CHIEDIAMO SCUSA ALL’ETIOPIA

di Prof. Christian Vannozzi |

La scelta nel trattare questo argomento verte sulla mia passione verso la storia e in particolare verso le testimonianze di coloro che hanno subito eventi bellici e hanno potuto raccontare le proprie aspettative di vita dopo la fuga da un inferno, cosa su cui spesso non riflettiamo perché siamo presi solo a immaginare i nostri problemi di tutti i giorni perdendo spesso il contatto con la realtà dei migranti e sulle motivazioni che li spingono ad approdare in luoghi distanti centinaia di migliaia di chilometri dallo loro patria.

L’Africa fu territorio di conquista per l’Italia che dopo l’unità si affacciava a ritagliarsi un posto tra le potenze imperialiste, cercando di sfruttare risorse e uomini dei territori occupati in nome di una presunta superiorità razziale e culturale, cosa, che almeno dal punto di vista mentale e culturale, sopravvive oggigiorno nell’immaginario non solo dell’uomo comune ma anche di diversi insegnanti e studiosi, nonché politici che utilizzano, per accalappiare voti, lo slogan «prima gli italiani».

Durante il mio percorso universitario ho sostenuto l’esame storia dell’Africa, che prendeva in considerazione, tra i testi aggiuntivi, proprio i resoconti e le sensazioni di alcune persone che avevano prestato servizio militare nel Regio Esercito, tra gli ascari, e dopo la seconda guerra mondiale, abbandonati dalla neonata Repubblica Italiana, dovettero rassegnarsi a vivere in Paesi devastati, quali erano l’Eritrea, L’Etiopia e la Somalia, perché dimenticati non solo da quella che consideravano la madrepatria ma dall’intera comunità internazionale.

Attraverso fonti e testimonianze delle scrittrici coloniali delle ex colonie italiane ho finalmente capito come veniamo visti e cosa si aspettano da noi i migranti e i Paesi con i quali siamo entrati in relazione, nonché cosa ci aspettiamo e quali pregiudizi nutriamo noi verso di questi.

Spesso dimentichiamo che noi italiani siamo un popolo di migranti e quello che pensiamo di coloro che approdano sulle nostre sponde l’abbiamo già testato sulla nostra pelle quando, dopo l’Unità della Penisola, migliaia di persone si spostarono dal Sud al Nord della nazione, o addirittura verso il Nord Europa e l’America. Piemonte, Liguria e Lombardia furono le mete privilegiate per migliaia di operai provenienti dalla Sicilia, dalla Calabria e dalla Puglia, come anche le miniere del Belgio e gli Stati Uniti, considerati luogo privilegiato di svolta nella vita di migliaia di sognatori. Anche l’Italia suscita questo nelle menti di coloro che provengono dalle ex colonie, specialmente nelle menti delle scrittrici dell’Africa Orientale che hanno conosciuto il nostro Paese tramite i racconti dei genitori e per le testimonianze lasciate dalla nostra occupazione militare, che, benché si trattasse di un dominio mantenuto con il pugno di ferro e a spese di tantissime vite umane, ha comunque lasciato scuole, chiese, libri, poesie e lingua, che a oggi risultano un ricordo e una fonte di ispirazione in un futuro migliore per coloro che varcando il Mediterraneo sognando il Paese di cui hanno letto e sentito parlare.

Le scrittrici originarie del Corno d’Africa: Erminia Dell’Oro, Cristina Ubax Ali Farah e Gabriella Ghermandi, raccontano la vita e il desiderio verso l’Italia nei tre Paesi dell’Africa Orientale che furono sotto il dominio italiano, ovvero l’Eritrea, la Somalia, e l’Etiopia.

Questo tipo di letteratura autobiografica, emersa negli anni ’90 del XX Secolo e pubblicata circa 10 anni dopo da varie casa editrici italiane, per sensibilizzare il Paese su questo tipo di argomento, riguarda quasi esclusivamente il mondo femminile. Questo rappresentò un cambiamento nei flussi migratori che durante gli anni ’80 era esclusivamente maschile e vedeva le donne arrivare in Italia solo per ricongiungersi al coniuge. Nel corso degli anni ’90, invece, sono soprattutto le donne, provenienti dall’Africa Orientale, ad approdare nel nostro paese, e in generale in Europa, con l’obiettivo di aiutare economicamente i propri familiari rimasti in patria.

A differenza della letteratura scritta dalla maggior parte degli immigrati, quella che riguarda le scrittrici provenienti delle ex colonie italiane, è redatta senza bisogno di interprete, bensì direttamente in italiano, questo perché in famiglia si era soliti parlare il nostro linguaggio, perché era la lingua delle istituzioni e una possibilità per lasciare l’Africa. Inoltre nelle scuole si parlava regolarmente l’italiano, specialmente in quelle private rette dagli ecclesiastici, che hanno istruito migliaia e migliaia di studenti e studentesse dell’Africa Orientale.

Diversi giovani, inoltre, hanno deciso di continuare gli studi proprio nel nostro Paese, con delle borse di studio che gli permettevano non solo di andare nel Paese che li aveva occupati per conoscerlo e trovare le ragioni di quell’occupazione, ma anche, e soprattutto, per sfuggire alla guerra e ai regimi dittatoriali che presero il potere nelle ex colonie. Nel mio lavoro si fa un chiaro riferimento alla dittatura comunista del Derg in Etiopia e in Eritrea dal 1974 al 1991, anno in cui, grazie al crollo dei vari regimi comunisti in Europa, il dittatore etiope Mengistu non poté più contare su aiuti esterni alla propria nazione e fu costretto a ripiegare e a cedere il potere.

Fuggire da quell’inferno che erano diventate l’Etiopia e l’Eritrea era per i giovani una nuova speranza per il futuro e rappresentava una promessa per tornare, un giorno, una volta crollata la dittatura, per risollevare le sorti della loro patria, ovvero di un Paese che continua a vivere nei loro cuori anche quando sono lontani.

Un ritorno nella propria terra è quello che viene preso in esame anche in Regina di fiori e di perle, il primo testo redatto da Gabriella Ghermandi, pubblicato nel 2007 dalla casa editrice Donzelli di Roma. L’autrice prende spunto, per la stesura del suo lavoro, dal libro Tempo di uccidere, di Ennio Flaiano del 1947, testo che vinse l’ambito premio Strega in quello stesso anno. Nel suo lavoro, Flaiano, testimone diretto della Guerra in Etiopia, narra la storia di un ufficiale italiano che si conosce e ha un rapporto intimo con una ragazza etiope che ferisce a morte accidentalmente. Una volta scoperto che la ragazza era lebbrosa è preso dal timore di aver contratto il terribile morbo e per questo chiede informazioni a un medico. La paura di essere denunciato e ricoverato come potenziale malato lo spinge a fuggire e a tentare di uccidere il dottore che però si salva. Pensando di essere ormai braccato cerca di tornare clandestinamente in Italia ma non vi riesce e rimane a vagare per i villaggi etiopi ormai convinto di aver contratto la lebbra. L’amicizia che avrà con un vecchio ascaro lo farà tornare al proprio reggimento per costituirsi dove però si accorge di non essere stato denunciato da nessuno e di poter continuare a fare la vita di sempre[1].

Il libro in questione spinse Gabriella Ghermandi a raccontare la storia coloniale italiana in Africa non più dal punto di vista dell’occupante ma di coloro che erano stati colonizzati, e in particolar modo quello delle donne africane. Lungi da quanto siamo abituati a pensare, gli italiani, come tutte le altre truppe delle nazioni imperialiste, sottomisero brutalmente i popoli colonizzati, utilizzando anche armi chimiche e facendo stermini indicibili. Questa realtà è sconosciuta alla maggior parte degli italiani, perché solo verso la fine del XX Secolo il Ministero della Difesa rese pubbliche queste atrocità, tanto che nel 2006 il Parlamento Italiano iniziò a lavorare per una giornata dedicata alle vittime africane del colonialismo italiano, cosa che non fu portata a termine per la caduta del Governo e della legislatura e che in seguito non fu più riproposta[2].

Il dominio italiano in Etiopia, le scuole e le strade costruite, sono state pagate con il sangue di migliaia di etiopi che hanno quindi ben ripagato quanto costruito, per questa ragione Gabriella Ghermandi ha deciso di rendere testimonianza al grido lanciato dalla propria terra, affinché non venga dimenticato[3].

Per capire nel profondo Regina di fiori e di perle non si può non entrare nei meandri nascosti del testo Tempo di uccidere, dove, anche se con una trama inventata, il giornalista Flaiano mette in campo il suo vissuto personale come sottotenente nella Guerra d’Abissinia tra il 1935 e il 1936, prendendo come fonte il suo diario di guerra[4].

Flaiano esprime il punto di vista del militare italiano in un territorio considerato abitato da gente che aveva bisogno di essere civilizzata dall’Italia, come se fossero dei bambini incapaci di raggiungere certi scopi nella vita. Il rimorso per aver ucciso la donna si dimostra meno forte della paura di aver contratto la lebbra, quasi come se si tendesse a giustificare qualsiasi azione in virtù di una missione civilizzatrice, quale però non era, si stava palesemente abusando sessualmente delle donne e si stava occupando militarmente un territorio libero. L’Africa era così un territorio franco, dove ogni istinto animalesco e ogni bassezza erano permessi[5].


[1] Flaiano E., Tempo di uccidere, Bur Rizzoli, Milano, 2010.

[2]Combierati D., Il postcolonialismo italiano fra memoria storica e guerra d’Etiopia: una questione di genere?, in ‹‹Scritture migranti››, n. 2, 2008, p.177.

[3]Combierati D., La quarta sponda, Scrittrici in viaggio dall’Africa coloniale

all’Italia di oggi, Pigreco, Roma 2007,  p. 146.

[4] Flaiano E., Aethiopia. Appunti per una canzonetta (1935-36), pagine di diario, Appendice di Tempo di Uccidere, cit., pp. 289-311

[5]Tommasello G., L’Africa tra mito e realtà. Storia della letteratura coloniale italiana, Sellerio, Palermo 2004.

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