Giacomo Brodolini nacque a Recanati il 19 luglio 1920. da Armando e da Doretta Federici. Conseguita nel 1939 la licenza liceale a Bologna, nel 1940 fu chiamato alle armi e, come ufficiale di complemento, partecipò alle campagne di Grecia e di Albania. Rimpatriato, fu inviato in Sardegna ove rimase fino all’8 sett. 1943. In Sardegna stabilì i primi contatti con Emilio Lussu ed altri esponenti dei Partito d’azione.

Nel giugno 1946 si laureò in lettere presso l’università di Bologna, con una tesi sull’attore e patriota Gustavo Modena. Militante dei Partito d’azione, ne divenne noto dirigente nelle Marche. Allo scioglimento del partito, aderì -con Lussu, Riccardo Lombardi e gran parte dei militanti azionisti – al Partito socialista italiano nel quale lavorò come funzionario, specializzandosi nelle tematiche sindacali. Divenne segretario provinciale del PSI di Ancona e membro del comitato centrale dal 1948.

Alla fine del 1950 fu chiamato a Roma, dietro suggerimento di Rodolfo Morandi a dirigere la Federazione dei lavoratori edili (FILLEA) della Confederazione generale italiana del lavoro. Nel comitato direttivo della CGIL dal 1951 e nell’esecutivo dal 1952, rimase segretario generale della FILLEA fino al 1955 (come parlamentare svolse diversi interventi in questi anni sulla questione delle abitazioni), allorché venne nominato vicesegretario della CGIL (con Di Vittorio segretario generale e F. Santi segretario aggiunto), restando nel vertice confederale fino al 1960. Nel 1953 era stato eletto per la prima volta alla Camera dei deputati nella circoscrizione di Ancona-Pesaro-Macerata-Ascoli Piceno (avrebbe ricoperto il seggio per tre legislature, fino al 1968, anno in cui fu eletto al Senato).

Brodolini venne quindi a trovarsi sin dalla fine degli anni Quaranta al centro del dibattito politico su movimento sindacale, riforme e democrazia, che impegnò i militanti e i dirigenti della CGIL (soprattutto a partire dal Piano dei lavoro), apportandovi un contributo specifico che egli derivava in gran parte dalla tradizione azionista – particolarmente priva di valenze ideologiche e attenta alle complessive questioni della democrazia e dello sviluppo economico – e dall’elaborazione di Lombardi e, soprattutto, di Morandi. Nella sua concezione, che egli avrebbe arricchito nel corso di uno scontro sociale destinato a modificare fortemente la società italiana (e che lo vide dirigente di rilievo), il movimento dei lavoratori avrebbe assunto un ruolo decisivo nella trasformazione delle strutture produttive e nell’assetto democratico della nazione, a condizione di riconquistare la propria unità (anche attraverso lo sviluppo della democrazia nel rapporto del sindacato con i lavoratori) e di farsi carico – pur senza rinunciare alla propria autonomia e senza porsi in modo subalterno ai modelli di produzione progettati e attuati dal capitale – di una complessiva strategia di sviluppo (a ciò era legato sostanzialmente l’interesse dei B. per la programmazione ed il centrosinistra). D’altronde, senza un forte movimento dei lavoratori, sosteneva il B., non vi sarebbe stata possibilità di attuare un serio programma di riforme. Tutta l’attività dei B. – sindacalista, dirigente socialista e ministro – è interpretabile come serie di articolazioni tattiche di questa linea.

Nella seconda metà degli anni Cinquanta, quando la CGIL subiva la sconfitta e l’emarginazione, l’attenzione dei B. fu rivolta a contenere lo scontro con le altre organizzazioni sindacali e, anzi, egli si fece banditore dell’unità d’azione; nel contempo caldeggiò “una politica di lotta e di contrattazione anche aziendale che rivendic[asse] il diritto di negoziare tutte le condizioni della prestazione lavorativa” (1950, in Forbice, p. XXIX).

Come vicesegretario della CGIL, assertore dell’unità e dell’autonornia sindacale, sul finire degli anni Cinquanta fu tra i protagonisti di questo mutamento anche di immagine che la Confederazione subì con la sempre più marcata crisi del collateralismo politico (fu lui, ad esempio, a redigere il documento – approvato anche da Di Vittorio e pubblicato il 27 ott. 1956 – con il quale la segreteria della CGIL, differenziando la sua posizione da quella del partito comunista, criticava, fin dai primi giorni della rivolta di Budapest, l’intervento militare sovietico in Ungheria).

Tornato all’attività di partito nel 1960 (sulle posizioni della corrente autonomista guidata da Francesco De Martino), divenne membro della direzione dei PSI nel marzo 1961 e guidò la sezione centrale di massa, dedicandosi soprattutto al rafforzamento della corrente sindacale socialista. Particolarmente attento alle possibilità che si offrivano con l’apertura a sinistra della Democrazia cristiana ed il varo del centrosinistra, e sostenitore attivo dell’esperimento, dal dicembre 1963 al 1966 ricoprì la carica di vicesegretario del partito, incarico confermatogli anche dopo l’unificazione PSI-PSDI, fino al 1968, allorché, il 12 dicembre, fu nominato ministro per il Lavoro e la Previdenza Sociale nel secondo governo Rumor (che restò in carica fino al 5 ag. 1969), aprendo così la sua ultima e più intensa stagione politica. Dal 1965, comunque, pur confermando la validità della nuova coalizione governativa e sostenendo la polemica con la minoranza lombardiana e con il Partito socialista italiano di unità proletaria, Brodolini aveva espresso giudizi sempre più critici sui ritardi del centrosinistra nel portare avanti quel rinnovamento della società e dello Stato per il quale era nato, fino a motivare egli stesso i voti socialisti di astensione del 1968.

La breve ma intensissima stagione dei dicastero del B. si caratterizzò innanzitutto per la funzione inedita che il ministero assunse proprio all’apertura di un’eccezionale stagione di lotte operaie. Brodolini rifiutò infatti di svolgere il semplice ruolo, tradizionale del ministero dei Lavoro, di mediatore tra contrapposti interessi, impegnandosi invece nella promozione di una legislazione favorevole ai sindacati ed al movimento dei lavoratori, oltre che nella felice soluzione di varie vertenze. Tra le iniziative che il ministro B. promosse, vanno ricordati i provvedimenti riformatori del collocamento (soprattutto bracciantile) che abolivano il sistema del caporalato nel mercato in piazza della manodopera e la prima organica riforma previdenziale (che prevedeva per la prima volta la “pensione sociale” per gli anziani che non avessero versato contributi), la messa in canti, ere della soluzione del problema mutualistico; svolse inoltre un ruolo fondamentale nella vertenza per la parificazione del sistema retributivo contrattuale su tutto il territorio nazionale e per l’avvio di una legislazione che ridefinisse, ampliandoli, il ruolo e la rappresentatività delle organizzazioni sindacali.

La vertenza contro le zone salariali (sistema in vigore dal 1961 che fissava differenze nei minimi di salario secondo una scala parametrale da 80 a 100 a seconda della regione) era iniziata nell’aprile 1968. Le gabbie non avevano raggiunto lo scopo di diminuire il divario Nord-Sud, e pertanto, disdetto da parte sindacale l’accordo del 1961 che sanciva quel sistema retributivo, fu durissimo lo scontro d’autunno tra l’intransigente resistenza della Confindustria e l’originale articolazione delle lotte operaie a livello provinciale e aziendale (che inauguravano un metodo conflittuale che per diversi anni avrebbe fatto da modello all’azione rivendicativa). “La sera del 3 marzo 1969 – racconta Turone, p. 451 – Brodolini convocò ancora una volta Confindustria e sindacati, e Angelo Costa capitolò, accettando il livellamento delle zone salariali con una gradualità dilazionata in tre anni e mezzo”.

Anche sul piano dello stile personale Brodolini diede un’immagine del tutto nuova al suo ministero trascorrendo la notte dei capodanno 1969 nella tenda alzata in via Veneto a Roma dai lavoratori della fabbrica romana Apollon, in lotta per la difesa del posto di lavoro, e portando ai braccianti di Avola la solidarietà del ministero a seguito della morte di due lavoratori uccisi dalla polizia.

Ma l’intervento più rilevante di Brodolini fu la presentazione (24 giugno 1969) di un disegno di legge, alla cui elaborazione aveva posto mano fin dall’inizio del mandato ministeriale, dal titolo “Norine per la tutela della libertà e della dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi -di lavoro”, bozza della legge nota come “Statuto dei diritti dei lavoratori”. Con questo disegno Brodolini intendeva “contribuire in primo luogo – come si legge nel testo – a creare un clima di rispetto della libertà e della dignità umana nei luoghi di lavoro, riconducendo l’esercizio dei poteri direttivo e disciplinare dell’imprenditore nel loro giusto alveo e cioè in una stretta finalizzazione allo svolgimento delle attività produttive”. La conversione in legge del disegno vide una serrata discussione tra il ministero del Lavoro, il Parlamento e le organizzazioni sindacali, discussione che ebbe per sfondo la crisi del centrosinistra e le lotte operaie dell’autunno caldo, e che facilitò l’emergere di una concezione non formale dei diritto del lavoro. La conversione, ministro Carlo Donat Cattin, fu votata dal Parlamento il 20 maggio 1970 (legge n. 300).

Ammalato di cancro (la consapevolezza della fine imminente lo spinse ad accelerare quanto possibile la realizzazione del suo programma), Brodolini morì a Zurigo, in una clinica, l’11 luglio 1969.

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Giacomo Brodolini con Peppino Avolio
Giacomo Brodolini con Peppino Avolio

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