COME I SOCIALISTI, I RADICALI E LEONARDO SCIASCIA SALVARONO LA VITA DEL MAGISTRATO D’URSO

 

di Ezio Iacono Socialismo XXI Sicilia |

 

Terminate queste “anomale” festività e preso atto che lo sciagurato virus continua a circolare, così come a mietere vittime con l’anelito che il vaccino possa essere efficace, cominciando a registrarne gli effetti in maniera patente, il pensiero, nel corso di queste giornate, è andato al caso D’Urso ed a quello che accadde 40 anni orsono, nel corso delle festività natalizie del 1980. Ricapitoliamo brevemente i fatti: il 15 dicembre le Brigate rosse rapirono Giovanni D’Urso, catanese di nascita e formazione ,magistrato dal 1959, Consigliere generale presso la Cassazione dal 1977, oltre che  Direttore dell’ufficio III dei Servizi di prevenzione e pena, presso l’allora Ministero di Grazia e Giustizia. 

Cominciò così un caso che ha inevitabilmente segnato la storia politica italiana; come nell’ affaire Moro, coloro i quali si adoperarono per salvare la vita del magistrato, a cominciare dal P. S. I. oltre che dal Partito Radicale e forze della nuova sinistra, così come di personalità dello spessore culturale quale Leonardo Sciascia – del quale è necessario ricordare in questi giorni il centenario della nascita– si confrontarono con il famigerato ” partito della fermezza”, balzato agli onori della cronica proprio nel corso dei terribili 55 giorni del sequestro Moro. Forse che, attendendo l’infausto epilogo, come due anni prima era già avvenuto con il sequestro del Presidente democristiano, con il cadavere del leader ritrovato in via Caetani tra la sede della D. C. e del P. C. I., anche con il sequestro D’Urso, che, anche grazie all’impegno amorevole della famiglia, così come di organi di informazione, a cominciare da ” Il Messaggero” e giornalisti coraggiosi che si opposero al black out dell’informazione, venne liberato il 15 gennaio, il ” partito della fermezza” voleva servirsi del suo cadavere per indurre una svolta estremamente securitaria? 

I 34 giorni del sequestro D’Urso, quindi, sono da ricordare come l’emblema di uno scontro di civiltà e di culture, e conseguentemente come un serrato confronto politico, destinato a durare nel tempo.

Quale sarebbe stata la motivazione , secondo i contorti ragionamenti, oltre che il cieco odio, delle B. R. a indurle a compiere il sequestro? Come scriveranno nel primo forsennato comunicato, teso a rivendicare il sequestro, il Dott. D’Urso era apostrofato sprezzatamente come “l’aguzzino e boia dei proletari prigionieri” e veniva altresì dichiarato che “ il prigioniero è in un carcere del popolo e verrà sottoposto con un processo al giudizio del proletariato“. 

I terroristi volevano imporre, tra le altre cose, la chiusura del supercarcere dell’ Asinara, ritenuto “arma di ricatto e di tortura” per i brigatisti ivi reclusi. 

Mentre l’allora Ministro degli Interni Rognoni dichiarò che il Governo Forlani non avrebbe lasciato nulla di intentato, nel corso del dibattito parlamentare i Radicali chiesero la chiusura dell’Asinara, così come occorreva “leggere” i documenti delle B. R., andando oltre l’ossessione paranoica della chiusura del supercarcere, con la possibilità di individuare ulteriori possibili soggetti attenzionati dai brigatisti, guidati da Moretti.

Il 20 dicembre, allorché venne diramato il terzo comunicato, sarà ritrovato, come già avvenuto con nel corso dei cinquantacinque giorni del sequestro Moro, una falsa comunicazione. E fu proprio in quel contesto che Marco Pannella ebbe la necessità di chiarire la posizione politica, allorché significò che da non violenti, i Radicali erano per un NO alla trattativa con chi usa la violenza, bensì preferiva “dialogo con i Compagni assassini“, come da intervista rilasciata al periodico ” Lotta Continua.” Frattanto il P. S. I. per il tramite del Compagno Segretario Craxi, proprio nel giorno di Natale si schierò facendo diffondere un comunicato della direzione del partito, nel quale venne affermato che la chiusura dell’Asinara sarebbe coincisa con un “adempimento giustificato e da più parti richiesto“, così da ottenere la chiusura dell’Asinara, stante che era un luogo ove erano tangibili condizioni inumane e degradanti, sia per i detenuti che per i detenenti. In realtà la chiusura era stata già programmata, anche per le ragioni appena sopra esposte, ma l’attuazione era stata rinviata a tempo indeterminato. A seguito di tale chiusura, sconfitto il fronte della fermezza, guidato da comunisti, repubblicani e missini, sembrava che la vicenda potesse ritenersi conclusa ed attendere l’imminente liberazione dell’ostaggio. 

Ma, all’improvviso si aprì, a seguito di una rivolta carceraria e conseguente tragedia, la seconda fase della vicenda. Il 28 dicembre, domenica, nel carcere di Trani, terminata l’ora d’aria, il brigatista Seghetti aggredì il capo delle guardie e decise di sequestrarlo. Una settantina di detenuti si mobilitò procedendo alla cattura di altre guardie e decise di asserragliarsi nella sezione speciale del carcere. Il giorno successivo entrarono in azione i gruppi d’intervento speciale dei carabinieri, così da riuscire a domare la rivolta con il responso di ventisette feriti tra i rivoltosi e, per fortuna, nessun morto. Anche se lo spargimento di sangue non verrà evitato, poiché le B. R. uccisero il Generale Galvaligi, “reo” di aver implementato l’operazione di Trani. Il 29 dicembre, lo stesso giorno del blitz dei carabinieri, i brigatisti alzano ulteriormente la posta con un ultimatum.

I nostri comunicati, affermarono, “devono essere pubblicati immediatamente e integralmente“. E ancora: “Se quanto sopra verrà disatteso, agiremo di conseguenza“. Il 4 gennaio furono ancora più espliciti. Da un lato annunciarono la condanna a morte del magistrato; dall’altro affermarono che “l’opportunità di eseguirla o di sospenderla deve essere valutata politicamente“. E che “per decidere se eseguire o sospendere l’esecuzione di D’Urso i comunicati dovranno essere trasmessi dai vostri strumenti televisivi, letti sui maggiori quotidiani italiani“. Pubblicare o no? Salvare D’Urso o lasciare che l’uccidessero? A questo punto della vicenda, quindi, la parola passò inevitabilmente ai giornali, poiché assumessero loro, non il governo, il ruolo di interlocutori dei brigatisti. “Il Tempo” ed il “ Corriere della Sera”, diretti rispettivamente da Gianni Letta e da Franco Di Bella, non solo annunciarono il silenzio stampa su tutte le notizie riferibili al terrorismo, ma chiesero anche  agli altri giornali di fare altrettanto.

Il Messaggero” decise di  opporsi nettamente, così da continuare a dare tutte le informazioni sul terrorismo. Ma neanche gli altri giornali raccolsero l’invito, neppure ”La Repubblica”, pur schierata da Eugenio Scalfari sul fronte della fermezza. Invero, era sempre presente e pressante l’interrogativo: pubblicare o no i comunicati dei brigatisti? Tra i giornali tesi “a pubblicare” sarebbe stato possibile a riscontrare la presenza di gloriose testate come l‘Avanti!, il Secolo XIX, Lotta continua, Il Manifesto, oltre che il già citato” Il Messaggero“. Il giornale romano laico e garantista, protagonista di battaglie libertarie, a cominciare da quella per il divorzio, decise di non potere e di non volere restare insensibile alla sorte di D’Urso, così da procedere alla pubblicazione di un’intervista a Leonardo Sciascia, nella quale lo scrittore siciliano affermò come “il cittadino ha il diritto di essere informato, anzi a formarsi un’opinione, su qualsiasi argomento“.

Il 10 gennaio, Sciascia si prodigò ulteriormente per il tramite di un appello ai giornali, sottoscritto da settanta giornalisti e personalità in vista, invitandoli alla pubblicazione dei documenti delle Br. I primi nomi in calce all’appello erano quelli di Elena Moro, Stella Tobagi e Andrea Casalegno. E due giorni dopo, con un secondo appello, si rivolse ai direttori dei giornali italiani con il medesimo invito, nominandoli uno ad uno.

Intanto L’attività dei radicali divenne sempre più frenetica, fino alla decisione di cedere lo spazio offerto dalla tribuna politica televisiva del 12 gennaio a una figlia di D’Urso, Lorena (oggi giornalista a”Radio radicale”), la quale lanciò un appello alle Br e ai direttori dei giornali.

L’ultimo messaggio dei brigatisti venne diramato il 10 gennaio e non poteva lasciare spazio a interpretazioni: “Se entro 48 ore non leggeremo integralmente sui maggiori quotidiani italiani i comunicati, daremo senz’altro corso all’esecuzione della sentenza a cui D’Urso è stato condannato“.

Fu allora che il 14 gennaio ”Il Messaggero”, diretto da Vittorio Emiliani, il quale si assunse la responsabilità e che poi sarà deputato Socialista, decise di pubblicare integralmente i comunicati delle Br. Contemporaneamente adottano tale scelta l’Avanti!, il Secolo XIX, Lotta continua, Il Manifesto e Notizie radicali. Il Messaggero decise di accompagnerà la pubblicazione con un editoriale teso a puntualizzare che: “È una decisione soltanto umanitaria, non politica“. Sempre nel corso della medesima giornata, Leonardo Sciascia pubblicò un terzo appello, rivolgendosi direttamente ai brigatisti.

Ed ecco l’agognato epilogo: la mattina del 15 gennaio D’Urso venne ritrovato al Portico di Ottavia, a Roma, incatenato in un’auto, occhi e bocca coperti da cerotti, ma vivo. Rimasero spiazzati coloro i quali auspicavano, con la morte di D’Urso, la fine del governo quadripartito Forlani e una virata a destra dell’asse governativo. Una vita umana è stata salvata. Due giorni dopo Sciascia venne ricevuto presso la redazione de “Il Messaggero”, accolto da un applauso, e si congratulò con Emiliani per la linea umanitaria tenuta in tutta la vicenda, impegnandosi  a collaborare al giornale. Altri tempi, altri leaders, altri intellettuali.