DAL CONGRESSO DI FIRENZE ALLA SCISSIONE

Dopo il congresso di Firenze, come per incanto cessano le discussioni sullo statuto. Il compromesso politico raggiunto tra le correnti sembra avere ottenuto l’effetto d’insabbiare il progetto di organizzazione del partito presentato da Basso. Peraltro, le correnti autonomiste che nel loro complesso al congresso di Firenze avevano ottenuto la maggioranza, non sostengono il progetto Faravelli, né propongono altro modello di struttura organizzativa che si ispiri alla concezione del socialismo democratico, e che fissi statutariamente le norme dirette a garantire l’autonomia del PSIUP, e con l’autonomia la garanzia interna di partito.

Al contrario, le stesse correnti autonomistiche (una delle quali, Iniziativa socialista, ha addirittura sciolto la propria organizzazione) sostengono e sottoscrivono anche esse un nuovo patto di unità d’azione con il Partito comunista, non scorgendo i pericoli che esso comporta per la loro stessa esistenza nel partito. Il nuovo patto di unità d’azione tra PSIUP e PCI viene sottoscritto e ratificato in seduta plenaria dalle direzioni dei due partiti il 25 ottobre del 1946.

Il patto prevedeva la costituzione di una giunta centrale d’intesa, composta di tre rappresentanti per ciascun partito, la decisione e il coordinamento della posizione dei due partiti in tutti i problemi politici d’importanza nazionale. Alla giunta centrale veniva affiancata una giunta esecutiva parlamentare anch’essa composta di tre rappresentanti (deputati) per ciascun partito. A questo organo venivano attribuite le funzioni inerenti al coordinamento dell’azione dei due gruppi parlamentari. La struttura del patto unitario si ramificava dal vertice alla base, mediante la costituzione di giunte esecutive a livello sezionale e provinciale, che avevano il compito di determinare le forme dell’iniziativa unitaria tra i socialisti e i comunisti in ogni settore della vita pubblica.

Il patto stabiliva inoltre una scala di competenze che prevedeva, in caso di mancato accordo in sede comunale, il rinvio della questione sulla quale si verificava il contrasto alla giunta centrale. Soltanto al centro quindi poteva accertarsi “un mancato raggiungimento di accordi per un determinato problema“. Questo disaccordo, peraltro, rendeva ai singoli partiti la loro libertà d’azione soltanto in relazione a quella specifica questione controversa. Il patto unitario rimaneva in vigore a tutti gli effetti, fino all’eventuale disdetta di una delle parti.” Paolo Emiliani nel suo volume Dieci anni perduti così commenta le conseguenze del nuovo patto: “In pratica, i comunisti hanno diritto di bloccare qualsiasi decisione che a loro non piaccia, deferendola alla giunta centrale (e intanto passano mesi per la risposta quando viene). La proposta di federazione fra i due partiti avanzata dai comunisti al loro V congresso era stata pressoché unanimemente respinta al congresso socialista di Firenze, ma queste disposizioni del nuovo patto la realizzavano nella sostanza esattamente secondo la linea organizzativa in quell’occasione magnificata da Longo”.

Nella situazione che viene a crearsi con il nuovo patto si inserisce l’iniziativa di Lelio Basso, il quale subito dopo il congresso di Firenze ha posto mano alla formazione di un apparato di tecnici, professionisti della politica, di quadri sperimentati che aderiscono alla “Iinea leninista” da lui caldeggiata fin dalla Resistenza. Basso, posto dinanzi all’esito del congresso di Firenze, che ha visto la “sinistra” in minoranza, ha realisticamente modificato la sua tattica nella lotta interna di partito. Non ha più insistito nella richiesta che venga accettato dal partito quel complesso di regole di organizzazione rispondente al modello leninista del partito operaio guidato da un monolitico apparato di quadri; ma, favorito dalla sua posizione nella direzione del partito, si e dato a organizzare questo apparato con l’appoggio dei comunisti, che in Basso vedono la pedina migliore per sconfiggere gli autonomisti. La corrente apertamente “fusionista” di Compiti Nuovi viene praticamente disciolta e Basso diviene il leader effettivo della “sinistra”. Egli, dunque, non pretende più che il partito adotti la struttura organizzativa da lui suggerita. Costituisce di sua iniziativa l’apparato che di tale struttura deve essere il fulcro, per impossessarsi del potere del partito e poi plasmare la struttura secondo il modello leninista che egli propone.

In questo tentativo, che avrà un esito positivo per Basso, egli trova l’appoggio incondizionato del PCI, ed è favorito soprattutto dalla situazione che si e creata con l’entrata in vigore del nuovo patto unitario.

Infatti, come osserva sempre l’Emiliani, “nel PSIUP come in tutti i partiti del dopoguerra, abbondavano gli elementi opportunisti e gli avventurieri, portativi dal crollo del fascismo a cercarvi protezione e fortuna; erano minoranza, a causa dell’atmosfera italiana del ventennio, i compagni di matura formazione socialista. Numerosi erano poi gli elementi del ceto medio in cerca di occupazione, bisognosi di mezzi immediati per vivere, anche modestamente, nel marasma del dopoguerra, e inclini perciò a servire i più potenti, specialmente quando vi era la garantita copertura di una popolarità proletaria che trasformava il servilismo in dedizione alla causa. Con la legale partecipazione alla vita del partito non fu perciò difficile ai comunisti estendere il loro apparato, ottenere la composizione di giunte malleabili, provocare l’allontanamento dalle cariche dei loro avversari, far eleggere con ogni mezzo delegati favorevoli alla loro tesi: dominato il gruppo dirigente, messo qualche comunista nella sala, le manovre congressuali diventano assai facili”.

La scissione del ’47. La formazione del PSI

Tra il XXIV e il XXV congresso, tenutosi a Roma nel gennaio del ’47, maturarono gli eventi che portarono alla crisi. Al congresso di Roma le correnti autonomiste di Iniziativa Socialista e di Critica Sociale non parteciparono ai lavori congressuali. Esse furono però presenti nella lotta a livello provinciale. I dati forniti dal quotidiano del partito sono ancora più incompleti e contraddittori di quelli del precedente congresso, per cui non è possibile stabilire quali fossero le forze delle correnti che dovevano operare la secessione. I voti complessivi congressuali furono 610.876, circa 250.000 in meno rispetto al precedente congresso. Si dovrebbe presumere che la forza dei secessionisti si aggirasse intorno a questa cifra che è di circa 100. 000 unità. Inferiore alla cifra dei voti riportati dalle correnti autonomiste nel loro insieme al congresso di Firenze.

Ma questa valutazione è largamente approssimativa e non verificabile. Probabilmente gli iscritti al PSIUP, a voler prestar fede alle affermazioni della relazione Morandi del precedente congresso, che indicava la crescente affluenza di nuovi aderenti, si erano accresciuti nello spazio di tempo trascorso fra i due congressi. Anche questa valutazione non è però verificabile, in quanto mancano i dati relativi al numero complessivo degli iscritti prima della secessione.

Tra la vittoria socialista del 2 giugno 1946 e la fine dello stesso anno si consumò quindi la più enigmatica e per molti versi inspiegabile scissione del partito, che doveva segnare un tracollo del socialismo italiano e la riduzione della sua funzione storica ad un ruolo di sostanziale subalternità, durante un lunghissimo periodo di tempo.

Quasi una fatalità storica sembra condurre l’autoaffondamento all’indomani dei loro maggiori successi i socialisti al elettorali. Così fu dopo le elezioni del 1919 che avevano visto il PSI, nonostante i suoi errori di quel momento, raggiungere un traguardo persino inaspettato, classificandosi come il primo dei partiti Italiani; così fu anche dopo le prime elezioni Italiane successive alla caduta del fascismo, dove s’era accreditato come secondo partito nazionale e primo della sinistra.

Il successo socialista, ottenuto dopo l’impennata autonomistica del congresso di Firenze della primavera del 1946, era sostanzialmente minato dall’insidia frontista. Esso suscitò una forte reazione comunista: Togliatti, lo testimonia Andreotti in una sua intervista, paventava un’Italia socialdemocratica, nella quale i comunisti avrebbero avuto sicuramente meno spazio (come avvenne in quasi tutti i paesi europei).

Anche se e discutibile che vi fossero le condizioni per un’Italia socialdemocratica, è indubbio che la presenza di un forte Partito socialista autonomo toglieva ugualmente spazio ai comunisti, il cui leader era realisticamente consapevole che, nell’inasprirsi dei rapporti internazionali, la collocazione del suo partito sarebbe stata necessariamente quella dell’opposizione.

Il nemico dei comunisti era, sul piano ideologico e politico, la socialdemocrazia, che era anche l’avversario da battere per le correnti frontiste del PSI, ossessionate dalla “socialdemocratizzazione” del partito e dalla volontà di preservare l’unità della classe operaia quale strumento per una politica rivoluzionaria. Essi non guardarono tanto al successo socialista, quanto alla somma dei voti ottenuti dal PSI e dal PCI, che era superiore ai voti ottenuti dalla Democrazia cristiana. In buona fede, con ogni probabilità, si illusero che una stretta alleanza tra i due partiti avrebbe potuto far realizzare una vittoria definitiva, una volta conclusi i lavori dell’Assemblea costituente.

Per raggiungere questo obiettivo dovevano impadronirsi della guida del PSI, mandando gli autonomisti in minoranza, oppure provocandone l’uscita dal partito. Il loro proposito coincideva con gli interessi del PCI ‘ che aiutò in tutti i modi le correnti frontiste nell’azione per impadronirsi del partito, esercitando una stringente pressione a livello di base, e con sostegni di ogni genere.

L’occasione doveva essere costituita dal nuovo congresso nazionale che si doveva svolgere ai primi del 1947, per il quale le assisi locali cominciarono a celebrarsi nell’autunno del 1946.

Gli autonomisti, suddivisi in vari gruppi e correnti, non avvertirono a tempo il pericolo e reagirono solo tardivamente. Addirittura commisero l’errore di partecipare alla stipulazione del nuovo patto unitario (25 ottobre 1946) che offriva ulteriori motivazioni e possibilità all’azione frontista. Tuttavia, quando si profilarono i risultati delle assemblee provinciali, gli autonomisti furono colti da un panico che non era in realtà giustificato. La prevalenza tra i due schieramenti era ancora in forse: comunque, anche se avessero dovuto perdere la maggioranza, gli autonomisti avrebbero costituito una fortissima minoranza, quasi la meta del partito, che avrebbe condizionato la eventuale direzione frontista.

Se Saragat, e con lui gli uomini di Critica Sociale e di Iniziativa Socialista, avevano indubbiamente ogni ragione dal punto di vista teorico e politico (e la rilettura del discorso tenuto da Saragat in sede congressuale è ancora di viva attualità), la loro decisione di abbandonare il partito appare tutt’oggi abbastanza precipitosa. Essa lasciò campo libero ai loro avversari frontisti, e concorse ad innestare un meccanismo di crisi complessiva in tutta la vicenda del socialismo italiano, che colpì, al dunque, anche gli stessi settori socialdemocratici.

La votazione in sede di congresso, alla quale non parteciparono i secessionisti, diede il seguente risultato: 542.887 voti andavano alla mozione di sinistra, 37.786 voti a una mozione locale autonomista, alla quale avevano aderito alcuni delegati di Iniziativa; 17.903 voti andavano alla mozione autonomista di Mantova e 12.4 10 voti a quella di Concentrazione socialista che era la denominazione assunta dalla corrente di Critica Sociale, e per la quale votarono quei delegati che non avevano seguito i dirigenti nella scissione.

La mozione  di sinistra riportò dunque 200.000 voti in più rispetto al precedente congresso; ciò che fa pensare o a una forte avanzata delle posizioni della sinistra oppure fa presumere un notevole incremento degli iscritti, di cui una buona parte poteva avere abbandonato il partito insieme con i secessionisti. Questa seconda ipotesi a noi pare sia da scartare perché il permanere nel partito di una parte dei delegati, i quali sulle tre mozioni indicate avevano raccolto 68.000 voti, fa presumere che non tutti gli autonomisti seguirono i secessionisti; occorre poi considerare che si trattava di voti portati dai delegati e che non necessariamente ai delegati che uscivano dal partito corrispondeva una secessione del numero degli iscritti che li avevano delegati al congresso.

Come, viceversa, quei delegati che avevano preferito restare nelle fila del partito, potevano anche non esprimere la reale volontà degli iscritti che li avevano denominati.

In seguito, nella seduta del 4 maggio 1947 del comitato centrale eletto dal congresso (il partito aveva assunto la vecchia sigla di PSI al posto di PSIUP, onde evitare che i secessionisti si impadronissero della vecchia etichetta anteguerra), il segretario del partito, Basso, per dimostrare la scarsa incidenza della crisi sulle forze organizzative del partito, dichiarava che gli iscritti ascendevano a 822.000. A questi occorre aggiungere quelle decine di migliaia di nuovi aderenti provenienti dalle file del Partito d’Azione, che dopo la secessione confluirono nel PSI. Nessun dato, quindi, attendibile ci permette di valutare la reale portata della secessione sulle forze organizzative del Partito socialista.