Giustizia, il No nel referendum per difendere la democrazia

di Alfiero Grandi | La corsa verso il referendum costituzionale sulla legge Nordio – che cambia la Costituzione sulla magistratura – è iniziato. È curioso leggere, solo ora, del bisogno di una terza via tra il Si e il No nel referendum come scrive Stefano Folli. Il governo ha assunto l’iniziativa di presentare il testo della proposta di legge per cambiare la Costituzione su un punto importante e delicato come la magistratura e l’ha imposto ad un Parlamento asservito che l’ha approvato senza alcuna modifica. Certo, questo avviene a causa di una legge elettorale assurda che ha regalato a chi ha ottenuto il 44 % dei voti il 59 % dei parlamentari (un iper maggioritario di fatto) e questo ha spinto il governo a imporre la sua proposta non solo all’opposizione ma anche ai parlamentari della sua maggioranza, senza alcun tentativo di raggiungere un consenso ampio. Hanno svuotato il ruolo del Parlamento Così è stato reso puramente formale il ruolo del Parlamento che invece secondo Costituzione dovrebbe essere il protagonista assoluto nell’approvazione delle leggi, tanto più quando si interviene sulla Costituzione. Questo ha avuto la conseguenza di comprimere ulteriormente il ruolo delle Camere, già ai minimi termini per un uso smodato dei decreti legge, dei continui voti di fiducia a raffica, ecc. La prima grande modifica della Costituzione attuata senza dirlo e largamente sottovalutata è proprio quella che ha fatto in modo che il Parlamento non abbia più il ruolo fondamentale di rappresentanza delle elettrici e degli elettori e il governo eserciti non solo il suo potere esecutivo ma anche gran parte di quello legislativo. Ad esempio la legge di bilancio all’esame del Parlamento confermerà – purtroppo – che le Camere hanno di fatto perso il loro ruolo, sia pure a turno. Infatti solo la Camera dei deputati esaminerà la legge di bilancio, il Senato potrà solo confermare il testo. È un bicameralismo che funziona a turno, alternato, è una modifica della Costituzione di fatto senza neppure averla approvata. Il testo della legge Nordio proposto dal governo è identico a quello approvato in via definitiva ed è la conferma che il governo ha invaso e ridotto il ruolo del Parlamento a mera ratifica. Questo conferma che è indispensabile una nuova legge elettorale che deve restituire al Parlamento il ruolo di rappresentare il corpo elettorale e questo può avvenire solo se deputati e senatori rispondono agli elettori, non ai capi partito che oggi di fatto li nominano dall’alto. La legge Nordio viene detta per la separazione delle carriere: nulla di più falso. La separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri è già stata attuata a Costituzione vigente, riducendo la possibilità di passare da un ruolo all’altro a una sola volta. Sono ormai pochissimi i magistrati che passano da un ruolo all’altro, nessuno può negarlo, eppure si vuole modificare comunque la Costituzione per ottenere quello che è possibile senza modifiche. Perché? Perché si vuole negare ai magistrati di essere un corpo unico, autonomo, la cui indipendenza è garantita dalla Costituzione, con la stessa formazione, a garanzia e tutela dei diritti dei cittadini (imputati compresi) con il diritto di eleggere la loro rappresentanza nel Consiglio superiore della magistratura che ha compiti di rappresentanza e di governo su tutta la carriera dei magistrati, dall’assunzione alla carriera. C’ è stato un disdicevole caso Palamara? Vero. Ma questa bruttura è stata affrontata e risolta con questa Costituzione e questo ordinamento della magistratura, prenderlo a pretesto per cambiare la Costituzione è una forzatura per mettere sotto scopa i magistrati. Del resto Giorgia Meloni e esponenti di rilievo della maggioranza di destra hanno chiarito benissimo le loro ragioni, per evitare presunte “invasioni di campo” della magistratura sugli atti del governo nella convinzione, sbagliata e incostituzionale, che in una democrazia chi è eletto (anche nel caso che non abbia il consenso della maggioranza degli elettori) non debba subire vincoli, controlli, in sostanza sarebbe legibus solutus, e possa agire liberamente. La destra al governo ha dimostrato una forte allergia per i controlli e i contrappesi e pensa di poter fare e disfare tutto come meglio crede, ancora di più perché ringalluzzita dall’esempio antidemocratico di Trump, non a caso considerato un riferimento politico dalle destre mondiali. La magistratura ha ricordato al governo in diverse occasioni che avere la maggioranza parlamentare non dà il diritto di prendere decisioni in contrasto con principi fondamentali italiani, europei ed internazionali, senza coerenza con la Costituzione e con le leggi in vigore. Questa è la funzione della magistratura. Come dovrebbe essere per tutti gli organi indipendenti e di controllo. Basta pensare al fastidio dimostrato dal governo per le valutazioni critiche di Banca di Italia, IPB, Istat, Corte dei Conti sulla attuale proposta del governo di legge di bilancio. Il fastidio per le critiche sta raggiungendo livelli di guardia. Il governo di Giorgia Meloni ha deciso di iniziare dalla magistratura, negando con la legge Nordio ai magistrati il diritto di eleggere i loro rappresentanti, che invece verrebbero sorteggiati (dobbiamo aspettarci il sorteggio anche per entrare in Parlamento?), il CSM verrebbe diviso in due (giudici e pubblici ministeri), con un’evidente perdita di ruolo di entrambe le carriere, la parte disciplinare verrebbe trasferita dal CSM ad un altro organo diverso, esterno. Così l’autogoverno della magistratura verrebbe colpito duramente e sarebbe il primo passo per mettere in riga i magistrati. Del resto non è solo un problema italiano. In tutti i paesi che hanno evoluzioni verso l’autocrazia l’indipendenza della magistratura è la prima vittima. È chiaro che se la modifica costituzionale del governo Meloni dovesse avere la maggioranza nel prossimo referendum la destra al governo metterebbe subito avanti il premierato o almeno una versione della legge elettorale che dovrebbe ottenere – seguendo i consigli di D’Alimonte – un risultato in quella direzione. È in gioco la natura della nostra democrazia che potrebbe evolversi verso un’autocrazia, anzi una vera e propria capocrazia. A sinistra c’è chi sottovaluta o è addirittura d’accordo con la destra? Pazienza! La cosa importante è che elettrici ed elettori siano resi consapevoli della posta in …

Daniele Luttazzi – In “Petrolio” Pasolini fa il racconto preveggente dell’Italia delle stragi

Nonc’èdiche, Fatto Quotidiano 18 novembre 2025 | In Petrolio Pasolini denuncia le origini della strategia della tensione: Enrico Mattei, il presidente dell’Eni, fu ucciso per fare posto a Eugenio Cefis, il suo vice, futuro fondatore della Loggia P2. Per scriverlo, Pasolini attinge a piene mani da una biografia, Questo è Cefis, scritta da un fantomatico Giorgio Steimetz e pubblicata nel 1972 dall’Agenzia Milano Informazioni. Un libro introvabile: gli uomini della Montedison ne fecero sparire quasi tutte le copie. A Pasolini lo inviò in fotocopia lo psicanalista Elvio Facchinelli, animatore de L’Erba Voglio, rivista di controcultura che aveva pubblicato il discorso, tenuto all’Accademia militare di Modena, con cui Cefis invocava una riforma costituzionale orientata a un presidenzialismo autoritario. Oggi il libro di Steimetz è in appendice all’edizione Einaudi di Petrolio, nel cui prologo Carla Benedetti e Giovanni Giovannetti compongono il puzzle della vicenda. L’Agenzia Milano Informazioni era finanziata da Graziano Verzotto, uomo di Mattei in Sicilia. “Mattei fu ucciso su richiesta di Cosa Nostra americana perché con la sua politica aveva danneggiato importanti interessi americani in Medio Oriente”, spiegò Buscetta. “Il contatto con Mattei fu stabilito da Verzotto, che non era informato, ovviamente, del progetto di Cosa Nostra, ma era legato al boss Di Cristina”. Altri due pentiti confermarono: bomba mafiosa sull’aereo. Verzotto confidò a Calia, il pm che riaprì l’inchiesta sul caso Mattei, che Mauro De Mauro, il giornalista de L’Ora ucciso dalla mafia nel 1970, riteneva Cefis responsabile dell’omicidio, complice Vito Guarrasi, avvocato palermitano, uomo di Cefis in Sicilia e membro di spicco di Cosa Nostra. Cefis aveva cointeressenze in due raffinerie che rifornivano le difese Nato del sud Europa e la Sesta flotta Usa (petrolio Esso e Shell); Mattei voleva che la Nato diventasse cliente Eni; Cefis non voleva. In tutte le edizioni di Petrolio l’appunto 21, intitolato Lampi sull’Eni, è vuoto. Pasolini, in un altro appunto, lo riassume così: “Troya sta per essere fatto presidente dell’Eni: e ciò implica la soppressione del suo predecessore (caso Mattei)”. Troya è Cefis, uomo di Stato, ma anche imprenditore privato che “condizionò pesantemente la stampa, usò illecitamente i servizi segreti dello Stato a scopo di informazione, praticò l’intimidazione e il ricatto, compì manovre finanziarie spregiudicate oltre i limiti della legalità, corruppe politici, stabilì alleanze con ministri, partiti e correnti” (Massimo Teodori, Commissione sulla Loggia P2). Il saggista Gianni D’Elia sbalordì quando, nel 2010, Marcello Dell’Utri disse d’aver ricevuto “da un privato” una settantina di pagine di quel capitolo mancante: il padre di Dell’Utri, Alfredo, era socio di Guarrasi. “Ho scritto che c’era una continuità tra il potere proto-piduista di Cefis e il potere attuale, ma mai avrei creduto che un’eredità culturale e politica contemplasse anche il ricevere quelle carte”, commentò D’Elia, ricordando inoltre che una società della Edilnord Centri Residenziali di Umberto Previti, padre di Cesare (già Edilnord sas di Berlusconi), con sede a Lugano, si chiamava Cefinvest. Al termine della sua inchiesta, il pm Calia ipotizza che l’omicidio Mattei fu “un complotto orchestrato con la copertura degli organi di sicurezza dello Stato e poi occultato in un intreccio di omertà e depistaggi pronti a ricompattarsi ogni volta che, nella storia del Paese, qualcuno minaccia di rivelarne il segreto” (Lo Bianco e Rizza, t.ly/9nfxo). Per Calia, gli omicidi Mattei, De Mauro e Pasolini sono legati da un unico filo. Per D’Elia (2006), è il filo che porta dalle stragi allo scandalo Enimont, la madre di tutte le tangenti. II sottotitolo di Petrolio è “romanzo delle stragi”: Pasolini racconta anche quella alla stazione di Bologna, compiuta cinque anni dopo il suo assassinio.

Giovanni Bacci

di Ferdinando Leonzio | Giovanni Bacci, nato il 7 marzo 1857 nel piccolo comune marchigiano di  Belforte all´Isauro, nel Pesarese, giovanissimo si trasferí a Como, dove frequentó il locale Istituto Tecnico. Conseguito il diploma, fu attratto dalla lotta politica e dall´attivitá giornalistica, inluenzato in particolare dall´ambiente democratico- radicale, che si ispirava alle idee di rinnovamento sociale di Agostino Bertani[1] e Felice Cavallotti[2]. Il suo esordio giornalistico lo fece sul foglio locale Il Baradello[3]. E man mano che si sviluppava la sua intensa attivitá giornalistica, egli andava avvicinandosi sempre piú al nascente movimento socialista italiano[4], che nel 1892 si organizzó come Partito dei Lavoratori[5]. Dapprima Bacci divenne direttore della mensile Rivista di Ferrara (1882- 1886), poi del quotidiano democratico Mentana (genn.-febbr. 1887) e infine di quello radicale La provincia di Mantova, a partire dal 1889[6] e fino al 1907. Nel 1903, maturate le sue convinzioni socialiste, aderí ufficialmente al PSI. Nel dicembre di quell´anno egli volle mettere a disposizione dei suoi compagni il giornale da lui diretto, che dunque nel sottotitolo diventó un Giornale socialista quotidiano[7]. Il notevole apporto politico che ció rappresentó per il PSI, indusse il gruppo dirigente socialista a valorizzare il nuovo fervente militante. Egli infatti, dopo essere stato eletto consioliere provinciale per il PSI, prima di Mantova e poi di Ravenna, divenne segretario dell’importante Camera del Lavoro di Ravenna. Queso ruolo gli aprí la strada della politica nazionale. Infatti lo troviamo presente nel IX congresso del PSI (Roma, 7-10 ottobre 1906)[8]. All´interno del PSI vi era allora una forte tensione tra l´ala „sinistra“, rappresentata dai sindacalisti rivoluzionari[9] e la „destra“ riformista, e tale rivalitá rischiava di immobilizzare il partito. Tra le due correnti dunque si coaguló un terzo raggruppamento, capeggiato da Oddino Morgari, a cui aderí anche Enrico Ferri, detto „integralista“, in quanto si dichiarava per un „socialismo integrale“  e si proponeva di operare una sintesi tra gli opposti schieramenti, salvaguandando cosí l´unitá del partito[10]. Il suo documento politico, largamente vincitore del congresso, si pronunció, infatti, sia contro „la collaborazione impegnativa col potere“, sia contro „l´uso frequente dello sciopero generale“ e „l´esaltazione dell´azione diretta“. Con questa corrente era schierato  Giovanni Bacci, con un ruolo nient´affatto secondario. Lo si vide quando, dopo la proclamazione dei risultati, la sera del 9/10, i delegati integralisti unitari si riunirono a parte e nominarono una Commissione ristretta col compito di scegliere e proporre i nomi dei futuri componenti della Direzione Nazionale, che sarebbe stata formata interamente da integralisti. Di tale commissione faceva parte Giovanni Bacci[11], il quale entró, per la prima volta, nella Direzione del partito, con una collocazione piú accentuata a sinistra. Alla vigilia del successivo congresso di Firenze (1908) la composita maggioranza integralista si era in parte sfaldata: una parte si era spostata verso i riformisti, che cosí rinconquistarono la maggioranza; alcuni, fra cui Bacci, aderirono alla corrente intransigente rivoluzionaria in cui si stava affermando la leadership di Costantino Lazzari. Quest´ultima, poco prima dei lavori si riuní a parte sotto la presidenza proprio di Bacci, a conferma del consolidarsi della sua influenza. Bacci sará uno dei firmatari della mozione intransigente al congresso. Ma il vero salto di qualitá nella carriera di Bacci si ebbe a conclusione del congresso socialista di Reggio Emilia (7-10 luglio 1912). In precedenza si erano verificate due novitá piuttosto rilevanti: la spaccatura in due ali della corrente riformista: la sinistra (Turati, Treves, Modigliani) e la destra (Bissolati, Bonomi, Cabrini) sul tema del sostegno o meno al Governo, sulla guerra di Libia, sulla partecipazione di Bissolati alle consultazioni del re; e la conquista della maggioranza congressuale da parte degli „intransigenti rivoluzionari“. Nell´ufficio di presidenza del congresso, per la sinistre  fu eletto Bacci, assieme al leader della corrente Costantino Lazzari e al deputato Gregorio Agnini. Fra i rivoluzionari spiccava l´ancor giovane Benito Mussolini, presentatore della mozione approvata sull´espulsione dei „destri“: Il Congresso, presa visione della povera, scheletrica relazione del gruppo parlamentare, constata e deplora l´inazione politica del gruppo stesso, che ha contribuito a demoralizzare le masse e, riferendosi agli atti specifici compiuti dai deputati Bissolati, Cabrini, Bonomi dopo l’attentato del 14 marzo, ritiene tali atti costituire gravissima offesa allo spirito della dottrina e alla tradizione socialista e dichiara espulsi dal partito i deputati suddetti Bissolati, Cabrini e Bonomi. La stessa misura colpisce anche il deputato Podrecca per i suoi atteggiamenti nazionalisti e guerrafondai[12]. Fu poi eletta una Direzione monocolore della sinistra rivoluzionaria, con segretario Costantino Lazzari e vice il siciliano di Caltagirone Arturo Vella. Membri di diritto, come da tradizione, il rappresentante del Gruppo Parlamentare (Oddino Morgari) e il direttore dell´Avanti!, carica per la quale, succedendo a Claudio Treves, fu nominato Giovanni Bacci. Si trattava di una funzione assai delicata e prestigiosa, se si considera che il giornale socialista fungeva allora da veicolo di informazione, di collegamento e di orientamento per tutti i militanti. Tuttavia Bacci, per nulla ambizioso e dirigente coscienzioso, resse solo pochi mesi, non potendo conciliare il troppo impegnativo onere di dirigere un quotidiano cosí importante con gli altri suoi impegni politici e sindacali. Questa la sua lettera di commiato, pubblicata sull´Avanti del 1° dicembre 1912: Scaduti i quattro mesi dall´accettazione della nomina a direttore dell´Avanti” (per la quale accettazione avevo posto la condizione di provvisorietá che sempre permase con la piena consapevolezza dei compagni della Direzione del Partito e del giornale); assolta la necessitá materiale e morale di porre ogni mia cura non ad una distinta funzione, ma a quel conglobato di delicatissime responsabilitá politiche ed amministrative interne risultanti principalmente dalla vittoria rivoluzionaria di Reggio Emilia, quando la forte compagine degli interessi del Partito sembrava presentarsi non salda, mi ritiro oggi per ritornare al mio posto di battaglia fra i lavoratori di Romagna con la fiducia che forse non inutile fu l´opera oscura e coscienziosa del mio breve e laborioso passaggio all´Avanti! Come fui orgoglioso di ricevere la direzione del giornale da Claudio Treves, cosí con orgoglio la cedo a Benito Mussolini che sará la squilla mattutina della nostra giornata rivoluzionaria, dalla quale egli continuerá a trarre fortunati risvegli per l´intiero partito socialista. Ai colleghi assidui ed intelligenti del giornale e dell´Amministrazione, ai bravi operai vada il …

Appello ai Socialisti

Nell’immagine di copertina Tristano Codignola Pubblicato su “La Repubblica” del 4 ottobre 1981 | “Per la sua collocazione, la sua rappresentanza, la sua storia, il Psi deve assolvere un particolare impegno: quello di proporre un modo di fare politica capace di restituire, soprattutto ai giovani, fiducia nella democrazia, speranza in un mondo migliore. Condizione di ciò è che morale politica e morale comune non divergano. Da troppo tempo invece agli occhi dell’opinione pubblica vengono associate al partito oscure manovre di tipo economico e finanziario che si svolgono per opera di cosche spregiudicate e mafiose. Ogni volta si evita di far luce piena, tutto resta nell’ombra e perciò i sospetti si infittiscono. La questione delle tangenti Eni non è stata mai chiarita fino in fondo. Non si sono comprese le ragioni delle coperture ad alcuni scandali di regime (Italcasse, Gioia, ecc.). Non risulta chiarito il rapporto intercorso tra il Psi e il banchiere Calvi, né le ragioni delle ripetute prese di posizione di esponenti del Partito a suo favore. Ingiustificabile è il modo con il quale è stata gestita dal Partito la questione P2. All’iniziativa della magistratura, che ha individuato un centro di potere occulto ed eversivo della stessa struttura democratica del Paese, è seguito un grande clamore giornalistico; sono stati adottati pochi provvedimenti nell’ambito di alcune amministrazioni pubbliche mentre i responsabili politici si sono autoassolti… Il Psi si è distinto in questa operazione, mantenendo o nominando in posizione di responsabilità pubbliche compagni che risultano inclusi nelle liste della P2. Il pretestuoso attacco alla magistratura milanese, rea soltanto di aver fatto il proprio dovere, indagando su un groviglio di nequizie nelle quali sono coinvolti organi dello Stato e personalità politiche, ha offerto l’impressione – disastrosa per il suo credito – che il Psi non avesse interesse affinché piena luce venisse fatta sulla vicenda. E’ di pari gravità il fatto che è ormai impossibile nel Partito, per i dissenzienti dalla linea della maggioranza, svolgere qualsiasi attività politica. Il verticismo assoluto della gestione è giunto al punto che gli organi rappresentativi risultano del tutto esautorati; che la vita delle sezioni si va spegnendo ad ogni dibattito, persino quando – come ora – sono in discussione drammatiche scelte di politica nazionale e internazionale; che le Federazioni sono diventate puri centri di potere e di prevaricazione della maggioranza. In queste condizioni le molte e fondate ragioni di dissenso sulla strategia e sulla linea del partito, non solo non hanno la possibilità di esprimersi e confrontarsi, ma non altro possono fare che manifestarsi unilateralmente e pubblicamente. Questo appello si rivolge a tutti i socialisti perché escano dallo stato di rassegnazione in cui versano e sostengano le iniziative volte a costruire una forza socialista indispensabile per la realizzazione dell’alternativa democratica e di sinistra”. Gianfranco Amendola, Renato Ballardini, Franco Bassanini, Tristano Codignola, Michele Cozza, Enzo Enriques Agnoletti, Franco Fedeli, Giovanni Ferrara, Guido Fubini, Renzo Funaro, Antonio Greppi, Paolo Leon, Giunio Luzzatto, Renato Macro, Rocco Pompeo, Elio Veltri, Mirella Venutrini.

“Erano due brave persone” Il coraggio di denunciare

Il 15 novembre si è tenuto un importante incontro organizzato dal Circolo “Costante Masutti” sul tema della violenza sulle donne, introdotto da Luisa Teston e moderato da Sonia D’aniello. Importanti i contributi dati dalle relatrici Maria De Stefano, Paola D’Agaro e Manuela D’Andrea, nonché da Nicola Mannucci. È emerso con forza quanto sia ancora radicato un atteggiamento culturale che considera la donna come “qualcosa” da possedere, anziché “qualcuno” con pari dignità e diritti. In Italia manca ancora un osservatorio nazionale sul femminicidio, e i dati arrivano solo grazie all’impegno di realtà come Voce Donna, D.i.Re e Non Una di Meno. Colpisce l’aumento delle vittime giovanissime: Cecchettin e Campanella (22 anni), Tilia (13), Carbonara (14). Segnali drammatici che ci ricordano quanto sia urgente educare le nuove generazioni al rispetto e alla parità. Un passaggio particolarmente toccante è stato quello della psicologa infantile Manuela D’Andrea, che ha ricordato come la violenza domestica non colpisca “solo” le donne, ma lasci ferite profondissime anche nei bambini che crescono in contesti familiari segnati dalla paura, dall’aggressività e dal controllo. Traumi che possono riemergere in adolescenza e in età adulta, condizionando relazioni, autostima e capacità di fidarsi degli altri. Proteggere i minori significa prevenire la violenza di domani. Viviamo in un Paese dove c’è ancora chi propone di eliminare il divieto alle pubblicità sessiste, mentre in Europa, a parità di lavoro, una donna guadagna in media 80 centesimi contro l’euro di un uomo. La violenza di genere ha, infatti, anche una dimensione economica che non possiamo ignorare. Serve una vera educazione sessuale e affettiva nelle scuole: per superare stereotipi, prevenire la violenza, costruire relazioni sane. Il ddl oggi in discussione alle Camere purtroppo NON va in questa direzione: la introduce nelle scuole (MA solo superiori! Escludendo medie ed elementari), la rende facoltativa (oltre che su esplicito assenso dei genitori) e in orario extrascolastico… Uscire da questa spirale è possibile, ma richiede coraggio: cultura, educazione, diritti. Non possiamo più aspettare.

Seattle come New York, vince una “socialista”

Tratto da Contropiano.org | A quanto pare il “socialismo democratico” è un virus che sta contagiando le metropoli statunitensi, contraddicendo la sbornia “Maga” che sembra espressione delle campagne e del “profondo Sud” con nostalgie confederate. La “socialista” Katie Wilson ha infatti sconfitto l’ormai ex sindaco di Seattle, Bruce Harrell, anche lui come Andrew Cuomo sostenuto dall’establishment del partito democratico, nella corsa a sindaco della città. Stiamo parlando della “capitale economica” dello Stato di Washington, sul Pacifico, porta di ingresso di quella Sylicon Valley che pareva passata dai sogni “libertari” alle paranoie “transumanistiche” più reazionarie di amministratori delegati come Peter Thiel, di Palantir (è arrivato a descrivere Greta Thurnberg come “l’Anticristo”). E invece ecco venir fuori dalla città del grunge (Nirvana, Pearl Jam, Alice in Chains, Soundgarden, ecc) un’altra figura che scompagni il quadro politico fin troppo ossificato tra nazi-trumpiani e inguardabili cariatidi della conservazione (“dem” o “repubblicani perbene”, le stesse persone). L’ex sindaco Harrell ha ammesso la sconfitta solo stamattina, quando il distacco nello scrutinio, comunque abbastanza ridotto, è diventato inammissibile per chiedere il riconteggio dei voti. Lo stato di Washington prescrive infatti un riconteggio automatico solo quando il margine di voti è inferiore a 2.000 e a meno della metà di una percentuale del “numero totale di voti espressi per entrambi i candidati“. A quel punto Harrell ha anche cambiato radicalmente atteggiamento nei confronti della Wilson, affermando che sebbene le due campagne offrissero visioni diverse per governare la città, i loro valori rimanevano gli stessi. “L’amministrazione Wilson avrà nuove idee, avrà una nuova visione. Avendo vinto le elezioni, se lo sono guadagnato. Dobbiamo ascoltare i giovani elettori“. Se non puoi batterli, cerca un’alleanza… Del resto, gli unici “risultati” che aveva potuto vantare la sua amministrazione, anche secondo i giornali locali, erano quelli di un conservatore: una diminuzione della criminalità, un aumento delle assunzioni nella polizia e la fine della supervisione federale del Dipartimento di Polizia (sotto l’offensiva di Trump contro le amministrazioni “dem”). Proprio come a New York, la Wilson aveva sconfitto Harrell in un affollato ballottaggio per le primarie “dem”. Harrell aveva comunque finanziamenti potenti, mentre la Wilson solo le donazioni popolari. Sembrava perciò una battaglia persa in partenza, e invece la voglia di “stato sociale” ha prevalso.L’elezione della Wilson segna la seconda vittoria progressista dopo le elezioni nella Grande Mela, solo martedì scorso. La Wilson aveva incentrato la sua campagna sull’accessibilità economica – evidenziando le sue stesse difficoltà nel vivere quotidianamente a Seattle. Ha proposto una tassa sui profitti per aumentare le entrate (demonizzata da Harrell), protezioni più forti per gli affittuari e il miglioramento del trasporto pubblico.Quel messaggio ha trovato risonanza in una città dove l’alloggio è diventato fuori portata per molti cittadini.“C’è una disconnessione tra ciò che i giovani stanno vivendo nella vita di tutti i giorni oggi“, ha detto ancora Fincher. “Penso che ci sia una spaccatura nel Partito Democratico su questo, che stiamo cercando di capire“. La Wilson si è anche impegnata a fare di più per affrontare il problema dei senzatetto, inclusa l’accelerazione della disponibilità di alloggi di emergenza, ed è stata molto critica con Harrell che appoggiava lo sgombero degli accampamenti di tende dagli spazi pubblici di Seattle (una realtà di molte metropoli Usa, dove sui marciapiedi vanno crescendo autentici “villaggi” di homeless). Anche lei in passato – come Mamdani – aveva chiesto tagli ai fondi della polizia, ma in questa campagna ha cambiato tattica, promettendo più programmi sociali, “non di polizia“.L’insuccesso del “dem” Harrel è un colpo per i “moderati”, che lo consideravano un prototipo del “Democratico” per riorganizzare il partito dopo i deludenti risultati del 2024. Ma proprio l’appoggio dei “Ceo” della Sylicon Valley si è rivelato per lui “il bacio della morte”.“Quella foto dei dirigenti tech all’inaugurazione della sua campagna è qualcosa che si è cristallizzato nella mente degli elettori“, ha detto Dean Nielsen, uno stratega democratico di lunga data che sosteneva Harrell. “È diventata in qualche modo emblematica di ciò che sta accadendo nella gara: un sindaco dell’establishment che è supportato da molte di quelle stesse persone che sono ferocemente contrarie a questa visione di cambiamento sistemico“. La Wilson in effetti non aveva mai ricoperto una carica elettiva ed è co-fondatrice della Transit Riders Union, un gruppo di pressione per il miglioramento del trasporto pubblico. “Abbiamo sfidato un potente titolare che si aspettava di navigare tranquillamente verso la rielezione. Abbiamo affrontato più soldi di PAC aziendali di quanti ne siano mai stati spesi per attaccare un candidato in un’elezione di Seattle. Abbiamo costruito un movimento alimentato dalle persone, radicato nella speranza per il futuro della nostra città“, ha scritto stamani in un post su X, “E abbiamo vinto“. Quanto al confronto tra la sua piattaforma e quella del neo-sindaco di New York, la Wilson ha ammesso che “Penso che ci siano molte forze simili al lavoro in questo momento. La mia carriera è stata davvero incentrata sul rimettere i soldi nelle tasche dei lavoratori… Ho deciso di lanciarmi in questa gara perché mi sono resa conto che eravamo in un momento in cui le persone comuni sentono il costo elevato di tutto, dall’affitto all’asilo nido al cibo alla benzina“. La sua campagna, ha detto, rifletteva un crescente spostamento verso il progressismo in atto in tutti gli Stati Uniti come reazione ai fallimenti dei Democratici nello sconfiggere Donald Trump un anno fa. Come abbiamo intravisto con la vittoria di Mamdani a New York, “E’ una rottura rivoluzionaria? Non diciamo cazzate, please… E’ una rottura irreversibile? Idem. E’ una risposta ancora molto acerba all’impoverimento di massa, e dunque alla dimensione sociale del declino statunitense come potenza egemone sul mondo. E’ il ‘sentore’, non ancora la piena consapevolezza, che ‘socialismo’ – in accezioni tanto diverse quante sono le teste, da quelle e da queste parti – è l’unica possibilità di uscire dalla corsa verso il baratro.” Cosa significa per me Socialismo

Come riformare il capitalismo

di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini, da Repubblica, 9 novembre 2011 | Non si parla che di riforme. Ogni misura di politica economica è annunciata come una riforma anche quando si tratta di normale amministrazione. Il termine si è inflazionato. Riforme dovrebbero essere quelle che cambiano la struttura di un sistema, non quelle che ne modificano i parametri, come l’età pensionabile o il livello della contrattazione salariale. L’accento sulle cosiddette riforme è posto tutto sulla contrazione dei costi e in particolare di quelli del lavoro: decentramento dei livelli di contrattazione, flessibilità dei contratti (per non dire licenziamenti), mobilità del lavoro, ecc… E non si parla d’altro che di liberalizzazioni, privatizzazioni, semplificazioni e riduzione del peso della burocrazia. Ora non c’è dubbio che interventi di modernizzazione e di razionalizzazione siano opportuni. Ma è assai dubbio che si traducano in un forte stimolo alla crescita nel tempo breve, anzi brevissimo, di cui disponiamo. Perché il passo fondamentale per avviare un ciclo di crescita robusto e duraturo non può che consistere nell’espansione della domanda aggregata la quale, oltre a trainare la ripresa dell’occupazione, avrebbe un effetto benefico sul gettito fiscale e quindi sulla tenuta dei conti pubblici e sulla fiducia dei mercati. La questione fondamentale per suscitare la crescita, dunque, è la “domanda”. Ma come attivarla? Uno dei pilastri per ottenere un’espansione della domanda è rappresentato da un piano di investimenti pubblici nelle infrastrutture e nella riconversione ecologica dell’economia. In Italia il finanziamento di un piano per la crescita potrebbe provenire in primo luogo da un’imposta patrimoniale dell’ordine di 15 miliardi di euro all’anno che si protragga per almeno tre o cinque anni. Nel contempo, in questo momento difficilissimo per la tenuta delle finanze pubbliche, andrebbero attivate le grandi imprese a partecipazione statale come Eni, Enel e Finmeccanica e andrebbe coinvolto il sistema bancario, non solo per motivi di solidarietà nazionale ma anche perché il rilancio della crescita avrebbe l’effetto di far risalire le quotazioni azionarie delle grandi imprese e delle banche che oggi sono pesantemente sottovalutate a causa del “rischio Italia”. In Europa il finanziamento di un piano per la crescita dovrebbe avvenire attraverso due interventi da attuare simultaneamente: l’emissione degli Eurobonds e il varo della tassa sulle transazioni finanziarie che permetterebbe di pagare la spesa per interessi sulle obbligazioni europee. Il rilancio della crescita dell’economia italiana ed europea avrebbe un effetto importante sulla fiducia che è essenziale per alimentare la circolazione della moneta e per riattivare il credito bancario alle famiglie e alle imprese. Perché oggi le banche europee a causa delle fosche prospettive di crescita hanno degli attivi che sono diventati sempre più illiquidi e tendono a mettere a riserva oppure ad impiegare in attività speculative la liquidità che si possono procurare a basso costo dalla Banca Centrale Europea. Inoltre, è di cruciale importanza rovesciare le convinzioni dominanti che considerano i redditi da lavoro come gravami da minimizzare piuttosto che fattori di benessere da promuovere: come vincoli e non come obiettivi. Il fatto è che è proprio nel mostruoso aumento delle disuguaglianze sta l’origine della crisi attuale. Alle origini della crisi americana, trasmessa poi all’Europa, c’è un colossale indebitamento generato dalla necessità di evitare la contrazione della domanda associata alla stagnazione dei salari. Quelle disuguaglianze oggi non si sono ridotte ed anzi sono state accentuate dallo spostamento del debito privato su quello pubblico e quindi dalla necessità di tagliare le prestazioni sociali per far quadrare i conti. E le agenzie di rating che avevano tranquillamente garantito i conti di imprese fallimentari oggi non si stanno facendo scrupoli nel declassare gli Stati in difficoltà. La verità è che nel capitalismo finanziario il problema cruciale è quello della distribuzione della ricchezza. La crescita comporta uno spostamento della ricchezza concentrata in misura sproporzionata verso i livelli più alti. Ma quale crescita dobbiamo avere in mente nel periodo attuale? Crediamo che l’obiettivo prioritario non debba essere di tipo quantitativo. Oggi dobbiamo puntare su di un’economia della sostituzione e dell’efficienza che ci porti verso una condizione di “stato stazionario di natura dinamica”. Cioè dobbiamo impegnarci verso la costruzione di un’economia in cui il prodotto totale non continui ad espandersi indefinitamente ma che punti invece su uno sviluppo di qualità. Una più equa distribuzione del reddito e una produzione ecologicamente più equilibrata: ecco le vere riforme di un capitalismo che ci sta trascinando verso un’età dei torbidi.

Centro sinistra e numeri

di Franco Astengo | E’ stato presentato a Genova presso l’Associazione “Le radici e le ali” il nuovo lavoro di Renato Mannheimer (questa volta in collaborazione con Pasquale Pasquino) “Gli Italiani al Voto”, un’accurata analisi sui cambiamenti nelle scelte elettorali avvenute nel corso degli ultimi anni in comparazione con un testo analogo pubblicato nel 1985 ancora ai tempi della “Repubblica dei partiti”. Un lavoro che dovrebbe essere tenuto in grande considerazione dagli operatori politici che nel momento in cui hanno la pretesa di impegnarsi nella contesa elettorale, costruire alleanze, promuovere candidature dovebbero tenerlo quale vero e proprio baedeker. In questo senso i punti di maggiore interesse riguardano, nello specifico del “caso italiano”, il definirsi di un profilo bipolare del sistema in un quadro di progressivo acuirsi delle contraddizioni geopolitiche e sociali. Gli elementi caratteristici della fase possono essere, infatti, riassunti in una volatilità quasi completamente interna ai blocchi, in una restrizione dello spazio politico per il “centro”, e in una diversa misura di potenzialità di espansione fra le forze politiche dove Fratelli d’Italia sembra in una qualche misura aver “fatto il pieno” entrando in diretta competizione con Forza Italia ma avendo come unico bacino di riferimento l’elettorato leghista che si considera “di destra” in una misura più ampia di quella autodichiarantesi tra elettrici ed elettori dello stesso partito della signora presidente del consiglio. Attorno a queste indicazioni fondamentali è il caso di aggiungere alcuni elementi allo scopo di suggerire una conclusione riguardante il possibile schieramento di centro-sinistra. 1) Il fenomeno dell’astensione è in costante crescita almeno dal 2013 in avanti per tutti i tipi di elezione. Nessuna forza politica è stata in grado di drenare il flusso in uscita di elettrici ed elettori, tanto meno quello più dichiaratamente populiste come M5S e Lega. Da notare come l’astensione colpisca anche gli eventi elettorali riguardanti quelle istituzioni che un tempo erano ritenute le “più vicine ai cittadini” come i Comuni; 2) Sta emergendo, in particolare a livello giovanile, il fenomeno di una attivizzazione culturale, sociale e anche politica magari su tematiche non direttamente legate al quotidiano (si vedano le manifestazioni Pro-Pal) che non sembra corrispondere a scelte di tipo elettorale; 3) Attorno al punto di conseguimento della maggioranza relativa abbiamo assistito dal 2014 in avanti, tra elezioni legislative generali e per il Parlamento Europeo, ad un vero e proprio turn over con la quota di voti in costante diminuzione. Nelle elezioni europee 2014 il PD a trazione renziana ottenne poco più di 11 milioni di voti (una quota che fece scattare un meccanismo di illusione ottica avendo i media strillato del 40%. In realtà la percentuale effettiva sul totale degli aventi diritto superava di poco il 22%, era iniziata la fase della “grande diserzione”). Politiche 2018 (territorio nazionale) maggioranza relativa al M5S con circa 10 milioni di voti. Europee 2019 maggioranza relativa alla Lega con 9 milioni di voti. Politiche 2022 maggioranza relativa a Fratelli d’Italia con poco più di 7 milioni di voti. Europee 2024 la maggioranza relativa si conferma a Fratelli d’Italia con 6.713.000 voti. Nel frattempo i voti validi sul territorio nazionale sono scesi da 32.841.70 nelle politiche 2018 a 23.308.066 nelle europee 2024. Una perdita attribuibile in buona parte alla caduta del M5S sceso da 10,732.066 suffragi a 2.327.868 (primo dato Politiche 2018, secondo dato Europee 2024). Deve essere chiaro che la gran parte della volatilità elettorale registrata nel corso di questi anni si è rivolta all’esterno del sistema verso l’astensione. 4) Il grado di contendibilità della maggioranza nelle prossime elezioni politiche (e in precedenza nel referendum costituzionale sulla magistratura al riguardo dell’esito del quale avrà senz’altro un peso rilevante il pronunciamento degli schieramenti politici ben oltre il merito, del resto assai complicato da decifrare) dipende quindi da una complessità di fattori non riducibile all’ampiezza delle coalizioni; 5) Grande importanza assume la possibilità di espansione delle diverse forze politiche. In questo senso è necessario aprire un punto di riflessione molto delicato: il centro-sinistra deve poggiare su di un soggetto pivotale strutturalmente collocato attorno al 30% dei consensi sui voti validi che presumibilmente diminuiranno ancora se forse non in dimensione vertiginosa come nel recente passato. Per capirci meglio con i numeri assoluti probabilmente forse non sarebbe sufficiente neppure sommare i voti di PD e AVS alle europee 2024 rispettivamente 5.613.769 e 1.569.453 per formare una maggioranza relativa solida al punto da determinare una ipotesi di alternativa; 6) Serve una riorganizzazione a sinistra sia in senso orizzontale (nel rapporto diretto con le esigenze, i bisogni, l’articolazione sociale) sia in senso verticale (della rappresentanza politica di un partito organizzato ai diversi livelli del territorio fino a quello centrale che non sia abbandonato agli eletti nelle istituzioni eternamente in caccia della riconferma attraverso politiche di tipo corporativo o imperniate sul voto di scambio). Un tema difficile ma sul quale sarà necessario riflettere (esiste anche una questione di identità politica: ad esempio il ritorno della socialdemocrazia negli USA può rappresentare un tema non secondario di discussione su un non trascurabile elemento di identità, in un quadro oggettivamente – e necessariamente – plurale).

L’alternativa è tra una deleteria riedizione dell’Ulivo e un vero progetto Laburista

di Peppe Giudice | Parto da un punto. La proposta della CGIL di un contributo di solidarietà dell’1,3% sui patrimoni netti superiori a 2 milioni di euro, da cui possono ricavarsi 24 miliardi di euro, secondo le stime dell’ufficio economico della CGIL, ha chiaramente incontrato la piena ostilità della destra fascista, leghista e forzista. Fin qui nulla di strano. Ma una aperta ostilità c’è stata da parte del PD, tant’è che la stessa Schlein, ha chiarito che questa misura dovrebbe avvenire in un più vasto contesto europeo, cioè mai! La dissociazione di Conte in nome di uno sterile benaltrismo; ma anche la riprovazione di quella stampa che si qualifica di “centrosinistra” (Repubblica, Stampa) ovviamente del Corriere della Sera, di Cottarelli candidato da Letta nel PD, un esponente funesto della macelleria sociale del governo Monti. Tutti a sbraitare contro una proposta “estremista” che da spago alla propaganda della destra. Una misura che colpirebbe il ceto medio. Ditemi voi se chi ha un patrimonio netto di 2 milioni di euro può considerasi “ceto Medio” oggi. Cazzate! Soprasttutto in una fase in cui gran parte del ceto medio si sta impoverendo. In Inghileterra, nel 2017 il Labour di Corbyn, con un programma di socialdemocrazia radicale prese una quota molto importante del voto del ceto medio. Raggiungendo il 40% e 12.800.000 voti. Lo stesso per Mamdani , che ha nel programma la tassazione dei ricchi (anche con la patrimoniale) che ha preso ma maggioranza assoluta a New York. La propsta della CGIL, che può anche essere considerata prudente, ha il merito di aver rotto un blocco, anche psicologico. Il problema è che oggi nel parlare di ceto medio si fa una grande confusione: in esso si fanno rientrare gli insegnanti, gli impiegati pubblici (che hanno un reddito vicino a quello della classe operaia) e dall’altro i liberi professionisti di un certo livello: commercialisti, notai, ingegneri, avvocati. Una confusione voluta e propagandata ad arte. Per gridare al lupo al lupo. Ditemi voi se una famiglia composta da due insegnanti e da due impiegati può giungere ad evere un patrimonio netto di 2 milioni a meno che non abbia ricevuto una eredità dal classico zio d’America..del resto sopra i 2 milioni di patrimonio netto vi sono 500.000 persone l’1% degli italiani, il 99% non viene toccato, al di là delle deformazioni questo va spiegato. In Spagna c’è una imposta del 3% sui patrimonio superiori a 3 milioni di euro, e ciò non ha affatto danneggiato l’economia spagnola, che è creciuta del 3,2% contro il ridicolo 0,7% dell’Italia. E comunque la CGIL ha messo un dito nella piaga: le gravissime disuguaglianzre ed ingiustizie che caratterizzano il capitalismo attuale. E Landini ha seriamente preso le distanze dal PD, cosa che i suoi predecessori non hanno fatto. Giannini (uomo di Prodi) è uno dei più accaniti contro la patrimoniale, come il suo giornale la Repubblica. Un antimelonismo fine a se stesso senza una alternativa radicale. Bisogna guardare al centro! Questo centro elettoralmente vale il 5%! Ovviamente la politica non si fa sull’aritmetica, ma sulla costruzione di un blocco sociale antagonista al fascismo e alternativo al neo-ulivismo. Sono convinto che nessuno dei soggetti attuali sia in grado di svogere tale compito, ovviamente non il PD, ma neanche i 5S. AVS che pure ho votato resta fortemente legata all’ulivismo e non è in grado di uscirne fuori. Il blocco sociale deve partire dal sindacato: ovviamente la CGIL, ma anche i settori non settari del sindacalismo di base come i CUB, cercando di recuperare anche la UIL, come ha proposto il compagno Franco Bartolomei. Un sindacato di classe, nel senso che mette al centro il conflitto sociale e di classe contro una deriva corporativa e subalterna al governo come la Cisl odierna. Di fatto fascistizzata. Del resto fu dal sindacato che nacque il Labour Party inglese e quella specifica forma di socialismo democratico. Il Labour nasce come rappresentanza politica del sindacato, poi autonomizzandosi, ma con un forte legame con esso. E con quello che il compagno Otto Bauer definì la vera alternativa in Occidente al bolscevismo, il socialismo ghildista inglese, un socialismo democratico radicale che si proponeva di superare il capitalismo tramite una sintesi di democrazia politica e democrazia industriale (controllo operaio e autogestione). La democrazia mista degli austromarxisti.

Chi controlla gli algoritmi controlla il mondo

di Francesca Straticò | La politica distratta che ignora la nuova disuguaglianza: chi controlla gli algoritmi controlla il mondo. Il nostro tempo non è segnato da una semplice “innovazione tecnologica”, stiamo vivendo una rivoluzione culturale che stravolgerà la nostra civiltà e mentre questo accade i protagonisti di questa politica priva di sostanziale qualità si perdono in diatribe sciocche quanto inutili, ignorando ciò che accade. La logica industriale del Novecento, fondata sul lavoro umano come fonte primaria di valore, è stata sostituita da un nuovo paradigma: il valore nasce dall’interazione tra algoritmi e dati. È ciò che può essere definita ricchezza algoritmica, generata non più dal sudore e dalla dedizione, ma dalla potenza invisibile dei sistemi digitali. Questa trasformazione porta con sé una frattura sociale evidente, ma profondamente diversa dalle fratture sociali del passato e per questo necessita di rimedi diversi. Da un lato, pochi attori capaci di controllare la conoscenza algoritmica e di accumulare ricchezze senza precedenti; dall’altro, una moltitudine progressivamente esclusa dai circuiti produttivi tradizionali. Quello che questa opaca politica non sa e, dunque, non dice, è che quello a cui stiamo assistendo non è un destino inevitabile a cui rassegnarsi o soggiacere, ma una sfida epocale che non può che giocarsi sul terreno delle competenze, politiche prima ancora che tecnologiche. È la sfida che chiama in campo menti illuminate e capaci di decodificare presente e futuro, mentre assistiamo ancora all’esercizio di piccoli potentati fondati su oboli e prebende. E’ la sfida di riuscire a governare il fenomeno invece di subirlo. Occorrono nuove idee, nuovi mezzi. Serve un nuovo patto sociale che non si limiti a reiterare logiche di antagonismi fini a se stessi. Serve un patto generazionale che connetta la naturalezza dell’uso degli strumenti digitali, con la esperienza e conoscenza profonda dei meccanismi politici e sociali. Servono strumenti di alfabetizzazione algoritmica diffusa, perché non si può essere cittadini consapevoli senza comprendere le regole di questa nuova era. Servono politiche di redistribuzione della ricchezza realizzata con metodi non prevedebili dai legislatori del passato, come la tassazione del plusvalore algoritmico. E serve una gestione collettiva del capitale conoscitivo fondamentale – dati, algoritmi di base, modelli di intelligenza artificiale – per impedire che diventino proprietà esclusiva di pochi. Non si tratta di utopie, ma di necessità storiche. Come scriveva Elias Canetti: “Il potere si nutre di invisibilità”. Oggi quell’invisibilità ha il volto delle tecnologie digitali e si esprime con l’oscuro linguaggio degli algoritmi. Renderli trasparenti e condivisi è la condizione per una democrazia che non venga svuotata dall’automazione. La scelta è davanti a noi: accettare di essere spettatori di una trasformazione che ci travolge, oppure diventare protagonisti di una nuova civiltà digitale. Il futuro non è solo un algoritmo: è la nostra capacità di decidere come usarlo.