, tuttavia, il primo leader socialista italiano a riconoscere pubblicamente come obsoleti i grandi apparati dei partiti di massa, incapaci di tenere il passo con la rapidità dei mutamenti sociali. Secondo Craxi essi non sarebbero più funzionali a garantire la governabilità delle società altamente complesse… Ha lasciato, però, sostanzialmente intatta la struttura organizzativa del partito di massa. Così nel PSI è andata sempre più evidenziandosi una netta separazione tra la “grande politica”, delegata a pochi leader e sottratta al controllo interno del partito, e una prassi di amplissima autonomia dalla direzione centrale nell’esercizio del potere periferico”.
MerkeI osserva, in conclusione, che “fra il nuovo modello, che si esplica nella comunicazione diretta del vertice del partito con la società, e il vecchio che sopravvive nelle strutture organizzative, nel metodo e nella prassi, si è stabilito quindi, nel PSI di Craxi, un equilibrio precario. Entro questo sistema le élites periferiche del partito mantengono l’autonomia decisionale a livello locale negli affari politici e in quelli privati”.(5)
Uno sviluppo che Claudio Martelli, in un articolo del 1983, ha definito in questi termini: “Su una vecchia macchina si è abbattuta una ventata di modernizzazione e di americanizzazione”. (6)
Il già citato documento presentato da Marianetti al congresso di Rimini esprime la piena consapevolezza di questa situazione. Esso infatti offre una rappresentazione priva di qualsiasi infingimento, in uno stile che è difficile riscontrare in documenti di partito. Infatti, vi è possibile leggere un’analisi di questo tenore: “Un intervento puntuale sullo stato del partito non può che partire dagli aspetti più evidenti delle sue attuali disfunzioni, consapevoli che anche da questi derivano processi degenerativi e logoramenti dell’immagine che hanno costituito una delle angustie ricorrenti negli ultimi anni.
“È da alcune logiche della sua vita interna e dall’insieme degli interessi che premono sul partito che derivano anche per il PSI i rischi di coinvolgimento in quel sommerso della politica che costituisce una delle questioni morali e politiche della democrazia italiana. Si sono introdotti fattori di attenuazione dello stato di diritto nel partito, le regole statutarie ancorché inadeguate appaiono talvolta disattese. Un crescente fenomeno di litigiosità periferica fa da contrappunto alla sua sostanziale unità politica. Disfunzioni e debolezze investono la vita di molte sezioni; crisi di ruolo e di status riguardano i nuclei aziendali; difficoltà si palesano nel rapporto tra partito e amministratori negli enti locali; fenomeni di esasperazioni personalistiche si evidenziano nelle vicende elettorali; non mancano difficoltà di coordinamento e di rapporto con le presenze socialiste nei cosiddetti organismi di massa o nell’associazionismo diffuso; elementi di irrazionalità – anche se più recentemente in parte recuperati – persistono nella sfera amministrativa; crescono i fenomeni di burocratismo o di alterazione degli aspetti quantitativi e della trasparenza nel tesseramento”.
Di fronte a questa analisi appare con evidenza la necessità di passare dalle diagnosi alle terapie necessarie nell’immediato, e si indicano gli obiettivi di una riforma rivolta a fare del PSI uno strumento efficiente e democratico, utile e indispensabile a realizzare una politica riformatrice nella società civile e nelle istituzioni. E questa volta sembra si voglia farlo, o tentare di farlo, avanzando con gradualità, ma senza sottrarsi alle responsabilità di scelte concrete non più rinviabili.
Giova, per la coerenza del nostro discorso, dare uno sguardo al modo con cui si è posto questo problema nel passato lontano e recente, sia pure in situazioni diverse e in termini non identici a quelli di oggi. Del resto è quello che viene fatto nel progetto di “autoriforma”, che prende le mosse da un’utilissima panoramica della storia dell’organizzazione socialista.
Non si può dimenticare che la grande forza del socialismo prefascista risiedeva nel fatto che esso fu insieme istituzione – cioè struttura partitica – e movimento, cioè propaganda, azione, presenza attiva e organizzata, nel sociale, nella cultura, nel femminile.
“Malfattori prima, legislatori poi”: sintetizzava Andrea Costa, in una sua celebre epigrafe, per indicare l’ampiezza e la spregiudicatezza di una presenza a tutto campo, dalle lotte, le più dure, all’attività legislativa, al governo – allora – degli enti locali. La struttura organizzativa corrispondente con grande efficacia e vigore alla molteplicità di questi indirizzi, all’ampio raggio di queste presenze, era, e non poteva che essere, una struttura “mista” nella quale si fiancheggiavano l’organizzazione territoriale propria del partito, le organizzazioni sociali come il sindacato e le leghe e, insieme con queste, le organizzazioni degli interessi economici, culturali, assistenziali, dalle cooperative ai circoli, alle Case del popolo, che assicuravano il radicamento e la presenza dinamica del PSI nella società civile. Con tale struttura la forza socialista crebbe in adesioni e in voti elettorali nel breve volgere di due decenni. E fu forza essenzialmente riformatrice, anche se nel partito in quanto tale, come struttura territoriale, formata allora da poche decine di migliaia di iscritti, prevalsero varie volte tendenze massimalistiche e “rivoluzionarie”, con la loro base sociale nelle zone più disperate del paese, o laddove più radicalizzata risultava la conflittualità sociale.
Il “gioiello” della struttura socialista di quel tempo andò in frantumi nel “biennio rosso”, per le note ragioni: la prevalenza di tesi estremistiche irrobustite dallo smarrimento sociale e politico del primo dopoguerra; la scissione di Livorno; l’ondata distruttiva dello squadrismo fascista; le leggi autoritarie che restrinsero prima, proibirono poi, la libertà di associazione, di propaganda, di espressione politica.
La ricostituzione del partito, nel secondo dopoguerra, ritrovò i consensi elettorali (il 20% circa alle elezioni del 2 giugno 1946); non ritrovò la forza organizzativa, una classe dirigente capace di porvi mano, una presenza attiva e omogenea dei socialisti nella società del tempo.
Sotto i colpi della crisi degli anni successivi, che condusse alla scissione, alla sconfitta del Fronte popolare, all’assoggettamento al PCI, si dispersero i consensi elettorali, il partito si frantumò in mille schegge, per ricomporsi nell’unanimismo grigio e fittizio della politica “unitaria”. Nel frattempo, il PCI aveva rapidamente ereditato le strutture sociali create dalla tradizione riformista, e ne aveva assunto la guida impadronendosene. Restavano al PSI solo la sua organizzazione territoriale, privata di ogni vitale autonomia politica, e una presenza subalterna nelle organizzazioni di “massa”.
Tuttavia – e bisogna riconoscerlo senza inutili pregiudizi – con Morandi si ebbe indubbiamente una ripresa organizzativa, con una razionalizzazione anche dolorosa delle strutture territoriali, con una maggiore attività nel sociale, con la formazione di nuovi quadri provenienti in gran parte dalla disoccupazione “intellettuale” dell’epoca, i quali sia pur indottrinati nel verbo marxista-leninista, davano una nuova carica attivistica al partito di cui divenivano dirigenti.
Bastarono così i primi, contraddittori accenni di autonomia del PSI, dovuti soprattutto a Nenni, a Lombardi, a De Martino, a Mancini, a Mazzali e a Cattani, perché il partito riprendesse quota organizzativamente ed elettoralmente, favorito anche dagli errori della socialdemocrazia. Su questo terreno, la scelta autonomistica del 1956-57 produsse rapidamente i suoi effetti. Nelle elezioni politiche del 1958, il PSI raggiungeva quasi il 14,5% dei voti, realizzando il risultato più soddisfacente dopo quello del 1946. Privo di qualsiasi potere centrale e periferico, con scarsi mezzi finanziari, aveva ridotto allora il suo distacco dal PCI a poco più del 10% degli elettori.
La nuova scissione, all’avvento del centro-sinistra, diede all’organizzazione socialista un colpo durissimo. Negli anni del centro-sinistra, essendo passati all’esperienza istituzionale, sia al centro come alla periferia, i suoi dirigenti e i suoi quadri migliori, non solo non ci si pose il problema di contrastare l’egemonia comunista nel mondo del lavoro, ma decadde anche l’organizzazione territoriale, dequalificandosi e clientelizzandosi in misura eccessiva ‘ con un conseguente inquinamento anche morale del partito. Fu un processo negativo, che portò alla degradazione della vita interna, con l’insorgere di tendenze proprietarie, e con l’esasperazione del fenomeno delle correnti, trasformandosi in buona misura in devastanti gruppi di potere. Oltre agli errori politici che il PSI compiva, tra la fine degli anni Sessanta e tutta la prima metà degli anni Settanta, anche la decadenza della vita di partito e della sua struttura organizzativa rappresentavano un fattore insuperabile di crisi. Se non si pone attenzione a questo dato, non si possono comprendere le ragioni complessive della crisi che portò alla sconfitta elettorale del 1976 e al pericolo reale della liquidazione del PSI, che indusse alla svolta del Midas.
E, se questa analisi risponde a verità, si dovrà anche riconoscere che se la svolta politica dell’ultimo decennio vuole conseguire l’effetto di una significativa espansione elettorale del partito, e di una sua forte capacità di rappresentanza e di aggregazione delle forze riformatrici e dello stesso polo laico, ad essa si dovrebbe accompagnare una forte riqualificazione del suo potenziale di energie organizzative, una modernizzazione delle sue strutture, un’azione creativa di nuovi organici processi di radicamento nella società civile in ogni suo campo, insieme con una riabilitazione di tutti i momenti di elaborazione e di iniziativa, al suo interno e al suo esterno.
Di qui l’urgenza di porre una “questione partito” che proceda di pari passo con gli sviluppi della sua azione politica nazionale e internazionale. Nel movimento socialista, la concezione che De Gaulle sintetizzava con l’espressione “l’intendence suivra”, non ha alcuna ragion d’essere e può risultare addirittura devastante. Né servono alla giusta impostazione della “questione partito” il civettare eccessivamente con le teorie che vorrebbero sostituire la forma-partito con i momenti della “politica spettacolo”, o con le “conventions” di tipo americano, che pure a volte trovano incuriosita accoglienza nell’area socialista.
Dilettarsi a lungo con esse serve solo a eludere il problema, non a risolverlo: i partiti non sono “videocassette”, o non sono soltanto questo; la società italiana, e quella europea in generale, ha caratteri distintivi troppo marcati rispetto a quella americana per sognare forme di raccolta del consenso legate a ben altra tradizione e a ben altre forme di sviluppo culturale, sociale e di costume.
La questione si affronta e si risolve facendo riferimento, ovviamente, anche ai dati più ampi di un processo di crisi e di trasformazione del sistema dei partiti, che l’Italia vive come qualsiasi altro paese dell’Occidente, e non solo di questo. Tuttavia, si deve innanzitutto procedere tenendo presente la “specificità delle esigenze” di un movimento socialista in pieno sviluppo, e delle caratteristiche della sua azione riformatrice, che può portare il PSI ai livelli quantitativi dei partiti socialisti degli altri paesi europei, sia dell’area mediterranea che dell’area continentale, qualora si operi sensatamente e con intelligenza a una revisione profonda delle sue strutture e delle forme di raccordo con il movimento incessante della società nazionale.
A confortare il ragionamento che muove a considerare la “questione partito” come la questione di cui non può essere trascurata la straordinaria importanza nel processo di rinnovamento del movimento socialista, vengono anche le risultanze di analisi e ricerche condotte su questo tema dalla cultura politica, e non solo italiana.
Mi riferisco a quelle correnti che insistono nel sottolineare come il fenomeno di deideologizzazione dei partiti postula l’idea di partiti moderni, capaci di conquistare zone sempre più differenti dell’elettorato: partiti che agiscano, di fronte al “mercato” dei consensi, come vere e proprie imprese. Imprese, sia chiaro, non in senso affaristico, ma assimilabili ad aziende del mondo post-industriale, che offrono cioè beni non materiali, come sono politica, cultura, ideali, programmi. Paradossalmente proprio la concezione tecnicistica, strutturalistica del partito moderno tende a ricondurre la forma-partito alla sua natura originaria di produzione e offerta di beni ideali, culturali, e politico-programmatica, non di struttura di mera appropriazione e gestione del potere. Ne consegue che un partito che non esalti soprattutto la sua natura e funzione politica è destinato a “uscire dal mercato”, o, comunque, a non conquistare nuove quote.
La prima considerazione che deriva da questa concezione del partito-impresa, ormai largamente riconosciuta, è che per il partito, come per qualsiasi impresa, la sua immagine esterna, quella che viene proposta al pubblico,, per essere credibile e affidabile deve corrispondere a un’immagine interna altrettanto credibile e affidabile. Vale a dire che un partito-impresa può presentarsi sul mercato politico come offerente di rinnovamento, di pulizia, di democrazia e di libertà, e insieme di efficienza (cito i prodotti più richiesti dal mercato politico), soltanto se al suo interno, nella sua vita interna, concretamente e coerentemente mostra di applicare questi valori: cioè se mostra efficienza, pulizia, democrazia e garantisce libertà di opinione e di dissenso. Se soprattutto segue sempre, con limpidità, tutti i momenti formalizzati delle procedure che, come ha spesso ricordato Martelli, sono la caratteristica distintiva della complessità sociale e politica della vita moderna.
Del resto, si tratta di cose non del tutto nuove. Senza scomodare la politologia e la cultura d’impresa, quante volte, come socialisti, si è ripetuto, con ragione, specie in polemica con i comunisti, che un partito non può presentarsi credibilmente come portabandiera della democrazia e del rinnovamento, se al suo interno non mostra visibilmente un’immagine democratica e rinnovatrice? Quante volte non si è detto che la concezione che un partito ha della sua vita interna, e la prassi che conseguentemente applica, riflette immancabilmente la sua “reale” concezione dello Stato, e la prassi che adotterebbe nella gestione delle istituzioni?
Un punto fermo si può dunque mettere: il partito, per conquistare consensi crescenti, deve essere sempre in grado di presentare al suo esterno (agli elettori) un’immagine “reale” di partito efficiente, democratico, libero, aperto, rispettoso delle norme formali e delle procedure che ne regolano la vita interna.
Si deve poi fare riferimento alla concezione del partito come impresa post-industriale, anche per un altro aspetto, altrettanto essenziale, sul quale si diffonde, opportunamente, lo stesso progetto di “autoriforma” offerto alla riflessione e alla discussione dei socialisti.
Si tratta dell’aspetto, decisivo, per il partito come per qualsiasi impresa, che riguarda il tipo di scelta organizzativa che viene compiuta. Del modo, cioè, con cui dispone le proprie strutture e i propri uomini, di come mobilita le proprie energie, di come forma e fa evolvere i propri quadri. Con la differenza che, mentre in ogni altra impresa tutti sono cointeressati attraverso un rapporto professionale, per il partito ciò avi viene solo in parte, sia pure, in un modo o nell’altro, in una parte crescente.
La decisione da assumere pregiudizialmente (secondo quanto troviamo in un rapporto Makno redatto su questo problema specifico) è “se l’organizzazione interna del lavoro, l’organizzazione decisionale, il controllo operativo devono essere in qualche modo gestiti secondo la vecchia metafora dell’organizzazione prussiana ad albero, rimandando alla vecchia metafora usata militarmente, cioè l’armata prussiana, che è un’armata fortemente gerarchizzata, con un capo, con dei capi dipendenti, ad albero, e quindi con una struttura di decisione fortemente monovalente, con un forte rapporto di dipendenza, che partiva dalla base e arrivava fino al vertice, e, pertanto, a livello soggettivo e con una scarsa autoresponsabilità”; oppure se, alternativa a questa, scegliere “un’organizzazione che richiama l’armata di tipo napoleonico, la cosiddetta organizzazione a rete, con tantissimi soggetti “alla pari”, con responsabilità cioè pari uno all’altro e ognuno autonomo di prendere un certo tipo di decisione senza rispondere ad altri che a se stesso… Questa organizzazione evoca, evidentemente, un’immagine più democratica di struttura orizzontale”. Per cui, secondo questi esperti dell’organizzazione d’impresa, “il problema del successo delle imprese è appunto la scelta organizzativa se andare verso l’organizzazione fortemente gerarchica o fortemente reticolata”.
La scelta suggerita per l’impresa-partito è la stessa ormai largamente prevalente in tutte le grandi imprese: la scelta dell’organizzazione orizzontale, reticolare, articolata, quella che ha portato al successo, sui mercati mondiali, le grandi industrie giapponesi, e che in questi ultimi anni viene accolta anche dalla cultura dell’organizzazione d’impresa nel mondo anglosassone. Essa costituisce il tipo di organizzazione ritenuta, insieme, la più efficiente e la più democratica.
Questa “filosofia organizzativa” sembra in verità essere stata assunta dal progetto di “autoriforma” del Partito socialista. Un PSI organizzato secondo il modello “reticolare” dovrebbe presentare una ricca pluralità di articolazioni: sezioni territoriali razionalizzate e fatte coincidere con gli ambiti amministrativi istituzionali; nuclei aziendali riqualificati e rilanciati; leghe e associazioni di socialisti operanti nello stesso ambito professionale; clubs e associazioni culturali e sociali, insieme con le componenti sindacali e le rappresentanze elettive del partito. Il tutto coordinato a vari livelli orizzontali e con la dotazione di ampi margini di autonomia.
Deve però essere chiaro, pregiudizialmente, che questo schema può tradursi in realtà, e prendere vita, se non ha un valore meramente “funzionale”, limitato a un’autonomia di decisioni operative. Essa può costruirsi produttivamente ed efficacemente se viene animato da uno spirito di reale autonomia politica, se vive nella piena libertà di espressione, di critica, di elaborazione politica, di confronto, di dibattito. Altrimenti, per dirla con una celebre frase con cui Nenni nel 1959 criticò l’apparato frontista: “Tutto funziona e nulla vive”. In realtà, poi, niente o poco funzionerebbe, oltre a non vivere.
Un’altra questione che si presenta al PSI, anche in termini organizzativi, è quella dell’alleanza riformista.
Tralasciando gli aspetti di politica generale di questa iniziativa, perché non appartengono al tema di cui ci stiamo occupando, va osservato però che un’alleanza tra partiti, movimenti e altre aggregazioni di matrice riformista, oppure laica, può avere effetti politici e anche elettorali, ma difficilmente può tradursi in quanto tale sul terreno organizzativo, a meno di non puntare a “fusioni” o a costituire “fronti” che l’esperienza italiana ha sempre dimostrato avere effetti scarsamente positivi e soddisfacenti.
Il partito, invece, da sé, come partito democratico e libero, alieno da sbarramenti ideologici, filosofici e religiosi di ogni tipo, sensibile e attento alla ricca proliferazione in atto di soggetti sociali individuali e collettivi, può organizzare forme nuove di partecipazione, di presenza e di mobilitazione politica e culturale in un’area più vasta di quella che si richiama agli ideali e ai programmi socialisti; o di chi comunque non se la sente di etichettarsi come tale.
Come s’è già ricordato, il PSI ha perduto le caratteristiche di partito a “struttura organizzativa mista”, che aveva assunto dalla sua origine fino alla dissoluzione forzosa operata dalle leggi fasciste. Esso è rimasto sostanzialmente un partito a organizzazione diretta, pressoché esclusivamente territoriale, nonostante qualche significativa esperienza associativa esterna a partecipazione o direzione socialista. Una fascia ristretta di rappresentanza “indiretta” si assomma pertanto alla rappresentanza “diretta” costituita dalla sua organizzazione sezionale e federativa: ma da ciò deriva solo una ridotta capacità di ulteriore espansione elettorale, a differenza di quanto avviene per i due partiti maggiori, in quanto sia la DC che il PCI possono contare su un sussidio di organizzazioni “collaterali” nelle varie zone della vita sociale e culturale del paese.
Come si ricorderà, alla fine degli anni Sessanta, o negli anni Settanta, vi furono vari tentativi di costruire un “collateralismo” socialista, di natura essenzialmente settoriale, ma i risultati furono scarsi e privi di reale rispondenza sul piano organizzativo ed elettorale.
La povertà della presenza organizzativa socialista, rispetto alle potenzialità politiche, è divenuta più evidente negli ultimi anni, quando intorno al PSI cominciarono a manifestarsi un’attenzione e un consenso molto più che proporzionali alla sua forza organizzata. Si fece strada, di conseguenza, il proposito di creare un collegamento, un sistema di relazioni che in qualche misura fosse in grado di stabilire un contatto non episodico, non puramente veicolato solo attraverso i mass media, tra il partito con la sua organizzazione tradizionale e l'”area” di consenso che intorno gli veniva crescendo.
Questo proposito interessò specificatamente il mondo della cultura, dell’informazione, dell’arte, dello spettacolo e dell’imprenditoria made in Italy. E si concretizzò nelle iniziative dei clubs, trovando sanzione formale nella formazione dell’Assemblea nazionale, varata al congresso di Verona, che accoglie molti esponenti di area socialista. Allo stesso modo furono previste assemblee regionali, che però risultarono costituite soltanto in rari casi.
Questa esperienza, pur essendo stata ispirata da un’idea sostanzialmente corretta, non può dirsi riuscita, perché soltanto parzialmente rispondente alle esigenze dinamiche di una formazione politica e organizzativa impegnata in un’attività di espansione della sua influenza in ogni direzione della vita associativa. In più, l’assorbimento degli “esterni”, cioè dei rappresentanti di area, nell’ambito della struttura tradizionale, anche se modificata in senso assembleare, mentre non può riuscire a superare la soglia di resistenza degli interessi costituiti all’interno del partito, non e in grado di modificarne in senso rinnovativo la stessa immagine verso l’esterno. Per cui la presenza di queste rappresentanze di area socialista mediante tale tipo di organismi risulta (come è avvenuto) sostanzialmente ausiliaria, e quindi scarsamente efficace in termini di prestigio e di afflusso di nuovi consensi.
Altrettanto inefficaci (ne abbiamo già accennato) risulterebbero le ipotesi che da qualche parte si avanzano, di un radicale abbattimento della struttura tradizionale del partito, per dar luogo, in sua vece, a una rete di “comitati elettorali”, coordinati da una sorta di “convenzione” di tipo americano, svincolata da strutture organizzative burocratiche, e sottratta a condizionamenti ideologici oppure derivanti dalla tradizione storica del socialismo.
Oltre a tutte le altre considerazioni che si potrebbero pur fare, appare vincente, nei confronti di questa ipotesi, il rilievo che una tale forma di associazionismo elettorale, più che avere valore politico, finirebbe per operare in modo serrato e organico pressoché esclusivamente a ridosso dei momenti elettorali, i quali, anche se ricorrenti, non esauriscono la complessa ed enormemente diffusa dimensione politico-amministrativa del sistema italiano, che richiede, ai fini della formazione del consenso, un’attività diuturna, un impegno costante e coordinato, assolvibile soltanto con la tipologia esistente dell’organizzazione partitica.
Il problema appare, quindi, di ben altra natura. Il problema reale è quello di dare compiutezza e concretezza alla nozione di “partito aperto” (ormai universalmente riconosciuta come forma di superamento di partito-chiesa o partito “ideologico”). E ciò può avvenire soltanto muovendosi in una direzione nuova. che permetta di uscire dalla crisi della formapartito superando l’angustia della struttura tradizionale (e soprattutto di quella esclusivamente territoriale) senza immaginare la cancellazione (del resto impossibile) del patrimonio organizzativo esistente.
Si tratta, cioè, di pensare e di operare per allargare l’orizzonte della vita di partito, inserendo la struttura tradizionale in una più vasta “comunità politica”, nella quale coesistano, in forma articolata, differenziata, e anche concorrenziale, varie forme e vari gradi di impegno politico e organizzativo che siano, nel loro insieme, capaci di coprire e rappresentare tutto l’arco della complessità sociale e culturale della realtà nazionale.
In questa “comunità politica”, il partito mantiene una sua funzione essenziale e fondamentale, rappresentando (per usare una similitudine di matrice cattolica, cioè di un’esperienza organizzativa non trascurabile) quella che può essere definita, sia pur impropriamente, una “struttura secolare”, cioè permanentemente agguerrita, razionale, costantemente potenziata. Mentre le altre strutture organizzative, in una certa misura già esistenti, oltre ad avviare a una vita non effimera né puramente di facciata, dovrebbero assolvere preminentemente al ruolo e al compito di recuperare e sviluppare quella funzione “movimentista”, di registrazione e di rappresentanza della domanda politica che costantemente si rinnova e si arricchisce, cioè quella funzione dinamica, non ideologicamente precostituita, libera dai nominalismi e dai tradizionalismi spesso conservatori, senza la quale il partito, divenuto istituzione, finisce per burocratizzarsi e per perdere le proprie radici di alimentazione ideativa e la propria freschezza e agilità di iniziativa.
Nel partito aperto, inteso quale “comunità politica” che accomuna e assomma, distinguendoli, il momento del partitoistituzione e il momento del partito-movimento, è a questa seconda funzione che va attribuito, per la sua capacità di svincolo dal tradizionalismo anche formale, per il suo dinamismo non costretto da rigide pregiudiziali, il compito di perseguire e realizzare di volta in volta le più ampie alleanze politiche, sociali, economiche, culturali e anche di tipo religioso che siano possibili; e, in base ad esse, di operare costantemente e capillarmente per l’aggregazione delle nuove fasce di consenso.
Questa funzione, questa forma di partito aperto non può né deve essere un inutile duplicato delle istituzioni formali del partito, che organizzano e gestiscono il patrimonio storico e il consenso tradizionale esistente (e, a conti fatti, quantitativamente suscettibile solo di parziali variazioni). E deve distinguersi anche nel nome, pertanto, dalla struttura della forma partito.
Il terreno su cui più naturalmente può collocarsi questa parte della “comunità politica” socialista e un terreno culturale e insieme pragmatico, sul quale possono incontrarsi, dialogare e operare insieme, senza steccati e senza pregiudiziali, ceti e realtà sociali di matrice socialista, laica, democratica, cattolica; realtà ex sessantottesche, persino dissociate da esperienze eversive; sindacalisfiche e imprenditoriali; della tecnica e della cultura; del mondo degli anziani, di quello dei giovani e del mondo femminile.
Il progetto di “autoriforma” si fa carico, com’era necessario, dei problemi di più immediata evidenza, la cui soluzione non dovrebbe più essere rinviata, perché, così restando le cose come sono, si verificano guasti fortemente laceranti sia per l’immagine del partito, sia per la sua vita interna.
Si intende procedere alla bonifica di situazioni che riguardano il tesseramento, il finanziamento, specie a livello periferico; e inoltre, questioni relative agli organi istituzionali, dalle sezioni ai nuclei aziendali, ai comitati provinciali e regionali, all’Assemblea nazionale.
Minore attenzione sembra esserci ai problemi dei rapporti tra gli organi dirigenti del partito, alla definizione dei relativi poteri e delle relative competenze: vale a dire ai problemi della “bilancia dei poteri” che, in un partito di grande tradizione democratica, come 9 PSI, sono essenziali. E lo sono divenuti ancora di più dopo l’istituzione dell’elezione diretta delle cariche di segretario a ogni livello della sua struttura.
Si trascura eccessivamente il problema della definizione di un sistema di incompatibilità, fondamentale per la salvaguardia degli effetti che possono derivare dalla concentrazione dei poteri decisionali e di influenza che molte volte il cumulo degli incarichi comporta.
C’è infine una questione, che porta a considerazioni più generali, e sulla quale giustamente ci si arrovella non da oggi, anche se nessuna soluzione pratica si è ancora trovata: essa riguarda il PSI, ma, con esso, tutti i partiti Italiani, almeno i più significativi. E quella del tesseramento. Il problema – che tutti i partiti Italiani, nessuno escluso, sono ormai costretti ad affrontare – insorge da quel processo di mutazione in atto nei partiti occidentali che i sociologi politici mettono sempre più in rilievo: la tendenza del partito politico ad assumere quella natura di istituzione onnipresente in quasi tutte le fasce della società civile, che, in particolar modo, due maestri della scienza politica, Kirchmeir e Neumann, hanno sintetizzato nel modello del “catch all party” (del partito-pigliatutto), che ha trovato un terreno di coltura nell’espansione della presenza del potere partitico dovuta anche all’allargamento della sfera dello Stato sociale, e in quelle forme di proliferazione del fenomeno “localistico” analizzate criticamente da Sartori e da Pellicani.
In questa realtà, l’adesione al partito è divenuta tale da basarsi essenzialmente sul rapporto di “scambio”, ricalcando il sistema medievale della commendatio: cioè un’adesione che non avviene neppure in cambio di uno o più vantaggi, bensì di protezione permanente al singolo, alla sua famiglia, al suo gruppo. Il numero delle adesioni al partito, cioè il numero delle tessere, assume la funzione di quotazione nella suddivisione interna del potere e dei suoi vantaggi. La tessera diviene un “certificato bollato”, una partecipazione azionaria, una quota sociale.’
In molti partiti, anche nel PSI, ci si arrovella da più tempo a escogitare strumenti “tecnici” diretti a bonificare una situazione di tal genere o, perlomeno, a circoscriverne gli effetti devastanti. Nessuno di questi suggerimenti, allo stato dei fatti, ha prodotto effetti benefici.
C’è da credere che ogni tecnica di tesseramento, per quanto sapientemente elaborata, finisca per avere una ricaduta scarsamente innovatrice, se non viene accompagnata e guidata da una tensione morale, da una rivalutazione politica del partito e della sua vita interna. Se, insomma, non si abbandona la cultura del potere, per riprendere in pieno la cultura originaria dell’impegno politico, della discussione, del libero confronto di idee, programmi, finalità.
Ha sintetizzato in modo esauriente questa problematica Luciano Pellicani, rilevando che la realtà del PSI “è una realtà caratterizzata da un grande progetto politico che non può appoggiarsi ad un adeguato strumento operativo. Il che vuol dire – prosegue Pellicani – che il PSI non ha ancora eliminato le deficienze organizzative e morali che in passato gli hanno impedito di raccogliere proporzionalmente a quanto aveva seminato.(8)
A questo compito si è dichiarato, dopo le amministrative dell’estate ’88, che il partito si deve accingere in sede congressuale. Lo ha affermato lo stesso Craxi, dichiarando che il successo conseguito (in questo turno elettorale il PSI s’è attestato intorno al 18 per cento, avvicinandosi al livello del PCI) induce a una accelerazione del processo di rinnovamento del partito di cui è alla guida. Si è andata, comunque, profilando negli ultimi anni una tendenza al riequilibrio nei rapporti di forza elettorale tra PSI e PCI, che apre una fase del tutto nuova all’interno della sinistra e rende prevedibile la composizione di una forza socialista molto più grande e influente che per il passato.
Al XLV congresso, svoltosi a Milano nella sala dell’ex fabbrica Ansaldo dal 13 al 18 maggio 1989, è emerso – nel corso della relazione di Craxi – un dato che suscita particolare interesse: quello della composizione sociale del PSI del “nuovo corso”.
Da esso risulta che il PSI avrebbe una base organizzata, rappresentativa in modo proporzionale dei più svariati soggetti sociali, con la prevalenza in termini relativi, tra di essi, degli operai. Questi costituirebbero infatti il 35% circa degli iscritti al partito. Il restante è suddiviso – sempre secondo la relazione – tra impiegati (2 7 %), commercianti ed artigiani (17 %), liberi professionisti ed imprenditori (12%), insegnanti (5%), agricoltori (4%).
Secondo Craxi il PSI “è un partito che si è profondamente rinnovato, se non interamente ancora nelle strutture e nell’organizzazione, certamente nel corpo dei propri iscritti”.,1 Il 74% degli iscritti attuali hanno preso la tessera dopo l’inizio del “nuovo corso”. Solo il 5 % degli iscritti avrebbe più di trent’anni di tessera.
Il dato sulla maggioranza relativa degli operai tra gli iscritti viene suffragato dalla crescita elettorale del PSI tra il 1983 ed il 1989 (14,3% alle politiche del 1987; 14,8% alle europee del 1989). Infatti dalla disaggregazione del voto per singole zone territoriali, è risultato che il PSI ha avuto una crescita omogenea nelle zone industriali. Si può dire che il PSI ha fruito di una tendenza dei ceti operai a recepire una cultura riformista.
Il XLV congresso ha confermato la tendenza a qualificare il riformismo socialista della fine del secolo in termini di progettualità riformatrice centrata sul problema del rinnovamento del sistema istituzionale. Un tema al quale il PSI ha dedicato grande attenzione da un decennio, formulando la proposta della Grande Riforma, che ha registrato, nelle vicende politiche degli ultimi lustri, alcuni successi, anche se di natura parziale: primo fra tutti quello della riforma del sistema del voto parlamentare, con l’affermazione del principio del voto palese, ottenuta nella prima fase del governo De Mita.
Al centro della sua proposta di riforma istituzionale, il PSI pone il problema della elezione diretta del capo dello Stato. Già avanzata in ripetute occasioni, al XLV congresso questa proposta trova una definizione più puntuale ed una più precisa elaborazione, collocandosi in un quadro più generale di riforma dell’assetto istituzionale. Essa assume, difatti, i contorni esatti di un modello presidenziale di tipo americano, secondo il richiamo storico fatto da Craxi alle posizioni assunte dai liberalsocialisti del Partito d’Azione (e specificamente da Calamandrei, Lombardi, Codignola) nell’Assemblea costituente. Questo riferimento al modello americano viene esplicitato inoltre dagli interventi alla tribuna congressuale di Salvo Andò, Giuliano Amato e Claudio Martelli.
Nella scelta tra il modello gollista, ereditato poi da Mitterrand, contrassegnato da una presidenza forte e da un’istituzione parlamentare debole, ed il modello statunitense, nel quale la forza centralistica della presidenza viene controbilanciata da un forte ed onnicomprensivo controllo parlamentare, il PSI appare decisamente orientato verso questo secondo. Né sembra darsi problema per il fatto che, a differenza del nostro, il sistema costituzionale americano è non soltanto di natura presidenziale, ma anche di natura federativa. L’Italia non è una federazione di Stati, come gli USA: ma resta il fatto che ciò deriva dalla diversa estensione territoriale. L’immensa estensione del Nord America e la eterogeneità etnica originaria hanno motivato storicamente -diversamente che da noi – la costituzione articolata degli Stati colà federatisi oltre due secoli or sono. Inoltre va considerato che, nel sistema italiano, l’istituzione e l’esperienza della vita delle regioni hanno determinato una situazione di decentramento notevolmente acuto, il quale, seppur non si può considerare in termini di federalismo, ha condotto ad un’articolazione istituzionale molto marcata.
Di fatto, dunque, quella che viene definita l'”equivalenza” tra presidenzialismo e federalismo trova ormai riscontro tra noi in tendenze regionalistiche molto sensibili, ed anche in alcune tendenze centrifughe periferiche che sono andate mostrando i segni di un risveglio di quello spirito “contrattualistico” nei confronti dello Stato centrale, che anima notevoli settori delle classi dirigenti regionali.
La proposta socialista vuole costituire, di conseguenza, una risposta originale a problemi di questa natura che si vanno ponendo all’attenzione della vita democratica. E rende visibile un impegno riformatore dei socialisti sul terreno del riassetto istituzionale dello Stato repubblicano.
Un altro tema, sul quale il XLV congresso ha portato elementi di novità, è stato quello dei rapporti a sinistra. Registrando la crisi del comunismo mondiale, apparsa sempre più acuta, oltre che nella Russia di Gorbaciov, anche in Gna, in Polonia ed in Ungheria; e registrando la conseguente evoluzione dello stesso PCI, considerata dai socialisti non pervenuta ancora ad un soddisfacente punto di chiarificazione culturale e politica, il PSI ha voluto porre il problema della costruzione di una “sinistra di governo”. Problema che il XLV congresso non ha collocato nell’ottica di uno schieramento alternativo, almeno per un futuro immediato, come invece vanno proponendo i dirigenti del “nuovo corso” del PCI, dopo l’assunzione della segreteria da parte di Achille Occhetto. Bensì nella prospettiva della eventuale dislocazione della stragrande maggioranza delle forze del mondo del lavoro su una chiara piattaforma socialista, democratica e riformista. Craxi, Martelli, De Michelis e Ruffolo hanno posto l’accento sulla possibilità di una ricomposizione della “famiglia socialista”, una volta superate le ragioni delle scissioni che nel corso di questo secolo hanno travagliato il PSI: ciò che può essere realizzato solo attraverso una scelta precisa ed inequivoca, sul piano culturale, morale ed ideale.
In tale quadro si è anche situata la convergenza realizzata dal partito con l’UDS (Unione Democratica Socialista) sorta dall’allontanamento dal PSDI di un nutrito gruppo di parlamentari, di amministratori e di dirigenti, facenti capo a Pier Luigi Romita, con cui il congresso ha sancito un rapporto federativo, preludente ad una rapida confluenza nelle fila del PSI.
Nell’immediato, l’assise dell’Ansaldo si è conclusa con la dichiarazione di esaurimento dell’esperienza del governo presieduto da Ciriaco De Mita e con la prospettazione di una ripresa della collaborazione governativa con la DC e con le forze democratiche laiche in termini di una più convincente iniziativa riformatrice, tale da corrispondere allo spirito rinnovatore che alimenta l’azione socialista nel paese.
Dopo un mese dall’assise socialista, nelle elezioni europee del 18 agosto il PSI ha conseguito un risultato sostanzialmente positivo anche se non di valore eccezionale, con il 14,8 per cento dei voti, ed ottenendo 3 seggi in più. (Aumenta del 3,5 per cento rispetto alle precedenti europee, e dello 0,5 per cento rispetto alle politiche dell’87.)
Indubbiamente la crescita elettorale socialista è graduale e non rapidissima: epperò 9 PSI nel corso di un decennio ha realizzato un aumento complessivo di un 5% in valore assoluto, passando dal 9,8 per cento delle elezioni del 1979 al 14,8 per cento delle europee del 1989: con un incremento in termini relativi di un terzo dei propri elettori.
Nello stesso periodo il PCI ha perduto all’incirca altrettanto, in valore assoluto, scendendo dal 30,4 del 1979 al 27,6 dell’89, ma calando di cinque punti e mezzo rispetto alle precedenti europee. Il divario tra i due partiti è quindi sensibilmente diminuito, determinando un processo di riequilibrio consistente tra le rispettive aree elettorali.

CONCLUSIONI

Quali che siano i giudizi di valore che si sono voluti dare e che si continuano a dare sul “nuovo corso” del PSI, è fuor di dubbio che esso ha realizzato notevoli mutamenti nella linea politica del partito e nella sua vita culturale, suffragati da consistenti successi elettorali e da un potenziamento della sua presenza istituzionale, ad ogni livello della società italiana.
Alla fine degli anni Ottanta, oltretutto, si è andata verificando quella modificazione nei rapporti di forza, nell’acquisizione dei consensi tra PSI e PCI, che fino a qualche tempo prima sembrava insperabile, o comunque di là da venire. Dalla fase in cui ad ogni consultazione elettorale il PCI cresceva ed il PSI restava stazionario, si è passati ad una situazione totalmente diversa: dalle elezioni politiche del 1987, e, successivamente, con i turni parziali delle amministrative del 1988, la situazione si è rovesciata.
Il Partito comunista è andato perdendo costantemente voti, mentre i socialisti hanno registrato sensibili avanzamenti.
Le analisi elettorali hanno messo inoltre in evidenza come, dalla disaggregazione dei risultati, emerga che il PSI guadagna elettori in percentuale corrispondente a quella delle perdite comuniste.
Si e assistito, cioè, ad un travaso di voti dall’area elettorale comunista a quella socialista.
Il riequilibrio dei rapporti di forza nella sinistra italiana, auspicato per lungo tempo dai socialisti, temuto ed avversato da altri, e non dai soli comunisti, appare avviato.
Questo processo è il risultato e l’effetto insieme di una collocazione politica del PSI in termini diametralmente diversi da quella che esso ha avuto, o subito, dal 1946 in poi.
Partito da posizioni elettorali di vantaggio rispetto al PCI nelle elezioni per la Costituente, era uscito estremamente indebolito dalla catastrofe della scissione di Palazzo Barberini e del Fronte popolare. Gradualmente ripresosi nei primi anni Cinquanta, che ne avevano visto un sensibile recupero elettorale alle elezioni del 1953, era notevolmente risalito in quelle del 1958, in concomitanza con la riaffermata autonomia con la critica nenniana allo stalinismo, dopo il 1956.
La scissione del 1963 l’aveva di nuovo indebolito, portandone i valori al di sotto del 10 per cento: un livello al qualeera rimasto sostanzialmente fermo – eccetto la parentesi dell’unificazione – fino alle elezioni del 1979 comprese. Negli anni Settanta s’era verificato il più alto divario nel rapporto di forza con i comunisti: tale rapporto si quantificava in 1 a 3,5 per cento all’incirca. Per ogni elettore socialista vi erano cioè da tre a quattro elettori per il PCI. Alla fine degli anni Ottanta esso è sceso ad 1 per 1,5. La distanza si e andata pertanto riducendo in modo impressionante.
La ripresa elettorale socialista ha coinciso, quindi, con una fase politica nella quale il ruolo del PSI nello schieramento politico italiano e andato decisamente mutando.
Non è difficile individuare, con un esame obiettivo, le ragioni di tale cambiamento.
Ha osservato Merkel, nell’opera che abbiamo più volte citato, che, alla fine degli anni Settanta, era considerato come “legge ferrea” da parte di tutti i politologi Italiani il giudizio espresso da Norberto Bobbio, secondo il quale il PSI, come “partito medio ed intermedio”, avrebbe potuto essere, all’occorrenza, partito “coalizzato”, senza mai diventare partito “coalizzante”. La qual cosa, nella specificità del sistema poli tico italiano, significava condannarlo a un ruolo di alleato subalterno di qualsiasi coalizione possibile (di centro-sinistra, di sinistra o consociativa), guidata dalla DC, dal PCI, o da entrambi i due maggiori partiti.
Questa situazione sembrava eternizzata dalla costanza dei consensi elettorali ricevuti dai due maggiori partiti, che confermavano la tendenza “bipolare” dell’elettorato italiano, così come s’era andata configurando soprattutto dalla crisi del centro-sìnistra in poi.
I precedenti che facessero ritenere realmente “ferrea” la “legge” enunciata da Bobbio non mancavano.
Dopo la breve stagione del biennio 1945-46, nella quale il PSI, in quegli anni a direzione autonomistica, era stato il perno reale dello schieramento derivante dal CLN, anche perché munito di maggiori consensi rispetto al PCI, il suo ruolo era risultato sempre subalterno rispetto ai due punti forti del sistema bipolare.
La scissione di Palazzo Barberini, la linea nettamente frontista assunta dopo il 1949, insieme con la sconfitta elettorale del ’48, fecero del PSI un partito effettivamente “coalizzato”e subordinato al PCI, su posizioni di opposizione. Da questa situazione si era riscosso con la polemica sullo stalinismo, e con l’avvio del dialogo con i cattolici, che faceva presagire un ritorno del PSI ad una funzione di governo, in rappresentanza del movimento dei lavoratori.
Nella crisi del centrismo, nel rigetto del tentativo Tambroni di apertura a destra, e nella prima maggioranza di centrosinistra, quella in cui il PSI non entrò a far parte del governo, pur sostenendolo, il PSI non fu né “coalizzato”, né “coalizzante”. Riuscì a ottenere il successo della nazionalizzazione dell’energia elettrica e si apprestava a giocare un ruolo determinante nella guida del paese.
La seconda scissione, quella del 1963, va riletta in funzione di questo schema. Democristiani e comunisti, interessati che il PSI ritornasse a un ruolo di subalternita, probabilmente la favorirono; comunque ne furono avvantaggiati.
Il PSI, notevolmente indebolito e dissanguato di quadri dalla nuova secessione, pur riuscendo ad ottenere alcuni importanti successi programmatici con il centro-sinistra, risultò essere un partito “coalizzato”, e la sua situazione alla lunga divenne insostenibile, quando il centro-sinistra apparve una formula di governo eccessivamente moderata rispetto ai movimenti che, con il Sessantotto, scuotevano la società italiana.
Stretto tra l’offensiva dei comunisti – che, almeno in una prima fase, cavalcano la contestazione – e il moderatismo dei “dorotei”, che ormai governano la DC, il PSI e costretto ad abbandonare la politica di centro-sinistra, senza peraltro essere in grado di disegnarne un’altra. In questa fase le esigenze di una maggiore autonomia rispetto alla DC e al PCI emergono con la segreteria di Mancini, che però viene sconfitto al congresso di Genova alla fine del 1972. Al suo posto si dà luogo a un singolare pastiche politico: non essendo in grado di realizzare un disegno strategico che evitasse la subalternità politica verso ciascuno dei due partiti maggiori, il PSI escogita, di fatto, una duplice subalternità. Invece di essere “coalizzato” ad uno di essi, finisce per “coalizzarsi” con entrambi, favorendo così lo svilupparsi dell’iniziativa consociatiVa del compromesso storico.
È la crisi della “solidarietà democratica” che offre ai socialisti l’occasione per una modificazione della situazione preesistente. Il “bipolarismo” mostra in questa fase le ragioni di una sua possibile crisi. PCI e DC sembrano ormai allo stesso livello di consensi, o quasi. Tra di essi si è creata una situazione di stallo. Se si affrontano, nessuno dei due riesce più a prevalere: il “bipolarismo” non è in grado di risolversi in una alternativa che veda vincente l’uno o l’altro. Il “bipolarismo”consociativo, cioè l’alleanza tra i due partiti più forti, s’e rivelato anch’esso impossibile.
Di fronte a questa situazione di stallo, e di pericolosa crisi, il “nuovo partito” (il cambiamento, per la verità, è soprattutto ai vertici) può non essere più un partito “coalizzato”, anche perché gli altri non sono più in grado di coalizzarlo.
Accade così che proprio nel momento in cui Bobbio enuncia la sua “legge” (valida se riferita al passato e al presente di allora) alla fine degli anni Settanta, si creano le condizioni che ne possono invalidare gli effetti.
Il PSI, proprio in quel momento, può essere un partito non più “coalizzato”, e, quel che conta, comincia a non volerlo più essere.
Resta pur sempre un partito “medio ed intermedio”, di scarsa consistenza elettorale.
Ha bisogno di dichiarare la sua identita: e lo fa adottando – dopo qualche incertezza, come quando si veste dei panni del “lib-lab” – un’identità riformistica di stampo moderno, che gli permette di assumere una netta fisionomia revisionistica, ma nell’ambito di una collocazione sociale che sia espressione soprattutto del mondo del lavoro.
Deve proclamare la “centralità” della questione socialista, che sostituisca quella “centralità” della questione comunista che aveva dominato gli anni Settanta.
Tutto questo però non basta. Le forze sono quelle che sono. Sono sempre quelle del più forte dei partiti minori, di un partito “medio ed intermedio” che sembra destinato per forza di cose ad essere “coalizzato” e subalterno.
Il mondo politico italiano – come del resto quello di ogni
altro paese – è duro, con le sue leggi di potenza. “Quante divisioni ha il Papa!”, avrebbe a suo tempo esclamato Giuseppe Stalin. “Quanti deputati ha il PSI?”, si domandano tutti i soggetti della politica italiana, in particolare modo Piazza del Gesù e Via delle Botteghe Oscure.
Le “divisioni” del PSI sono poche, e soprattutto non molto agguerrite. E questo è a conoscenza di tutti.
La stessa “politica spettacolo”, teorizzata da Gianni Statera, serve a poco, anche se i suoi mezzi sono abilmente sfruttati. E’ utile a proclamare la nuova identità, a propagandare la centralità socialista, ma non rende quasi nulla sul piano elettorale: la politica non’ scalda mai eccessivamente i cuori dei cittadini telespettatori, che tra l’altro hanno conquistato la libertà del telecomando. Semmai ne stimola lo spirito critico e corrosivo.
Tuttavia il PSI è pur sempre un partito “intermedio”. E come tale ha una rendita di posizione, derivante dall’utilità marginale del suo consenso per formare coalizioni di governo. Con il “compromesso storico”, il valore di questa rendita di posizione era ridotto pressoché a zero. A mano a mano che s’approfondisce la crisi della “solidarietà nazionale”, che s’allarga la distanza tra DC e PSI, i suoi valori crescono a dismisura. Berlinguer, con la brusca rottura del ’79, con il lancio dello slogan di una non meglio identificata “alternativa”, crea, proprio lui, le condizioni per il gioco vincente dei rivali socialisti, lungamente e largamente sottovalutati. La polemica contro il “bipolarismo”, l’affermazione delle esigenze della “stabilità” e della “governabilità” espresse da Craxi fin dall’inizio degli anni Ottanta, costituiscono la manifestazione di questa nuova linea.
Mentre si dichiara la disponibilità del PSI ad assumersi responsabilità nella guida del paese, si pone anche, da parte socialista, il problema della governabilità in termini Per cui il partito, partecipandovi, non risulti più come un “coalizzato”: un subalterno, magari di lusso, trattato con i fiocchi, ma sempre subalterno.
Questo modo di far valere una rendita di posizione politica ha indubbiamente anche degli aspetti antipatici, o addirittura spiacevoli.
Può apparire perfino improntata a cinismo politico.
Ma essa non solo risulta efficace; essa risulta la sola risposta possibile, in termini di movimento, a una rendita di posizione, che però e ormai contrassegnata dall’immobilismo: quella di un sistema “bipolare” determinatosi da lunghissimo tempo, ma che è difficilmente in grado di perpetuarsi, se non risponde alle ragioni di vita della società nazionale.
Il ritorno dei socialisti al governo, dopo il 1980, è accompagnato necessariamente dall’ipotesi dell’assunzione della guida del governo da parte dei socialisti: perché tale ipotesi, che si fa via via più concreta, è il segno distintivo di una alleanza non subordinata, comunque realizzata su di un piede di parità politica.
In questo modo il PSI esce finalmente dalla condizione di partito coalizzato e sottoposto. Ed assume la fisionomia di partito allo stesso tempo alleato ed antagonista della stessa DC. Condizione che ha trovato la sua massima espressione, com’era del tutto naturale, con l’assunzione della presidenza del Consiglio da parte di Craxi, e con la sua lunga e positiva permanenza a Palazzo Chigi.
La presidenza del Consiglio ha obiettivamente rappresentato un punto di svolta nell’universo politico italiano, e nella stessa realtà della sinistra. Ha permesso al PSI di conquistare suffragi più ampi, in grandissima parte voti di sinistra: e, con ciò, di modificare un rapporto di forza con il PCI, che pone il Partito socialista in una posizione di partito “coalizzante” persino nell’eventualità, ancora remota, di un’alleanza politica diversa da quella con la Democrazia cristiana. In ogni caso ha avviato concretamente la demolizione del sistema fondato sul “bipolarismo” tradizionale. Ha finito per sconvolgere la geografia politica del paese.
La conseguenza più rilevante, che deriva da tutto questo, infine, è che a conclusione di questo processo la stessa “rendita di posizione” su cui s’era basato il gioco politico socialista degli anni Ottanta viene ad essere sostituita da un valore meno relativo e meno effimero. Da un potere di rappresentanza crescente e più duraturo di interessi, aspettative, esigenze di una parte più vasta del mondo del lavoro e dello schieramento progressista. Una forza che alla lunga risulta più incisiva e più rispondente alle finalità di cambiamento della società e dello Stato.
Alla ripresa socialista, al mutamento del suo ruolo da partito “coalizzato” a partito protagonista, ha contribuito essenzialmente quel risveglio culturale che si è manifestato con la “terza fase” del revisionismo socialista.
Il problema dell’identità culturale è sempre fondamentale per ogni forza politica che non sia, e non intenda essere, marginale nella società. Lo è soprattutto, e sempre lo è stato, per il Partito socialista.
Punto essenziale del “nuovo corso” è quello della rivalutazione della tradizione riformistica, che parte da un riallacciamento convinto alla tradizione turatiana ed anche bissolatiana e bonomiana, aggiornata alle nuove esigenze della società, aperta al confronto e alla interazione con nuovi filoni culturali, com’è la stessa teoria della giustizia e il neocontrattualismo.
Né contrasta con il riformismo originario il tema della “modernizzazione” che, come abbiamo visto, era già presente nel pensiero e nell’azione turatiana degli anni precedenti al fascismo oltre che in Bonomi e Bissolati.
Di pari passo ha proceduto la chiarificazione interna alla sinistra, con l’accertamento della natura del totalitarismo e dello stalinismo, che ha trovato il suo momento culturale nel convegno – promosso da “MondOperaio” nel marzo 1988 – sul tema: “Lo stalinismo nella sinistra italiana”, che non ha mancato di mettere a fuoco i problemi dell’adesione allo stalinismo del PCI togliattiano e anche dello stesso PSI frontista.
Il lavoro di elaborazione di una nuova cultura dei socialisti, per un rinnovamento del patrimonio ideale della sinistra, per definire sul piano dei princìpi e sul piano dei programmi la strategia di rappresentanza della società, e delle regole e degli obiettivi di una sinistra di governo, e un lavoro lento, complesso, faticoso, eppure di grande importanza e interesse per un Partito socialista che voglia essere protagonista delle prossime fasi della vita nazionale.

STORIA DEL PSI, di Antonio Landolfi, SugarCo, 1990