SOCIALISMO XXI SECOLO

di Renato Costanzo Gatti

Direzione Nazionale Socialismo XXI |

La domanda è enorme, cosa significa “socialismo nel XXI secolo?”, una risposta l’avevamo in quel drammatico XIX secolo in cui abbiamo vissuto e che ci ha lasciati abbandonati, senza più un briciolo di filosofia che possa darci una risposta sul chi siamo e cosa vogliamo.

Dal febbraio 2025 il mondo, tutta quella costruzione più o meno coerente che ci eravamo costruiti con l’aiuto dei maggiori pensatori politici del nostro tempo, è crollata, lasciandoci ammutoliti e disarmati, incapaci non solo di produrre prospettive per il futuro, ma inabili di comprendere il presente, quasi come se vivessimo in un Truman show dove ci sono incomprensibili le logiche dei protagonisti e inarrivabili gli sforzi per un non si sa di che cosa. Questi ottant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale rimarranno come un periodo di sogno di cui abbiamo sprecato le possibilità di creare un mondo più razionale, più logico in cui la ragione prevalesse nella costruzione di una convivenza umana.

Ci troviamo disarmati e ammutoliti, incapaci di poter costruire nel tempo una collettività razionale capace di prospettare e realizzare LA PACE, è tornato a dominare il mondo un principio di 3000 anni fa “SI VIS PACEM PARA BELLUM”, fermi a principi di un tempo che, con il progresso scientifico, nel frattempo ha realizzato successi incredibili. Per andare da Milano a Roma servivano mesi di tempo legati al passo dei cavalli mentre oggi bastano poche ore per comunicare una notizia da Tripoli a Parigi occorrevano mesi mentre oggi basta meno di un secondo, sui siti internet possiamo leggere in tempo reale tutto lo scibile umano ed abbiamo insegnato all’intelligenza artificiale ad aiutarci a pensare, e sul tema deterrenza siamo fermi a 3000 anni fa.

Se tuttavia volessi fare un sogno sul socialismo che mi immagino adeguato ai tempi nostri, se nonostante il pessimismo che mi ha invaso dovessi fare uno sforzo per lasciare a figli e nipoti qualcosa che dicesse loro ciò a cui pensavamo quando eravamo nel mondo razionale, ebbene allora scriverei quanto segue.

IL GOSSPLAN

C’è stato un periodo in cui socialismo significava pianificazione rigida dell’economia, in cui i mezzi di produzione erano detenuti completamente dalla collettività (forse meglio dallo stato) e gli obiettivi da raggiungere nel quinquennio erano precisati, mandatori. Grandi risultati furono ottenuti nella industrializzazione forzata in un paese agricolo come la Russia, ma più avanti la burocratizzazione e la mancanza di dialettica democratica trasformarono il Gossplan in uno strumento di politica estera. Infatti le politiche USA, in particolare Reagan, costrinsero l’URSS a fare un Gossplan di guerra facendogli perdere ogni entusiasmo razionalista.

Questa idea di socialismo non si adatta per nulla alla situazione europea ed italiana dove, tra l’altro, i mezzi di produzione a disposizione dello stato sono stati privatizzati e non esiste né la volontà politica, né i presupposti tecnico economici per prendere neppure in considerazione questa scelta.

LO STATO SOCIALE

Un’alternativa alla pianificazione quinquennale potrebbe essere, per il socialismo, quella dello Stato Sociale o Welfare State. La storia di questo approccio parte dalla prima rivoluzione industriale dove i rapporti con il lavoro e i lavoratori erano simili a quelli schiavistici. Fu Bismark, un tutore degli interessi economici borghesi, a realizzare la prima forma di stato sociale alfine di calmare la latente e potente rivolta operaia per le condizioni inumane; nata quindi come gesto assistenziale del capitale a tutela della sua sicurezza, lo stato sociale ha vissuto anni splendidi di conquiste operai, politiche e sindacali, fino a portare ad una idea di stato che accompagna i suoi cittadini “dalla culla alla bara” con assistenza, formazione, crescita , cultura etc.

Questo meraviglioso scenario si interrompe negli anni ’80, anni in cui le crisi successive del capitalismo culminate con la crisi del 2008 (da cui ancora dobbiamo riaverci) hanno portato allo smantellamento di moltissime delle conquiste precedenti. Molte conquiste sono rimaste ma, si vedano i risultati del recente referendum, la crisi dello stato sociale è evidente e senza prospettive. Anzi, il recente dictat trumpiano che ci stringe all’angolo con minacce di dazi e richieste di triplicare le spese della difesa a vantaggio della bilancia commerciale statunitense, vedrà nei prossimi anni spostare dallo stato sociale alle spese per la difesa e la sicurezza decine e decine di miliardi, spolpando così ulteriormente le risorse per questo redistributivo di realizzare, almeno in parte il socialismo. Lo stato sociale si presenta come una strategia troppo succuba delle crisi dell’economia e del capitalismo.

LA PROGRAMMAZIONE RAZIONALE

C’è stato un periodo in cui questa scelta era alla base della conduzione del nostro stato e della costruzione di un socialismo democratico in una economia matura, Erano gli anni sessanta e c’era la felice confluenza di due elementi: una volontà politica di affrontare scientificamente la politica economica dello stato e la presenza di una notevole serie di mezzi di produzione gestiti dalla mano pubblica. Il periodo iniziò con la nazionalizzazione dell’energia elettrica che, insieme all’altro enti statale, l’ENI, ha affrontato il tema strategico delle fonti energetiche, l’elemento più importante, insieme al lavoro, per l’efficacia di una politica di sviluppo economico.

Il clima favorevole ad un approccio razionale rappresentato dalla programmazione è riscontrabile nella letteratura economica di quegli anni. Cito a memoria i testi di Vittorio Marrama, Di Fenizio, Di Nardi, Molinari, Saraceno senza dimenticare la potente presenza di Riccardo Lombardi. Così come mi piace ricordare il  planismo, o “piano de Man”: è una dottrina economica sviluppata da Henri de Man, un leader del Partito Operaio Belga, negli anni ’30. Si tratta di un approccio al socialismo che mira a superare le crisi del capitalismo attraverso la pianificazione economica. Questo personaggio del socialismo belga è poi finito ad essere condannato in contumacia per collaborazionismo con i nazisti. Ma ancor di più mi piace ricordare Giorgio Ruffolo che fu Segretario Generale della Programmazione Economica dal 1962 al 1975 presso l’allora ministero del Bilancio. Lì operò circondandosi di uomini del calibro di Giuseppe De Rita, Giuliano Amato, Paolo Sylos Labini, Pasquale Saraceno, Franco Archibugi, Vera Cao Pinna, Manin Carabba e molti altri.

Rimane di quell’esperienza il contributo fondamentale del Progetto ’80, un documento riformatore che non divenne mai atto programmatorio dello Stato, ma fu seme di varie riforme adottate 10-15 anni dopo la sua predisposizione. La forza intellettuale di quel gruppo di estrazione socialista non ebbe ragione in quei tempi burrascosi dell’opposizione sia di ambienti democristiani e confindustriali (che temevano la “sovietizzazione” del nostro Paese), sia del PCI che considerava quel riformismo come una sorta di surrogato delle vere riforme da realizzare in uno Stato socialista e non in un paese capitalista.

Si istituì un ministero per la programmazione (Giolitti e Pieraccini), si arricchirono i servizi tecnici e statistici e si iniziò un lavoro di costruzione di uno stato razionale cui, anche il partito comunista guardava con interesse. Le vicende le conosciamo ed oggi di quel periodo non è rimasto nulla: quello che era il DPEF ha perso la P di programmazione ed è diventato DEF, e di politica industriale nei luoghi della politica non si sente parlare. A mio parere, rimane una grave colpa del partito comunista il non aver appoggiato, preparandosi ad esserne soggetto, quella esperienza ormai irripetibile.

Certo oggi quell’esperimento non sarebbe ripetibile sia per la mancanza di un clima politico favorevole ad un approccio illuministico della politica sia per il contesto geo-politico in cui siamo immersi: in una Europa liberista dove le destre avanzano su tutti i fronti.

UNA EUROPA UNITA, PROGRAMMATICA FARO DEL MONDO

Nella situazione attuale non resta che auspicare, o sognare una soluzione illuminista. A grandi linee occorrerebbe:

  • Una Europa sempre più federale e meno nazionalistica;
  • Un indirizzo politico razionale e stabile convinta che la guida politica programmatica sia necessaria per tutti;
  • Convinzione che solo la politica programmatoria presenta un grado di razionalità condivisibile o almeno accettabile da tutte le parti;
  • Una fiducia nei vari gruppi di potere e nella cittadinanza che l’Europa potrà sopravvivere all’incipiente colonialismo, solo se avrà la capacità di impostare un programma a lungo termine finalizzato a recuperare il tremendo ritardo tecnologico che caratterizza l’attuale stato dell’economia dell’Europa;
  • La capacità degli attori nell’agenda setting della strategia, nella selezione delle scelte più percorribili ed efficienti, nell’elaborazione del piano a medio termine, la fattiva collaborazione delle istituzioni chiamate all’attuazione del piano, una seria autocritica nella valutazione dell’attuazione del programma, la revisione ragionata dello stesso.

In effetti sto pensando a qualcosa che aveva impostato sulla competitivià europea su richiesta di Ursula von der Lyen.

In quel rapporto Draghi constata che le dipendenze dell’Europa si sono rivelate come vulnerabilità di sistema, a cui è prioritario rispondere aumentando la produttività. Draghi indica la necessità di incrementare gli investimenti in Ue per circa il 5% del PIl complessivo perseguendo gli obiettivi di digitalizzazione, decarbonizzazione e rafforzamento della capacità di difesa, ciò rappresenta uno sforzo senza precedenti. Ma irrinunciabile rappresentando una sfida esistenziale per l’Ue: se l’Europa non riesce a diventare più produttiva, saremo costretti a scegliere. Non saremo in grado di diventare, contemporaneamente, un leader nelle nuove tecnologie, un faro di responsabilità climatica e un attore indipendente sulla scena mondiale. Non saremo in grado di finanziare il nostro modello sociale. Dovremo ridimensionare alcune, se non tutte, le nostre ambizioni. Si tratterebbe di fatto per l’Europa di non essere in grado di rispettare i suoi valori fondanti identificati con la prosperità, equità, libertà, pace e democrazia in un ambiente sostenibile: l’Ue esiste per garantire che gli europei possano sempre beneficiare di questi diritti fondamentali. Se l’Europa non può più fornirli ai suoi cittadini, o deve scegliere tra l’uno con l’altro, avrà perso la sua ragione d’essere. L’unico modo per affrontare questa sfida è crescere e diventare più produttivi, preservando i nostri valori di equità e inclusione sociale. E l’unico modo per diventare più produttivi è che l’Europa cambi radicalmente.

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